PADRE PAOLO DALL’OGLIO La profezia violata · Testo e foto di Laura Aprati PANORAMA 26 _ Un libro...

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DOSSIER Africa Rinascimento (im)possibile? L’INCHIESTA Rapito 15 mesi fa Aspettando don Tom ATTUALITÀ L’Ecuador di Lenín Moreno In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 PADRE PAOLO DALL’OGLIO La profezia violata 6 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA ANNO XXXI GIUGNO 2017

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DOSSIERAfricaRinascimento (im)possibile?

L’INCHIESTARapito 15 mesi faAspettando don Tom

ATTUALITÀL’Ecuador di Lenín Moreno

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Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

PADRE PAOLO DALL’OGLIO

La profeziaviolata

6M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

ANNO XXXI

GIUGNO2017

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Dobbiamo ammettere che di que-sti tempi, immersi come siamoin una società sempre più biso-

gnosa di redenzione, facciamo congrande disinvoltura, un uso sconsideratodelle parole. Poco importa che si trattidi un editorialista affermato o di unpolitico navigato, la verità è che non siperde occasione per seminare zizzania,fake news o ciarpame che dir si voglia.Tutto risponde a logiche manipolatorieche molte volte servono non solo a de-monizzare l’avversario, ma addiritturaa mistificare la realtà: tanto ciò checonta è perseguire i propri interessi.Ecco che allora, ad esempio, la questionemigratoria finisce frequentemente sulleprime pagine dei giornali. Proprio comeè avvenuto in occasione della recentequerelle sui sospetti di una possibileconnivenza di alcune ong con i traffi-canti di esseri umani della sponda afri-cana. Un certo tipo d’informazione –mentre scriviamo, fondata unicamentesu voci e sospetti, senza traccia di ele-menti probatori - è deleteria perchégetta discredito su chi opera nel MarMediterraneo per salvare vite umane.Ammesso pure che un giorno, a seguitod’indagini della magistratura, venisserofuori dei riscontri accusatori, occorreràevitare, comunque, di “gettare il bambinocon l’acqua sporca”, nella consapevolezzache i volontari delle organizzazioniumanitarie costituiscono un valore ag-giunto della società civile.

Piuttosto, chi opera nel mondo dellacomunicazione, indipendentemente dal-lo schieramento ideologico di riferi-mento, dovrebbe aiutare l’opinionepubblica a riflettere sulle ragioni dellamobilità umana che interessano ilnostro Paese e il resto d’Europa. Sco-priremmo allora delle verità scomode,legate ad occulti traffici di armi e mu-nizioni, o ad attività estrattive e com-merciali di materie prime, quali adesempio le fonti energetiche. E cosadire delle relazioni politiche che moltecancellerie europee intrattengono conregimi dittatoriali? Sia ben inteso,stiamo parlando di oligarchie spietateche seminano morte e distruzione nelleperiferie del mondo. Per non parlare,poi, di temi scottanti come la questionedel debito estero, oggi finanziarizzato,che spesso pesa come una spada diDamocle sul destino d’intere popolazioni.A questo proposito occorre davvero vi-gilare su quella che papa Francescodefinisce la “cultura dello scarto”: unmodo d’essere e di pensare per cui nonsolo si accresce a dismisura la forbicetra ricchi e poveri, ma soprattutto siacuiscono esponenzialmente le diffe-renze. Si pone pertanto l’annosa que-stione deontologica che riguarda chiun-que, i singoli, le categorie sociali e pro-fessionali. Dal greco - (deon) e (loghìa)- la deontologia, è letteralmente lo“studio del dovere”, cioè la trattazionefilosofico-pratica delle azioni doverose

EDITORIALE

di GIULIO [email protected]

(Segue a pag. 2)

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Le parole che uccidono

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Indice

EDITORIALE

1 _ Le parole che uccidono di Giulio Albanese

PRIMO PIANO

4 _ Al Cairo il papa indica strade di pace Francesco d’Egitto di Pierluigi Natalia

ATTUALITÀ

8 _ L’Ecuador del nuovo presidente La revoluciòn ciudadana di Lenìn Moreno di Paolo Manzo

11 _ Il grido dei vescovi liguri in soccorso dei migranti «Scelte urgenti,

non più rinviabili» di Ilaria De Bonis

FOCUS14 _ Sistema carcerario brasiliano

Le colpe dello Stato di Ilaria De Bonis

L’INCHIESTA

18 _ Rapito ad Aden 15 mesi fa Aspettando don Tom di Miela Fagiolo D’Attilia

SCATTI DAL MONDO

22 _ Da Erbil a Mosul Viaggio nel dolore A cura di Emanuela Picchierini Testo e foto di Laura Aprati

PANORAMA

26 _ Un libro collettivo sul gesuita rapito in Siria Padre Paolo e la profezia violata di Riccardo Cristiano

DOSSIER

29 _ Lo scenario politico africano Rinascimento (im)possibile? di Giulio Albanese

Un network per l’Africa di Francesco Pierli e Giuseppe Caramazza

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e la loro codificazione. Sta di fatto che nel-l’attuale marasma della comunicazione, siproferiscono, con grande disinvoltura, sentenzee scomuniche, innescando dubbi e pregiudiziche non giovano certamente al bene comunee a quello della persona umana creata ad im-magine e somiglianza di Dio. Anche perchéchiamare una persona di colore “negér”, unmusulmano “terrorista”, un uomo di etniarom “ladro”, è la deformazione del linguaggioper affermare le disuguaglianze. Come hadetto papa Bergoglio: «Anche le parole ucci-dono». Tutto questo accade nella quotidianità,dappertutto: dalle curve degli stadi, da cuipartono cori offensivi, fino al riverbero umi-liante di certi social internettiani in cui im-magini e parole sembrano essere, a volte,rantoli dell’anima. Ma proprio perché certilemmi che uccidono li ritroviamo anche perstrada, negli uffici, sul posto di lavoro, met-tiamocela tutta a coltivare pensieri e com-portamenti virtuosi che contribuiscono a ren-dere migliori le singole persone e la società. Apensarci bene, parafrasando il celebre AlbertSchweitzer, «il primo passo nell’evoluzionedell’etica è un senso di solidarietà con altriessere umani».

(Segue da pag. 2)

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

37 _ Kenya, dalla strada a una nuova vita

Kenny e i ragazzi di Korogocho di Maurizio Binaghi

40 _ Il coraggio di suor Carolin A scuola con i bambini di Damasco di Miela Fagiolo D’Attilia

42 _ Dalla diocesi di Lucca

Una “mucca energetica” per il Rwanda di Chiara Pellicci

45 _ Missione Legalità Guatemala

Gli agricoltori contro i veleni delle miniere di Monica Usai46 _ L’altra edicola Macron e l’Africa

Business e frontiere blindate di Ilaria De Bonis

49 _ Posta dei missionari Non dimentichiamo il Congo a cura di Chiara Pellicci

RUBRICHE52 _ Ciak dal mondo L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA Dalla Siria al Baltico di Miela Fagiolo D’Attilia

54 _ Libri Salvare la Madre dai suoi figli di Chiara Anguissola

Martire tra le Ande di Chiara Anguissola

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OSSERVATORI

DONNE IN FRONTIERA PAG. 6

La farmacista zingaradi Miela Fagiolo D’Attilia

ASIA PAG. 7

La dengue a Nauru e le colpe di Canberradi Francesca Lancini

AFRICA PAG. 16

Ricchi e poveri di Enzo Nucci

GOOD NEWS PAG. 17

Najma ha riaperto gli occhi di Chiara Pellicci

BALCANI PAG. 20

Montenegro tra due mondidi Roberto Bàrbera

MEDIO ORIENTE PAG. 21

Nuova nakba dei giovani di Ilaria De Bonis

55 _ Musica MADAGASCAR La musica colorata di Franz Coriasco

VITA DI MISSIO

56 _ Missio Ragazzi Costruisci un Ponte mondiale! di Chiara Pellicci

58 _ Convegno nazionale dei direttori e delle équipe dei Cmd A Sacrofano per sognare una Chiesa in missione di Miela Fagiolo D’Attilia

59 _ Solidarietà delle Pontificie Opere Missionarie BANGLADESH Annunciare la Buona Novella di Miela Fagiolo D’Attilia

60 _ Missio Giovani Protagonisti del cambiamento di Marzia Cofano

MISSIONARIAMENTE

62 _ Intenzione di preghiera del papa Bloccare i traffici di morte di Mario Bandera

63 _ Inserto PUM 61esimo Convegno missionario nazionale dei seminaristi Vangelo, dialogo e missione di Ilaria De Bonis

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PRIMO PIANO Al Cairo il papa indica strade di pace

G li esiti della visita di papa Fran-cesco al Cairo a fine aprile scorsosi chiariranno nei prossimi mesi.

Ma già ora è possibile indagare le moti-vazioni e il contesto di una missione altempo stesso pastorale e diplomatica,destinata da un lato a testimoniare vi-cinanza a una Chiesa spesso (e anche direcente) martirizzata come quella copta,e dall’altro a sanare incomprensioni conil mondo islamico che hanno segnatogli ultimi anni, frenando in parte ildialogo interreligioso. Poche volte comein questa occasione, è risultata tantoevidente l’intenzione di fare chiarezzasu un punto cruciale: le religioni sono

chiamate a indicare strade di pace equalunque altro loro uso strumentale èblasfemo.Proprio l’Egitto che, dalla caduta di Mu-barak ha vissuto e vive anni di instabilitànei quali il fondamentalismo pseudore-ligioso ha seminato morte e distruzione,è un luogo cruciale per invertire unatendenza che mette a rischio l’umanitàintera. Con i suoi 90 milioni di abitantie l’influenza sull’intero Medio Oriente,l’Egitto resta cruciale per ogni iniziativapolitica in quell’area tormentata. «L’Egittoha un compito singolare: rafforzare econsolidare anche la pace regionale, puressendo, sul proprio suolo, ferito da vio-lenze cieche» ha sottolineato Francesconel discorso al presidente Al-Sisi e alleautorità egiziane. In ossequio a conso-

di PIERLUIGI [email protected]

Un viaggio fortementesimbolico, quello che papaFrancesco ha vissuto inEgitto, tre settimane dopogli attentati allaminoranza di cristianicopti nel Paese. “Amico,messaggero di pace epellegrino”, il papa haesortato a combattereogni forma di violenza,vendetta e odio,commessa in nome di Dio.

Francescod’Egitto Papa Francesco accolto dal

presidente egiziano AbdelFattah al-Sisi, al suo arrivo alpalazzo presidenziale del Cairo.

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lidati protocolli diplomatici, Al-Sisi erastato il primo citato nel comunicatodella Sala Stampa vaticana che in feb-braio annunciò il viaggio: «Accogliendol’invito del presidente della Repubblica,dei vescovi della Chiesa cattolica, diSua Santità papa Tawadros II e delGrande imam della Moschea di Al Azhar,Cheikh Ahmed Mohamed El-Tayyib, SuaSantità papa Francesco compirà un viag-gio apostolico nella repubblica arabad’Egitto dal 28 al 29 aprile 2017, visitandola città del Cairo», aveva infatti annun-ciato il portavoce vaticano Greg Burke.Tale circostanza protocollare aveva fattosostenere ad alcuni commentatori chela visita potesse costituire una sorta disostegno all’attuale governo egiziano,che assunse il potere defenestrando iFratelli Musulmani vincitori delle elezioni.Ma proprio questo passo Francesco hanegato, con le parole e con i gesti. Sullapresunta difesa dei cristiani da partedel governo del Cairo, nella conferenzastampa tenuta sull’aereo che lo ricon-duceva a Roma, il papa ha detto: «Di-fendere la pace, difendere l’armonia deipopoli, l’uguaglianza dei cittadini qualeche sia la religione, questi sono valori,io ho parlato dei valori. Se poi il governodifende o l’uno o l’altro di questi valori,è un altro problema. Ogni governo oPaese ha le sue debolezze, ha i suoi av-versari politici. Io non mi immischio.Parlo dei valori».

ECUMENISMO DEL SANGUEAl tempo stesso, l’incontro con i coptiortodossi e l’abbraccio con il loro pastore,Tawadros II, hanno voluto sottolinearequello che Francesco ha definito «ecu-menismo del sangue», il sangue deimartiri che nutre la Chiesa e l’unitàdelle Chiese. Né senza significato è cheal Cairo sia arrivato nell’occasione ancheil patriarca di Costantinopoli Bartolomeo,massimo esponente della Chiesa orto-dossa. Ma nessuna parola pronunciatanell’occasione ha avallato, neanche im-

plicitamente, l’equivalenza tra islam eviolenza, indicando come nemici i mu-sulmani.La visita all’Università della moschea diAl Azhar, considerata sede della massimaautorità islamica sunnita, si è spintapersino oltre. «Siamo fratelli e sorellesotto il sole di un unico Dio» ha detto ilpapa di Roma ad Ahmed Mohamed El-Tayyib, il grande iman di Al Azhar, cheaveva già incontrato in Vaticano nelmaggio dello scorso anno. Altrettantosignificativo è stato quanto affermatoda quest’ultimo: «Vi ringrazio per levostre giuste dichiarazioni che non qua-lificano l’islam come terrorismo». Nonc’è commentatore che non vi legga ilsuperamento di una freddezza che daparte islamica fu attribuita al discorsodi Ratisbona di Benedetto XVI nel 2008(quando la sua citazione di Manuele IIPaleologo - secondo cui la religione delprofeta Maometto aveva portato solo«la spada» - aveva sollevato protestediffuse in tutto il mondo musulmano) esoprattutto al suo appello del 2011 perun intervento internazionale in prote-zione dei copti sotto attacco in Egitto.

DIALOGO CONTRO POPULISMILa visita al Cairo era stata preparata infretta, dopo il rientro il 22 febbraio delpresidente del Pontificio Consiglio peril dialogo interreligioso, il cardinaleJean-Louis Tauran, che si era recato invisita proprio all’Università di Al Azhar.Un compito importante nella ripresadel dialogo tra Vaticano e islam sunnitalo ha svolto anche il numero due del-l’Università Al Azhar, Abbas Shuman,da anni in contatto - sul tema del con-trasto alla violenza e al traffico dei mi-granti - con la Pontificia Accademiaper le Scienze sociali, presieduta dalvescovo argentino Marcelo Sanchez So-rondo. Grazie a questo dialogo sembre-rebbero superate anche alcune ambiguitàin materia di violenza pseudoreligiosache negli ultimi anni non erano mancate

nelle posizioni dell’Università sunnita edello stesso El-Tayyib. Proprio sulla que-stione migratoria, palestra di tutti i po-pulismi con crescente consenso in Oc-cidente, si è espresso con forza papaFrancesco sull’aereo del ritorno, quandoha definito lager i cosiddetti centri diaccoglienza, specificando peraltro chenon intendeva paragonarli ai campi disterminio nazisti. Solo che non ha

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Il Pontefice e Sua Santità papaTawadros II, patriarca della Chiesacopta ortodossa, nella Cattedraledi San Marco, al Cairo.

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detto nazisti, ma tedeschi, il che nonha mancato di suscitare proteste inGermania. Come spesso accade, non èstato solo su questo aspetto che il col-loquio con i giornalisti in aereo hafornito titoli non proprio legati al si-gnificato del viaggio al Cairo. L’attenzionedella stampa internazionale si è con-centrata, ad esempio, sulla concomitanzacon i primi cento giorni alla Casa Biancaper Donald Trump; mentre quella dellastampa italiana sul caso Regeni, il ri-cercatore ucciso oltre un anno fa alCairo in circostanze sulle quali non è

PRIMO PIANO

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stata fatta completa luce. Appare si-gnificativo il fatto che su entrambi gliaspetti, nella conferenza stampa duranteil volo di ritorno, il papa abbia rispostonel primo caso in modo protocollare enel secondo rivendicando assoluto riserbosull’attività della Santa Sede.

L’ESTREMISMO DELLA CARITÀInsistenze giornalistiche a parte, il puntocruciale di questa missione sta nel suosenso non solo di testimonianza, ma diindicazione concreta. A chiunque straparladi guerra di religione, Francesco ha detto

«S ono convinta che l’accesso ai medicinalisia un diritto fondamentale. Lo sviluppo e

la fabbricazione delle medicine devono servire amigliorare le condizioni di vita dell’uomo e contri-buire allo sviluppo dei Paesi poveri». Questa di-chiarazione è lo scopo a cui la dottoressa thailandeseKrisana Kraisintu ha dedicato tutta la sua vita, di-ventando famosa come la “farmacista zingara”per la scelta di visitare i Paesi d’Asia e d’Africa incui c’era bisogno di farmaci antiretrovirali controil virus Hiv.Classe 1952, Krisana si è laureata in Farmaciaall’Università di Chiang Mai per proseguire poi glistudi nel Regno Unito, alla Strathclyde University,specializzandosi come ricercatrice. A soli 37 anniè diventata direttrice dell’Istituto di ricerca e svi-luppo del Ministero della salute thailandese, doveha iniziato a produrre farmaci salva-vita a bassocosto per una serie di malattie, tra cui l’ipertensio-ne e il diabete. Dopo lunga sperimentazione, hamesso a punto un cocktail di tre farmaci anti Aidsin una sola cura a basso costo (il Gpo-Vir), subitodiffuso in Thailandia, Paese ad alto rischio a causadel turismo sessuale. Il farmaco è stato sceltodall’Oms come trattamento di pazienti affetti daHiv nei Paesi poveri e subito Krisana, grazie allaorganizzazione umanitaria tedesca ActionMedeor, si è impegnata per il trasferimento delletecnologie di produzione farmaceutica in Africa.Dal 2002 ha cominciato la sua esperienza nell’Africa sub-sahariana dove c’era un’alta percen-tuale di sieropositivi. In qualche anno è riuscita acreare produzioni locali in RepubblicaDemocratica del Congo e in altri 13 Paesi dove,grazie alle sue cure, si sono salvate molte migliaiadi vite umane. La popolarità della dottoressa thai-landese è tale che la sua esperienza ha ispiratodiversi documentari e persino una commedia aBroadway intitolata “Cocktail”. Dice di sé: «La miastrada per la promozione della salute nei Paesi invia di sviluppo è stata lunga, disseminata diavventure, di fallimenti e ricompense, sia nel mioPaese che in Asia e in Africa. La sfida più grandeè stata quella di cercare di rendere autonome lepopolazioni, non solo trasferendo tecniche far-maceutiche, ma divulgando l’idea che potevanoprodurre da soli le medicine di cui c’era bisogno».

di Miela Fagiolo D’Attilia

LA FARMACISTAZINGARA

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA

Papa Francesco duranteil discorso all’Universitàdi Al Azhar.

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A Nauru 900 persone su 10mila hanno con-tratto il virus dengue fra marzo e aprile

scorsi. L’isola, utilizzata dall’Australia comecampo di detenzione dei migranti, torna a farparlare di sé in modo drammatico. Nella“Lampedusa” dell’Oceano Pacifico l’infezionetrasmessa dalle zanzare del genere Aedes hacolpito in un mese almeno il 10% dei richiedentiasilo. Tuttavia, i profughi ammalati potrebberoessere molti di più, perché adesso la maggiorparte di loro vive fuori dal Centro da cui pro-vengono le stime, sparsa nella comunità lo-cale.La tragica notizia sarebbe un’ulteriore confermadelle precarie condizioni in cui dal 2001 sonocostretti a vivere gli esuli nei due campi di de-tenzione dell’isola-nazione Nauru e di ManusIsland, che appartiene allo Stato della PapuaNuova Guinea. In molti chiedono la chiusuradei Centri offshore finanziati da Canberra interritorio straniero. La Commissione del Senatoaustraliano sugli Affari costituzionali e legali harilasciato un rapporto in cui chiede la chiusuradei due campi perché insicuri e gestiti in modonon trasparente.La dengue è solamente l’ultimo capitolo diquesta triste storia. Da anni i prigionieri offshore,provenienti da vari Paesi asiatici, soffrono permaltrattamenti, malattie, assenza d’igiene e di-sturbi psichici come l’autolesionismo. Ci sonostate molte manifestazioni di protesta con mi-granti arrivati a cucirsi le labbra per opporsialla repressione dei loro diritti. Canberra, però,continua a scaricare le sue responsabilità suigoverni di due piccoli Paesi. Nessun migrante“irregolare” che si avvicina con le “carrette delmare” può toccare il suolo australiano. Chissàse, grazie alla Commissione del Senato, ilgoverno australiano comincerà a trattare gliesuli come esseri umani e magari a valutare ilfinanziamento, invece di luoghi di prigioniache non rispettano gli standard umanitari in-ternazionali, di una campagna anti-dengue.Non esiste una cura, ma esistono misure dicontrollo della diffusione delle zanzare e daoltre un anno il primo vaccino approvato dal-l’Oms, il Dengvaxia di Sanofi Pasteur Aventis.

di Francesca Lancini

LA DENGUE ANAURU E LE COLPEDI CANBERRA

OSSERVATORIO

ASIA

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che l’unico estremismo gradito a Dio èquello della carità. Già nel messaggioinviato prima della visita agli egiziani, ilpapa aveva detto che «Il nostro mondo,dilaniato dalla violenza cieca – che hacolpito anche il cuore della vostra caraterra – ha bisogno di pace, di amore edi misericordia; ha bisogno di operatoridi pace e di persone libere e liberatrici,di persone coraggiose che sanno impararedal passato per costruire il futuro senzachiudersi nei pregiudizi; ha bisogno dicostruttori di ponti di pace, di dialogo,di fratellanza, di giustizia e di umanità».

E al Cairo si era rivolto ai responsabilidelle nazioni, delle istituzioni e dell’in-formazione, dicendo senza giri di paroleche «per prevenire i conflitti ed edificarela pace» bisogna «adoperarsi per ri-muovere le situazioni di povertà e disfruttamento, dove gli estremismi piùfacilmente attecchiscono, e bloccare iflussi di denaro e di armi verso chi fo-menta la violenza. Ancora più allaradice, è necessario arrestare la proli-ferazione di armi che, se prodotte ecommerciate, prima o poi verrannopure utilizzate».

Al Cairo il papa indica strade di pace

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ATTUALITÀ

mossa, sua moglie Rocío Gonzáles –eravamo usciti insieme a comprare unpo’ di pane ma, dopo avere parcheggiatol’auto, fummo aggrediti». Nessuna resi-stenza da parte di Lenín che, anzi, con-

di PAOLO [email protected]

segnò subito soldi e chiavi di casa ai de-linquenti. Ciononostante uno di loro glisparò alle spalle e, da allora, il nuovopresidente dell’Ecuador è diventato pa-raplegico e per spostarsi si affida ad

Un modello d’ispirazione per i tantidiversamente abili senza dirittidel mondo intero. Ma, soprattutto,

dell’America Latina, continente che in-sieme all’Africa è il peggiore per le in-frastrutture destinate a chi, come lui,non riesce più a camminare con le suegambe. Questo ha promesso di essereLenín Moreno, il neopresidente del-l’Ecuador insediatosi alla guida del Paeselo scorso 24 maggio e la cui vita cambiò,improvvisamente, il 3 gennaio 1998.«Quel giorno – ricorda ancora oggi, com-

La revoluciòn ciudadanaDopo un acceso testa a testa, il socialista LenínMoreno supera di misura al ballottaggio il candidatoGuillermo Lasso e viene eletto successore di RafaelCorrea per dieci anni a capo dell’Ecuador. Moreno,che era già stato vicepresidente, guiderà il suopopolo da una sedia a rotelle su cui è costretto dal1998 dopo avere subito una rapina, esperienza chelo ha portato a combattere per i diritti dei disabili.

L’Ecuador del nuovo presidente

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a di Lenìn Moreno

finanziari alle spalle, Moreno – che havinto il ballottaggio lo scorso 2 aprilecon il 51,15% di voti – ha promesso divoler governare il Paese «per ogni ecua-doriano, anche per chi non mi ha votato:voglio essere il presidente di tutti».Una dichiarazione d’intenti incoraggiante,vista la crescente polarizzazione e con-flittualità sociale nel confinante Vene-zuela. La vittoria di Moreno era stataprevista da tutti i sondaggi della vigiliama, alla fine, è arrivata non al primoturno ma solo al ballottaggio e, per dipiù, di stretta misura per almeno trebuoni motivi.In primis, a causa della grave crisi eco-nomica che negli ultimi due anni hacolpito l’Ecuador, poi per alcune misureimpopolari prese dal suo predecessoreRafael Correa per finanziare la ricostru-zione dopo il terremoto della primaveradello scorso anno, misure che hannocolpito più i consumi dei lavoratori chele grandi banche. Infine non ha aiutatoneanche - ed è un eufemismo - lo scan-dalo della multinazionale brasiliana dellecostruzioni Odebrecht che ha ammessodi fronte alla giustizia statunitense diavere pagato oltre 30 milioni di euro ditangenti durante i dieci anni di presidenzedi Correa (di cui Moreno è stato il vicenel primo mandato, pur non essendocoinvolto affatto nella corruzione), incambio di appalti dal valore di oltre 105milioni di euro.

L’EREDITÀ DI CORREADopo il periodo d’oro tra 2007 e 2014 incui la “rivoluzione cittadina” introdottadal suo predecessore – un mix di prov-vedimenti socioeconomici a vantaggiodei più poveri - era appoggiata dal 70%della popolazione, il crollo del Pil ecua-doriano del 2,3% registrato nel 2016 hafatto crollare il gradimento di Correasotto il 30% e ciò, sicuramente, ha com-promesso una vittoria con più ampiomargine di Moreno.Nonostante il successo, insomma,

Lenín Moreno, festeggiato daisuoi sostenitori dopo l’elezionea presidente dell’Ecuador.

»

una sedia a rotelle. Una sorta di FranklinDelano Roosevelt dei giorni nostri, ancheperché oltre alla disabilità, ad accomu-narlo al compianto presidente statuni-tense sono le idee progressiste, unavisione keynesiana dell’economia, oltreche il desiderio di lotta per la democraziaintesa come pari opportunità per tuttia vantaggio delle fasce deboli della po-polazione.Nonostante le polemiche su presuntibrogli elettorali denunciate dal candidatodell’opposizione Guillermo Lasso, un exbanchiere di destra con numerosi scandali

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fisso intraprese da Chávez e Ma-duro a Caracas è uno dei punticardine del programma econo-mico di Lenín, che si proponeanche di continuare ad attirare,con provvedimenti ad hoc, in-vestimenti esteri e migliaia dipensionati statunitensi che, daoltre un decennio, hanno sceltodi venire a vivere in Ecuador,facendo così aumentare i con-sumi ed il giro d’affari nel Paese

sudamericano. Un case study è quellorappresentato da Cuenca, la terza cittàecuadoriana dove oggi vivono oltre die-cimila pensionati stranieri, l’80% deiquali statunitensi, il 15% canadesi ed ilrimanente 5% europei. Oggi, oltre adassomigliare alla Svizzera per le tantemucche, i pascoli verdi ed il salubre mi-croclima, Cuenca è considerata dalleguide di settore il miglior buen retiro almondo per chi voglia vivere bene conun migliaio di euro al mese di pensione.Anche perché qui la violenza è moltobassa rispetto agli standard latinoame-ricani e notevoli sono gli sgravi fiscali,sia nel settore delle pensioni che inquello della sanità.Oltre all’onestà indiscussa, è però forseil carattere affabile ed il tono umilequello che differenzia maggiormenteLenín da Correa - come testimonia questafrase: «Con il buon umore possiamo ar-rivare alla cultura della tolleranza e deldialogo e, soprattutto, ad accordi minimidi convivenza che tuttiinvocano ma nessuno oquasi rispetta» – distanteanni luce dalle accuse di“traditori”, “golpisti” e“sciacalli” rivolte dal suopredecessore a molti, trop-pi giornalisti non allineatisulle sue posizioni. Se c’èun presidente di sinistrache gli somiglia, diconogli osservatori, è insommal’uruguayano Pepe Mujica,assai più di Correa.

DIALOGO CON L’OPPOSIZIONEQuando era vicepresidente - dal 2007al 2013 - Lenín fece più di chiunquealtro per includere socio-economica-mente i diversamente abili grazie allasua Missione Solidale Manuela Espejo,un programma fantastico, riconosciutonel mondo e che gli valse la nominada parte dell’allora Segretario generaledell’Onu Ban Ki-Moon di suo inviatospeciale per le disabilità al Palazzo diVetro di Ginevra, oltre ad una candi-datura al Nobel per la Pace.L’atteggiamento di Moreno di non ap-poggiare sempre e ad ogni costo il re-gime venezuelano di Nicolás Maduro- com’era solito fare invece Correa - ela proposta di «mandare in carceretutti i corrotti, di ieri e di oggi» (unchiaro riferimento allo scandalo Ode-brecht che infanga invece molte per-sone vicine al suo predecessore) sonopiaciuti molto alla Chiesa ecuadorianaed al neopresidente della locale Con-ferenza episcopale, monsignor EugenioArellano. Lo stesso dicasi per i suoi ri-ferimenti continui al «dialogo che ac-colga le opinioni e le proposte di tutti».Anche di chi la pensa in modo diffe-rente: un tasto, questo, assai dolenteper l’ultimo Correa, sempre più radicale,il cui governo «ha lasciato un cattivosapore in bocca a molti di noi – hadenunciato Arellano - per il suo os-sessivo voler favorire sempre e solo ilsuo partito».

ATTUALITÀ L’Ecuador del nuovo presidente

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Lenín non avrà vita facile visto cheanche quest’anno è previsto un ulteriorecrollo del 2,7% della produzione nazio-nale, mentre la disoccupazione è rad-doppiata negli ultimi due anni ed i sot-to-occupati – ovvero chi lavora in neroricevendo in cambio meno di 375 dollarial mese – rappresentano ormai il 25%di tutta la popolazione ecuadoriana.Insomma, l’eredità lasciatagli da Correanon è delle migliori sul versante del-l’economia, anche se progressi sul frontedelle infrastrutture sono stati fatti, acominciare dalla rete stradale, totalmenterinnovata dal suo predecessore ed oggidi gran lunga la migliore di tutta l’AmericaLatina. Un altro plus cui bisogna darmerito ad Alianza Pais - il partitocorreista che appoggia Lenín Moreno -è che nonostante alcune dichiarazionid’intenti contro la dollarizzazione in-trodotta nel 2000, il neopresidente siguarderà bene dal ritornare alla monetanazionale, mantenendo il dollaro Usa.Al di là delle polemiche sulla sovranitàmonetaria, la dollarizzazione ha trasfor-mato l’Ecuador in uno dei Paesi suda-mericani più stabili dell’ultimo decenniodal punto di vista valutario e ha tenutoa freno un paio di grandi problemi peralcuni Paesi della sinistra bolivarianacontinentale - su tutti l’Argentina kir-chnerista dal 2011 in poi ed il Venezuelacontemporaneo - ovvero un’inflazionefuori controllo ed il cambio nero.

L’OASI DI CUENCAEvitare le assurde politiche di cambio

Moreno con il suopredecessore Rafael Correa.

La ricostruzione dopo il terremoto che ha colpitoil Paese nella primavera dello scorso anno.

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Il grido dei vescovi liguri in soccorso dei migranti

«S uperare la distinzione di trat-tamento tra profughi politicie profughi economici» ai quali

vanno aggiunti i rifugiati climatici.Andare oltre «l’attuale legislazione chetrasforma circa la metà dei migranti ar-rivati in “clandestini”». E smettere di in-vestire tanti soldi per respingere i migranti,in quello che è divenuto oramai «un as-sillante controllo del territorio mediantedispositivi di polizia e spese militari».Sono solo alcune delle indicazioni con-tenute nel documento “Migranti, segnodi Dio che parla alla Chiesa”, messo apunto dalla Conferenza episcopale ligure

«Scelte urgenti,«Scelte urgenti, non più rinviabili»

governativi (e alle istituzioni governative)i vescovi liguri lodano «l’encomiabileopera di soccorso verso quanti attraver-sano il mare su precarie imbarcazioni».Scrivono a chiare lettere che «merita unforte riconoscimento e un convinto so-stegno» tutta l’opera di accoglienza finoad ora dispiegata «da organismi pubblici(sostenuti dal governo italiano), da »

Una vera e propria rivoluzione “evangelica” nel mododi considerare migranti, rifugiati e richiedenti asilo: ivescovi liguri invitano la società, la Chiesa e la politicaad andare oltre tutte le resistenze identitarie. Ildocumento presentato al papa a Genova traccia unastrada di “conversione”.

di ILARIA DE [email protected]

per papa Francesco in occasione del suoincontro con il presidente della Cei,monsignor Angelo Bagnasco a Genova.Il documento in questione prende unaposizione netta su scottanti argomentid’attualità, invitando a compiere «scelteconcrete non più rinviabili» per milionidi migranti e persone in transito. Conevidente riferimento agli organismi non

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le falle dell’attuale risposta politica: «Sirimane perciò perplessi – dicono - difronte alla duplice modalità con cui iPaesi del Nord del mondo stanno pro-gettando di arginare il flusso». E dunquela Conferenza episcopale ligure stigma-tizza «l’enorme investimento in sicurezzache si traduce in un inutile innalzamentodi muri, in un assillante controllo delterritorio mediante dispositivi di polizia,in accresciuti investimenti in spesemilitari, generando, in risposta, semprenuovi percorsi e diversificate modalitàdi ingresso nei Paesi di destinazione daparte di quanti fuggono per necessitàdalla propria casa».

LAND GRABBING E DEBITO ESTEROAndando alla radice delle cause più pro-fonde che spingono tante persone a la-sciare la loro terra, il documento affermache vanno tenuti presenti «alcuni aspettiremoti», tra i quali il debito contratto daiPaesi in via di sviluppo, il land grabbing,o fenomeno di accaparramento delleterre, e le distorsioni della finanza. «At-tualmente l’accaparramento delle terree delle materie prime (soprattutto gliidrocarburi ed i materiali per l’elettronica)– dicono - l’accesso all’acqua e l’utilizzoesclusivo delle terre più produttive dalpunto di vista agricolo, sono diventati lanormale modalità con cui il Sud delmondo è aggredito sia dalle politicheeconomiche pubbliche (vedi i trattatieconomici che regolano il rapporto tragli Stati) sia dall’intrusività delle multi-nazionali capaci di assorbire a propriofavore i mercati». Dicono a chiare lettereche «il meccanismo del debito è unadelle cause più acute e dirette nella for-mazione della povertà. Questo problema,oggi quasi completamente taciuto, senon sarà affrontato e risolto, resta eresterà una delle cause determinantidello spostamento dei popoli». Citando ilcardinale Peter Turkson, presidente delPontificio Consiglio della Giustizia e dellaPace: «La questione del debito dei Paesipoveri è un problema ancora irrisolto,ma sul quale l’attenzione pubblica inter-

forme di ingiustizia, qualunque sia lamodalità con cui questa venga a coniu-garsi». In seconda battuta chiedono dirivedere una legge sull’immigrazione«che, per un verso, chiede di accogliererichiedenti protezione internazionale emigranti (…) e per altro verso, dopo untempo medio (nella Regione Liguria èpari a circa due anni) costringe, di fattoa metterli in strada, senza più alcunaassistenza, senza una prospettiva su doveandare e in alcune situazioni senza undocumento, rendendo la loro situazionepeggiore di quella del loro arrivo». Sug-geriscono poi di «ripensare a fondo lalegislazione europea ed italiana sull’ac-coglienza dei richiedenti asilo perchéabbia come reale obiettivo quello del-l’integrazione». Inoltre chiedono di «giun-gere in tempi certi e brevi ad una legi-slazione che sancisca il diritto di citta-dinanza a quanti hanno portato a com-pimento un verificabile percorso di in-tegrazione». I vescovi liguri individuano

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ATTUALITÀ

associazioni e da organismi ecclesiali.Ed esortano a continuare in questa di-rezione, anzi a fare di più: «Occorreanche cercare di andare oltre», dicono.

NO ALLA NARRATIVA DELLO “SCONTRO DI CIVILTÀ”Come? Modificando l’impostazione “cul-turale” nei confronti di migranti e rifugiatiche sono «vere risorse umane e culturali»,scartando decisamente ogni narrazioneche poggia sull’idea di conflitto perché«non si tratta di uno scontro di civiltà»,scrivono. Pertanto propongono settestrade: una delle quali è quella di consi-derare ugualmente degni di tutela i ri-chiedenti asilo e i rifugiati per motivieconomici, politici e climatici: «L’enciclicaLaudato Si’, per tutte queste categoriedi migranti offre una prospettiva culturaleinnovativa, perché in tutte le personeraggiunte da una ecologia squilibrata(non solo di ordine naturale) è possibilericonoscere il rischio dell’esposizione a

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Il grido dei vescovi liguri in soccorso dei migranti

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l’interno della Chiesa – scrivono inchiusura del documento - Scegliere diaccogliere e farlo nel modo opportunonon è solo un’urgenza morale, ma cam-bia la prospettiva del nostro modo dipensarci come Chiesa. Come cristianisiamo chiamati ad un radicale atteg-giamento di disponibilità all’accoglienza».La scelta a favore degli ultimi è «unascelta cristiana; l’accoglienza o il rifiutodel povero è accoglienza o rifiuto diCristo. Siamo chiamati a un vero e pro-prio percorso di conversione al qualenon vogliamo sottrarci e che ci spingead entrare nel profondo delle analisi edelle scelte sopra delineate, per metterciin gioco in prospettive di soluzioni ispi-rate all’unica Parola che salva».

mentre le eventuali perdite (o fallimenti)a carico del settore pubblico. Ciò si ve-rifica in particolare per il settore bancario(vedi Laudato Si’, n. 189)».

TORNARE AL VANGELO, SCEGLIERE I POVERIIn altre parole, i meccanismi finanziarisono una delle cause fondamentali delladiffusa mancanza di lavoro che si ri-scontra nel mondo intero, scrivono ivescovi. Come se ne esce allora? Ancorauna volta, tornando al Vangelo. «Vo-gliamo vivere un’attenta dinamica evan-gelica che sappia leggere a fondo i“segni dei tempi” dando adeguate ri-sposte e sollecitare un profondo ripen-samento del modo di fare cultura al-

nazionale è fortemente diminuita. Ancoraoggi i Paesi poveri continuano a spendereogni anno risorse maggiori per la re-missione dei debiti di quanto ne ricevanodagli aiuti ufficiali allo sviluppo».Infine, un attento sguardo ai danniprovocati dalla finanza che è alla basedella disoccupazione: «La logica delmassimo profitto ha visto uno svilupposmoderato della finanza che ha di granlunga superato il valore di interscambiomonetario dell’economia reale». Le ri-correnti crisi finanziarie non sono state«colte come occasioni per rivedere eriformare l’intero sistema, limitandosia palesarne un suo meccanismo strut-turale che vede i profitti destinati aiprivati detentori del potere finanziario,

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FOCUS Sistema carcerario brasiliano

L a responsabilità della crisi car-ceraria in Brasile è dello Stato«che io chiamo dittatocrazia».

Non esiste una colpa esclusiva del nar-cotraffico nelle carceri del Paese lati-noamericano, quanto piuttosto «un’omis-sione delle responsabilità da parte delloStato stesso». Ne è convinto padre Gian-franco Graziola, missionario della Con-solata e vice coordinatore nazionaledella pastorale carceraria in Brasile. «Icolpevoli delle centinaia di morti degliultimi mesi (nella prigione di Roraimaa gennaio scorso sono morte più di 70persone, ndr) sono da attribuire al fal-limento delle politiche sociali. Non èuna faida interna alle fazioni criminali,

perché persino la nascita di queste faideè una conseguenza dell’assenza delloStato» dice. Il missionario, che conoscebenissimo e dall’interno il sistema car-cerario del Brasile, è molto duro neiconfronti di una politica che usa la re-clusione per far fuori la povertà. «Ilcarcere oggi è un sistema fortementepunitivo e di controllo delle povertà:chi finisce dietro le sbarre non sono igrandi ricchi o i colletti bianchi, ma ipoveri. E da ultimo, moltissime donne.Il prototipo del carcerato brasiliano?Un giovane di colore tra i 18 e i 30anni, che vive nelle periferie e ha unabassa scolarità».Il sovraffollamento delle carceri è stret-tamente legato alla criminalizzazionedel disagio sociale: soprattutto di chifa uso di droghe, ci spiega padre Gian-

franco. Come nelle Filippine del san-guinario Duterte, anche nel Brasile diMichel Temer, chi si droga è consideratoun criminale alla stregua di chi uccideo ruba milioni. «L’aumento della popo-lazione carceraria dal 2004 al 2014 èstato del 576% - conferma padre Gra-ziola – e il numero degli istituti carcerariè arrivato ad oltre 1.400, molti dei qualiprivati». Come si spiega questa crescitadi massa? Con la tendenza a metteredentro gli emarginati, i poveri, i disagiati,chi vive di stenti e di espedienti. «LoStato parallelo nasce in questi contesti– spiega il missionario – nella miseria sicrea una struttura che dà alle famigliee ai propri carcerati una sicurezza chelo Stato non assicura. Per finanziarsi,questo mostro usa il mondo della drogae della criminalità».

Le colpe dello Stato

di ILARIA DE [email protected]

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GUERRA ALLE DROGHEL’altra grande questione, argomenta ilmissionario, è la «guerra alle droghe,sul modello americano e da ultimo fi-lippino, scelta come sistema dal Brasile.Chi è dipendente dalle droghe finisceautomaticamente in carcere». È un pro-blema sociale visto però come qualcosada combattere, come fosse una guerra.«Il che nel corso di questi ultimi anniha portato ad una incarcerazione di

Detenute nel carcere dimassima sicurezza NélsonHungria a Rio de Janeiro.

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massa, nel disinteresse totale dello Stato,anzi col suo benestare», evidenzia padreGianfranco. Il suo è un atto d’accusamolto forte nei confronti di chi dovrebbetutelare la gente e invece la priva dellalibertà in un carcere che diventa «castigo,punizione e dolore». E infine morte,con le uccisioni di questi mesi.Ma cosa è successo esattamente inqueste prigioni dove la gente è statavittima di una vera e propria mattanzacollettiva? «Si sono sviluppate varie fa-zioni: organizzazioni criminali che co-mandano e non si disputano tanto ilpotere tra di loro, come è stato detto,

quanto tra loro e lo Stato». Sono orga-nizzazioni parastatali con dentro giudici,avvocati ecc.: «È in atto una disputatra queste mafie e lo Stato legittimo».La reazione della Chiesa è sempre statadi denuncia e di proposta.

L’AGENDA DELLA CHIESA IN DIECI PUNTIDal 2014 esiste un’agenda nazionaleper la scarcerazione, voluta da una seriedi sigle tra cui la Pastorale della Gioventùe la Pastorale Carceraria nazionale. Inquesto libretto in dieci punti si chiedeallo Stato tra l’altro «la sospensione diqualsiasi fondo destinato alla costruzionedi nuove carceri». Perché il problemadella sovrappopolazione non è nellascarsità di istituti detentivi quanto nelnumero delle persone ingiustamentecondannate a scontare pene molto lun-ghe. Prendiamo le donne, ad esempio.Molte di loro sono madri e l’inferno diqueste prigioni riguarda anche i lorobambini: «La legge dice che il bambinopuò rimanere con la mamma fino a seimesi, un anno, ma di fatto riman- »

In Brasile ilsovraffollamento dellecarceri e la morte dicentinaia di detenuti ha una sola origine: la debolezza dello Stato e la deliberatacriminalizzazione dellapovertà. Ce lo spiega unmissionario che vive inBrasile da oltre 30 anni.

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FOCUSFOCUS

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V enti milioni di persone (tra cui unmilione e 400mila bambini) rischiano

di morire di fame in Africa entro la fine del2017. Una siccità di dimensioni apocalittiche(causata anche dal cambiamento climaticoche qui è più veloce, visibile e devastanteche in altre parti del pianeta) è all’originedi una carestia senza precedenti dal 1945,secondo l’Onu. Almeno 28 le nazioni inte-ressate mentre è già allarme rosso in SudSudan, Somalia, Nigeria nord-orientale eYemen dove gran parte delle popolazioni ègià allo stremo.A fronte di questa emergenza alimentare(che le Nazioni Unite non riescono a fron-teggiare per mancanza di fondi e scarsasensibilità dei Paesi più fortunati), arrivanodati sulla crescita esponenziale del numerodei ricchi nel continente africano che sipresenta a più velocità. Nelle banche diEgitto, Sudafrica e Nigeria sono depositati800 miliardi di dollari, mentre in Svizzerasono “appena” 613. La Repubblica Demo-cratica del Congo (squassata da più di 20anni di guerre) ospita 600 milionari. Secondoi dati diffusi da una banca delle isole Mau-ritius, sono 145mila gli africani che possie-dono almeno un milione di dollari, un nu-mero cresciuto del 20% negli ultimi diecianni. Cifre ancora modeste ma che stannoorientando anche le strategie delle grandiaziende dei marchi di lusso che registranocali di vendita in Russia, Cina e Hong Kong.La Nigeria è il Paese dove si consuma piùchampagne francese mentre i nuovi ricchiafricani nel 2016 hanno speso ben 46 milionidi dollari per l’acquisto delle più prestigiosemarche di orologi svizzeri: un balzo inavanti rispetto ai 13 milioni di acquisti di 10anni fa.Anche l’Africa ha comunque la sua “Sviz-zera”. Sono le Mauritius dove vivono 3.800milionari attratti dalla scarsa criminalità edalla facilità di ottenere il permesso di sog-giorno grazie a condizioni fiscali competitivecon la Confederazione elvetica. L’isola siprepara ad accogliere i fortunati Paperoni:nel prossimo decennio (secondo le stime)aumenteranno del 130%.

RICCHI E POVERI

AFRICAOSSERVATORIO

di Enzo Nucci

gono reclusi più a lungo - dice il mis-sionario - Vogliono inoltre creare deicentri per le donne incinte o in procintodi partorire, ma sono dei centri isolatie lontani da tutto. Dopo sei mesi ilbambino viene allontanato dalla madre,affidato alla famiglia o altrimenti finiscein orfanotrofio. Sono strappati allemadri. Noi, come Chiesa, chiediamosemplicemente che alle donne che par-toriscono siano concessi gli arresti do-miciliari».

Al secondo punto dell’agenda dellaChiesa c’è un piano pluriennale per lariduzione della popolazione carceraria.Al quarto punto la depenalizzazionedell’uso e del commercio della droga.«Lo Stato brasiliano è militarizzato», ac-cusa il missionario: «C’è una legge cheabbiamo ereditato dai mondiali ed èquella dell’antiterrorismo che militarizzalo Stato, comprando armi e usando laforza per combattere la devianza». Latendenza, denuncia ancora padre Graziola,

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I dati delle morti nel Mar Mediterraneo degliultimi anni sono raccapriccianti se pensiamo

che dietro ogni numero c’è un uomo, una donna,un bambino, con un nome, un volto, una storia,dei sogni.Quello che alcuni enti stanno realizzando con icosiddetti “corridoi umanitari” (tra cui la Conferenzaepiscopale italiana che si è attivata per il trasferi-mento dai campi profughi etiopici di 500 Eritrei,Somali e Sud sudanesi in due anni) è una goccianell’oceano, ma anche la concretizzazione piùvera del versetto del Talmud che recita: «Chi salvauna vita salva il mondo intero».Lo testimonia la storia di Najma, atterrata in Italiacon i corridoi umanitari del progetto MediterraneanHope, sostenuto dall’Unione delle Chiese valdesie metodiste e dalla Comunità di Sant’Egidio.Questa mamma è arrivata a Fiumicino con i suoibambini e lo ha fatto con una valigia piena di di-gnità.Najma (che in arabo significa “Stella”) era unaprofuga siriana a Beirut. «Quando l’abbiamo co-nosciuta – racconta Francesco Piobbichi, operatoreumanitario che lavora per il progetto MediterraneanHope - i suoi occhi erano chiusi, senza luce. Nonper una malattia o per un incidente, ma perscelta: si erano chiusi quando suo marito erastato ucciso davanti a lei, dentro casa; quando siè finta cieca per attraversare il confine siriano;quando era stata aggredita in un campo profughi».In Libano Najma è stata schiavizzata da un uomoche la costringeva a lavorare gratuitamente, dopoaverla minacciata più volte di fronte ai suoi figli.Prima della partenza per raggiungere l’Italia (conun “normale” viaggio su un volo di linea) «le suetre bambine ci hanno recitato una poesia initaliano, imparata a memoria e tradotta sul web.Ci hanno chiesto quando sarebbero potute andarea scuola e, quando abbiamo risposto che avrebberoimparato presto l’italiano, hanno sorriso, si sonotrasformate in farfalle e hanno iniziato a volarciintorno» racconta commosso Piobbichi.Najma e i suoi figli sono arrivati in Italia dapersone libere. Gli occhi della donna a Fiumicinoerano di nuovo aperti. E bellissimi: avevano ilcolore della vita.

di Chiara Pellicci

NAJMA HA RIAPERTO GLI OCCHI

OSSERVATORIO

GOODNEWS

politica sanitaria e di istruzione pubblica».Quello che i religiosi e le religiose vor-rebbero è un piano globale e di lungoperiodo per affrontare con altri strumentiil disagio: comprendere i motivi all’originedella criminalità, ma soprattutto dellapovertà. Se non si affronta con strumenti“politici” la diseguaglianza di reddito elo squilibrio strutturale tra ricchi e poveri,il Brasile possederà sempre più una fettadi popolazione border-line a rischio car-cere e a rischio morte.

Sistema carcerario brasiliano

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«è quella di trasformare la città in unagrande trincea. Non esistono armi nonletali. Gli spray al peperoncino, ad esem-pio, usati senza misura nelle manifesta-zioni o negli scontri in carcere e fuoridal carcere, non uccidono ma danneg-giano irrimediabilmente». Nell’agendanazionale della Chiesa cattolica si legge:«È tempo di interrompere la dannosaguerra modello statunitense contro ladroga, ed elevare la lotta agli effettidannosi dell’uso di narcotici a livello di

Spray al peperoncinocontro manifestanti perle strade di San Paolo.

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L’INCHIESTA Rapito ad Aden 15 mesi fa

Aspettandodon TomAspettandodon Tom

House. Le altre 12 vittime erano volontarilaici che le aiutavano nel servizio. Dopoquesta barbara strage contro testimoniindifesi del Vangelo, il 10 aprile papaFrancesco ha detto: «Questi sono i martiridi oggi! Non sono copertine dei giornali,non sono notizie: questi danno il lorosangue per la Chiesa. Queste persone

A 15 mesi dalla sua scomparsa inYemen, don Thomas Uzhunnalilè ancora nelle mani dei rapitori.

Il salesiano si trovava nella casa diriposo delle Missionarie della Carità adAden, quando un commando di uominiarmati fece irruzione, uccidendo 16persone di cui quattro suore vestite colsari bianco di Santa Teresa di Calcutta.Era il 4 marzo 2016 e suor Anselna (57anni, indiana), suor Margarita (44 anni,

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

La Fontana di Trevi a Romailluminata di rosso il 29 aprile delloscorso anno su iniziativa dell’Aiutoalla Chiesa che soffre per ricordarei martiri e don Tom Uzhunnalil.

ruandese), suor Reginette (32 anni,ruandese) e suor Judith (41 anni, kenyota)rimasero uccise dalle raffiche del com-mando di estremisti islamici mentreservivano la colazione ai poveri e aglianziani ospiti della casa. Avevano ad-dosso il grembiule da lavoro, davanoda mangiare agli 80 ospiti della Theresa’s

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SCAMPATO ALLA STRAGELe Missionarie della Carità e il salesiano(due congregazioni che hanno decisodi rimanere per testimoniare coraggio-samente la fede) sapevano bene diessere in pericolo di vita ma si erano ri-fiutati di lasciare il Paese per non ab-bandonare i malati e i poveri che con-tavano su di loro. «Le Missionarie dellaCarità hanno deciso di rimanere quifino alla morte. Se la mia missione èper loro, dovrò rimanere con loro» avevascritto mesi prima don Thomas. Tom,come tutti lo chiamavano, è stato fedelealla sua scelta: invece di fuggire alrumore dei primi colpi da fuoco, è corsoin cappella a recuperare le ostie consa-crate per evitare che i terroristi le pro-fanassero. L’unica religiosa sopravvissuta,la superiora della comunità, suor Rioche si trovava in camera al momentodel massacro, ha riferito all’Agenzia dinotizie salesiana ANS che don Tom haconsumato in fretta le ostie, poi iterroristi lo hanno trovato, picchiato echiuso nella loro auto. Prima di fuggire,gli uomini hanno distrutto il tabernacolo,il crocifisso e bruciato il messale. Pochimomenti concitati prima di un lunghis-simo silenzio di tanti, troppi mesi sullasua sorte. Rapito, scomparso, torturato.Forse ucciso. Ma il suo corpo non èstato ritrovato.

DON TOM È ANCORA VIVO?Per il suo rilascio si sono subito mobilitatiin tanti, a partire dalla Provincia salesianadell’India (Bangalore) presente in Yemenda 29 anni, con gli appelli di don MathewThonikuzhiyil, del vicario apostolico

terribile mattina di marzo c’era anche ilcappellano della comunità, don ThomasUzhunnalil, 57 anni, indiano, da 12 anniin Yemen e unico sacerdote rimasto adAden, a causa della guerra tribale e leviolenze contro i cristiani che hannogià fatto oltre 10mila morti e tre milionidi profughi.

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sono vittime dell’attacco di quelli chele hanno uccise e anche dell’indifferenza,di questa globalizzazione dell’indiffe-renza. Madre Teresa accompagni in pa-radiso queste sue figlie martiri dellacarità, e interceda per la pace e il sacrorispetto della vita umana».Insieme alle quattro suore martiri, quella

La scomparsa di don TomUzhunnalil risale al 4marzo 2016, quando adAden, in Yemen, uncommando di uominiarmati ha attaccato unconvento delleMissionarie della Carità,trucidate insieme ad altri12 collaboratori dellacomunità. Da allora sisono succeduti appelli perla sua liberazione,giornate di preghiera,eventi ma il suo destino èancora sconosciuto.

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L’INCHIESTA

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Aden (Yemen). La casa di riposo per anziani dove il 4 marzo 2016 un commando di estremisti islamici uccise quattro suore Missionarie della Carità e rapì don Tom.

M entre i venti di guerra soffiano sugran parte del pianeta, nei Balcani

le cose si fanno sempre più complicate.La terribile crisi greca, l’instabilità del Ko-sovo, l’agonia della democrazia macedone,la difficile situazione in Bosnia, il crimineorganizzato in Albania, lo sviluppo con-traddittorio della Serbia non bastavano ecosì adesso l’adesione del Montenegroalla Nato riapre ferite profondissime erischia soprattutto di far peggiorare i giàprecari equilibri generali dell’aerea.Il 28 aprile scorso è stato ratificato l’ingressonell’Alleanza atlantica del Montenegro. Ilpiccolo Paese, solo 622mila abitanti, siunisce a Slovenia, Croazia e Albania dandoalla Nato il controllo quasi totale del MarAdriatico. La Bosnia, infatti, possiede solo20 chilometri di costa.Secondo alcuni sondaggi, soltanto il 30%della popolazione montenegrina è d’ac-cordo con il premier Duško Markovi etutta l’opposizione parlamentare ha dura-mente contestato la decisione del governo.L’espansione continua della Nato nei Balcanied oltre, verso la Russia, produce effettidevastanti sul piano della convivenza in-ternazionale. La Serbia, pur guidata da unesecutivo fortemente intenzionato ad en-trare nell’Unione europea, ha legami storicicon la Russia ed i suoi cittadini ricordano ipesanti bombardamenti dell’Alleanza suBelgrado. Mosca poi non vede di buongrado l’espansione continua della Natointorno ai propri confini.Il Montenegro, per altro, è un Paese amaggioranza ortodossa e quindi la con-vergenza con la Chiesa russa è fortissima.Dopo la ratifica dell’entrata, il portavocedel Cremlino, Dmitri Peskov, ha parlato di«ritorsioni russe per questioni di sicurez-za».Così il piccolo Montenegro oggi si ritrovaschiacciato tra due mondi. Mentre non sicomprende la necessità di espandere unaalleanza militare che non ha più alcun ne-mico da combattere, visto che il Patto diVarsavia non esiste più.

di Roberto Bàrbera

MONTENEGROTRA DUE MONDI

OSSERVATORIO

BALCANI

dell’Arabia meridionale, monsignor PaulHinder, ma anche della Conferenza epi-scopale dell’india (Cbci), del ministrodegli Esteri indiano Sushma Swaraj e diassociazioni laicali come l’Unione Cat-tolica (Aicu) che ha organizzato vegliedi preghiera per la liberazione di donTom, invitando il primo ministro indianoNarendra Modi ad intervenire. Gruppidi bambini hanno inviato lettere dalleparrocchie di tutto il Kerala, come ri-portano le notizie del quotidiano na-zionale L’indù. Il 29 aprile 2016 a Roma,Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) ha il-luminato la Fontana di Trevi di rossoper ricordare i martiri e don Tom conuna grande foto proiettata sui marmi.Poche e confuse notizie inducono apensare che il missionario, originario diNarapuram nello Stato del Kerala enipote del fondatore della missione sa-lesiana in Yemen, don Mathew Ushun-nalil, sia ancora in vita dopo più di unanno, sospeso sul filo di negoziati chele autorità indiane (e non solo) hannotessuto in questo lungo arco di tempo.Quattro mesi dopo il rapimento, su You-Tube è stato diffuso un video in cui ilsacerdote appare molto provato - quasi

irriconoscibile - dalle torture e dallaprigionia. «La mia salute peggiora. Devoessere ricoverato in ospedale al piùpresto. Vi prego, aiutatemi. Sono pro-fondamente rattristato perché nessunaseria azione è stata intrapresa per otte-nere la mia liberazione» sembra costrettoa dire il salesiano nel breve filmato incui si rivolge anche al pontefice: «Caropapa Francesco, per favore abbi curadella mia vita. E chiedo anche agli altrivescovi di venire presto in mio aiuto.Forse nessuna iniziativa seria è stataintrapresa – ha dovuto sottolineare –perché vengo dall’India. Se fossi statoun prete europeo, sarei stato presomolto più sul serio». Un altro brevevideo è apparso il 19 luglio 2016 sulprofilo Facebook Saleh Salem che peròsi suppone sia stato hackerato.

UN UOMO SOFFERENTESecondo indiscrezioni, il religioso si tro-verebbe ancora nello Yemen, anche senon è possibile stabilire a quando risal-gano le immagini. Il vicario apostolicodell’Arabia meridionale (che comprendeEmirati Arabi Uniti, Oman e Yemen),monsignor Paul Hinder, dai microfoni

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Rapito ad Aden 15 mesi fa

M olti manifestanti indossavano magliettenere con il numero 1948, l’anno della

nakba, la “catastrofe”. Hanno raggiunto ilcentro di Ramallah e sono rimasti in silenzioper 69 secondi, un secondo per ogni anno.Il 15 maggio scorso in Palestina si è ricordatocon dolore il 69esimo anniversario dallanascita dello Stato d’Israele. Il negoziatoredell’Autorità palestinese, Saeb Erakat, hadetto che per i palestinesi è «un ininterrottoviaggio di dolore, perdita e ingiustizia». Eche lo Stato ebraico dovrebbe scusarsi e ri-conoscere il significato della “catastrofe”.Ma queste ormai suonano parole vuote. InPalestina il copione si è cristallizzato comein un film inceppato. La verità è che lapace, quella vera, è sempre più una chimera.Anziché andare verso una soluzione condivisae accettabile dell’infinita controversia, si vaverso la cronicizzazione del conflitto e lasua normalizzazione.Il giornalista Gwinne Dyer scrive che lecolpe sono tante e vanno suddivise tradiversi soggetti. «La principale organizza-zione islamista palestinese, Hamas, hasmesso di riconoscere l’autorità di AbuMazen nel 2009 e da allora governa laStriscia di Gaza come un proto-Stato pale-stinese autonomo». L’Autorità palestineseda parte sua è un centro di potere piuttostodiviso e poco in sintonia con i desideri e lerichieste della gente. Infine Israele è sem-pre più forte militarmente tanto da poteragire come una piccola superpotenzaregionale. «Non ha più bisogno di cedereterritori in cambio della pace», scrive Dyer.Anzi, ha sempre più bisogno della nonpace per giustificare la militarizzazioneperenne e l’aggressività politica.La vera nakba dei giovani è: sonnolentaaccettazione dell’esistente. «Non ci sonoragioni plausibili di credere che non debbadurare altri 50 anni», sempre Dyer. È pro-prio questa la peggiore catastrofe che sipossa immaginare per un popolo giovanedi resilienti.

di Ilaria De Bonis

NUOVA NAKBADEI GIOVANI

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTEDUBBI E SPERANZENell’attesa, la speranza si alterna aidubbi. Senza dimenticare mai le fortimotivazioni di don Tom nel suo servizioal Vangelo con un coraggio che certo loha sostenuto nei momenti più difficili.Don Francesco Cereda, vicario del rettormaggiore dei salesiani, ricorda il grandedesiderio di don Uzhunnalil di «tenderela mano a tutti i bisognosi» ed essere vi-cino agli ultimi «perfino in un contestoin cui la presenza cristiana è fortementeridotta – appena lo 0,1% – come quelloyemenita. Come tanti nostri confratelli,posto di fronte ad una scelta Tom è ri-masto accanto a chi aveva bisogno di

lui, anche se sitrattava in lar-ga parte dimusulmani. Ilmartirio non sicerca, si deveessere fedeliquando capitadi affrontarlo».Per avvicinarcial missionario,per entrare nelsilenzio dellaprigionia edella fede chepuò costare lavita, vogliamorileggere insie-me ai nostrilettori le ulti-me righe scrit-

te con lo straordinario coraggio dell’or-dinaria missione quotidiana dalle Mis-sionarie della Carità di Aden alle consorelledi Roma, pochi giorni prima di essereuccise: «Ogni volta che i bombardamentisi fanno pesanti, ci inginocchiamo davantial Santissimo e imploriamo Gesù di pro-teggere noi e i nostri poveri, di darepace a questa nazione. Confidiamo checi sarà una fine a tutto questo. Insiemeviviamo, insieme moriamo con Gesù e lanostra madre Maria».

di Radio Vaticana ha invitato la comunitàcristiana a pregare per don Tom e perla situazione critica dello Yemen: «Nonsi tratta solo dei cristiani, è tutto ilpopolo a soffrire, ad avere fame, senzacure mediche, tanti bambini muoiono».E ha aggiunto che l’elemento positivodel filmato è «il fatto che il sacerdote è,o sembra essere, ancora vivo» anche se«sembra che parli sotto pressione e se-condo le indicazioni dei rapitori». Unafoto apparsa in rete la scorsa estateche mostra un uomo invecchiato, labarba lunga, smagrito, il volto con leguance scavate, ha aperto ulterioridubbi sul caso “don Tom”. Il segretariodell’Ispettoria sale-siana di Bangalore,don Mathew Tho-nikuzhiyil, si è con-frontato con i«confratelli che me-glio lo conosconoe che condividonola preoccupazionesulla sua sorte».Con il passare deimesi si teme che siappanni l’attenzio-ne internazionalesu questa scompar-sa e che il rapimen-to del salesiano re-sti un grande puntodi domanda senzarisposta. La comu-nità cristiana inter-nazionale invece non si arrende: donTom non è stato dimenticato e le delicatetrattative con il commando jihadistache lo ha rapito continuano nel piùovvio riserbo. Nessuno sa dove sia ora ilsacerdote. Ma siamo certi che sta pre-gando. E in tanti, anche se non lo sa,sono con lui. Il 3 maggio scorso papaFrancesco ha mandato il suo pensiero ela benedizione ai cristiani in Siria e aisalesiani che operano in Medio oriente,ricordando padre Tom.

Le quattro missionarie assassinate.

Don Tom prima e durante la prigionia.

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VIAGGIO NEL DOLORE“Benvenuti in Kudistan!”. È questo il saluto che accoglie ilvisitatore all’aeroporto di Erbil. Segno di un’appartenenza fortealla propria terra, alle proprie radici, messe alla prova da guerreoramai decennali, dall’oppressione di Saddam Hussein, dalDaesh, e forse non è finita. Insieme a Terry Dutto di Focsiv, fonte

inesauribile di notizie e storie, inizia un viaggio intenso, fatto diincontri, di colori, di odori e di storie personali. Terry definiscequello che fa con Focsiv come il sale per il riso: loro arrivano eportano il piccolo dettaglio che rende, per molti nei campi in Kur-distan, la vita più dignitosa. Che sia un sorriso, un pacco dipasta, un medicinale o un libro. La guerra non è lontana neanchedue ore di macchina e si è ad Hammam Al Alili, a pochi chilometri

A cura di EMANUELA [email protected]

Testo e foto di LAURA [email protected]

Bambini yazidi in un campo profughi a Erbil.

S C A T T I D A L M O N D O

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Tutto il villaggio è stato trasformato in una zona militare. Molte lecase requisite ed adibite a caserme o come ospedali. Comequello di Medici Senza Frontiere, per i feriti più gravi, che dopo lastabilizzazione partiranno per Erbil o altri centri. La cittadina, cheprima della guerra aveva circa 50mila abitanti, oggi ne contaoltre 100mila con i due campi per gli sfollati che arrivano inpullman dalla città assediata. A fianco del primo campo

da Mosul Ovest. Il villaggio è stato liberato nell’attacco a MosulEst e si trova a Sud della città. Da qui è partito l’attacco alla parteOvest. Qui ha sede il quartier generale delle truppe irachene che,con il sostegno degli americani, sta sferrando l’attacco conclusivoal Daesh sul fronte di Mosul. E circola voce che il periodo del Ra-madan (che termina il 24 giugno) potrebbe essere decisivo perla sorte della città sunnita.

Distribuzione del cibo nel campo di Dibaga.

DA ERBIL A MOSUL

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Ragazze del corso di formazionesartoriale Focsiv a Kirkuk.

Campo di Ankawa a Erbil.

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iracheni, quando è possibile, offrono un po’ di cibo e acqua, manon basta. Chi è nell’inferno di Mosul ha fame e sete, bisogno dimedicine e letti sicuri. Uomini, donne, bambini che da troppotempo convivono con la paura conoscono la guerra come l’unica“normalità”. La loro speranza è riuscire a raggiungere un campoprofughi. E a quella si aggrappano con tutte le forze, le pocheche rimangono.Ad oggi dalla città sono uscite circa 500mila persone, ma nellacittà vecchia ce ne sono ancora oltre 200mila. La vera emergenzariguarda la quotidianità, anche con le urgenze sanitarie come icodici rossi (ferite che richiedono operazioni chirurgiche urgenti)e gialli (fratture). I traumi più frequenti sono da armi da fuoco,esplosioni, mortai, schiacciamento (i muri di una casa che ticrollano addosso). Moltissimi i casi di malnutrizione tra i bambini.Tante le ferite invalidanti, soprattutto tra i più piccoli, che rappre-

l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) sta approntandonuove tende dove poter ricevere una parte dei cittadini ancorarinchiusi nella Medina. A Mosul Ovest si combatte casa percasa, dopo che i bombardamenti di marzo scorso hannoprovocato centinaia di vittime tra i civili. Una guerriglia cittadina,senza esclusione di colpi.

ORRORE QUOTIDIANOLa popolazione vive barricata in casa per evitare i colpi incrociatidei cecchini o per non finire nelle mani dei terroristi che liutilizzano come scudi umani. Non c’è acqua (se non in alcunezone che vengono rifornite dalla organizzazioni internazionali), nécibo. Il senso della vita ha dimensioni diverse in questa cittàspettrale, devastata dai colpi di mortai e cannoni. I pochi civiliche escono dalle case cercano qualcosa tra le rovine. I soldati

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S C A T T I D A L M O N D O

Interno ed esterno dellaCattedrale di Qaraqosh.

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DA ERBIL A MOSUL

sentano il 20% dei ricoveri, mentre il 40% sono donne. Mabisogna anche pensare alle bronchiti, ai parti, all’ipertensione,alle infezioni classiche. Una medicina generale che rischia diessere sommersa dagli orrori della guerra. All’interno della cittàci sono cliniche mobili che stabilizzano i feriti gravi, ma nonpossono operare e quindi i pazienti vengono trasportati a 30minuti dalla città. Qui i più gravi vengono assistiti, quelli che, senon soccorsi entro un’ora, rischiano la vita. Gli altri vengonodistribuiti negli altri ospedali tra Erbil e dintorni.

OSPEDALI AL COLLASSOGli ospedali di Erbil sono al collasso per il numero di feriti graviche arrivano dal fronte. E lo sono anche perché lo Stato nonpaga più gli stipendi del personale da mesi e comunque gli stessisono ridotti di circa il 60%. Mancano attrezzature, medicinali.

Nella città del Kurdistan ha riaperto l’ospedale di Emergency,lasciato agli iracheni dal 2004, e riattivato a febbraio scorso. Lasituazione era gravissima: infezioni ospedaliere all’80%, pocaigiene, personale scarso. A oggi la situazione è nettamentemigliorata anche se gli arrivi ogni giorno sono tanti soprattuttoper quanto riguarda la fascia d’età sotto i 15 anni. Crea ancorapiù apprensione quello che potrà succedere tra poco nei campi,quando le temperature saliranno oltre 30 gradi sino ad arrivare ai50 dei mesi più caldi. Mancano strutture sanitarie all’interno chepossano aiutare i rifugiati nella quotidianità. L’onda dell’emergenzasta facendo dimenticare che oltre i feriti ci sono tante personeche hanno bisogno di assistenza, di cure. E di cibo. Le ong inter-nazionali fanno i salti mortali per riuscire a distribuire il cibo. Cisono anche piccole organizzazioni come Focsiv, che ogni giorno,nei tanti campi che da Mosul arrivano fin verso Kirkuk, distribuisconopacchi alimentari: 10 chili a famiglia. Focsiv è anche impegnatanel campo attrezzato, conosciuto con il nome Ankawa 2, nelquale sono presenti mille container forniti di acqua potabile e difognature. Qui sono ospitate circa 1.200 famiglie, pari a circaseimila persone, il 50% sono ragazzi da zero a 18 anni. QuiFocsiv mette il suo “sale” e cioè segue una serie di attività: unasilo pre-scolastico, un centro ricreativo, un centro di formazionealle arti marziali, un centro per interventi formativi di diversogenere (linguistico, sociale e informatico, un campo da calcio epallavolo). Focsiv a questo impegno affianca la fornitura dimedicinali per le terapie croniche e quella di strumenti e articolisanitari per le comunità degli sfollati (sedie a rotelle, stampelle,ecc.). Si occupa anche delle comunità yazide, presenti in varielocalità dell’area, perché si possano realizzare delle soluzioni chepermettano una vita dignitosa in una situazione complessa. GliYazidi, purtroppo, sono spesso dimenticati sia dalle agenzie in-ternazionali che dalle autorità locali. Una goccia di solidarietà inun mare di fame e sete.

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Ospedale diEmergency ad Erbil.

Campo profughi di Hammam al Alili.

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“Paolo Dall’Oglio.Profezia messa a tacere”è il primo libro collettivosul pensiero e la vita dipadre Paolo Dall’Oglio,edito da San Paolo, in

libreria dal 26 maggio.

«L ontano dal frastuono dei jet militari che fischiavano nei cieli del Li-bano in guerra, un uomo solitario, dalla corporatura imponente, po-

sava il suo zaino sulla terra polverosa al confine delle terre abitate di Siria.Alle spalle c’era un sentiero impervio, quello che lo aveva accompagnatofin lassu dall’ultimo villaggio abitato. Di fronte a sé aveva il muro di pietradi quel che sembra un antico castello. Dentro l’oscurita. E poi di nuovo laluce, accecante, di uno spiazzo aperto sul vuoto del deserto siriano. L’uo-mo arrivava cosi a toccare il cielo e la terra del convento di san Mosé l’Abis-sino (Mar Musa al-Habashi): era l’agosto del 1982. Lui, Paolo Dall’Oglio,vi giungeva di proposito e per caso». Comincia così il saggio di LorenzoTrombetta che apre il volume “Paolo Dall’Oglio. Profezia messa a tacere”,il primo libro collettivo sul pensiero e la vita di padre Paolo Dall’Oglio, edi-to da San Paolo, in libreria dal 26 maggio.

Padre Paolo e la

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Trombetta, «sorgerà la tenda di Abramo,luogo di incontro, dialogo, riflessione, trarappresentanti illuminati del cristianesimoe dell’islam». Trent’anni dopo, nell’estatedel 2012, Paolo Dall’Oglio rimise sulle spal-le il suo zaino lasciato all’ingresso diquello che è ora il monastero restaurato eampliato. La porta non era piu a terra. Unanuova, ma sempre impolverata e cotta dalsole, ha ritrovato gli antichi cardini di fer-ro.Si legge ancora nel libro: «Paolo ha ripre-so il cammino verso la valle abitata del Qa-lamun. E ha salutato – forse è stato un ad-dio – la terra che mi ha stregato dalla pri-ma volta che ci sono passato da turista nel1973, quando avevo 19 anni. Ho stampa-to nella mia immaginazione le asperità at-traenti delle sue montagne mentre studia-vo l’arabo, l’islam e il cristianesimo orien-tale a Damasco nel 1980».Questo libro, pensato dai suoi amici del-l’Associazione Giornalisti Amici di PadreDall’Oglio, mette insieme testi di caratte-re, appunto, giornalistico, sulla sua figu-ra e il suo impegno per il dialogo, e con-tributi scientifici sul suo pensiero. Sono ledue sezioni del libro, intervallate da un’am-pia sintesi curata da Stefano Femminis, diquanto Dall’Oglio scrisse negli anni prece-denti il sequestro sul web magazine dei ge-

Padre Paolo venne espulso dalla Siria nel2012 per le sue critiche alla repressione vio-lenta di Assad alle manifestazioni pacifiche.Il gesuita è stato sequestrato a Raqqa il 29luglio 2013. E da allora nessuna notizia at-tendibile si è avuta al suo riguardo.All’epoca del suo primo arrivo in Siria ne-gli anni Ottanta, una vecchia guida della re-gione pubblicata nel 1938 aveva indicatoal gesuita l’esistenza delle rovine di un an-tico monastero a Est della strada che col-lega Damasco con Homs, nel Qalamunorientale, la zona collinare che cede il pas-

so alla badiya, l’ampia distesa di steppa.«In quell’estate cosi densa di avvenimen-ti per tutto il Medio Oriente – scrive anco-ra Trombetta - si era liberato finalmente daun impegno di lavoro e aveva accompa-gnato in Siria una delegazione della Cari-tas, per correre alla ricerca di un luogo damolto tempo cercato per aprire il cuore ela mente in un ritiro spirituale. Decise di ri-manere a Mar Musa». Il cielo stellato lo haaccompagnato in quella prima esaltanteesperienza mistica sul selciato dissestatodove, molti anni piu tardi, scrive sempre

suiti “Popoli”. Scrive nell’introduzione il con-fratello padre Federico Lombardi: «Sono pursempre le sue parole, soprattutto le ultime– ben scelte nella parte centrale del libro– a toccarci con quella forza e quella pas-sione che ha segnato e continuerà a segna-re ogni nostro incontro con lui. Quando ciparla della speranza che lo animava, dice:“La speranza è dell’ordine del combattimen-to, non delle previsioni” (luglio 2013).Quando ci parla della morte del padre Mu-rad: “Il suo martirio è gloria per la Chiesae pessima notizia per la rivoluzione si- »

a profezia violata

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riana... La lotta è impari...” (ultima lettera,meta luglio 2013)».I contributi della prima parte del libro per-mettono di ripercorrere le tappe della vitadi Paolo, della sua vocazione religiosa, delsuo incontro con l’islam, con la Siria, delsuo trovare nell’antico monastero di DeirMar Musa il luogo dove vivere e condivi-dere la straordinaria esperienza di incon-tro e dialogo religioso tra cristianesimo eislam. Perché Paolo è un gesuita, un reli-gioso, un sacerdote, un monaco che piùdi 30 anni fa, alla vigilia della sua ordina-zione diaconale, scriveva ai suoi cari di avercapito, nel discernimento con i suoi supe-riori, che la sua «missione è in tre parole:quella di essere prete nella Chiesa in dia-

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Alogo». E di esserlo nella Chiesa siriana an-tiochiana, che risale alla predicazione de-gli apostoli, che prega in siriaco come fa-ceva anche Gesù, ma che «non rifiuta diesprimersi in arabo, di pregare in arabo, lalingua dei figli d’Ismaele, dei musulmani,con i quali il Signore l’ha messa a contat-to da tanti secoli perché, nella fedelta e nel-la sofferenza, si prepari il giorno del rico-noscersi di tutti i figli d’Abramo nell’unicaVia, la Misericordia del Padre».A questa missione Paolo è stato fedele concostanza e con il suo straordinario corag-gio umano e spirituale, percorrendo una viaoriginale e coerente, in discernimento e dia-logo, non senza difficoltà, per continuaread essere, come aveva promesso, nella

Chiesa e nella Compagnia di Gesù. La ri-costruzione del monastero di Deir MarMusa, la fondazione di una nuova comu-nità monastica, la preghiera e l’acco-glienza, i mille incontri e i dialoghi religio-si (“religiosi” davanti a Dio, non “interre-ligiosi” tra confessioni, insiste Paolo) sot-to la “tenda di Abramo”... Tutto ciò costi-tuisce eredità preziosa e durevole. Nella li-nea di una mistica dell’impegno sociale (ediciamo pure “politico”), l’itinerario diPaolo giunge infine in questi anni dramma-tici e terribili a un intercedere, stare in mez-zo, a prezzo della vita, ma questo non èl’unico esito del suo servizio e non ne è lafine.Giustamente in queste pagine fanno capo-lino nomi ed esperienze che Paolo cono-sceva bene – Massignon, Charles deFoucauld, Christian de Chergè e i monacidi Tibhirine – che ci aiutano a comprende-re che Paolo, pur nell’originalità della suaesperienza, non è solo nella Chiesa. Giu-stamente leggiamo testimonianze intensedi amore e gratitudine dei musulmani chehanno condiviso con Paolo l’esperienza del-l’incontro e della speranza «del riconoscer-si di tutti i figli di Abramo nell’unica Via, laMisericordia del Padre».

Hanno contribuito a questo lavoro di riflessione e memoria:Nader Akkad, imam di Trieste, responsabile per il dialogo interreligioso dell’Ucoii(Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia);Paolo Branca, associato di Lingua e Letteratura Araba all’Universita Cattolica di Milano,dove insegna anche Islamistica e Storia dei Paesi Islamici;Laura Silvia Battaglia, giornalista;Massimo Campanini, filosofo e orientalista. Già docente di Storia contemporanea deiPaesi arabi nella Facolta di Studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo dell’Università diNapoli l’Orientale e professore associato presso l’Università di Trento. E accademicodell’Accademia Ambrosiana di Milano;Pierluigi Consorti, docente all’Università di Pisa, tra i fondatori del Centro interdisci-plinare “Scienze per la pace”, è stato il vicepresidente del Corso di laurea magistrale inGiurisprudenza. E membro dell’International Consortium for Law and Religion Studies;Antoine Courban, docente presso l’Università Saint Joseph di Beirut, dove dirige larivista “Opere e giorni”;Riccardo Cristiano, giornalista;Asmae Dachan, giornalista;Stefano Femminis, giornalista, è stato direttore del web magazine dei gesuiti,“Popoli”;Shady Hamadi, giornalista e scrittore;Marco Impagliazzo, docente di Storia contemporanea all’Università di Perugia, è pre-sidente della Comunità di Sant’Egidio;Luciano Larivera, sj, gia scrittore per “La Civiltà Cattolica”, teologo morale, direttoredel centro culturale “Veritas” di Trieste;Federico Lombardi, sj, già direttore di Radio Vaticana e della Sala Stampa Vaticana, èpresidente del Consiglio d’Amministrazione della Fondazione Joseph Ratzinger;Adnane Mokrani, docente di lingua araba e islamistica presso il Pisai (Pontificio Istitutodi Studi Arabo Islamici) e l’Università Gregoriana;Amedeo Ricucci, giornalista;Lorenzo Trombetta, giornalista e saggista.

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LO SCENARIO POLITICO AFRICANO

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INTERNAZIONALI. IL CONTINENTE ATTRAVERSA UN DELICATOPASSAGGIO STORICO CON VALENZE POLITICO-ISTITUZIONALI,ECONOMICHE E MILITARI CHE METTONO IN LUCE L’INTRECCIODI UNA RETE DI INTERESSI LOCALI E INTERNAZIONALI.

Rinascimento(im)possibile?

di Giulio Albanese - [email protected]

L’AFRICA AL CENTRO DI STRATEGIE L’AFRICA CHE CAMBIA,

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I n questi anni si è molto parlato di un possibilerinascimento africano in riferimento all’orgoglio

politico di un continente che, nelle sue moltepliciespressioni, avverte il bisogno di voltare pagina.A postulare per primo questo indirizzo fu il com-pianto Nelson Mandela, primo presidente del Su-dafrica post-apartheid. Era infatti convinto chefosse possibile contrastare quella concezionedello Stato-nazione che tanti disastri ha causatofin dagli albori della stagione post-coloniale, neglianni Sessanta. Per Mandela le giovani generazionisarebbero state, prima o poi, in grado di spazzarevia quelle parodie dei sistemi statuali occidentali,che si traducono, ancora oggi, in governi personalie autocratici fondati sul nepotismo e la corruzione,esercitati a favore di una o più componenti etnicheall’interno di uno stesso Paese. A questo riguardo,

Basil Davidson, uno dei maggiori africanisti delsecolo scorso, recentemente scomparso, stigma-tizzava le pesanti responsabilità delle ex potenzecoloniali nella captazione di élite autoctone che siprestano tuttora impunemente al mantenimentodi rapporti economici ineguali seppure informali.Sebbene oggi questi influssi permangano, è cre-sciuta notevolmente la schiera delle entità straniereche guardano al continente con grande bramo-sia.

Oligarchie localiBasti pensare all’influenza crescente della Cinache intrattiene proficue relazioni diplomatiche ecommerciali con tutti i governi dell’Unione africa-na (Ua). Sta di fatto che l’analisi di alcuni scenariinfuocati, in cui la conflittualità non ha solo una

Nelson Mandela (1918-2013), Nobel per la Pace nel 1993,presidente del Sudafrica dal 1994 al 1999.

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valenza politico-istituzionale, ma anche mili-tare, come nel caso emblematico dellaRepubblica Democratica del Congo, mette inluce l’esistenza di circuiti politici legati ad isti-tuzioni, eserciti e milizie private, signori dellaguerra locali, compagnie multinazionali, fina-lizzati allo sfruttamento delle risorse naturali(fonti energetiche in primis) presenti sul ter-ritorio e ovviamente del tutto indipendenti daqualsiasi forma di consenso o legittimazionepopolare. Non a caso, l’ex governatore dellaBanca Centrale del Ghana, FrimpongAnsah, arrivò a definire gli Stati africanipostcoloniali addirittura come “stati-vampi-ro”, biasimando il drenaggio del denaro pub-blico e delle risorse perpetrato dalle oligar-chie locali secondo logiche clientelari e pre-datorie. Altri studiosi, come Jean-FrançoisBayart, ritengono che questo processodegenerativo sia attribuibile all’incapacitàdistributiva delle risorse in direzione dellosviluppo e del benessere sociale, a causadel perdurante asservimento a fazioni etni-che incapaci di servire la res publica. Maqualunque sia la spiegazione storica, è logi-co chiedersi: è possibile cogliere un percor-so evolutivo nelle politiche nazionali africa-ne? L’interrogativo è fondato sull’esigenza disapere se è ammissibile l’individuazione diun percorso di crescita nella recente storiapost-coloniale del continente.

La convenzione di LoméLa cronaca dei fatti è contrastante. Fino allafine della “guerra fredda”, lo scenario politicoafricano è stato dominato da uno sciame diautocrazie più o meno mascherate, ideologi-

camente più o meno dure, le cui legittimità eranofondate sul retaggio coloniale, sul partito unico esulla compiacenza interessata dei due blocchi.Con la caduta del muro di Berlino, questi poten-tati cominciarono a scricchiolare non reggendoall’urto di stimoli endogeni e spinte esogene, pre-figurando nuovi assetti di potere che potevano,almeno sulla carta, segnare la svolta. Si comin-ciò allora a parlare a squarciagola di democratiz-zazione come se fosse davvero scoccata l’oradella società civile. Come dimenticare, all’iniziodegli anni Novanta, le piogge di emendamenticontro la pretesa europea di condizionare gli aiutial rispetto delle regole democratiche durante lememorabili assemblee Acp (Africa, Carabi,Pacifico)-Cee (l’allora Comunità europea)?Quella sorta di parlamento della cooperazione

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Nord-Sud, istituito dalla Convenzione di Lomédel 1975, si rivelò un laboratorio nel quale sitentò di incorporare nel patrimonio politico africa-no valori e pratiche di importazione. Ciò richiesetempo, risorse (che la comunità internazionalefinora ha lesinato) e probabilmente aggiustamen-ti, talora anche corposi. Il rispetto dell’agenda deidiritti umani e le forme di rappresentanza parteci-pative, d’altronde, sono al di là della transizionedemocratica “formale”; la dialettica dei gruppi,degli interessi economici, delle aspirazioni popo-lari, spinsero a ricercare forme di rappresentanzapolitica più adeguate anche se in un quadrogenerale di grande precarietà, in base alla com-posizione etnica, all’articolazione geografica, allafede religiosa. Allora non mancarono (e nonmancano tuttora) le delusioni se si pensa all’in-stabilità della Regione dei Grandi Laghi o delCorno d’Africa. In effetti, la ricerca dei nuovimodelli di legittimazione deve sempre e comun-que fare i conti con il quadro economico nelquale si confrontano i macro-processi della glo-balizzazione e le soluzioni locali dei problemidella vita quotidiana. Ma proprio queste implica-zioni richiamano il punto dal quale eravamo par-titi. Le responsabilità di quei governi occidentali -che, almeno sulla carta, avrebbero dovuto pro-muovere la democrazia e la partecipazione -sono di due ordini: politico e solidaristico. Il primoè indubbiamente marcato dagli Stati Uniti, la cuipolitica africana si è caratterizza in questi anniper un notevole pragmatismo incentrato sui rap-porti bilaterali con i singoli Paesi e la creazione dicondizioni vantaggiose di mercato, idonee a per-seguire strategie di globalizzazione.

Il modello americano e quello europeoEcco che allora il modello “Usa” in Africa si è evi-denziato sempre più come una sorta di “grandedorsale”, con tutte le differenze pur percepibili, aseconda che Washington fosse retta dai demo-cratici o dai repubblicani. Sebbene al momentonon sia ancora chiaro cosa intenda fare l’impre-vedibile Donald Trump, è difficile che comunqueegli consegni all’Impero del Drago quelle conces-sioni legate al business delle commodity, tantocare ai suoi predecessori. L’Unione europea(Ue), invece, appare pervasa da atteggiamenticontrastanti: in sede comunitaria si enuncia ilprincipio della multilateralità, mentre i singoligoverni - soprattutto Francia e Regno Unito(prima e dopo la Brexit), ma anche Germania eBelgio - si muovono all’insegna del bilateralismo,come se i rapporti con i singoli Stati africani »

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insegnamenti, rilanciando il confronto nell’ambitodelle sedi internazionali, Nazioni Unite in testa,elaborando il compromesso, inteso nella sua piùnobile accezione etimologica: quella del cum pro-mettere, cioè del promettere insieme un impegnodi pace per il futuro atteso e sperato dai popoli.Come ebbe a dire il nostro Augusto Monti, «il pre-sente è lava in moto, e a giudicare si potrà soloquando la colata sarà fredda e ferma».

La politica africana precolonialeÈ opinione diffusa che prima dell’arrivo dei colo-nizzatori europei, l’Africa fosse una sconfinatadistesa di terre popolate da miriadi di gruppi etni-ci litigiosi e incapaci di adottare le più elementari

prescindessero dagli impegni della Commissionedi Bruxelles. Una cosa è certa: per quanto ilnumero dei Paesi democratici nel continente,almeno dal punto di vista formale, sia oggi il piùalto della storia, in Africa persiste ancora unagrande varietà di regimi genericamente definibilii quali, con sfumature e camuffamenti diversi,tendono da una parte a ridurre considerevolmen-te o addirittura a eliminare del tutto il pluralismopolitico, privando le popolazioni dei diritti e dellelibertà fondamentali; mentre dall’altra gestisconol’assegnazione e distribuzione del potere politicocon l’uso della forza nei confronti di ogni forma didissidenza. Pertanto il dibattito parlamentare e ilcoinvolgimento della società civile subiscono fortilimitazioni. Bisogna, tuttavia, prendere atto che viè un dibattito aperto in merito alla possibilità chela democrazia liberale di stampo occidentale siail modello universale verso cui dovrebbero tende-re inesorabilmente tutte le nazioni, indipendente-mente dalla loro tradizione storica e culturale. Aquesto riguardo è provocatoria e al contempoilluminante la posizione dell’economista premioNobel Amartya Sen, nato nel Bengala nel 1933.Nel suo “La democrazia degli altri. Perché lalibertà non è un’invenzione dell’Occidente”, latesi è che le obiezioni scettiche «sull’opportunitàdi proporre la democrazia per popoli che, a quan-to si afferma, non la conoscono» e «su ciò che lademocrazia può effettivamente realizzare neiPaesi più poveri» presuppongono una concezio-ne «troppo ristretta» e «limitata» della democra-zia, identificandola con le «pubbliche votazioni»o il «governo della maggioranza». Una correttaconcezione della democrazia, invece, rimandaper Sen all’«esercizio della ragione pubblica» edunque alla «garanzia di un dibattito pubblicolibero e di interazioni deliberative nel pensiero edella pratica politica», alla «salvaguardia delladiversità delle dottrine». In altri termini, «la demo-crazia è un sistema che esige un impegnocostante, e non un semplice meccanismo (comeil governo della maggioranza), indipendente edisolato da tutto il resto». Alla luce di queste tesi,Sen sostiene che per attribuire alla democraziavalore universale non è necessario che si esercitisu di essa un consenso generale. Piuttosto,occorre «stabilire se in ogni parte del mondo gliuomini possano avere ragioni per considerarlotale». Se da una parte è vero che Sen si esponeal rischio di fornirne una nozione di “democrazia”eccessivamente ampia e tanto flessibile da inclu-dere qualsiasi regime (dalla democrazia diretta almodello Westminster, al dispotismo illuminato),dall’altra sarebbe opportuno fare tesoro dei suoi

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no imperi più vasti di qualsiasi moderna nazioneeuropea. Sta di fatto che la storia africana preco-loniale non è mai entrata nei testi scolastici occi-dentali. Per esempio, chi ha mai studiato a scuo-la le vicende del grande Regno del Ghana (odOugadou), abitato dal popolo soninke, che rag-giunse il massimo dell’espansione nell’XI seco-lo? Si trattava di uno Stato ricco e fiorente che siestendeva a Nord del fiume Niger e comprende-va buona parte della Mauritania sud-orientale edel settore occidentale del Mali. O chi ha sentitoparlare di Sundjata Keita, mitico eroe del popolomalinke? Eppure attorno alla metà del XIII secolofondò il Regno del Mali che copriva un’area geo-grafica vastissima, dalle coste atlantiche

forme di organizzazione politica. Si tratta di unfalso storico. Ci si dimentica che in Africa, a diffe-renza di quanto avvenne nelle Americhe, lapotenza degli Stati autoctoni fu tale da scorag-giare sino all’epoca della rivoluzione industriale,all’incirca il XIX secolo, qualsiasi conquista suscala continentale. Contrariamente a quanto sipensa, gli insediamenti portoghesi lungo le costeafricane non furono che un primo tentativo dipenetrazione; la colonizzazione vera e propria siavrà solo nell’Ottocento, grazie anche alle spedi-zioni di innumerevoli esploratori e missionarieuropei. A ciò si aggiunga che i sovrani africani,dai quali i negrieri acquistarono la merce umana,a partire dalla fine del Quattrocento, governava-

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Il fiume Niger in prossimità di Bamako in Mali.

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del Senegal e della Sierra Leone alla città di Gao,sulle rive della grande ansa del fiume Niger. Cosìa molti è sconosciuta la storia dell’imperoSonghai, un popolo che viveva lungo le spondedel medio Niger. Alla fine del XV secolo essodivenne il più grande Stato dell’Africa precolonia-le. Secondo gli storici era diviso in province retteda governatori di nomina imperiale, alle cuidipendenze c’erano pubblici funzionari incaricatidella pianificazione economica del territorio, dellagestione delle entrate e della giustizia. La sicu-rezza delle vie commerciali era affidata a dueforze armate, esercito e marina, composte preva-lentemente da regolari. Più tardi, alla fine delSeicento, si impose il potente Stato degli Ashantisotto la guida carismatica di Osei Tutu: questoRegno estese il suo controllo lungo tutte le costedegli odierni Stati del Ghana e della Costad’Avorio. Quello degli Ashanti fu certamente il più

potente degli Stati che si svilupparono tra la finedel Quattrocento e l’Ottocento sulla dorsaleatlantica, dalla foce del Senegal sino ai confinioccidentali del Camerun. Questi governi autocto-ni si consolidarono fortemente con l’intensificarsidegli scambi commerciali con l’Europa e natural-mente gli schiavi erano la merce più pregiata.L’ultimo dei grandi regni della costa fu quello delBenin, che raggiunse il periodo di massimosplendore a cavallo tra il XV e il XVII secolo.Retto da integerrimi sovrani (Oba), questo Stato,a forte impronta legalista, sorgeva a ridosso delvasto delta del Niger e si estendeva su un’area didensa foresta tropicale di circa 300mila chilome-tri quadrati. Tra l’eredità che ha lasciato al mondovi sono preziosissime opere d’arte.Alla luce di questo breve e approssimativo excur-sus storico s’impongono alcune riflessioni.Anzitutto va riconosciuta la dignità degli antichiStati africani, espressione di un potere politico eculturale ben più vasto e articolato di quantosuperficialmente si possa immaginare. A eserci-tare il governo erano classi egemoni, a voltedinastie, che avevano ai loro ordini un apparatomilitare e uno burocratico capace di riscuotere eamministrare le imposte dei sudditi. È vero chel’organizzazione politica dei regni non si estesein modo uniforme su tutto il continente, vistaanche la moltitudine di “Stati senza Stato”, cioèpiccoli gruppi tribali di agricoltori senza normestatuarie. Ma è anche vero che si consolidò gra-dualmente un rapporto tra Africa ed Europadovuto ai crescenti scambi commerciali. Merce discambio privilegiata era il prezioso “legno d’eba-no”, così venivano chiamati in codice gli schiavi,unitamente alle armi da fuoco che giocarono unruolo di primo piano, come oggi d’altronde, per laconquista e il controllo del potere. Prima dell’epo-pea coloniale ottocentesca, sui 30.258.010 chilo-metri quadrati del continente africano non regna-va l’anarchia: nel bene e nel male vi furono formedi governo, anche dispotiche, su tutto il territorio.È vero che le classi dirigenti locali legittimaronodi fatto lo schiavismo, sacrificarono la propriagente per trarne profitti iniqui. Lo schiavismo fuuna vergogna per tutti: per i mercanti europei, inegrieri, che comprarono senza scrupoli lamerce umana, e per i capi africani che barattaro-no milioni di giovani con rhum, acquavite, polvereda sparo e fucili. Ma queste élite pagarono essestesse un prezzo altissimo poiché furono schiac-ciate a una a una dalle potenze coloniali: l’ultimosovrano degli Ashanti si arrese nel 1896 a uncorpo di spedizione venuto dal mare per fare delsuo Regno una colonia della Corona britannica.

Investimentipetroliferi cinesiin Africa.

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di tutto il mondo si rivolgono alla loro fede religiosaper avere una guida che permetta loro di lavorarecon efficienza e attenzione alle persone, al benecomune, pur rimanendo in dialogo con il volto se-colare della società.

I politici rispondonoPapa Giovanni Paolo II, in occasione del Sinododei Vescovi sulla Nuova evangelizzazione, chieseun annuncio della dottrina sociale dalle periferieal centro della società. I legislatori cattolici possonoessere in prima linea per annunciare e realizzarequesto insegnamento nel contesto del loro lavorolegislativo. L’attenzione al bene comune, chespesso manca perché le persone sembrano piùinteressate ad una gratificazione immediata rispettoa progetti a lungo termine, sta premendo percreare una visione globale, che va oltre i confiniangusti di una circoscrizione. Un indicatore di at-tenzione a questo argomento è il fatto che alcunipolitici sono in cantiere per la canonizzazione.Quando San Tommaso Moro fu proclamato pro-tettore di tutti i politici e legislatori, il papa invitò leChiese locali a riscoprire nella loro storia queipolitici che hanno dato un servizio alla comunità,alla luce del Vangelo. Tradizionalmente, la

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Un networkper l’Africa

PARLAMENTARI E LEGISLATORI CATTOLICI

di Francesco Pierli eGiuseppe Caramazza

A gli inizi del marzo scorso, in un Centrocongressi di Karen, un quartiere di Nairobi,

25 parlamentari di quattro Paesi africani - Kenya,Uganda, Malawi e Zimbabwe - si sono incontratiper iniziare un cammino di cooperazione conti-nentale. Questo incontro è stato il punto di arrivodi un lungo cammino iniziato in Kenya nel 2012.Tra i parlamentari keniani c’erano alcuni cattoliciche desideravano un sostegno da parte dellaChiesa, e che non volevano solamente un ac-compagnamento spirituale. Da quell’incontronacque un’iniziativa di supporto spirituale ed ac-cademico chiamata CAMPSSI (Catholic Membersof Parliament Spiritual Support Initiative).CAMPSSI e l’Università Tangaza hanno firmatoun protocollo di intesa. I membri si incontranoogni settimana per la celebrazione eucaristica in

Parlamento. Si or-ganizzano incontrimensili di forma-zione permanente,ritiri trimestrali peri parlamentari e leloro famiglie e dal2013 CAMPSSI ècollegata con l’In-ternational CatholicLegislators Net-work.L’incontro è statol’occasione per re-gistrare la crescen-te attenzione daparte dei politiciverso il messaggiocristiano e la tra-sformazione socia-le del mondo. Sem-pre di più, i politici »

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LA CRESCITA E LA FORMAZIONE DELLA SOCIETÀCIVILE AFRICANA, VISTE ATTRAVERSOL’ESPERIENZA DI GRUPPI DI PARLAMENTARI ELEGISLATORI CATTOLICI. ESPERIENZE INDIVIDUALIIN RETE: UN NUOVO ORIZZONTE DI IMPEGNO PERDARE SPESSORE E SOLIDITÀ ALLE ISTITUZIONI DEISINGOLI PAESI DEL CONTINENTE.

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Significa attenzione al bene comune contro ilprofitto personale, o il profitto di un gruppo etnicoo del partito contro degli avversari. Questa è la

logica dietro l’attenzionedi CAMPSSI alla forma-zione attraverso la Scuoladi politica e altre iniziativeche offrono conoscenzae competenza ai parla-mentari. Questa compe-tenza in più potrebbe es-sere il risultato di una pre-parazione ad hoc, ma an-che di preparazione re-mota. I legislatori africanipresenti alla riunione han-

no notato l’importanza di abbinamento dei lorogruppi con un istituto accademico, come ha fattoCAMPSSI con l’Università Tangaza. Questa con-nessione ad una università cattolica è importanteper offrire sostegno e informazione specializzata.I legislatori cattolici non possono pensare adun’azione politica basata solo sull’appartenenzapartitica. La collaborazione dovrebbe essere tra-sversale, unendo tutte le fedi e i partiti politici.L’attenzione ai poveri, la lotta contro la corruzione,l’attenzione per l’ambiente e altre questioni importantisono l’interesse di tutti, non importa il partitopolitico di appartenenza.

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ermaggior parte dei santi sono stati scelti tra ireligiosi. Eppure nessuna vera trasformazionepuò avvenire senza la forte presenza di legislatoriispirati ai valori evan-gelici. Qui in Africa c’èJulius Nyerere; in Eu-ropa, i fondatori del-l’Unione europea, Ro-bert Schuman, Alcidede Gasperi, come an-che figure come GiorgioLa Pira che hanno datoun esempio che puòessere seguito dai po-litici di oggi.

Più politica e meno economiaIn questo momento una delle tendenze dei governiè sostenere la predominanza dell’economia sullapolitica. Si tratta di una visione che privilegia ilprofitto ad altri valori, in particolare il bene comune.Qui vediamo il notevole apporto dato da BenedettoXVI con l’enciclica sociale Caritas in Veritate. Unpunto di forza della dottrina sociale della Chiesa èquello di sostenere il primato della politica sul-l’economia. Papa Giovanni XXIII ha evidenziatonella sua grande enciclica Mater et Magistra ivalori dell’integrità, della competenza e della col-laborazione. L’integrità è l’opposto della corruzione.

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Kenny e i ragazzidi Korogocho

K enny aveva 17 anni quando è venuto la primavolta in uno dei nostri centri per ragazzi di stradanella baraccopoli di Korogocho a Nairobi. Subito

ci siamo accorti che non era un ragazzo facile. È venutoda noi per conoscerci e metterci alla prova e in »

Kenya, dalla strada a una nuova vita

Napenda Kuishi Rehabilitation è un programma diriabilitazione per ragazzi di strada a Nairobi,gestito dai missionari Comboniani, comeracconta il direttore, padre Maurizio Binaghi, ainostri lettori. Il programma di recupero si svolgepresso Korogocho, Dandora, Huruma, tre localitàdifficili nella zona di Kariobangi, nella periferiaEst di Nairobi dove esistono più di 200 slum.

di MAURIZIO [email protected]

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

incontrare ragazzi e giovani di strada diNairobi ed è gestito dai missionari Com-boniani che nella baraccopoli di Nairobisono presenti con una parrocchia e altreiniziative: un centro per la vita, uno permalati di Aids e tre scuole con circa1.400 studenti. Il progetto viene seguitopresso tre centri di recupero per ragazzidi strada provenienti da Korogocho, Dan-dora, Huruma nella zona di Kariobangi,nella periferia Est di Nairobi dove esistonopiù di 200 slum. Nonostante i passi disviluppo che il Kenya ha compiuto inquesti ultimi anni, a Nairobi è ancorapiù che mai presente il fenomeno deiragazzi di strada. Adolescenti e giovaniche per vari motivi, che vanno dalla po-vertà estrema a gravi violenze subite,abbandonano le famiglie (o ciò che restadi queste) e si adattano a sopravviveresulle strade della baraccopoli vivendodei rifiuti e del cibo buttato. Nel pro-gramma Napenda Kuishi il 95% deinostri ragazzi è tossicodipendente: alcoole droghe varie che vanno dalla marjuana,all’eroina, alla colla, mentre sta diventandomolto comune l’uso di psicofarmaci eallucinogeni di vario tipo. Circa un annoe mezzo fa, Napenda Kuishi ha scelto didedicarsi principalmente a ragazzi distrada dai 13 ai 20 anni e oggi i nostritre centri ne servono complessivamentecirca 280.

IL RACKET DEI RIFIUTINelle baraccopoli di Kariobangi, Koro-gocho, Huruma Mathare e Dandora,dove operiamo, esiste un vero e proprioracket dei rifiuti governato in manieramolto violenta da varie bande. Dopoun primo approccio sulle strade, i ragazzivengono invitati in uno dei due centria Korogocho dove iniziano le attività direcupero. Le nostre terapie sono inno-vative ma anche ben consolidate, conun approccio olistico che tende nonsolo a ricostruire la salute fisica e curarela dipendenza, ma soprattutto ad offrireun’alterativa valida ed efficace alla vitasulla strada. Le nostre terapie sonodivise in gruppi a seconda delle specifi-cità, per permettere un graduale rein-serimento dei ragazzi in un ritmo divita “normale”. Al mattino ci sonosessioni di counselling, terapie di gruppo,scolarizzazione e alfabetizzazione. Ab-biamo un’attenzione particolare perl’aspetto spirituale e i ragazzi nei nostri

breve è diventato uno dei fedelissimi epiù attivi del Centro di Kisumu Ndogo, aKorogocho. E piano piano la sua scorzadura si è ammorbidita e ha condivisocon il suo counselor tutte le sue vicissi-tudini. Ci ha parlato della sua leadershipconquistata sulla strada a suon di bottee con orgoglio, ci ha mostrato i suoicoltelli, strumenti anche di morte. Len-tamente la baldanza ha lasciato il postoall’angoscia e alle paure che lo attana-gliavano; in segreto l’arroganza ha cedutoil posto alle lacrime, il coraggio allapaura, la rabbia alla speranza. Nell’agostodello scorso anno con tutti i nostri ragazzie giovani di strada (accogliamo ragazzidai 14 anni in su), abbiamo deciso di ce-lebrare una messa nella nostra parrocchiadi Kariobangi. Più di 250 ragazzi, moltissimidei quali mai erano entrati in chiesa, sisono diretti verso la parrocchia. Avevochiesto ad ognuno di loro di presentareall’offertorio qualcosa che li descrivesse,che parlasse della loro vita e del desiderodi cambiamento. Kenny e la sua bandahanno presentato al Signore più di 20coltelli che usavano per rapinare i passantie per dominare le altre bande della di-scarica.

DROGHE E VIOLENZEIl Napenda Kuishi Program (in italiano“Voglio Vivere”) è un progetto teso ad

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coltivati, mucche, galline e anche unaserra.Anche a Kibiko le terapie sono fonda-mentali e molto più intense che neicentri diurni. I ragazzi al loro arrivopassano attraverso le varie forme diastinenza e gravi crisi fisiche e psicolo-giche; ogni ragazzo segue terapie indi-viduali e personalizzate ed ha un coun-selor personale. Vi sono poi terapie digruppo, terapie del lavoro nella fattoria,life skills, programmi di mentorship eattività ricreative (ginnastica, sport, mu-sico-terapie, ecc.). Dopo i primi tre mesi,i ragazzi a Kibiko entrano, se lo deside-rano, a far parte della comunità cristianalocale, nella parrocchia di Kibiko, dovepartecipano alle varie attività (come,ad esempio, danzatori liturgici, gruppogiovani della parrocchia, ecc.).Ed è a Kibiko che Mwaura ha ricomin-ciato a vivere. Quando Mwaura è arrivatonei nostri centri era come Kenny: vio-lento, aggressivo, dedito a droghe e siguadagnava da vivere derubando i pas-santi. I primi mesi sono stati duri: dinotte le crisi di astinenza lo rendevanoviolento e a volte tentava di scappare.Lentamente le terapie, ma soprattuttol’amore e l’affetto dello staff, hannofatto breccia in un cuore ferito dallasofferenza di essere stato buttato fuoricasa con la forza, e dalle violenze -anche sessuali - subite nelle notti umidedella discarica. Mwaura oggi ha 23 annied ha imparato a trasformare il dolorenon in rabbia ma in speranza, la solitu-dine non in angoscia ma in sogni. Haritrovato la sua dignità, ha ripreso a so-gnare e oggi è pronto per entrare al-l’università.Questa è l’avventura di Napenda Kuishi,un piccolo segno del grande amore delDio che non si stanca mai di esseredalla parte degli ultimi. Kenny, Mwaura,tutti gli altri mi ricordano spesso che«questo è il posto giusto». Qui mi sentoe sono missionario al servizio degliultimi e, come dice papa Francesco, quisi sente “l’odore delle pecore” che sa didiscarica e rifiuti.

centri, indipendentemente dalloro credo religioso o dal loronon credere, hanno regolari mo-menti di preghiera e meditazione.L’aspetto spirituale infatti rivestegrande importanza nel camminodi riabilitazione e l’incontro conil Dio che è amore e li ama in-condizionatamente è sempre unmomento bellissimo e liberatorioper tutti loro.Il nostro motto è “Dare speranza,dignità e amore” e infatti unodei nostri obiettivi è insegnare airagazzi a sperare in un futuromigliore, sognare il bello e sentirsiamati. Nel cammino di recupero,riunire, dove possibile, i nostrigiovani con le famiglie di origineè spesso molto difficile proprioperché il motivo per cui si sonodati alla strada era la loro situa-zione familiare. Genitori alcolizzatio tossicodipendenti, violenze con-tinue, famiglie in povertà estremacon mancanza di cibo e, non ul-timo, il fatto che molti di questigiovani di strada sono il frutto diviolenze subite dalla loro madri.

TERAPIE INDIVIDUALIIl nostro terzo e forse più com-plesso centro è la “Napenda KuishiResidentila Home” (casa di ac-coglienza) riservata ai casi piùdifficili. Si trova a Kibiko, un pic-colo centro sulle colline a 40 chi-lometri da Nairobi, ed è una verae propria comunità terapeutica.

Lì ospitiamo dai 20 ai 28 ragazzi chehanno dai 14 ai 20 anni. Molti sono di-pendenti da più di una droga e hannovissuto a lungo sulle strade. Le situazionifamiliari sono estremamente gravi (or-fani, abbandonati o rifiutati dalle fa-miglie, genitori tossicodipendenti o al-colizzati, ecc.). La permanenza in co-munità è di solito di un anno ma peralcuni si arriva anche fino a due anni.Kibiko è strutturata come una fattoria:su 10 acri di terreno abbiamo campi

Kenya, dalla strada a una nuova vita

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«O gni volta che esco da casa,affido la mia vita al Si-gnore. Perché a Damasco

non si sa se si tornerà o se una bombaci fermerà per strada. Come me tantepersone che vivono in Siria e non hannoun posto sicuro dove rifugiarsi. Qui lasopravvivenza è un miracolo quoti-diano». Così suo Carolin Tahhan Fa-chakh, 56 anni, Figlia di Maria Ausilia-trice, siriana, racconta la sua esperienzadi ordinario servizio missionario a Da-masco che le ha valso l’assegnazionedell’International Women of courageAward del Dipartimento di Stato ame-ricano dello scorso 29 marzo. Unica re-ligiosa tra le 13 premiate di diverse na-

l’ospedale italiano di Damasco ed è di-ventata direttrice della scuola MariaAusiliatrice frequentata da alunni cristianie musulmani, senza differenze di sorta.L’ottimismo salesiano è la forza che larende un vero e proprio punto di riferi-mento per tutte le famiglie della città,per le donne che hanno frequentato efrequentano corsi di apprendimentoprofessionale, per i malati e le personein difficoltà economiche che vivono inun Paese distrutto da sei anni di guerra.

zionalità, suor Carolin ha portato la suatestimonianza durante una visita aRoma, presso la sede dell’Unione inter-nazionale superiore generali (Uisg).Figlia di un Medio Oriente attraversatoda guerre e tensioni culturali e geopo-litiche, suor Carolin ha studiato chimicain Siria e teologia in Libano, dove èstata nella comunità delle salesiane diHadath Balbek, nel cuore della valledella Bekaa, dal 2003 al 2006. Appenarientrata in Siria è stata impegnata nel-

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

di MIELA FAGIOLO D’ATTILIA

[email protected]

A scuola con i bambini di Damasco

Suor Carolin Tahhan Fachakh, seconda da destra nella foto, durantel’incontro presso l’Unione internazionale superiore generali (Uisg) a Roma.

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Racconta la missionaria: «Oggila vita è difficile per i siriani,anche andare dal proprio Paesein quelli vicini. Il siriano sisente disprezzato, anche a li-vello di rapporti con le am-basciate, avere i visti è piut-tosto complicato. Ogni giornoper strada la morte camminaaccanto a noi. Alla gente nonposso dire che anche io hopaura, come Chiesa non dob-biamo mai smettere di esseretestimoni di speranza per glialtri. Non possiamo mai direche siamo scoraggiati, dob-biamo credere nel futuro edessere incoraggiamento, punto

di forza per tutta la comunità».I 200 bambini che frequentano la scuolaelementare, dei quali solo 24 sono cri-stiani, sono il termometro più sensibiledella situazione come spiega suor Ca-rolin: «Anche i nostri piccoli hanno di-ritto di vivere l’infanzia, di correre egiocare. Nella nostra scuola i bambinisanno riconoscere il suono delle armi,

questa terra in cui nemmeno troppianni fa la convivenza religiosa era unaprassi quotidiana. Ora che tutto è di-strutto, che ogni famiglia piange i suoilutti e che milioni di persone hannocercato di salvarsi fuggendo, ora bisognapensare a ricostruire. L’umanità, la fi-ducia, il dialogo tra gli uomini primadegli edifici. Perché il lavoro della Chiesaè «insegnare il perdono, vincendo l’odioche si è accumulato dentro le persone.La Siria è un Paese da ricostruire apartire dal cuore degli uomini. C’è tantolavoro da fare, bisogna costruire nonsolo fuori ma dentro. Dobbiamo inse-gnare il linguaggio del perdono, testi-moniare l’accoglienza: la nostra fede ciinsegna ad accettare la persona perquello che è, cristiana o musulmanache sia. Se non apro la mia casa e ilcuore a tutti, non sono cristiano. A Da-masco lavoriamo con tanti musulmaniche ci aiutano a collaborare con orga-nismi umanitari come la “Luna cre-scente”. La nostra disponibilità è ri-cambiata. Quando ci sono i bombarda-menti, tanti genitori musulmani bussanoalla nostra porta per chiederci se ab-biamo bisogno d’aiuto. Sono fatti cheaccadono ogni giorno ma che nonfanno notizia nei media internaziona-li».Un giorno la pace tornerà e la Siriasarà ancora il Paese in cui la convivenzainterreligiosa era uno stile di vita pertutti. Nel frattempo c’è tanto da fareper curare i malati, per aiutare tutti acredere che malgrado interessi geopolicipiù grandi di ogni singola persona, spe-rare nel futuro è possibile. Per questosuor Carolin ha voluto dedicare l’Inter-national Women of courage Award alleconsorelle missionarie all’opera nellefrontiere più disperate del mondo: «No-nostante la guerra, nonostante in moltici abbiano detto: “Partite, salvatevi etornate nei vostri Paesi”, abbiamo sceltodi restare per lavorare con tanta gioia,con tanta carità, offrendo la speranzadi Cristo alla gente».

vivono nella paura di uscire da casa.Durante un bombardamento un bam-bino di quattro anni mi ha detto: “Senti,ma soeur? Quello che è appena cadutoè un colpo di cannone”. Riconosconodai boati quale arma li ha prodotti,crescono nella cultura delle armi, dellaguerra. A scuola invece offriamo aquesti bambini un’atmosfera di pace.Tra loro c’è chi ha subito traumi dallaguerra; c’è chi non parla, chi porta laviolenza dentro di sé. I genitori hannomolta fiducia in noi, perché prima ditutto offriamo questo clima di famiglia,dove il bambino giocando, sogna. Inoltresono sicuri che qui non c’è questa ariadi fanatismo. Li accettiamo come sono,non guardiamo, né diciamo “cristiano”o “musulmano”. La nostra casa è sempreaperta a tutti».La voce di suor Carolin è pacata e l’im-pegno della speranza è più forte diogni ragionevole pessimismo. Dice:«Come Chiesa parliamo il linguaggiodi Cristo, il linguaggio dell’amore. Perquesto siamo lì con una Chiesa che haaperto la sua porta a tutti, senza di-

stinzioni di re-ligione. È que-sto il nostroprossimo, i no-stri fratelli incui vive Dio.Dobbiamo sem-pre essere vociche portanopace». Ma c’èchi uccide nelnome di Dio, in

Il coraggio di suor Carolin

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Unica religiosa tra le vincitrici dell’International

Women of courage Award, suor Carolin TahhanFachakh è una salesiana che dirige la scuolaelementare Maria Ausiliatrice di Damasco e siprodiga in molte attività in aiuto allapopolazione colpita dalla guerra. Tenendosempre la porta aperta a tutti, senza distinzioni.

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N ella cultura ruandese, regalareuna mucca fa nascere e crescereun’amicizia. È sicuramente anche

questo il valore aggiunto del progettoche l’arcidiocesi di Lucca ha deciso direalizzare: donare un animale da latteal maggior numero di famiglie del vil-laggio di Nyarurema (Rwanda), con ilquale la realtà toscana ha un legamemissionario che dura da decenni. Oggiquesta parrocchia del “Paese dalle millecolline” (così è chiamata la piccola na-zione nel cuore dell’Africa) camminacon le sue gambe: ha un prete delladiocesi locale come parroco; è divisa insette aree pastorali, cinque “centrali” edue “succursali”, ciascuna guidata daun catechista ruandese; più della metàdegli abitanti della zona (32mila persone

Oggi, anche se attualmente a Nyaruremanon c’è più una presenza toscana incarne ed ossa, amicizia, solidarietà ecooperazione non sono venute meno:lo straordinario progetto chiamato“Mucca da Lucca”, prima, e “Muccaenergetica”, adesso, ne è un esempioconcreto.Per la quaresima 2015 la diocesi diLucca lanciò la proposta di regalare un

su 56mila) è cristiana. Fino a pochianni fa la parrocchia di Nyarurema erauna missione che la diocesi di Luccaaveva fondato e sostenuto con la pre-senza di un sacerdote fidei donum, efino al termine dello scorso anno il le-game con la giovane diocesi di Byumbaera assicurato da laici lucchesi disponibilia vivere la loro missione come “donidella fede” verso una Chiesa sorella.

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ Dalla diocesi di Lucca

Monsignor Italo Castellani, arcivescovo di Lucca, visita la parrocchia diNyarurema (Rwanda) fondata dalla diocesi toscana oltre 25 anni fa ed oggicompletamente autonoma. Alla sua destra, Federico Teani, ultimo fidei donum

laico lucchese che ha trascorso cinque anni nella missione africana.

Può sembrare strano che un semplice animale comeuna mucca metta in moto un circolo virtuoso dicambiamenti all’insegna di un migliore tenore di vita.Eppure non lo è affatto. È accaduto nella parrocchiadi Nyarurema (Rwanda), dove l’arcidiocesi di Luccaha donato 278 mucche ad altrettante famiglie percombattere la povertà e favorire maggiore sviluppo.

di CHIARA [email protected]

Una “mucca energetica

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ne sono aggiunti 135 e nel villaggio diNyarurema si contano, quindi, 278nuove mucche. Le persone che hannoprovveduto a consegnare il vitello neo-nato ad un altro nucleo familiare biso-gnoso che abita sul territorio parrocchialeruandese sono state ben 88: l’iniziativa,quindi, si è ampliata a macchia d’olio eproseguirà a farlo, in un circolo virtuo-so.Sì, perché non finisce qui. A descriverel’evoluzione del progetto è lo stessovescovo Castellani: «Ho potuto constataredi persona la “ricchezza di vita”, promossadalle 143 mucche donate ad altrettantefamiglie. A partire da questa primaesperienza ho intuito che il territoriopoteva arricchirsi ulteriormente donandoaltre mucche: favorendo un progettodi conversione del letame della “Muccada Lucca” in biogas per alimentare ilfuoco di cucina. Ecco perché la “Muccada Lucca” si è trasformato in “Muccaenergetica”». E così nell’autunno scorsoè stata lanciata la seconda parte del-l’iniziativa: dotare ciascuna famiglia

quella situazione ho sentito una strettaal cuore, pensando a quanto cibo quida noi ancora si spreca e come i bimbisono curati bene, e mi è tornato inmente l’invito che Dio rivolge a Mosè:“Ho osservato la miseria del mio popolo...Ascolta!” (Es. 3,7). Cioè: apri il cuorealla mia Parola e dammi una mano arisolvere la miseria, le povertà del-l’umanità… Che fare quindi per rispon-dere ai bisogni dei bimbi neonati delRwanda? Si tratta di acquistare dellemucche per le famiglie più povere: ibimbi piccoli, quando smettono di pren-dere il latte dalla mamma, potrannoprendere il latte dalla mucca e cosìnon si ammaleranno».All’appello del vescovo, ragazzi e famiglierisposero ben oltre le aspettative: inun anno furono donati 143 esemplari.Oggi, grazie alla loro riproduzione, se

animale da latte ad ogni famiglia dellaparrocchia di Nyarurema: l’idea vennein prima persona a monsignor ItaloCastellani, arcivescovo della città to-scana, in seguito al suo viaggio missio-nario in Rwanda. Di rientro, inviò unalettera aperta alle sue parrocchie indi-rizzata, in particolare, ai ragazzi: «Saicosa mangiano ogni giorno i bimbi piùfortunati del Rwanda? Un po’ di riso,fagioli, patate... e niente più!» scrivevail vescovo. «Qui da noi – proseguiva -quando un bimbo piccolo smette diprendere il latte dalla mamma, gli ven-gono preparate delle pappine e poigradualmente il cibo che mangiano gliadulti. Lì, nello svezzamento, le pappinenon esistono: dalle pappe si passa aifagioli! Ma il loro stomaco è piccolino,quindi i bimbi neonati si ammalano epossono anche morire. Osservando

a” per il Rwanda

In basso: Uno dei momenti di assegnazionedelle mucche alle 143 famiglie della parrocchiadi Nyarurema.A destra e sinistra: L’attrezzatura per l’impiantoa biogas che trasforma il letame in combustibileper la cucina, e gli scarti in concime naturaleper fertilizzare i terreni coltivati.

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nostri ragazzi, che rischianodi non vedere la vita al di làdi sé stessi».Sebbene questa fase del pro-getto sia ancora in corso, larisposta da parte dei più pic-coli non si è lasciata attendere.Claudia Del Rosso, coordina-trice dell’iniziativa per il Cen-tro missionario diocesano diLucca, organizza incontri in-formativi con le realtà edu-cative interessate (classi sco-lastiche di vario ordine e gra-do, gruppi di catechismo nelleparrocchie, ecc.) e spiega: «Ipunti di forza del progetto

“Mucca energetica” sono all’insegnadella sostenibilità ambientale (perchécucinare con il gas anziché con la legnamigliora nettamente le condizioni dilavoro delle donne ai fornelli), ma ancheistituzionale. Oltre che un’opportunitàconcreta per mantenere un ponte trale diocesi di Byumba e Lucca».Effettivamente anche l’aspetto istitu-zionale di questo progetto non è datrascurare: quello degli impianti a biogas,infatti, è un programma nazionale cheil Rwanda ha avviato sin dal 2007 alfine di ridurre il consumo di legname,aumentare la produzione agricola graziead una maggiore fertilità dei terreni,sostenere le politiche energetiche al-ternative. Ad oggi con i contributi della“Mucca energetica” sono già stati ipo-

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di una seconda mucca (nel caso nonne disponga ancora) e di un impianto abiogas che trasformi il letame in com-bustibile per la cucina, e gli scarti inconcime naturale per fertilizzare i terrenicoltivati. L’attrezzatura pensata per laproduzione di biogas è ad impatto am-bientale nullo: nel concreto, infatti, sitratta di inserire il letame (di almenodue mucche) in un recipiente dedicato,aggiungere fieno, scarti organici (buccedi banane, ecc.) e una quantità idoneadi acqua, tritare il contenuto (con unattrezzo manuale) per ridurlo a statoliquido e convogliarlo in una specie diserra in pvc, dove viene prodotto sia ilgas, poi diretto ai fornelli della cucina,sia il concime (con la parte di scartodel processo) poi convogliato verso lecoltivazioni.Anche stavolta l’appello è stato rivoltoin particolar modo ai giovani della dio-cesi e monsignor Castellani ha motivatocosì questa sua scelta: «Ritengo che lacifra del cristiano sia il dono, fare dellavita un’esistenza donata. L’educazionealla gratuità a partire dal “pagare dipersona”, nel nostro caso impegnandola “paghetta” che i genitori sono solitidare ai propri figli, può essere una pro-posta che apre al dono e alla gratuità i

Dalla diocesi di LuccaMISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

tizzati 38 impianti a biogas per le fa-miglie che hanno donato un vitello adun’altra persona. Ma il sostegno al pro-getto è ancora in corso e si concluderàcon la fine dell’anno pastorale, quindigli interventi che potranno essere rea-lizzati aumenteranno sicuramente. Nelfrattempo chi sta aspettando di vedereinstallato il macchinario tanto atteso,confessa: «Mia moglie non vede l’oradi ospitare il biogas a casa!» scrive, inuna lettera inviata alla diocesi di Lucca,Léonidas Nyirinkindi, 52 anni, sposatocon Alphonsine. «Abbiamo quattro figlifemmine – continua - e facciamo partedel primo gruppo che ha ricevuto unamucca. Questo animale ci ha fattotanto bene. Prima di tutto, non com-priamo più il concime: la produzionedei fagioli è triplicata e quella del maisè aumentata di sei volte. Poi, la nostrafamiglia beve il latte di mattina e sera,e a volte ne diamo anche ai vicini.Inoltre ci siamo procurati un amico inpiù, perché gli abbiamo regalato ilprimo vitello. Ringrazio il Signore pertutto e la diocesi di Lucca che ci sostienein questo modo».In vista della conclusione del progetto«penso di ritornare in Rwanda nel gen-naio prossimo con i collaboratori delnostro Ufficio Missionario – dice mon-signor Castellani - come segno di fra-terna vicinanza a quella comunità ec-clesiale, povera materialmente ma riccadi fede». Sarà anche l’occasione permettere a punto e «dare continuità a“progetti missionari” estivi per i nostrigiovani lucchesi, per i quali mi sta acuore che passino un periodo delle lorovacanze scolastiche a servizio di quellecomunità, per conoscerne la ricchezzaspirituale e gli stili di vita segnati dal-l’essenzialità», conclude il vescovo. Peri più giovani sarà anche un modo pervedere con i propri occhi e toccare conmano il bene che una semplice muccada latte può fare ad una famiglia, aduna comunità parrocchiale e ad unadiocesi intera.

Léonidas Nyirinkindi e sua moglieAlphonsine, beneficiari di una muccada latte e in attesa dell’installazionedell’impianto a biogas.

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Gli agricoltoricontro i velenidelle miniere

MISSIONE LEGALITÀ Guatemala

O gni anno Libera organizza ilprogetto “Giramondi e Atreve-te!Mundo - I viaggi della Me-

moria e dell’Impegno”, un’opportunitàunica aperta a tutti per conoscere efar conoscere le realtà associative checon Libera portano avanti la rete ALAS-América Latina Alternativa Social,network latinoamericano che comprendepiù di 40 organizzazioni di 11 Paesi delCentro e Sud America. Ogni anno siparte per incontrare la società civile diun Paese differente, per viverlo attra-verso le persone e le lotte sociali che ilsuo popolo porta avanti. Quest’anno,dal 22 aprile al 5 maggio scorsi, Liberaha accompagnato i partecipanti in Gua-temala, dando voce a chi lotta senzaclamore. Giorni intensi scritti nel diariodei partecipanti della giornata a LaPuya, che potete leggere al completosu www.libera.it.Un’occasione per incontrare i rappre-sentanti di La Puya, una comunità che

di MONICA [email protected]

spiega che esistono piani di svilupposostenibile per il Guatemala, ma chenon vengono applicati dalla classe po-litica al governo. Gli attivisti chiedonodi poter continuare a svolgere la loroattività di agricoltori e di proteggere leacque del territorio dall’inquinamentodelle attività estrattive, che sono per dipiù appalto di compagnie straniere enon portano alcun beneficio allo sviluppolocale. Anche in Italia è importantecercare di far conoscere la loro voce ela loro giustissima lotta per un Paesemigliore. Resistenza Pacifica La Puya èla loro sigla per seguirli via internet,per diffondere le loro battaglie.

vive nel municipio di SanJosé del Golfo, a circa mez-z’ora da Ciudad de Guate-mala, organizzata in un co-mitato di lotta contro l’at-tività di estrazione minerariaavviata dalla sussidiaria localedi una compagnia canadese,la Kappes Cassiday & Asso-ciates. Le preoccupazionimaggiori degli abitanti, chesi dedicano all’agricoltura,sono legate alla contamina-zione dell’acqua da arsenicoe altre sostanze nocive, ef-fetto prodotto dall’attivitàdella miniera a cielo apertocon un metodo altamenteinquinante, vietato in Europae altre parti del mondo. Lacomunità de La Puya ha lot-tato duramente negli ultimi anni, finoad ottenere per ben due volte che sen-tenze delle Corti giudiziarie guatemal-teche bloccassero l’attività estrattiva.Il prezzo è stato durissimo: molti attivistisono stati minacciati e addirittura colpiti

da attentati, anche se sannoche la loro “resistenza pacifica”è importante poiché questaminiera rappresenta la portad’ingresso ad altre attività mi-nerarie, e bloccarla è di vitaleimportanza.Arturo fa parte dell’associa-zione Seguridad en Democra-cia, partner della rete ALAS, e

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L’altra

S campato pericolo per la diaspora africana in Francia:con la sconfitta di Marine Le Pen all’Eliseo le secondegenerazioni e quanti ancora coltivano il sogno della Re-

publique, hanno tirato un sospiro di sollievo. Non solo i fran-cofoni. «I keniani che studiano e lavorano nel Paese – scriveil quotidiano Capital di Nairobi – possono tornare a respi-rare». Ma i dolori di pancia non finiscono qui: con l’uscita discena della madame del Front National alle presidenziali, l’Afri-ca ha sì evitato il maggiore dei mali, ma dovrà ora vederse-la con le conseguenze del male minore, rappresentato da Em-

edicola

di ILARIA DE [email protected]

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LA NOTIZIA

CHE PRESIDENTE SARÀ EMMANUELMACRON RISPETTO ALLE POLITICHECON L’AFRICA? LA STAMPAAFRICANA SI INTERROGA SULLESTRATEGIE FUTURE DEL GIOVANENEO-ELETTO IN FRANCIA, PERCAPIRE COME SI MUOVERANNO I FILI TRA LE DUE SPONDE. IL COLONIALISMO CAMBIA NOME,MA QUALCOSA RESTA…

BUSINESS E FRONTIERE

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manuel Macron. È questo il tono degli editoriali e dei pezzidi analisi che la stampa africana sforna con costanza, seguen-do da vicino le vicende della neo-presidenza. «In quanto im-migrati ci sentiamo più sicuri con un governo targato Ma-cron, certo, piuttosto che con uno Le Pen, che ci avrebbe sbat-tuto la porta in faccia», dicono alcuni ragazzi intervistati daCapital.Ma che politiche adotterà il giovane monsieur Emmanuel neiconfronti dell’Africa? Siamo proprio certi che saranno così di-verse da quelle contenute nell’agenda della destra xenofo-ba? La malattia securitaria affligge il leader di En Marche! esat-tamente come contamina tutti i suoi colleghi europei. Se nondi più. Il quotidiano Rfi Afrique scrive che il processo di nor-

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Macron e l’Africa

RE BLINDATE

malizzazione avviato da Hollande è finito: la Francia si sen-te abbastanza in guerra e questo avrà delle conseguenze. «Nonfarà nessun passo indietro sulla lotta al terrorismo – scriveRfi – l’Africa sub-sahariana resterà teatro di operazioni (di re-pressioni securitarie, ndr) e questo avverrà in accordo conl’Unione Africana, il G5 Sahel e il partner algerino». Il gior-nale della Costa d’Avorio ipotizza che Le Drian, ministro del-la Difesa con Hollande, artefice delle politiche anti-terrori-smo, rimarrà al suo posto come uomo della continuità. Le fron-tiere africane saranno sempre più controllate dall’Unione eu-ropea, anche se nelle intenzioni di Macron l’Africa diverrà par-tner economico preferenziale per la Francia. L’inquilino del-l’Eliseo in una lunga intervista al settimanale Jeune Afriquedice che la sua priorità è la lotta al terrorismo e al trafficodi esseri umani «che minaccia la stabilità delle due sponde».Il 39enne leader illustra pure per grandi linee la “nuova” rot-ta: visione securitaria basata su una stretta partnership eco-nomica. «Dovremmo costruire un partenariato strategico trale due Unioni (quella europea e quella africana) che rinnovicompletamente la visione per uscire una volta per tutte dal-la logica della carità e del clientelismo e perseguire una re-lazione politica ed economica paritaria». Tra le righe, dunque,emerge chiara l’idea che la Cooperazione allo sviluppo in Afri-ca ha le ore contate, o quantomeno non progredisce. Il mer-cato prenderà sempre più il posto dell’aiuto pubblico allo svi-luppo, in linea col resto d’Europa. Se è vero che fa mea cul-pa sul passato coloniale e in particolare durante una visitaad Algeri, prima d’essere eletto, aveva definito un “criminecontro l’umanità” l’idea stessa del colonialismo, è anche veroche non precisa il carattere delle relazioni economiche bila-terali tra la Francia e ciascun Paese ex coloniale col quale an-drà a stringere accordi. Si tratterà di relazioni paritarie e lon-tane da logiche clientelari? Macron aggiunge che le sue prio-rità in Africa sono «la sicurezza, la libertà e la responsabili-tà, i diritti delle donne, l’istruzione e la formazione, le infra-strutture e infine lo sviluppo del settore privato (piccole e me-die imprese - Pmi africane che creino impiego)». In un’altraintervista rilasciata a Le Monde Afrique, il giovane Macronassicura che abbandonerà l’idea interventista di Hollande (laguerra in Mali è stata vincente ma non si ripeterà lo sche-ma, assicura) per puntare tutto (o molto) sull’industria e il com-mercio. «Vorrei mobilitare maggiori finanziamenti sia pubbli-ci che privati per finanziare le infrastrutture e le Pmi africa-ne, creatrici d’impiego. E poi promuovere il ruolo delle don-ne, raddoppiando il finanziamento di progetti legati all’ugua-glianza di genere».Molti media africani hanno còlto bene il dato economico die-tro le manifestazioni d’interesse di Macron, che peraltro »

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L’altra edicolaMacron e l’Africa

non finge affatto d’essere un filantropo. Disillusione e prag-matismo per la Benin web tv, che in un editoriale scrive: «Comediceva il Generale de Gaulle “la Francia non ha amici, ha solointeressi”. Gli africani devono capire che lo Stato francese èpesantemente indebitato e che questa responsabilità di ridu-zione del deficit fa parte del programma di Macron. Uno de-gli strumenti adottati sarà il rilancio dell’economia france-se tramite l’inflazione. Tutto ciò avrà come conseguenza di-retta quella di trovare nuovi sbocchi per le esportazioni ver-so il continente africano». L’altro strumento, dice ancora il sitodella televisione del Benin, è la riduzione della spesa pubbli-ca e dunque dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Se due più duefa quattro: meno “carità”, meno “dono” e più business, chetorni di utilità anche alla madrepatria francese. Più control-li alle frontiere e confini blindati, in modo che si chiuda il ru-binetto degli arrivi dall’Africa, ufficialmente per tenere a fre-no il terrorismo. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Eccoin estrema sintesi il Macron-pensiero sull’Africa. C’è da scom-mettere che il programma della Le Pen non sarebbe stato poicosì diverso. Alla Bbc l’analista politico Serge Theophile Ba-lima ricorda che «Macron è un neo-liberale che crede nel bu-siness e nel commercio. Farà del suo meglio per aprire l’Afri-ca agli imprenditori francesi. Questo è ovvio».A proposito delle politiche che intenderebbe perseguire in Me-dio Oriente, il Mail and Guardian versione africanalo avvicina a Trump. «Macron ha inizialmen-te avuto un approccio bilanciato sul-la Siria, dicendosi favorevole ad unintervento militare sotto gli au-spici delle Nazioni Unite, su-bito dopo l’attacco chimicodi Khan Sheikhoun». Masebbene più incline a segui-re la logica del “costruiamola pace” più che quelladell’interventismo diret-to alla Trump, ancheMacron non disdegnale “operazioni chirur-giche” se necessario.Il che significa chenon rinuncerà aqualche colpettomilitare ben asse-stato qui e là,tanto per farsentire la “vocegrossa” dell’Eu-ropa.

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una domenica alle quattro di mattina,un loro gruppo ha assalito la parrocchiadi San Domenico. La sentinella che liha sentiti arrivare è corsa ad avvertirela polizia, ma le hanno risposto chenon erano interessati ad intervenire. Ecosì quei koluna hanno avuto tutto iltempo di saccheggiare la canonica e ilconvento, di profanare la chiesa, dan-neggiare l’altare, buttare all’aria il

Q ui a Kinshasa (capitale dellaRepubblica Democratica delCongo) ci sono gruppi di gio-

vinastri, veri banditi che chiamano ko-luna, addestrati alla violenza e protettida gente al potere. Nel febbraio scorso,

Posta dei missionari

Non dimentichiamoil Congo

»

a cura diCHIARA PELLICCI

[email protected]

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le camere da questigiovinastri violenti eingiuriosi. Oltre al dan-no materiale, c’è statauna specie di profana-zione delle persone chesono rimaste due oresotto una pioggia d’in-sulti, gesti e parolacceoscene. Alcuni hannocostretto le responsabilidel dispensario e dellascuola ad andare neiloro uffici dove hannocontinuato la profana-zione. La polizia, av-vertita in tempo, haaspettato che i banditise ne andassero, poi èarrivata a constatare idanni e a far crescerel’umiliazione.Si sa che altrove suc-cedono le stesse cose,altri disordini con scon-tri e morti e con fossecomuni, ma si mettetutto a tacere. Noi stia-

mo cercando di rinforzare le porte dilegno che si affacciano sull’esterno peressere un po’ più sicuri.Vi ho fatto il quadro della situazioneper chiedervi di pregare per noi. Ulti-mamente ho ripreso in mano il miolibro sul Padre Nostro (“Abbà, Padre. Lapreghiera dei figli”, Edizioni Paoline,ndr). Voglio tradurlo in francese peraiutare a conoscere meglio l’amore diDio, Papà pieno di tenerezza e com-passione per noi suoi figli. Aiuta ancheme a vivere con maggiore serenità inquesta situazione difficile. Gesù, che ciha condotti al Padre, continua ad amaree perdonare fin sulla croce. Gli chiedo,anche per me, la forza di continuaread amare e perdonare, proclamando laverità e la giustizia in quest’ambientebisognoso di conforto e di liberazione.

Padre Elio Farronato

Bibwa Kinshasa (Rep. Dem. Congo)

Una speranza c’è

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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G uardando al nostro Congo, oggipossiamo essere presi dal pessi-mismo, ma se ci affidiamo a

Gesù viviamo nella grande speranza.Dopo quasi 50 anni dal mio arrivo inquesto Paese, vorrei rendervi partecipidi alcune riflessioni.Mi trovo nella diocesi di Bondo dacirca otto anni. E qui la miseria è in-concepibile. Quando arrivai a Bambilo,nel 2009, guardando i ragazzini, rimasisenza fiato: ebbi l’impressione di esseretornato indietro di 40 anni. La diocesisi sta ora preparando a festeggiare, nel2020, il centenario dell’arrivo dei primimissionari. Vuol dire che questa Chiesaè ancora giovane e non posso perciòlamentarmi se vedo che in certi puntiil suo cammino è ancora lento. Rischiodi mancare della pazienza amorosadella mamma che accompagna i figlinei primi passi ancora incerti ed è con-tenta per ogni piccolo progresso.Cinquantasette anni fa il Paese diven-tava indipendente. È vero che tantestrutture non ci sono più (per esempio:c’era la ferrovia che portava merci perlo scambio con l’estero, che ora nonc’è più). Ma quando io arrivai in Congoi mezzi di trasporto a motore erano ri-servati solo ai bianchi o al clero: erararo vedere un congolese con una suabicicletta. Oggi, invece, quante motoscorrazzano per Bondo! Ci sono taxi-moto sempre pronti per portare clientiin città o anche lontano centinaia dichilometri. Quasi tutto il trasporto diogni merce è fatto in moto o in bici.Per la strada devi essere prudente perevitare di scontrarti con altri. Se poiincontri un poveraccio che sulla motoporta 350 chili di merce, ti convienedargli precedenza assoluta; così purese incontri un ciclista con un carico di150 chili o anche di più! Benzina, diesel,birra, sale, sedie, pezzi di ricambio per

tabernacolo e frantumare le statuedella Madonna e dei santi. Verso le seise ne sono andati indisturbati e nessunoè stato inquisito, neppure la sede dellapolizia dove la sentinella aveva chiestosoccorso. La gente che si recava allamessa ha reagito contro il silenzio ec’è stato molto scalpore perché varicittadini influenti hanno diffuso la no-tizia dell’assalto attraverso televisionee radio locali. Purtroppo sono fatti chesi ripetono per tutto il Paese, le vociserpeggiano e si odono notizie di par-rocchie assalite e di Seminari e conventisaccheggiati.Il 27 gennaio scorso, alle due di notte,nella nostra parrocchia, hanno assalitoil convento delle suore. Dopo aver for-zato la porta esterna di ferro, sono en-trati nel corridoio delle camere e hannosfondato le porte di legno a colpi dimachete. Le suore si sono viste invadere

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moto, bici, stoffe e ogni genere dimerce, tutto è portato in bicicletta oin moto.Oggi tutto è in mano ai congolesi: ilclero, l’amministrazione, il trasporto,le scuole, le officine a cielo aperto epure i distributori di benzina o naftacon una bottiglia come misura; a modoloro funziona tutto. La cittadina èattiva e vivace. La sera vedi pure unaparte della città illuminata. Ci sonobelle case in mattoni, altre in costru-zione, sebbene la maggior parte dellapopolazione viva in capanne di fangoe paglia.Noi missionari bianchi siamo ormai ra-rissimi al punto che un bambino mi hadomandato se anche la mia mammafosse bianca. La Chiesa è una forzanotevole non solo per la pastorale, maanche per la scuola e la sanità. C’è unagioventù scolastica numerosissima,scuole di ogni genere. Purtroppo spesso,passando, si vedono i ragazzi fuoridagli istituti scolastici: non avendoportato i soldi per pagare gli insegnanti,vengono messi alla porta.Quando i nostri giovani arrivano inEuropa per studiare, non sfigurano af-fatto. Anzi, impegnati anche per orgo-

Posta dei missionari

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glio di razza, sono spesso più bravi deicompagni europei.La storia insegna che il popolo ebraico,guidato dalla legge di Mosè, continuavaa prostituirsi dietro a idoli straniericontro il comandamento «io sono il Si-gnore Dio tuo, non avrai altro Dio al-l’infuori di me». Anche il popolo europeotradisce sovente le sue radici cristiane.Non c’è perciò da stupirsi se anche ilnostro popolo congolese fatica, a voltein modo eroico, per andare contro cor-rente e camminare libero dalla paura distregoni e feticci. Se uno si ammala,spesso dice che non è cosa che riguardala medicina dei bianchi: solo quandonon c’è più speranza nelle cure ancestralie feticiste (e spesso è troppo tardi),allora va all’ospedale. Qui si segue ilVangelo, si onora Dio in chiesa e poi èdifficile staccarsi dalle credenze antichee abbandonarsi totalmente nelle manidel Padre amoroso. Mi ripeto che devoguardare con gioia ogni gesto e ogninuovo passo di questo popolo, come fala mamma con il suo bambino. E di mi-glioramenti ne vedo!C’è, ad esempio, il gioiello della Chiesadi Bondo: il Centro Elikya (che significa“Speranza”) accoglie i poveri e gli infermi,

quelli che papa Francesco chiama «gliscarti»; in piccolo, richiama il Cottolengodi Torino. Recentemente ho accompa-gnato la responsabile di questo Centroa visitare due povere donne nella foresta,a circa 30 chilometri da Bondo. Sonodue sorelle: una è in condizioni di salutepassabili ma l’altra è molto malata. Dor-mivano sotto una tettoia senza muri,protette solo dalla zanzariera: una ienaavrebbe potuto sbranarle facilmente!Ora vivono al Centro e sono ben assistite.Forse una ne avrà ancora per poco, maalmeno avrà assaporato la gioia di essereaccolta, assistita e amata. La sorella, unpo’ più in forze, la imbocca con pazienzacome fa una mamma con il suo bambino.Quando io prego con questi poveri,esulto e penso: dove c’è carità e amore,lì c’è Dio.Andiamo avanti con coraggio pur sa-pendo che la situazione politica delPaese è incerta e fragilissima. Qui con-tinuano gravi disordini; ci sono moltevittime e fosse comuni. Che il Signoreci protegga e ci scampi da un’altraguerra: di guerre ne abbiamo già vistetroppe!

Padre Lorenzo Farronato

Bondo (Rep. Dem. Congo)

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È notte e il porto di Helsinki è immersonel buio. Da una montagna di carbone

emerge una testa. Due occhi sbarrati sonol’unica luce sullo schermo. Inizia così l’av-ventura di Khaled, profugo da Aleppo, ap-prodato clandestinamente in Finlandia dopouna lunga odissea dal Medio Oriente al

L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA

tra poveri lo nascondono in una baracca.La tragedia di quello che si è lasciato allespalle si accompagna alla speranza di ri-trovare la sorella persa durante la traversatadei Balcani a piedi. Il ragazzo decide dichiedere asilo in Finlandia e viene “provi-nato” da una addetta dell’ufficio immigra-zione, nel Centro di permanenza riceve unsapone, un asciugamano e un rasoio, in-contra un altro siriano “in attesa di giudizio”con cui condivide giorni di attesa senzatempo. La burocrazia è più forte di ognitragedia e la richiesta di asilo di Khaled

DALLA SIRIA AL BALTICO

Nord Europa. Le prime immagini di “L’altrovolto della speranza” di Aki Kaurismäki ciintroducono nella narrazione di una storiadel nostro tempo, fatta di ignoto e di soli-darietà, di violenza e umanità. Con toni atratti surreali, a tratti poetici, il regista, sce-neggiatore e produttore Kaurismäki, autore

del toccante “Miracolo aLe Havre” (2011), tornaa declinare il tema dellemigrazioni con questofilm che ha vinto l’Orsod’Argento per la miglioreregia al Festival di Berlinodi quest’anno.Sullo sfondo di anonimeperiferie ai limiti del de-grado, attraversate damacchine anni Sessanta(che pongono dubbi allospettatore su quale pe-riodo storico faccia dasfondo alla vicenda), vec-chi menestrelli di stradacantano canzoni rock, trapassanti infreddoliti cheaffrettano il passo per an-dare a bere in un pub.Khaled (l’attore SherwanHaji) sfila dietro gli angolidelle vie, in cerca di unriparo per dormire, tra di-savventure e sgraditi in-contri con bande di skin-

head che picchiano gliimmigrati. Viene salvatoda un gruppo di emargi-nati che per solidarietà

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campagna potesse capire anche senza isottotitoli» dice il regista. E in quest’operaci riesce benissimo, senza mai scivolarenel pietismo, nell’enfasi politica o nel pam-

phlet. Ben lo spiega l’amico del regista, ilcritico Peter von Bagh recentemente scom-parso, a cui il film è dedicato: «Kaurismäkiha descritto una Finlandia marginale, unmondo di sfortunati e di perdenti, di cuicoglie la luce magica, la sofferenza auten-tica, la compassione profonda e l’umori-smo, con un fantastico senso dello stile,sorretto dalla coscienza ingenua del propriovalore».

Miela Fagiolo D’Attilia

[email protected]

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viene rigettata con il rimpatrioin Siria, dove viene decretatoipocritamente che «la situazionenon è di grave pericolo».Oltre il cinismo della burocraziaci sono però le persone e Khaledviene aiutato a fuggire, di nuovosenza meta e senza futuro. Inparallelo alle sue peregrinazioni,seguiamo le vicende del signor Wilkstrom(Sakari Kuosmanen), un finlandese cin-quantenne di poche parole che lascia ilsuo lavoro, e si gioca tutto al tavolo delpoker, vincendo una somma con cui rilevauno squallido ristorante. Piatto forte delmenù sono sardine in scatola e patatelesse, preparate e servite da una stralunataéquipe di maître (Ilkka Koivula), cuoco(Janne Hyytiäinen) e cameriera (NuppuKoivu), tutti e tre pronti ad indossare il ki-mono del sushi bar o la bandana dei localidi karaoke per migliorare i profitti, coneffetti comici imprevisti ed esilaranti. Sembrache tra il profugo siriano e il signore fin-landese non ci sia proprio niente in comunefino al momento in cui si incontrano: Khaledsi è rifugiato a dormire tra i cassonetti dellaspazzatura e Wilkstrom cerca di cacciarlovia a suon di pugni, salvo portarlo dentro

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il locale per farlo rifocillare. Qui il ragazzotrova accoglienza e lavoro, sempre nel-l’ansia di una vita da clandestino, prontoa nascondersi ad ogni controllo. Viene dapensare che «tutta Europa è Paese» e chele storie di tante persone spinte a fuggiredalla loro terra si somigliano.Come in “Miracolo a Le Havre” ritroviamoin questo film lo stile unico di Kaurismäki,fatto di inquadrature fisse, dialoghi scarni,toni tragicomici. Una scelta estetica cheha lo scopo di mettere in primo piano ivolti delle persone che la vita lascia in om-bra, raccontare «piccole» storie che di-ventano emblematiche. “L’altro volto dellasperanza” è una denuncia della burocraziakafkiana delle politiche migratorie europee,combattute tra solidarietà e populismi. «Ilmio eterno obiettivo è sempre stato quellodi fare un film che una donna cinese di

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T u cosa fai per i più poveri? Come pensi di essere felice dasolo? Perché non ti muovi? Con queste motivazioni nasce

nella seconda metà degli anni Sessanta il progetto e il gruppo dilavoro e di volontariato "Operazione Mato Grosso" grazie a padreUgo De Censi, missionario in Perù. Una scommessa forte e unasfida che il giovane Daniele Badiali accetta con passione e deter-minazione e che ancora dopo mezzo secolo mantiene la forzapropulsiva che aveva alla nascita.Al centro della missione di padre Badiali c'è il servizio della fede eil vivere con entusiasmo ogni giorno, accettando di portare i pesidei più poveri, per trasmettere l’unico cammino per il quale hasenso vivere: quello di Gesù Cristo. Nei cinque anni di volontariato,il missionario di Faenza diceva che era necessario tornare allaChiesa dei primi cristiani, dove i martiri trasmettevano la fede aprezzo del loro sangue. Il suo corpo fu ritrovato il 18 marzo 1996sulle montagne del Perù. Il suo martirio, il suo sangue: si concludevacosì, con l’epilogo più tragico, un sequestro iniziato due sere prima,quando padre Daniele si offrì come ostaggio in cambio di unagiovane volontaria italiana che viaggiava con lui sul pulmino quandovennero bloccati da un uomo mascherato. «Vado io» disse il mis-sionario, con una parola che in qualche modo riassumeva tutta lasua vita. Questa espressione è il filo rosso della biografia che, a

20 anni dalla morte, GerolamoFazzini dedica alla figura di padreBadiali nel libro dal titolo: “«Vadoio». Con i poveri delle Ande perincontrare Dio” (Edizioni EMI).Daniele era amato dai giovani an-dini, era una persona allegra chesapeva contagiare gli altri, riuscivaa guidare incontri di catechesicon 200, 300 ragazzi. Nei suoidiscorsi diceva che «noi cristianisiamo chiamati ad essere santie che tocca a noi dare speranzadi Dio e che vale più Lui di ognialtra cosa». Insegnava ai ragazzia capire quale direzione far pren-dere alla loro vita. Ma con séstesso era più esigente. ScriveLuigi Accattoli nella prefazioneche Daniele voleva imparare amorire staccandosi da ogni de-siderio umano; parole degne diun mistico, parole di un martire. Oggi è in corso la causa per lasua beatificazione.

Chiara Anguissola

Vandana Shiva è l'ambientalista più fa-mosa al mondo per le sue battaglie

contro gli organismi geneticamente mo-dificati (ogm). Scienziata, filosofa ed eco-logista, da decenni si batte affinché ilmercato delle multinazionali, che cercadi assicurarsi il controllo delle risorsedella terra, non si impossessi anche dellanostra aria, terra e acqua. In una lunga eparticolareggiata intervista al giornalistae saggista francese Lionel Astruc, raccoltanel libro “La Terra ha i suoi diritti” (EdizioniEMI), Vandana affronta le tematiche diuna vita legata al suo impegno sociale ecivile. Inizia a fianco dei piccoli agricoltoridelle tribù indigene dell'India, per diventarepoi una paladina anti-globalizzazione pertutto il mondo dei movimenti altromondisti.La sua lotta è centrata sulla difesa del-l’ambiente e dei diritti dei più poveri; sullasalvaguardia dei semi tradizionali/autoctoniper mantenere la sovranità e la sicurezzaalimentare; combatte la biopirateria ed è

santo. Diven-ta il bersaglioprivi legiatodelle lobby

pro-ogm. Alle accuse che le rivolgono,risponde con documentazione inoppu-gnabile e mostra come un’agricoltura ri-spettosa dell’ambiente e dei cicli dellanatura sia più produttiva dell’agricolturaintensiva che si impadronisce dei terreni;indica anche che con l’agroecologia sa-rebbe addirittura possibile nutrire un nu-mero di persone pari a due popolazionidel mondo attuale. In sintesi Vandana so-stiene che «difendere i diritti della TerraMadre è la lotta con le maggiori chance

di portare a una pace duratura».Chiara Anguissola

a favore dell'ecofem-minismo, un movi-mento in cui sono ledonne a sostenere leiniziative per proteg-gere la terra e le fonti del loro sostenta-mento e reddito. Durante l'intervista rievocaquando partecipando ad un summit se-greto di scienziati nel 1987 in Svizzera,scopre i piani nascosti di alcune multi-nazionali: creare piante ogm per renderela produzione di cibo vincolata strettamentea un mercato di semi nelle mani di pocheaziende. Dalle sue battaglie si è venuto aconoscere il dramma dei contadini indiani,molti dei quali ancora oggi si suicidanoper i debiti contratti con le società se-mentiere internazionali.Vandana è stata considerata dalla rivistainternazionale Forbes una delle sette fem-ministe più potenti del mondo e la suapopolarità continua a crescere, creandomolti problemi ad imprese come la Mon-

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Martire tra le Ande

Gerolamo Fazzini«VADO IO». CON I POVERIDELLE ANDE PERINCONTRARE DIO. MISSIONE E MARTIRIO DIPADRE DANIELE BADIALIEdizioni EMI - € 14,00

Vandana Shiva, Lionel AstrucLA TERRA HA I SUOI DIRITTIEdizioni EMI - € 18,00

Salvare la Madre dai suoi figli

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di generi diversi. Come l’hira gasi, il cantotradizionale malgascio costruito su elementiteatrali con composizioni che trattano divita sociale e valori come la solidarietà el’amicizia. O come l’ancora più tradizionalevako-drazana (“il tesoro degli antenati”)che tramanda e preserva i capolavori sonoridel passato con una cura quasi religiosa.Ma, complice la globalizzazione, il Mada-gascar moderno offre diverse forme dicontaminazioni stilistiche tra la musicalocale e quella giunta dall’Occidente. Cosìecco l’approccio elettronico del watcha-

watcha, che è una delle forme più popolaridi dance music malgascia, e poi il reggae

in tutte le sue varianti, e varie forme dicrossover più o meno poppeggianti o in-fluenzate dal jazz.Tra i primi artisti locali in grado di far brecciain Europa vi furono i Les Surf che neglianni Sessanta ebbero un buon successoin Francia, poi i Mahaleo e il loro soft-rock

da esportazione che si fece notare nelladecade seguente, e più ancora Rossy, uncantautore che ilgrande Peter Ga-briel decise dilanciare con la

sua etichetta Real

World. Tra gli ar-tisti più recentispicca il nome deiTarika che propon-gono un’ipotesi dietno-folk-pop moltointrigante, e un grannumero di chitarristicome D’Gary, considerato uno dei migliorivirtuosi africani, e Kilema, uno che tuttorafa concerti in tutto il mondo con le suechitarre artigianali, che lui stesso si co-struisce usando addirittura i freni delle bi-ciclette.Tutto questo per dire della ricchezza di unpatrimonio sonoro degno di venire scopertoo riscoperto anche qui da noi. Il boom

della cosiddetta World Music sembravapreludere quasi a un’invasione di band esolisti dall’Africa, ma alla fine dei conti solopochissimi – dalla compianta Cesaria Evoraal senegalese Youssou Ndour - hanno di-mostrato di possedere un fascino e unaforza carismatica in grado di sopravvivere

all’usurante sovrapporsi dellemode. Un peccato, perché inMadagascar come nel vicinoMozambico esistono tesori so-nori che oltre a costituirne unaprimaria espressione di culturae di coesione sociale, sono ancheun meraviglioso tramite per farcircolare nel mondo quell’idea difraternità universale sempre piùnecessaria in questi tempi di pro-tezionismi, integralismi autorefe-renziali e paure nevrotiche.

Franz Coriasco

[email protected]

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MADAGASCAR

LA MUSICACOLORATA

MU

SIC

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U na grande isola - la quarta più grandeal mondo - persa nell’azzurrità del-

l’Oceano Indiano, di fronte alle coste mo-zambicane. Un passato coloniale, un pre-sente di povertà diffusa e di bassa qualitàdella vita. Come in tutti i Paesi africani,anche in Madagascar la musica rivesteun ruolo centrale nella cultura locale, enon certo da oggi. A dominarla strumentia corda tradizionali come il kabosy, unaspecie di mandolino, e poi il marovany

(una specie di cetra), il locanga, un violinoa tre corde, e il sodina, una specie diflauto.Una cultura sonora ricchissima trapuntata

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Missio Ragazzi

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in cerca di uno strumento completo perfar vivere la dimensione missionaria aituoi ragazzi, c’è una proposta che fa perte: si intitola “Costruisci un Pontemondiale!” e può essere ciò che aspet-tavi da tempo.Con l’inizio del prossimo anno pasto-rale prenderà il via un nuovo “gioco” dalanciare con l’avvio delle attività e con-cludere a giugno. Per la verità “Costrui-sci un Ponte mondiale!” è molto più cheun semplice gioco. È uno strumentocompleto per l’animazione missionariadei ragazzi, un modo divertente per aiu-

«I ncoraggio gli educatori a col-tivare nei piccoli lo spiritomissionario. Che non siano

bambini e ragazzi chiusi, ma aperti;che il loro cuore vada avanti versol’orizzonte, affinché nascano tra lorotestimoni della tenerezza di Dio e an-nunciatori del Vangelo».Se sei un animatore, un catechista, uninsegnante che vuole prendere sul se-rio questo invito di papa Francesco e sei

Costruisci unPonte mondiale!

di CHIARA [email protected]

VITA DI MISSIO

tarli a sviluppare la loro dimensionemissionaria, vivendo i quattro impegniche la caratterizzano: la preghiera, cheunisce i Ragazzi Missionari di tutto ilmondo e insegna a diventare amici diGesù; la condivisione, che aiuta a nondimenticare i bambini più bisognosi;l’annuncio, che porta la Parola di Dionella vita quotidiana; la fraternità, cheinvita a diventare amici di tutti.Il cammino proposto invita i ragazzi avivere in maniera strutturata i loroquattro impegni attraverso un percor-so che segue l’anno liturgico:• in ottobre, mese che la Chiesa dedi-

ca alla missione, si comincia l’annocon il mandato missionario e la con-segna della Carta d’identità del Ra-gazzo Missionario;

• da ottobre a gennaio si propone di vi-vere l’annuncio e la condivisione, va-lorizzando la Giornata Missionaria

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Mondiale (che cade nella penultimadomenica di ottobre), l’Avvento, ilTempo di Natale e la Giornata Mis-sionaria dei Ragazzi (che la Chiesapropone di celebrare in concomitan-za della solennità dell’Epifania);

• da febbraio alla festa di Pasqua siconcentra l’attenzione sulla pre-ghiera, valorizzando la GiornataMondiale del Malato (11 febbraio), laGiornata di Preghiera e Digiuno peri Missionari Martiri (24 marzo) e ilTempo di Quaresima;

• dalla festa di Pasqua a giugno, infi-ne, si propone di vivere la fraterni-tà, con la gioia che caratterizza ilTempo di Pasqua, la solennità diPentecoste e il “compleanno” dellaSanta Infanzia (ovvero l’anniversariodella fondazione dell’Opera, che cadeil 19 maggio).

Trasformando in azioni questi quattroimpegni, i Ragazzi Missionari si prefig-gono di costruire un “Ponte Mondiale”,fatto di fede, amicizia e solidarietà coni bambini del mondo.Concretamente il “gioco” viene propo-sto a livello comunitario (gruppo mis-sionario, catechismo, scout, AzioneCattolica, classe scolastica, ecc.) o in-dividuale (un singolo ragazzo che di suavolontà aderisce all’iniziativa).A settembre chi è interessato si potràiscrivere al progetto “Costruisci unPonte mondiale!”

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tramite la pagina web di MissioRagazzi, fornendo i propri dati(per il gruppo, bastano quelli diun referente; per il singolo,quelli di un genitore). Riceve-rà una password per accede-re ad un’area riservata costi-tuita da tante pagine quantisono gli impegni da vivere:man mano che l’anno litur-gico procederà, qui verrannopubblicate proposte di atti-vità/giochi/dinamiche digruppo/iniziative ad hoc darealizzare comunitariamen-te o individualmente permettere in pratica la con-divisione, l’annuncio, lapreghiera e la fraternità.Nel frattempo verrà edificato un pon-te speciale, a quattro rampe, una perogni impegno: si tratta di montare, pas-so dopo passo, una struttura in 3D del“Ponte mondiale” (fornita dal segreta-riato di Missio Ragazzi a tutti gli iscrit-ti), da esporre nella sede del gruppo (otenere in un punto ben visibile dellacasa, se l’iscrizione è individuale) e dacompletare man mano che l’annoavanza e il gruppo/singolo vive gli im-pegni proposti.L’obiettivo è quello di costruire “unponte” con tutto il mondo, in ogni am-biente di vita quotidiana e verso ogni

continente, perché – come dissepapa Francesco durante la Gior-nata Mondiale della Gioventù diCracovia del luglio 2016 – «iponti uniscono. Quando tu strin-gi la mano a un amico, a unapersona, tu fai un ponte uma-no. Invece, quando tu colpisciun altro, insulti un altro, tu co-struisci un muro. Io voglio ve-dere tanti ponti umani … Ècosì. Questo è il programma divita: fare ponti, ponti umani».A fine anno pastorale, nello

spazio web verrà pubblicato uno sche-ma di attività conclusiva in cui il grup-po prende atto di aver raggiunto il pro-prio obiettivo e fa una sorta di verifi-ca degli impegni vissuti: i ragazzi si sonoaggiudicati il titolo di “costruttori diponte mondiale”, ovvero di “pontefici”,e rilanciano ai loro amici la proposta difare altrettanto durante l’anno succes-sivo.Ma costruire un Ponte mondiale vuoldire anche renderlo vivo, abitato, fre-quentato da personaggi provenienti daogni angolo del pianeta.Come procurarseli? Man mano che lerampe del ponte prenderanno forma,insieme alla rivista dei Ragazzi Missio-nari Il Ponte d’Oro, verranno spedite lefigurine (personaggi, bandierine, ecc.)da ritagliare e collocare sulla struttu-ra tridimensionale. Inoltre sul mensileper i piccoli, di numero in numero ver-ranno anche pubblicati racconti e fotodelle attività che gruppi o singoli invie-ranno alla redazione per documenta-re il loro operato.Sarà un aiuto in più per i ragazzi chehanno scelto di mettersi all’opera e di-ventare costruttori di ponti nei loro am-bienti quotidiani.

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VITA DI MISSIOConvegno nazionale dei direttori

e delle équipe dei Cmd

A Sacrofano per sognareuna Chiesa in missione

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

A lla presenza di 150 partecipan-ti provenienti da tutte le dioce-si italiane, Sacrofano ospita il

Convegno nazionale dei direttori e del-le équipe dei Cmd (8-10 giugno) daltema “Sognate anche voi questa Chie-sa - Per una progettualità missionaria allaluce dell’Evangelii Gaudium”. «È un mo-mento molto importante per Missio e larete dei Centri missionari diocesani»spiega don Michele Autuoro, direttoredella Fondazione Missio, che continua:«Siamo qui per una riflessione comune,per confrontarci in un laboratorio in cuila partecipazione attiva di tutti, a par-tire dalla tappa del Convegno ecclesia-le nazionale di Firenze intitolato “In GesùCristo il nuovo umanesimo” (novembre2015), cerca di indicare il nostro cammi-no dei prossimi anni. In quella occasio-ne il papa ci ha chiesto di leggere nei no-stri ambiti e di dare forma a quanto ciha scritto nella lettera programmatica delsuo pontificato che è l’Evangelii Gau-dium, per sognare una Chiesa tuttamissionaria, “in uscita” capace di un rin-novato slancio dell’azione missionaria».Leggiamo infatti nell’Evangelii Gau-dium che «ogni cristiano e ogni comu-nità discernerà quale sia il cammino cheil Signore chiede, però tutti siamo invi-tati ad accettare questa chiamata: usci-re dalla propria comodità e avere il co-raggio di raggiungere tutte le periferieche hanno bisogno della luce del Van-gelo» (EG, 20). E don Autuoro sottolinea

l’Evangelizzazione dei popoli e la Coo-perazione tra le Chiese, la relazione dimonsignor Nunzio Galantino, Segreta-rio generale della Cei, spiega qualisono “Le vie del Convegno di Firenze perun rinnovato impulso missionario del-le Chiese locali che sono in Italia”;mentre monsignor Giuseppe Lorizio,professore di Teologia della PontificiaUniversità Lateranense, approfondisce“La missio ad gentes alla luce dell’Evan-gelii Gaudium”; l’introduzione al lavo-ro dei laboratori è affidata al professorLuciano Meddi, docente di Catecheticamissionaria della Pontificia UniversitàLateranense.

che «insieme vogliamo cercare di proget-tare le risposte alle sfide dell’evangeliz-zazione del nostro tempo, dandoci del-le linee pastorali comuni di azione perun servizio missionario più adeguato alleesigenze delle nostre Chiese locali.Il Convegno di Sacrofano è un momen-to conclusivo di un ampio lavoro di rete,ascolto e contatti tra Missio e i Cmd permettere a fuoco esigenze, tematiche eprogettualità. Dopo il Convegno di dueanni fa a Fiuggi, ora si torna a fare ilpunto della situazione e delle esigenzelocali emergenti. Dopo l’apertura dimonsignor Francesco Beschi, presiden-te della Commissione episcopale per

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ABanani, quartiere periferico diDacca, il Seminario maggioreHoly Spirit è un punto di riferi-

mento importante per la comunità cri-stiana della capitale e di tutto il Bangla-desh. Il Seminario filosofico-teologico èl’unico del Paese con 160 milioni di abi-tanti, in cui l’islam è la religione di Sta-to, ampiamente maggioritaria (oltre il90%), mentre l’induismo ha una picco-la percentuale (8,7% circa) e i cristianisono solo 300mila, ovvero lo 0,3% del-la popolazione. Una piccola Chiesa mamolto attiva e in crescita, organizzata inotto diocesi, presiedute da un vescovo lo-cale e un centinaio di parrocchie con cir-ca 300 fedeli l’una. La vitalità della pic-cola Chiesa del Bangladesh, più volte se-gnata da violenze fondamentaliste, è te-stimoniata dal lavoro dei missionari (so-

PER AIUTARE I MISSIONARI E LE CHIESEDEL SUD DEL MONDO ATTRAVERSO LE PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE:- Bonifico bancario intestato a

Missio Pontificie Opere Missionariepresso Banca Etica (IBAN: IT 55 I 05018 03200 000000115511)

- Conto Corrente Postale n. 63062855intestato a Missio - Pontificie OpereMissionarie, via Aurelia 796 – 00165 Roma

(informazioni: [email protected] –06/66502620)

Sono l’organismo ufficiale della Chiesa cattolica per aiutare le missioni e le Chiese del Sud delmondo nell’annuncio del Vangelo e nella testimonianza di carità. Approvate e fatte proprie dallaSanta Sede nel 1922, sono presenti in 132 Paesi. In Italia operano nell’ambito della FondazioneMissio, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana.Attraverso un fondo di solidarietà costituito dalle offerte dei fedeli di tutto il mondo provvedono a:• finanziare gli studi e la formazione di seminaristi, novizi, novizie e catechisti;• costruire e mantenere luoghi di culto, seminari, monasteri e strutture parrocchiali per le attività

pastorali;• promuovere l’assistenza sanitaria, l’educazione scolastica e la formazione cristiana di bambini e

ragazzi;• sostenere i mass-media cattolici locali (tv, radio, stampa, ecc.);• fornire mezzi di trasporto ai missionari (vetture, moto, biciclette, barche).

PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE

motivazioni personali a compiere lamissione evangelizzatrice col cuore e latestimonianza di vita».In un contesto di grande povertà in cuii bambini e le donne sono spesso costret-ti a lavorare per pochi spiccioli, i nuovicristiani provengono soprattutto dalle et-nie tribali come quelle dei Santal, deiMandi, degli Uran e dei Mahali. Grazie aisussidi della Pontificia Opera di SanPietro Apostolo, l’Holy Spirit major Se-minary continua ad annunciare la Buo-na Novella ai giovani preti del futuro del-la Chiesa bengalese.

(a cura di Miela Fagiolo D’Attilia)

GRAZIE AMICIGRAZIE AMICISolidarietà delle Pontificie Opere Missionarie

BANGLADESH

Annunciare la Buona Novella

CHI FA UN’OFFERTA PER LA MISSIONE UNIVERSALE ATTRAVERSO LE

PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE ITALIANE CONTRIBUISCE ALLA

SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE CHE ARRIVA FINO AGLI ESTREMI CONFINI

DELLA TERRA. GRAZIE ALLA GENEROSITÀ DI CHI DONA, OGNI ANNO

VENGONO REALIZZATI PROGETTI DI DISPENSARI, ASILI, SCUOLE, SEMINARI,

CHIESE IN TUTTI I PAESI DEL SUD DEL MONDO. BASTA APRIRE L’ATLANTE

DELLA MISSIONE PER SCOPRIRE DOVE UOMINI, DONNE E BAMBINI DI

TUTTE LE RAZZE E LE CULTURE RICEVONO L’AIUTO CHE PARTE DALL’ITALIA.

prattutto del Pime e dell’Istituto dei Sa-veriani), delle congregazioni e dai 13 nuo-vi preti ordinati nel 2016 a cui si aggiun-geranno i 103 seminaristi interni (più unacinquantina di esterni) che si preparanoal sacerdozio presso il Seminario diret-to dal rettore padre Emmanuel Rozarioche dice: «Negli ultimi anni il Bangladeshha assistito ad un aumento delle voca-zioni maschili, al contrario di quanto av-viene in Europa e Stati Uniti. I Semina-ri sono pieni di giovani e un numero sem-pre maggiore di ragazzi si accosta alla vitareligiosa». Molti sacerdoti sono andati al-l’estero per svolgere il lavoro missiona-rio e due vescovi cinesi hanno chiesto dimandare missionari del Bangladesh. «Nelprocesso di formazione religiosa e pasto-rale dei nostri studenti - continua il ret-tore – molta attenzione viene fatta alle

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VITA DI MISSIOdi

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«U n mondo migliore si costruisce anche grazie a voi,alla vostra voglia di cambiamento e alla vostra ge-

nerosità. Non abbiate paura di ascoltare lo Spirito che visuggerisce scelte audaci, non indugiate quando la coscien-za vi chiede di rischiare per seguire il Maestro». È l’invitoche papa Francesco rivolge a tutti i giovani del mondoin occasione della pubblicazione del documentopreparatorio al prossimo Sinodo dei Vescovi che avràcome tema "I giovani, la fede e il discernimento voca-zionale".Tra le scelte audaci che il papa ci spinge a perseguire,c'è sicuramente quella di sperimentare «la capacità dicollaborare per costruire la nostra Casa Comune». Un mes-saggio pieno di speranza che il papa manda a tutti at-traverso l'Enciclica Laudato Si’.Missio Giovani quest'anno ha proposto un percorso diformazione missionaria per adolescenti e giovani sceglien-do di leggere questa Enciclica sul Creato per sottolinea-re l'importanza di assumere uno stile di vita evangelico,che rispetti tanto l'uomo quanto il Creato. Un percorsoche giunge alla sua conclusione in questo mese di giu-gno con l'ultima scheda intitolata "Scelte Etiche".L'Enciclica esprime fortemente il bisogno di mettere in attonuovi stili di vita sottolineando come quelli attuali non sonopiù sostenibili poiché, così facendo, le generazioni futu-re non conosceranno questo mondo così com'è. Ecco cheallora la tappa "Scelte Etiche" ci pone di fronte alla scel-ta concreta che porta al cambiamento.La nostra società, l'economia, le scelte politiche posso-no e devono cambiare. E i giovani sono chiamati a fare laloro parte. Certo, non si può pensare di risolvere da solii problemi del mondo. Solo pensarlo demoralizza e so-prattutto non risulta possibile. Ognuno dovrebbe far par-tire il cambiamento nel proprio piccolo, solo così si avran-no effetti sul "macro".È proprio partendo da questa consapevolezza che Mis-sio Giovani ha individuato alcune delle scelte etiche che

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PROTAGONISTI DEL CAMBIAMENTOPROTAGONISTI DEL CAMBIAMENTO

propone ai giovani missionari e ai loro gruppi parrocchia-li o diocesani suggerendo di compierne qualcuna insie-me. Non si tratta di azioni straordinarie, fuori portata, mapartendo dalla propria vita, di scegliere di compiere azio-ni diverse nel corso delle giornate, nei posti che si frequen-

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tano e con chiunque si ha accanto in ogni momento.Ognuno di noi può prendersi cura del territorio in cui vive,della propria città o del proprio quartiere così da contri-buire alla cura della Casa Comune. Si può scegliere di ri-durre la produzione di rifiuti, comprare prodotti con pocoimballaggio e fare la raccolta differenziata per prevenirelo spreco di materiali potenzialmente utili e senza produr-re ulteriori rifiuti. Utilizzare forme di energia alternativa eridurre le sostanze inquinanti. Ridurre il trasporto inquinan-te utilizzando mezzi pubblici o non motorizzati con la pos-sibilità di apprezzare maggiormente i vari luoghi del pro-prio territorio.Bisogna diventare consumatori responsabili. «È un fatto che,

quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle im-prese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo.Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consuma-tori. Acquistare è sempre un atto morale, oltre che eco-nomico». Così Papa Francesco sottolinea quale dovreb-be essere il ruolo di ogni consumatore: le imprese dipen-dono da tale comportamento, dunque ogni consumato-re ha il potere di cambiare ciò che non è giusto sceglien-do di acquistare in maniera critica. Ad esempio, sceglien-do di sostenere il commercio equo e solidale che garan-tisce al produttore e ai suoi dipendenti un prezzo giustoe assicura la tutela del territorio. In questo modo si sce-glie di non essere complici delle multinazionali che inqui-

nano la terra, sfruttano i lavoratori e corrom-pono i governi. Scegliendo di consumare“prodotti a Km 0”, rispettando la stagiona-lità, scegliendo di consumare in maniera so-bria, informata, liberandosi di ciò che è inu-tile e scegliendo di riscoprire l'essenziale.«La cura autentica della nostra stessa vita edelle nostre relazioni con la natura è inse-parabile dalla fraternità, dalla giustizia e dal-la fedeltà nei confronti degli altri». È que-sta forse la scelta più "audace" che il papainvita a compiere: abbattere la logica delrifiuto nei confronti degli altri e vivere nel-la logica dell'accoglienza.Essere custodi della Casa Comune vuoldire innanzitutto essere custodi dei fratel-li. Bisogna scegliere di "incontrarsi", piùrapporti interpersonali e meno comunica-zione mediatica, di spendere tempo nelcoltivare relazioni piuttosto che accumu-lare cose, di difendere e di aiutare chi ènel bisogno poiché nessuno può ritener-si superiore ad un altro, contrariamentea ciò che insegna oggi la logica del po-tere.Tocca ai giovani avere il coraggio di ve-dere positivo, riscoprire la bellezza,prendere coscienza delle proprie poten-zialità, svilupparle, cambiare stile divita, compiere scelte etiche che li ren-dano piccoli tasselli, la cui somma rap-presenta l'immagine di un mondo mi-gliore.

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Intenzioni

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I N T E N Z I O N E D I P R E G H I E R A D E L P A P AM

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di MARIO [email protected]

«I l commercio delle armi èpeccato grave» così afferma-va papa Benedetto XVI nel-

l'intervista ai giornalisti che erano conlui sul volo che lo riportava a Romada Beirut, nel settembre 2012. La duracondanna del commercio delle armidimostrava la determinazione e il co-raggio con cui papa Ratzinger assun-se in prima persona la guida di inizia-tive forti su un tema spinosissimo,proprio nel momento in cui nelNord del Libano si stava scatenandouna situazione molto pericolosa. Inquell’intervista il papa continuava di-cendo che «bisogna porre fine all'im-portazione di armi in Siria. Senza que-sto la guerra non può finire; anzichéarmi occorre piuttosto importarecreatività e idee di pace: il mercato del-le armi è peccato grave». BenedettoXVI dava in questo modo concretadefinizione a quanto già stabilito nelCatechismo della Chiesa cattolica, se-condo cui la produzione e il commer-cio delle armi inquinano il bene co-mune delle nazioni e della comuni-tà internazionale.Nel solco tracciato dal suo predeces-sore, papa Francesco osserva che «la

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Bloccare i trafficidi morte

guerra contro il male comporta direno all’odio fratricida e alle menzognedi cui si serve; dire no alla violenza intutte le sue forme; dire no alla pro-liferazione delle armi e al loro com-mercio illegale: di questo, in giro peril mondo, ce n’è tanto, troppo! Sonoquesti i veri nemici da combattere».In un recente intervento, papa Ber-goglio, a cui questi temi stanno par-ticolarmente a cuore, ha chiesto inuna preghiera al Signore Risorto di«darci il coraggio di fermare il dila-gare dei conflitti e di bloccare il traf-fico delle armi». Gli interventi di papaFrancesco - si sa - sono molto applau-diti e apprezzati, in particolar modonegli ambienti diplomatici, ma i re-

sponsabili delle nazioni (specialmen-te quelli cattolici) fanno quasi sem-pre “orecchi da mercante” a questi ap-pelli, soprattutto coloro che dall’in-dustria bellica ricavano una voceimportante per l’accrescimento delloro Pil nazionale.San Giovanni Paolo II affermavache le armi, una volta costruite e ven-dute sul mercato internazionale, an-che se non verranno mai usate, apro-no un circuito diabolico, in quanto laspesa sostenuta dalle nazioni peraverle, sottrae risorse umane, tecno-logiche e scientifiche che potrebberoessere utilizzate per far crescere i po-poli che ancora oggi vivono nel sot-tosviluppo, nella fame e nella pover-tà cronica. Le stesse risorse potrebbe-ro alleviare le sofferenze di chi soffremalattie endemiche e magari trovareuna soluzione adeguata e definitiva ailoro problemi.Preghiamo e speriamo davvero che iresponsabili delle nazioni si impegni-no seriamente nelle sedi appropriate,con decisione, a mettere fine al com-mercio delle armi causa in tante(troppe) nazioni del mondo di miglia-ia di vittime innocenti.

“ “PER I RESPONSABILIDELLE NAZIONI, PERCHÉSI IMPEGNINO CONDECISIONE PER PORREFINE AL COMMERCIODELLE ARMI CHE CAUSATANTE VITTIMEINNOCENTI.

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I N S E R T O P U M

nario che per primo sentì l’esigenzadi abbattere i pregiudizi identitari.«L’Unione – diceva Manna nel 1929– è un problema che riguarda tutti icristiani, perché il frazionamentodel cristianesimo in reciproco conflit-to è il più grande tradimento a Cri-sto». Ciro Biondi ha spiegato che«Manna è stato il più grande missio-nario che abbiamo mai avuto, nono-stante si definisse un missionario fal-lito», perché prima di altri intuì »

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di ILARIA DE [email protected]

61esimo Convegno missionario nazionale dei seminaristi

Vangelo, dialogoe missioneQuest’anno è stata l’arabeg-

giante Monreale, con la suacattedrale di Santa Maria

Nuova, a fare da cornice al 61esimoConvegno missionario nazionale deiseminaristi (“Evangelizzazione e uni-tà dei cristiani”) organizzato dallaPontificia Unione Missionaria dal 27al 30 aprile scorsi. Luogo ecumeni-co ed interreligioso per eccellenza, nelcorso dei secoli Monreale ha visto al-ternarsi al potere arabi, normanni,borboni e angioini. Che ne hannopersino modificato il culto. Nell’831d.C. la chiesa fu trasformata dagli ara-bi in moschea, poi tornò ad essere ilduomo che conosciamo, apprezzatoda credenti e non credenti. Grazie aisuoi gioielli: il Cristo Pantocrator e igiganteschi mosaici biblici che dall’al-to osservano i fedeli.Nei quattro giorni di convegno la cat-tedrale è stata punto di riferimentofisso per gli oltre 150 seminaristi in-tervenuti all’evento. In apertura deilavori (sulle colline di Poggio sanFrancesco) padre Ciro Biondi, Segre-tario nazionale della Pontificia Unio-ne Missionaria, ha parlato del beatoPaolo Manna (1872-1952), missio-

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cente, dicono i futuri sacerdoti. Dalloro confronto è nata una sintesi: i ra-gazzi chiedono di non rimanerechiusi in Seminari “eremitici”, ma diabitare il mondo e le sue sfide. Unarichiesta è quella di «aumentare le oc-casioni di scambio e contatto perso-nale e comunitario tra di loro in Ita-

che l’unità tra le Chiese precedel’evangelizzazione. Il giorno succes-sivo è toccato al teologo domenica-no Claudio Monge e al professor Ful-vio Ferrario, decano della facoltàTeologica valdese di Roma. «La mis-sione non è strategia di conquista dinuovi mercati – ha chiarito subito pa-dre Monge che è parroco ad Istanbul– ma respiro della Trinità che ci rin-nova».Noi cattolici «ricerchiamo comemendicanti le intuizioni spirituali de-gli altri (altre Chiese, altre fedi,ndr)», poiché da soli difficilmente riu-sciamo ad abbracciare l’intera Veri-tà. «Dio è dialogo e la Trinità stessaè dialogo», ha detto padre Claudio.«Non si può pensare di vivere da cri-stiani spolverando reliquie: il rischiooggi è quello di lasciare troppo spa-zio ad una Chiesa che parla tramitedecreti e formalismi autoreferenzia-li, rispondendo a domande che in re-altà nessuno le ha mai posto».Intuizione accolta appieno dai giova-ni seminaristi: l’approccio pragmati-co al tema del dialogo è quello vin-M

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lia e all’estero», di fare esperienze mis-sionarie «non solo nella forma clas-sica ad gentes, ma anche nelle situa-zioni di marginalità, sofferenza, disa-gio, solitudine e povertà». Le loro ri-chieste, raccolte in un documento fi-nale che verrà presentato ai vescovi,parlano di un desiderio di «formazio-ne alla vita celibataria che non puòprescindere dal contributo anche difigure femminili e di chi vive l’incar-nazione dell’ideale evangelico in al-tri stati di vita». (Il documento ver-rà pubblicato per intero nel prossimonumero). Passato e presente, teologiae vita si sono così intrecciate in que-sti giorni di convegno ed è stato pos-sibile parlare, ad esempio, del teolo-go protestante Dietrich Bonhoeffersenza per ciò allontanarsi dal pragma-tismo. Il professor Fulvio Ferrario haillustrato l’efficace azione ecumeni-ca di Bonhoeffer «la cui figura è di persé tale – ha detto - da resistere ad ogniaccaparramento confessionale». Seb-bene «il contributo decisivo di Bon-hoeffer al confronto tra protestante-simo e cattolicesimo verrà offerto solodopo la sua morte», questa figura ri-mane un’icona del dialogo che con-tinua ad affascinare anche la Chiesadi oggi. Tanto da far dire ai semina-risti che «la base ha voglia di confron-to, senza rinunciare alla certezza del-l’identità. Non si tratta di perderla,ma semmai di metterla in gioco, stan-do nel qui ed ora».La tavola rotonda del terzo giorno dilavori ha messo fattivamente a con-fronto il pastore evangelico MauroAdragna, della Chiesa della Riconci-liazione, e il rappresentante dellaChiesa russo-ortodossa a Palermo,Andrej Perfenchyk. «Andiamo avan-ti a collaborare tra di noi nella pra-tica, perché l’unione sia visibile – ha

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I N S E R T O P U M

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F rancesco ha 23 anni ed è entrato in Seminario minore a Mol-fetta che ne aveva appena dieci. «Quando mia mamma

seppe, iniziò a piangere e mi disse: “sono sicura che tra una set-timana sarai di nuovo a casa”. Sono passati 13 anni, tra poco saròdiacono e la mia scelta è stata riconfermata mille volte». La suaè una delle tante storie di vocazione e discernimento, che abbiamoraccolto durante i giorni del convegno diMonreale. Francesco ha anche interrottoil cammino del seminario anni fa ma l’haripreso: «L’estate tra il secondo e il terzoliceo – ci racconta – mi innamorai di unaragazza e decisi di prendermi del tempoper riflettere. Eppure non ero felice. Quel-l’anno non rientrai in Seminario a set-tembre ma a metà dicembre. Qualcosa digrande cresceva in me. Allora andai dallamia ragazza e le dissi: “Non posso rima-nere con due piedi in una staffa”».Niccolò, 28 anni del Seminario di Ve-rona, racconta: «Ero un ragazzo moltocostruito, il mio problema era voler pia-cere al mondo intero, ma volendo a tuttii costi piacere agli altri non sapevo più chi fossi io». Spiega chela vocazione è un percorso: «Di solito mi diverto a dire che ho vi-sto la Madonna ma non è così! Mi ero laureato nella triennale inlingua iraniana a Venezia, però non era una scelta genuina. Loavevo fatto perché mi appariva prestigioso». Così Niccolò decidedi abbandonare il corso e di mettersi a studiare teologia: «La seralavoravo come pizzaiolo e la mattina andavo all’università». A quelpunto arriva l’intuizione: entrare in Seminario. Niccolò spiegache «agli occhi del mondo rinunci a un sacco di cose: alle donne,al divertimento, ad una carriera accademica. Ma guadagni l’au-tenticità che ti fa respirare; la smetti di essere in tensione e dici:“Signore, grazie!”». E ancora: «Guardi gli altri e pensi che sei tanto

manchevole quanto loro, se non di più». Giuseppe, 40 anni, delSeminario di Molfetta, dice: «Ho fatto l’architetto a Milano per cin-que anni; ma sentivo il bisogno di aiutare gli altri. Il sabato e la do-menica mettevo a disposizione la mia cucina per le ripetizioni dimatematica ai ragazzi della parrocchia. Mi accorgevo che, oltreall’insegnamento, passavano le loro storie. Un giorno venne una

mamma e mi disse: “Sono malata, ho untumore, ti affido mio figlio, stagli vicino”.Dopo due mesi questa donna morì e iocapii che avevo desiderio di essere padredi tutti». Da quest’atto di fiducia, la voca-zione: «Sentivo un vuoto che non riu-scivo più a colmare; la matita non scivo-lava più sul foglio». Giuseppe per tre annivive una storia d’amore: «Ma era comequando abbracci una persona e senti chec’è ancora tanto spazio disponibile e nevuoi abbracciare delle altre. Incominci afare i conti con i limiti umani ma in quel li-mite vivi la pienezza». Daniele di Bologna,35 anni, ha lavorato per tre anni come in-gegnere edile: «Il punto di svolta è arrivato

quando ho capito che avevo ricevuto tutto e in abbondanza: da-vanti a questo ben di Dio, mi chiedevo: “Da dove viene?”. Quandoho capito, ho deciso. Dovevo rispondere al dono con un altrodono: fare il prete».

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«Rispondere al dono con un altro dono»LE VOCI DEI SEMINARISTI

detto Adragna – se continuiamo a trincerarci dietro pre-giudizi e paure ci troveremo sempre degli alibi dottrina-li ed allora sarà la fine». L’ortodosso Perfenchyk ha repli-cato: «Il tempo della divisione appartiene al passato: a Pa-lermo oggi abbiamo 150 cittadini di etnia russa, mentrea Catania ce ne sono 500. Alle celebrazioni della Chiesarusso-ortodossa prendono parte molti serbi, bulgari, ge-orgiani ed eritrei», pertanto, stare in dialogo, in un mon-do interconnesso, è diventata un’esigenza storica.

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Page 68: PADRE PAOLO DALL’OGLIO La profezia violata · Testo e foto di Laura Aprati PANORAMA 26 _ Un libro collettivo sul gesuita rapito in Siria Padre Paolo e la profezia violata di Riccardo