Osservazioni di osso equino al microscopio elettronico a scansione e...

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ISSN 1123-3117 Rapporti ISTISAN 05/37 ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Osservazioni di osso equino al microscopio elettronico a scansione e alla microtomografia 3D Rossella Bedini (a), Pietro Ioppolo (a), Raffaella Pecci (a), Perla Filippini (a), Salvatore Caiazza (a), Alessandra Bianco (b), Gioele Columbro (b) (a) Dipartimento di Tecnologie e Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma (b) Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche, Università degli Studi “Tor Vergata”, Roma

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ISSN 1123-3117 Rapporti ISTISAN

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ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ

Osservazioni di osso equino al microscopio elettronico a scansione

e alla microtomografia 3D

Rossella Bedini (a), Pietro Ioppolo (a), Raffaella Pecci (a), Perla Filippini (a), Salvatore Caiazza (a),

Alessandra Bianco (b), Gioele Columbro (b)

(a) Dipartimento di Tecnologie e Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma (b) Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche,

Università degli Studi “Tor Vergata”, Roma

Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e Direttore responsabile: Enrico Garaci Registro della Stampa - Tribunale di Roma n. 131/88 del 1° marzo 1988 Redazione: Paola De Castro, Sara Modigliani e Sandra Salinetti La responsabilità dei dati scientifici e tecnici è dei singoli autori. © Istituto Superiore di Sanità 2005

Istituto Superiore di Sanità Osservazioni di osso equino al microscopio elettronico a scansione e alla Microtomografia 3D. Rossella Bedini, Pietro Ioppolo, Raffaella Pecci, Perla Filippini, Salvatore Caiazza, Alessandra Bianco, Gioele Columbro 2005, 38 p. Rapporti ISTISAN 05/37

Lo scopo di questo lavoro è di analizzare innesti per ricostruzioni ossee provenienti da tessuto osseo equino, prodotto industrialmente, attraverso immagini microtomografiche e immagini al microscopio elettronico a scansione (Scanning Electron Microscope, SEM). Tali campioni sono stati opportunamente trattati dall’azienda produttrice: sono stati deantigenati e solo alcuni demineralizzati. L’analisi è volta a valutare la qualità del sistema di deantigenizzazione e demineralizzazione effettuate, a misurare la porosità dei campioni e a valutare la nuova metodica microtomografica. La tecnica di microtomografia tramite strumentazione Skyscan 1072 permette osservazioni strutturali senza nessun trattamento particolare del campione oppure alterazioni o danneggiamento dello stesso. Inoltre è possibile effettuare una acquisizione con ricostruzione 3D delle condizioni del campione, sia prima che dopo un test o un impianto, per esempio, in animale, poiché tale tecnica non altera in nessun modo l’oggetto indagato. Dai risultati ottenuti emerge che la tecnica di microtomografia 3D, tramite strumentazione Skyscan 1072, è da considerarsi una valida e sostanziale alternativa all’osservazione effettuata con microscopio elettronico a scansione.

Parole chiave: Osso equino, Ricostruzioni ossee, Microtomografia, SEM Istituto Superiore di Sanità Scanning electron microscope and 3D microtomography observations of equine bone. Rossella Bedini, Pietro Ioppolo, Raffaella Pecci, Perla Filippini, Salvatore Caiazza, Alessandra Bianco, Gioele Columbro 2005, 38 p. Rapporti ISTISAN 05/37 (in Italian)

The aim of this work was to analyze some grafts for bone reconstructions from equine bone tissue, industrially producted, by means of 3D micro-tomography and Scanning Electron Microscope (SEM) images. These samples have been treated by the manufacturer in a suitable way: they have been deantigenized and some of them have been demineralized. In order to evaluate the quality of the deantigenization and demineralization system the analysis was made, to measure the porosity of the samples and to estimate the new micro-tomographyc method. The 3D micro-tomography technique with Skyscan instrumentation allows to perform structural observations without any particular treatment, alteration or damaging of the sample. Moreover it is possible to perform an acquisition with a 3D reconstruction of the sample, both before and after a test or an implant, for example, into an animal, because this technique does not alter the tested object in any way. Results show that the 3D micro-tomography technique, with Skyscan 1072 instrumentation, could be considered as a valid and effective alternative to the SEM observation.

Key words: Equine bone, Bone reconstructions, Micro-tomography, SEM Per informazioni su questo documento scrivere a: [email protected]. Il rapporto è accessibile online dal sito di questo Istituto: www.iss.it.

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INDICE

1. Generalità sulle ricostruzioni ossee................................................................................... 1 1.1. Tessuto osseo ............................................................................................................................... 1 1.2. Fratture e loro guarigione ............................................................................................................ 4 1.3. Biomateriali per ricostruzioni ossee............................................................................................. 5 1.4. Biocompatibilità .......................................................................................................................... 6

2. Raggi X............................................................................................................................................. 8 2.1. Composizione dello spettro.......................................................................................................... 8 2.1.1. Spettro continuo ................................................................................................................ 9 2.1.2. Spettro caratteristico.......................................................................................................... 9 2.2. Interazione con la materia............................................................................................................ 10 3. Microtomografia computerizzata tridimensionale a raggi x .................................... 11 3.1. Caratteristiche della radiazione utilizzata .................................................................................... 11 3.2. Il rilevatore................................................................................................................................... 11 3.3. Ricostruzione di un’immagine tomografica................................................................................. 12 3.4. Immagini digitali: caratteristiche, acquisizione, qualità, elaborazione ........................................ 12 3.4.1. Caratteristiche.................................................................................................................... 13 3.4.2. Acquisizione...................................................................................................................... 13 3.4.3. Qualità e rapporto segnale/rumore .................................................................................... 14 3.4.4. Elaborazione...................................................................................................................... 17 3.5. Caratteristiche e applicazioni principali....................................................................................... 21 4. Microscopia elettronica a scansione .................................................................................. 22 4.1. Analisi chimica qualitativa e quantitativa con la tecnica EDAX ................................................ 23 4.2. Analisi morfologiche al SEM ...................................................................................................... 23 4.3. Conclusioni .................................................................................................................................. 24 5. Indagini sperimentali ................................................................................................................. 25 5.1. Materiali e metodi........................................................................................................................ 25 5.1.1. Morfologia e caratteristiche dell’osso equino.................................................................... 25 5.2. Risultati........................................................................................................................................ 26 5.3. Discussione .................................................................................................................................. 33 5.4. Conclusioni .................................................................................................................................. 37 Bibliografia.......................................................................................................................................... 38

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1. GENERALITÀ SULLE RICOSTRUZIONI OSSEE

1.1. Tessuto osseo

Il tessuto osseo è una forma specializzata di tessuto connettivo, caratterizzata dalla mineralizzazione della matrice extracellulare. Esso è costituito da cellule e da matrice intercellulare.

La matrice organica è formata di fibre collagene (collagene di tipo I) immerse in una matrice amorfa. La matrice amorfa contiene altre glicoproteine, quali proteine di adesione, osteocalcina (un prodotto specifico degli osteoblasti), osteonectina, BMP, piccoli proteoglicani. La matrice minerale dell’osso ha composizione simile all’idrossiapatite.

L’osso deve la sua robustezza alle fibre collagene e la sua durezza ai sali minerali. All’esame ad occhio nudo si possono distinguere due tipi di osso: l’osso spugnoso, che ha un

aspetto alveolare ed è costituito da una rete tridimensionale di sottili trabecole nelle cui maglie intercomunicanti è accolto il midollo osseo, e l’osso compatto, che appare invece come una solida massa eburnea.

Le epifisi delle ossa lunghe sono formate da osso spugnoso ricoperto da un sottile strato periferico di osso compatto, mentre la diafisi appare come un cilindro cavo la cui parete, formata da osso compatto, circoscrive una cavità midollare centrale.

La superficie esterna non-articolare delle ossa è rivestita da una guaina connettivale, il periostio; uno strato di cartilagine ialina, la cartilagine articolare, riveste invece le superfici articolari.

Nelle ossa in accrescimento un disco di cartilagine, la cartilagine di coniugazione, separa l’epifisi dalla diafisi.

L’esame microscopico dell’osso maturo mostra che esso è organizzato in lamelle distinte, spesse circa 5 nm (tessuto osseo lamellare). Ciascuna lamella è costituita da cellule e da sostanza intercellulare; le fibre collagene sono orientate nella stessa direzione in una determinata lamella e in direzioni diverse in lamelle contigue.

Le cellule (osteociti) sono accolte in cavità lenticolari, le lacune ossee, scavate nella matrice calcificata. Dalle lacune si irradiano canalicoli ossei ramificati che si anastomizzano con quelli delle lacune vicine, fino a raggiungere le cavità midollari o i canali vascolari. Nell’osso compatto sono infatti presenti canali vascolari orientati più o meno perpendicolarmente tra loro: canali di Havers e canali di Volkmann.

Le lamelle dell’osso compatto formano tre tipi diversi di strutture. Gli osteoni, o sistemi haversiani, sono formati da un canale (di Havers) orientato

parallelamente all’asse maggiore dell’osso, circondato da una serie di lamelle concentriche. I sistemi interstiziali sono dei residui di osteoni riassorbiti, e si formano nel corso del

rimodellamento osseo. Alla superficie esterna dell’osso e alla sua superficie interna, al di sotto dell’endostio, vi

sono alcuni strati di lamelle disposti circolarmente, a formare i sistemi circonferenziali, esterno e interno.

I sistemi lamellari dell’osso spugnoso non formano strutture organizzate, ma semplici trabecole. L’aspetto microscopico del periostio è quello di una guaina di connettivo denso, ancorata sull’osso sottostante mediante fibre collagene perforanti (di Sharpey).

Le cellule dello strato interno del periostio mantengono potenzialità osteogeniche. L’endostio appare come una sottile lamina di cellule pavimentose che riveste tutte le cavità

interne delle ossa.

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Il tessuto osseo immaturo che forma lo scheletro del feto differisce da quello dell’adulto: le fibre collagene non formano fasci paralleli organizzati in lamelle, ma fasci intrecciati (osso non lamellare, a fibre intrecciate). Nel corso del rimodellamento questo tessuto osseo immaturo gradatamente rimosso per fare posto alla cavità del midollo osseo, o sostituito dal tessuto lamellare, a fibre parallele. Nel rimodellamento si verificano simultaneamente processi di riassorbimento e di deposizione di nuovo tessuto osseo. I processi di rimodellamento dell’osso continuano poi per tutta la vita.

Nelle ossa in accrescimento si distinguono quattro tipi cellulari. Le cellule osteoprogenitrici sono le cellule staminali del tessuto osseo, che permangono –

anche nell’adulto – sulle superfìci libere dell’osso maturo; esse derivano dalla cellula mesenchimale e non sono morfologicamente distinguibili dai comuni fibroblasti.

Gli osteoblasti sintetizzano i componenti organici della matrice e regolano anche la deposizione di sali minerali. Sono cellule cuboidali, basofile, localizzate in corrispondenza delle superfìci in via di espansione delle ossa.

Gli osteociti sono le cellule più numerose dell’osso maturo; sono cellule quiescenti, accolte nelle lacune ossee e fornite di prolungamenti citoplasmatici; sono nutriti tramite la rete di canalicoli e di canali vascolari scavati nella matrice.

Gli osteoclasti sono sincizi polinucleati forniti di attività erosiva verso la matrice ossea, accolti in fossette scavate sulla superficie della trabecola ossea, le lacune di Howship. La superficie degli osteoclasti rivolta verso l’osso presenta un orletto striato costituito da esili prolungamenti citoplasmatici. Gli osteoclasti appartengono alla famiglia dei monociti - macrofagi, il cui differenziamento in osteoclasti ne richiede un’interazione diretta con gli osteoblasti. Il riassorbimento osseo comporta una sequenza di eventi che inizia con l’adesione degli osteoclasti alla matrice (mediata da integrine) e la delimitazione di un microambiente in cui si svolgerà l’azione erosiva. Il microambiente viene acidificato ad opera di una pompa protonica situata nella membrana dell’orletto striato. Il pH acido solubilizza i sali minerali, esponendo la matrice organica alla digestione operata da enzimi (una proteasi lisosomale e una collagenasi) rilasciati dall’osteoclasto. L’osso origina sempre da un tessuto mesenchimale preesistente.

Si riconoscono due tipi di osteogenesi: intramembranosa (o diretta) e endocondrale (o indiretta).

Nella prima, che riguarda le ossa della volta del cranio e parte delle ossa della faccia, l’osso si forma direttamente in seno al mesenchima per differenziazione delle cellule mesenchimali in osteoblasti. Questi cominciano a secernere una densa matrice eosinofila ricca di fibre collagene e si dispongono a ridosso dello strato di tessuto osteoide neoformato, inizialmente privo di sali minerali, che subisce presto la mineralizzazione. Il tessuto osseo membranoso immaturo è di tipo spugnoso, con trabecole di osso non lamellare che delimitano lacune inizialmente occupate da mesenchima e successivamente da tessuto emopoietico. Il successivo rimaneggiamento dell’ osso immaturo porta alla formazione di osso (spugnoso e compatto) di tipo lamellare.

Nell’ossificazione indiretta l’osso è invece preceduto da un modello cartilagineo che viene poi sostituito da tessuto osseo: le ossa della base del cranio, della colonna vertebrale, del torace, del bacino e degli arti sono per tale motivo denominate ossa condrali o ossa di sostituzione.

Tutti i centri primari di ossificazione endocondrale compaiono nelle diafisi entro il terzo mese di vita intrauterina. I centri di ossificazione delle epifisi {centri secondari) compaiono molto più tardivamente.

L’inizio dell’ossificazione endocondrale è segnato dalla proliferazione e successiva ipertrofia dei condrociti. Le cellule cartilaginee ipertrofiche secernono il fattore angiogenico VEGF, che induce la gemmazione di vasi dal pericondrio e li attrae verso il centro di ossificazione. Come conseguenza dell’ipertrofìa delle cellule (che subito dopo muoiono per apoptosi), le lacune

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cartilaginee si ingrandiscono a spese della matrice circostante, che gradualmente si assottiglia. La matrice cartilaginea ialina residua si calcifica per deposizione di sali di calcio e viene poi parzialmente riassorbita dai condroclasti, con formazione di cavità che vengono occupate dall’invasione vascolare e dal mesenchima.

Dal mesenchima si differenziano quindi osteoblasti, che si ancorano sulla superficie delle spicole di cartilagine calcificata e cominciano a secernere matrice osteoide.

Contemporaneamente a queste modificazioni riguardanti la diafisi le cellule dello strato profondo del pericondrio si differenziano in osteoblasti e depositano attorno alla diafisi un sottile strato di tessuto osseo, il manicotto o collare periostale. Il collare periostale si forma per ossificazione membranosa e diventa progressivamente più spesso a mano a mano che l’ossificazione procede.

L’accrescimento in lunghezza di un segmento scheletrico dipende dalla presenza della cartilagine di coniugazione. Per tutto il periodo di sviluppo questa continua ad allungarsi per accrescimento interstiziale dal lato rivolto verso l’epifisi e ad essere contemporaneamente sostituita da osso dal lato rivolto verso il centro diafisario (metàfisi).

Nella cartilagine di coniugazione si può identificare l’ordinata sequenza delle tappe dell’ossificazione endocondrale, sotto forma di zona della cartilagine in riposo, zona di proliferazione, zona di ipertrofia, zona della cartilagine calcificata, zona di invasione vascolare e di deposizione di osso.

Allorché, nell’adulto, i condrociti del disco epifisario cessano di proliferare, il processo di ossificazione procede fino alla sostituzione completa della cartilagine del disco (chiusura dell’epifisi).

La mineralizzazione della matrice ossea si svolge in tre fasi: la prima fase è caratterizzata dalla comparsa nella matrice di minuti globuli calcificanti (o vescicole della matrice), rilasciati da condrociti, osteoblasti e odontoblasti, che costituiscono la sede iniziale di mineralizzazione della matrice. Un secondo stadio porta all’accrescimento dei nuclei fino alla formazione di strutture cristalline orientate; segue infine una terza fase, di coalescenza delle aree mineralizzate, in intimo rapporto con le fibre collagene.

Il controllo della formazione e del rimodellamento del tessuto osseo risulta dalla interazione di molti fattori.

L’ormone paratiroideo agisce sugli osteoblasti (e, per loro tramite, indirettamente anche sugli osteoclasti), sul rene e sulla produzione di vitamina D. Il paratormone, oltre che stimolare indirettamente il riassorbimento della matrice ossea, come detto sopra, ha anche l’effetto di impedire l’apoptosi degli osteoblasti, con conseguente aumento della produzione di matrice ossea. La calcitonina inibisce invece l’attività degli osteoclasti. L’uso terapeutico della calcitonina è però ostacolato dal fatto che le cellule esposte all’ormone perdono il recettore stesso. Vari ormoni sistemici, fattori di crescita e sali minerali parimenti giocano un ruolo nell’istogenesi ossea. Un eccesso di ormoni glucocorticoidi provoca ad esempio una riduzione dell’assorbimento intestinale di calcio e fosfato e un aumento della loro escrezione renale. Poiché i glucocorticoidi inducono anche apoptosi negli osteoblasti, il risultato è una diminuzione della massa ossea totale (osteoporosi). Gli ormoni tiroidei sono essenziali per un normale accrescimento osseo, in particolare nello stimolare la maturazione della cartilagine del disco epifìsario. Anche se gli ormoni sessuali appaiono essere importanti regolatori dell’accrescimento e del ricambio scheletrico, poco si conosce sul loro meccanismo d’azione, che è probabilmente indiretto. Lo sviluppo delle ossa è influenzato anche da altri ormoni (per es. l’ormone della crescita, GH, o ormone somatotropo, che stimola la proliferazione della cartilagine di coniugazione) e da vitamine (A, C e D).

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Infine, anche alcuni ioni appaiono avere un ruolo nella regolazione funzionale delle cellule ossee. Il calcio può ad esempio intervenire nel metabolismo osseo principalmente controllando la secrezione degli ormoni calcio-regolativi (1).

1.2. Fratture e loro guarigione

Una frattura dell’osso è semplicemente una soluzione della sua continuità. Esistono vari tipi di fatture.

Una frattura semplice è quella nella quale la pelle resta intatta sulla zona di frattura dell’osso. Si parla di frattura composta allorché è presente anche una ferita dei tessuti molli che può

essere causata da uno dei monconi che perfora la cute o dall’agente (per esempio un proiettile) che ha causato la frattura.

Una frattura “a legno verde” è quella nella quale un lato dell’osso è rotto o scheggiato e l’altro lato è solo piegato.

Una frattura completa comporta la rottura trasversale dell’osso a tutto spessore. Una frattura epifisaria si realizza tra epifisi e diafisi dell’osso.

Una frattura comminuta è quella nella quale si forma un certo numero di frammenti a causa di uno schiacciamento o della scheggiatura dell’osso.

Se le estremità fratturate di un osso vengono poste a contatto e immobilizzate, si verifica il normale processo di guarigione.

Al momento della frattura alcuni vasi vengono rotti e fanno fuoriuscire del sangue attorno alle estremità fratturate dell’osso; si forma un coagulo che viene invaso da cellule connettivali le quali formano tessuto di granulazione e nuovi capillari.

Gli osteoblasti del periostio, posti sulla superficie dell’osso, e quelli dell’endostio che riveste le cavità midollari e i canali di Havers si moltiplicano rapidamente e producono una certa quantità di tessuto osteoide detto callo. Questo tessuto colma la distanza tra i monconi dell’osso, riempie le cavità midollari per una certa misura e circonda completamente le estremità lese dell’osso, formando una struttura efficace che solitamente impedisce i movimenti tra i segmenti. Appena il callo viene mineralizzato, si trasforma in osso vero e proprio.

Il processo di guarigione viene poi completato dalla riorganizzazione del callo per formare la tipica diafisi dell’osso con la relativa cavità midollare.

Un cattivo allineamento delle ossa fratturate può essere in parte corretto dall’azione degli osteociti e degli osteoclasti che rimuovono anche gli accrescimenti eccessivi del callo osseo.

Non appena l’osso viene di nuovo impiegato, inizia l’orientamento funzionale del callo con una tendenza a raddrizzare le imperfezioni nell’allineamento dell’osso. Il callo aumenterà nel lato concavo ove lo stress è più forte, e tenderà ad essere eroso nel lato convesso, con il risultato di una correzione delle deformazioni. Il grado di correzione spontanea possibile nelle fratture dipende da un certo numero di fattori, tra cui l’età, la vascolarizzazione dell’osso, l’entità della correzione necessaria, la presenza o meno di infezioni e il grado di danno subito dai tessuti circostanti.

L’eccessiva separazione dei frammenti, che può essere causata da una esagerata trazione sui monconi o da immobilizzazione inefficace della frattura, può esitare in una mancata unione e la distanza fra i frammenti viene colmata da tessuto fibroso. Le guarigioni più rapide avvengono in giovane età se il punto di frattura è ben vascolarizzato ed è completamente immobilizzato con le estremità dei frammenti ben apposti.

Nella specie umana, per esempio, una frattura può guarire completamente in un mese in un bambino, ma in un tempo di molto più lungo in una persona che abbia superato la mezza età.

A volte un osso può venire riparato innestando un altro pezzo di osso nella stessa area.

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Se l’osso impiantato appartiene alla stessa specie e, più ancora, se appartiene allo stesso animale, la porzione di osso dell’innesto a contatto con i liquidi corporei può sopravvivere e i suoi osteoblasti possono attivarsi. Nello stesso tempo gli osteoclasti provvedono a rimuovere le parti morte che vengono sostituite con osso neo-formato se l’innesto è funzionale e sottoposto alla giusta quantità di stress.

Se l’innesto proviene da un animale appartenente a specie diversa, tutti i suoi osteoblasti muoiono perché l’organismo ricevente tende a rifiutare tutte le proteine estranee (2).

1.3. Biomateriali per ricostruzioni ossee

Un biomateriale è un materiale progettato per interagire con sistemi biologici per valutare, trattare, incrementare o sostituire tessuti, organi o funzioni corporee (3).

Molti materiali sono attualmente in uso come biomateriali e, considerando la loro natura chimica, possono essere suddivisi in: metalli, polimeri sintetici, ceramici (cristallini, porosi, a base di fosfato di calcio), compositi, materiali di origine biologica.

Nelle ricostruzioni ossee i materiali artificiali utilizzati sono i ceramici porosi e i ceramici a base di fosfato di calcio. L’utilizzo di materiale poroso prevede la crescita del tessuto in rigenerazione all’interno dei pori.

L’impianto, quindi, serve ad immobilizzare le estremità fratturate e funge da supporto per la ricrescita dell’osso. Esso può anche essere studiato per essere un supporto attivo e quindi stimolare la ricrescita ossea.

Si può anche progettare il materiale in modo che esso venga degradato in un determinato periodo di tempo e venga sostituito dal materiale naturale del tessuto ospite.

Questa, se lo consentono i requisiti di resistenza meccanica e di performance a breve termine, rappresenta la soluzione ottimale per un biomateriale per ricostruzioni ossee poiché i tessuti naturali possono ripararsi e sostituirsi da soli nel corso della vita. Quindi, bomateriali riassorbibili sono basati su principi biologici di riparazione tissutale evolutisi nel corso di milioni di anni.

Condizioni necessarie che i materiali bioriassorbibili devono soddisfare sono: mantenimento della resistenza meccanica e stabilità interfacciale durante il periodo di degradazione e sostituzione da parte del tessuto ospite naturale; la loro velocità di riassorbimento deve essere paragonabile alla velocità di ricrescita del tessuto; poiché grandi quantità di materiale devono essere sostituite, il biomateriale riassorbibile deve essere composto solo da sostanze metabolizzabili.

In questi particolari impianti, l’interfaccia tessuto-biomateriale è costituita dal tessuto vivente presente all’interno dei pori. Per questo motivo ci si riferisce a questo tipo di adesione col termine fissazione biologica.

Inoltre, affinché il tessuto interporoso rimanga vivo, è necessario garantire sufficiente apporto sanguigno. Quindi, per ottenere una corretta proliferazione vascolare è necessario che il diametro dei pori non sia inferiore a 100 µm.

Come già detto, materiali artificiali in uso per questo tipo di applicazione sono i ceramici porosi e i ceramici a base di fosfato di calcio porosi.

Questi sono utilizzati prettamente per impianti non sollecitati meccanicamente poichè la resistenza meccanica decresce rapidamente all’aumentare della porosità, oppure in impianti dove la crescita dell’osso agisce da fase di rinforzo.

Non vengono utilizzati materiali metallici porosi perché l’incremento di area superficiale potrebbe costituire un focolaio per l’innesco del processo corrosivo dell’impianto che porterebbe al conseguente rilascio di ioni non metabolizzabili nel tessuto.

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Per questo tipo di applicazioni si può ricorrere anche a materiali biologici e quindi si possono avere impianti di tessuto osseo proveniente dal paziente stesso (impianti autologhi), da essere vivente della stessa specie (impianti omologhi) o di specie diversa (impianti eterologhi).

I più diffusi tra questi sono quelli eterologhi per ovvi motivi di disponibilità del tessuto da impiantare.

Il tessuto proveniente da animale, per essere impiantato e tollerato dall’ospite, deve essere sottoposto ad opportuni trattamenti.

Il processo di trattamento prevede la deantigenizzazione del tessuto che è finalizzata alla eliminazione delle proteine solubili. Ciò è necessario perché le proteine solubili potrebbero funzionare da antigeni per il sistema immunitario dell’ospite, scatenando quindi una risposta dell’organismo che porterebbe al fallimento dell’impianto. La deantigenizzazione può essere compiuta esponendo il campione ad opportuni agenti chimici o enzimatici ad una determinata temperatura.

Il processo di trattamento del tessuto potrebbe prevedere anche la sua demineralizzazione o idratazione/disidratazione.

I trattamenti opportuni da effettuare sono scelti in base al tipo di applicazione del dispositivo. Impianti eterologhi possono anche essere progettati per essere bioriassorbiti dall’ospite.

Infatti, qualsiasi superficie ossea esposta ai fluidi tessutali tende ad erodersi se non è ricoperta da cellule osteogeniche.

Tuttavia, tutti i materiali elencati fino ad ora presentano problemi relativi alla biocompatibilità (4).

1.4. Biocompatibilità

La biocompatibilità è definita come la capacità di un materiale di essere utilizzato per una specifica applicazione ottenendo una risposta idonea dal sistema ospite (3).

La risposta biologica innescata da biomateriali e dispositivi è controllata principalmente dalla composizione chimica dello strato superficiale.

La regione superficiale è caratterizzata da elevata reattività dovuta alla presenza di siti di legame liberi. Essa è quindi soggetta alla presenza di contaminanti.

Gli eventi immediatamente successivi ad un impianto sono in ordine cronologico: – adsorbimento di proteine; – adesione cellulare; – attivazione cellulare. L’adsorbimento di proteine comporta la formazione di uno strato proteico che aderisce alla

superficie del biomateriale. La natura dello strato proteico dipende dalle proprietà superficiali dell’impianto, dalle proprietà e affinità per la superficie delle proteine disperse nell’ambiente circostante e dalla organizzazione delle proteine adsorbite. Lo strato proteico che si forma non è una struttura statica, ma dinamica con variazione nel tempo dei tipi proteici, conformazione e composizione. Le proteine adsorbite sul substrato solido subiscono comunque delle variazioni nella loro struttura tridimensionale. Inoltre si ritiene che le proteine presenti sulla superficie non sono libere di ruotare poiché l’adsorbimento coinvolge numerosi legami con la superficie solida. Sembra poi che l’orientazione sia la stessa per tutte le proteine dello stesso tipo. Le caratteristiche dello strato adsorbito rispecchiano le proprietà di superficie del materiale. In seguito alla interazione con proteine solubili, la superficie del materiale estraneo diventa biologicamente attiva poiché lo strato adsorbito induce una risposta cellulare specifica alla superficie dell’impianto che determinerà il grado di biocompatibilità di quest’ultimo. Dopo la formazione dello stato proteico, nel sito dell’impianto arrivano cellule per diffusione,

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convezione, o locomozione. Le cellule che arrivano vedono essenzialmente lo strato proteico interfacciale, anche se esse, in realtà, possono entrare in contatto diretto col materiale mediante pseudopodi che attraversano lo strato proteico preadsorbito o consumando le proteine immobilizzate sulla superficie.

Una volta raggiunto il sito dell’impianto, le cellule aderiscono allo strato proteico e tale processo è mediato da recettori specifici per le proteine adsorbite. L’adesione cellulare avviene principalmente tramite contatti focali e close contact (mediati da specifiche proteine adesive come la fibronectina). Il legame ligando-recettore induce un cambio conformazionale delle proteine transmembrana della cellula innescando una specifica risposta biochimica.

In questo modo le cellule vengono attivate e l’effetto finale può essere: modificazione della forma della cellula e della morfologia della membrana plasmatica; rilascio di granuli citoplasmatici; espressione di selectine, moltiplicazione e organizzazione in tessuto. Tali processi cellulari determinano la risposta dell’ospite all’impianto e questa può portare all’integrazione del dispositivo nel tessuto ospite (elevata biocompatibilità) o al suo rigetto (scarsa biocompatibilità).

Per un impianto per ricostruzione ossea si può parlare anche di biocompatibiltà meccanica. Il concetto di biocompatibilità meccanica è relativo al diverso modo di deformazione dell’ospite e della protesi. Il loro diverso modulo di elasticità provoca diverse deformazioni nei due mezzi, e ciò causa movimenti relativi sia in fase di applicazione che in fase di rilascio della sollecitazione. Se questi movimenti non rimangono in campo elastico, si possono creare tensioni residue in grado di provocare scorrimenti relativi tra le superfici, necrosi del tessuto osseo, mobilizzazione della protesi e, conseguentemente, rimozione di quest’ultima.

Con opportune modificazioni superficiali è possibile migliorare la biocompatibilità di un impianto mantenendo inalterate le sue proprietà meccaniche e funzionalità. Tali modificazioni prevedono il controllo del livello di contaminazione della superficie in modo da evitare la presenza di contaminanti indesiderati.

Per dispositivi per ricostruzioni ossee è possibile far adsorbire sulla loro superficie, anticipatamente al loro innesto, fattori di crescita del tessuto osseo, in modo da promuovere la riformazione del tessuto naturale.

Tuttavia, nonostante la possibilità di effettuare tali modificazioni superficiali, i materiali che risultano più biocompatibili sono quelli di natura biologica. Essi hanno anche il vantaggio di presentare una elevatissima biocompatibilità meccanica. Per ovvi motivi di disponibilità, gli impianti più frequenti sono quelli eterologhi.

Fino a qualche anno fa i materiali per impianti eterologhi provenivano dai bovini; recentemente il tessuto bovino non è più utilizzato a causa della epidemia spongiforme bovina (Bovine Spongiform Encephalopathy, BSE). Il problema viene aggirato usando tessuto equino, che viene impiegato nella formazione di supporti (scaffold) per ricostruzioni ossee (4).

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2. RAGGI X

Ai tempi di Maxwell, la luce e le adiacenti radiazioni infrarossa e ultravioletta erano i soli tipi di radiazione elettromagnetica noti.

Oggi lo spettro elettromagnetico comprende un grande intervallo di tipi diversi di radiazioni originati da un grande numero di sorgenti differenti.

Dalla teoria di Maxwell si conclude che, anche se queste radiazioni sono molto diverse per quanto riguarda le loro proprietà, il modo di produrle e il modo in cui si possono osservare, esse hanno molte caratteristiche in comune: tutte possono essere descritte in termini di campi elettrici e magnetici, e tutte si propagano attraverso il vuoto alla stessa velocità (la velocità della luce).

In effetti, dal punto di vista fondamentale, esse differiscono unicamente per la lunghezza d’onda o la frequenza.

Nello studio della struttura dei materiali, le radiazioni utilizzate hanno lunghezza d’onda caratteristica dei raggi X che è compresa tra 0.01÷10 ηm.

I raggi X possono essere prodotti a lunghezze d’onda discrete in transizioni atomiche tra gli elettroni più interni di un atomo (i più fortemente legati) e possono essere prodotti anche quando particelle cariche (come gli elettroni) vengono decelerati.

Le lunghezze d’onda dei raggi X corrispondono circa alla distanza tra gli atomi dei solidi; perciò la diffusione dei raggi X da parte dei materiali è un modo utile per studiare la loro struttura.

Al contrario di altri tipi di onda, come le onde acustiche, i raggi X non hanno bisogno di un mezzo per propagarsi e hanno alcune proprietà fondamentali:

– per essi vale la relazione v=λν, essendo v la velocità, λ la lunghezza d’onda, ν la frequenza;

– si propagano in linea retta se il mezzo è omogeneo; – la loro intensità diminuisce inversamente al quadrato della distanza dalla sorgente

puntiforme; – producono fenomeni di interferenza e diffrazione; – non sono deflessi dai campi magnetici. Si può pensare una tale onda (seguendo Maxwell) come un sistema di campi elettrici e

magnetici che variano nel tempo e nello spazio, o (seguendo Einstein) come un fascio di fotoni, ciascuno in moto alla velocità della luce.

Secondo Maxwell, l’energia per unità di area trasportata dall’onda è proporzionale a E2, dove E rappresenta l’ampiezza del vettore campo elettrico.

Secondo Einstein, questo flusso di energia è proporzionale al numero medio di fotoni per unità di volume contenuto nel fascio, in cui ciascun fotone possiede un’energia pari a hν.

Si nota un legame tra la rappresentazione ondulatoria e quella corpuscolare della radiazione: la nozione, introdotta per la prima volta da Einstein, che il quadrato dell’intensità del campo elettrico è una misura diretta della densità media dei fotoni (5).

2.1. Composizione dello spettro

I raggi X si generano quando gli elettroni emessi da un filamento incandescente vengono accelerati da una differenza di potenziale, colpiscono un bersaglio metallico e vengono frenati.

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2.1.1. Spettro continuo

Lo spettro dei raggi X ha una parte continua e una formata da due picchi incisivi, detta caratteristica.

Si consideri un elettrone, dotato di energia cinetica K, che viene deviato dal nucleo di uno degli atomi che costituiscono il bersaglio di molibdeno. In una collisione simile viene trasferita quantità di moto all’atomo da parte dell’elettrone, che perde quindi energia. Dato che l’atomo è molto più massiccio, la quantità di moto ceduta dall’elettrone si traduce in un’energia cinetica trascurabile per l’atomo. L’energia persa dall’elettrone si manifesta sotto forma di un fotone X di energia hν, che viene irraggiato dal luogo d’impatto.

Questo processo viene chiamato “radiazione di frenamento”, talvolta indicata col corrispondente termine tedesco di “bremsstrahlung”, ed è responsabile dello spettro continuo dei raggi X.

Si supponga che un fascio di elettroni venga accelerato da una differenza di potenziale V e incida su bersaglio spesso. Attraverso il processo di frenamento entro la struttura del bersaglio, gli elettroni possono perdere una qualunque quantità di energia da zero alla loro energia massima pari a Ve.

Una caratteristica importante dello spettro continuo è il valore di soglia che si verifica in modo netto alla lunghezza d’onda lmin, al di sotto del quale viene a mancare del tutto l’emissione radioattiva.

Questo valore minimo di lunghezza d’onda corrisponde a quell’evento di collisione in cui un elettrone incidente (dotato inizialmente della massima energia Ve) perde interamente la sua energia in un singolo impatto, irraggiandola sotto forma di un solo fotone, in modo che:

eV = hνmax = hc/lmin, ossia lmin = hc/eV. L’esistenza di una lunghezza d’onda di soglia è un effetto quantistico. Si noti che, cambiando il materiale, per esempio rame al posto di molibdeno, la forma

generale e l’intensità dello spettro continuo possono mutare, ma la lunghezza d’onda di soglia resta la stessa. Ciò è dovuto al fatto che questa particolare lunghezza d’onda dipende solo dall’energia cinetica degli elettroni che bombardano il bersaglio e non ha nulla a che fare con la sostanza di cui quest’ultimo è costituito.

2.1.2. Spettro caratteristico

Rivolgiamo ora la nostra attenzione ai due picchi, indicati con Ka e Kb. Questi picchi sono caratteristici del materiale di cui è costituito il bersaglio e, insieme con altri picchi che compaiono a lunghezze d’onda maggiori, formano lo spettro X caratteristico dell’elemento in questione.

Vediamo come si creano questi fotoni X caratteristici: – un elettrone incidente dotato di energia cinetica colpisce un atomo nel bersaglio che

espelle un suo elettrone che risiede negli strati più profondi dell’atomo. Se l’elettrone espulso si trovava nello strato caratterizzato da n=1 (chiamato per ragioni storiche strato K), rimane un posto libero chiamato lacuna, nello strato K;

– uno degli elettroni più esterni si sposta per colmare questa lacuna e durante il processo l’atomo emette un fotone X caratteristico. Se l’elettrone di rimpiazzo proviene dallo strato L (n=2), genera la riga Ka; se invece proviene dallo strato immediatamente più esterno (chiamato M), dà luogo alla riga Kb, e così via. Naturalmente queste transizioni lasciano una lacuna nello strato L o M, che verrà colmata da un elettrone ancora più esterno che così facendo provocherà l’emissione di un’altra riga caratteristica dello spettro.

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La linea di base (E=0) rappresenta l’energia dell’atomo neutro di molibdeno nel suo stato fondamentale.

Il livello indicato con K (E=20keV) si riferisce a quell’energia dell’atomo di molibdeno per il quale una lacuna è localizzata nello strato K. In modo simile, la linea L (E=2,7keV) è il livello di energia relativo ad una lacuna nello strato L, e via dicendo.

Nella pratica, non importa quale configurazione atomica scegliamo per rappresentare il livello di base ad energia convenzionalmente nulla: ciò che è significativo fisicamente sono le differenze di energia tra i vari livelli, che sono sempre le stesse indipendentemente dalla scelta del livello E=0.

La riga Ka, ad esempio, si genera quando un elettrone dello strato L del molibdeno, saltando verso l’alto nel diagramma dei livelli di energia, va a riempire una lacuna nello strato K.

Ciò corrisponde ad affermare che una lacuna, muovendosi verso il basso nel diagramma, passa dallo strato K allo strato L (5).

2.2. Interazione con la materia

La capacità di penetrazione è modesta nel caso di fotoni di bassa energia (< 0,1 MeV, fotoni “molli”); è elevata per fotoni di media e alta energia (>0,1 MeV, fotoni “duri”).

A differenza di particelle alfa ed elettroni, che hanno un percorso massimo oltre al quale non possono andare (range massimo), i fotoni non possono mai essere fermati del tutto, ovvero non esiste uno spessore di materiale, per quanto grande possa essere, per il quale si possa dire che ferma il 100% dei fotoni incidenti.

Ciò per il seguente motivo: la legge di attenuazione dei fotoni in un mezzo attraversato è tale che per ogni incremento di materiale schermante si ottiene lo stesso fattore di riduzione. Per esempio, supponiamo di avere un fascio composto di 100 fotoni; attraversato un dato spessore di materiale, che chiamiamo Xo, ne vengono eliminati il 10%. Rimangono così 90 fotoni, dopo un altro strato Xo ne vengono rimossi ancora il 10% di quelli presenti ovvero il 10% di 90 cioè 9. Restano così 81 fotoni. Dopo un altro Xo ne rimangono 72,9 e così via fino all’infinito (attenuazione esponenziale).

È chiaro quindi, che i fotoni non potranno mai essere eliminati del tutto, dovendosi sempre sottrarre la stessa percentuale di quelli presenti.

È possibile però determinare uno strato di materiale che riduca i fotoni ad un numero talmente piccolo da non comportare danni all’organismo umano. Ciò è quanto viene effettivamente fatto nel calcolo delle schermature delle sorgenti di radiazioni ionizzanti.

Lo Strato EmiValente (SEV) di un fascio di fotoni è dato dallo spessore di materiale che riduce alla metà l’intensità del fascio incidente (l’intensità è il numero di fotoni che attraversa l’unità di area (cm quadrato) nell’unità di tempo (secondo).

Si deve ricordare anche che qualsiasi radiazione monocromatica, una volta penetrata in un mezzo assorbente, dà luogo a radiazioni fotoniche diffuse, secondarie, di energia più bassa, a spettro continuo; dunque nel mezzo assorbente e quando emerge da esso si ritrova una radiazione policromatica, nel suo insieme meno dura della radiazione monocromatica incidente.

I meccanismi principali di assorbimento dei raggi X da parte della materia sono l’effetto fotoelettrico e l’effetto Compton (si rimanda a testi specifici per l’approfondimento dell’argomento).

Questi fenomeni fisici hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo scientifico e hanno portato alla comprensione della natura delle onde elettromagnetiche poiché non potevano essere spiegati con le teorie della fisica classica (5).

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3. MICROTOMOGRAFIA COMPUTERIZZATA TRIDIMENSIONALE A RAGGI X

La microtomografia a raggi X (microCT, micro Computerized Thomography) è una forma miniaturizzata di Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) convenzionale.

È una tecnica non distruttiva e fornisce le immagini tridimensionali (insieme di dati del volume) del coefficiente di attenuazione dei raggi X.

Con la microCT è quindi possibile ricostruire la struttura interna di un oggetto opaco senza che questo sia distrutto o preparato in alcun modo (non sono necessari tagli, coperture o trattamenti chimici del campione).

Qualunque microscopio, ottico o elettronico, fornisce visualizzazioni di immagini 2D e, in generale, a partire da queste non è possibile fornire una ricostruzione 3D dell’oggetto in esame. Solo con il sistema microCT ciò è possibile (anche con un’elevata risoluzione spaziale).

Come lavora la microCT? Una sorgente di raggi X illumina l’oggetto in esame, che è posizionato su un supporto

mobile. Il fascio incidente è collimato e molto sottile, in modo da illuminare una sezione stretta del campione. Il fascio incidente, a seguito dell’interazione della materia, subirà un’attenuazione della sua intensità. L’intensità della radiazione che emerge dal campione viene rilevata tramite un detector di alta risoluzione. I dati raccolti vengono poi trasmessi ad un opportuno calcolatore. L’oggetto viene poi ruotato a piccoli incrementi angolari per 180° e l’operazione viene ripetuta per ogni piccola rotazione. Un programma del calcolatore analizza i dati registrati per produrre un’immagine 2D dei coefficienti di assorbimento. L’immagine 3D è ottenuta per sovrapposizione di immagini 2D di sezioni adiacenti.

L’uso di un rilevatore CCD (Charge Coupled Device) permette la realizzazione di immagini con una risoluzione dell’ordine dei micron e limita al minimo il tempo di esame del campione (6).

3.1. Caratteristiche della radiazione utilizzata

La radiazione utilizzata (raggi X) è prodotta dal bombardamento di un materiale pesante con un fascio di elettroni (tubi a raggi X convenzionali).

Essa è policromatica, ma viene opportunamente filtrata con filtro passa-banda per ottenere una radiazione monocromatica che attenua il problema di indurimento del fascio e migliora notevolmente la sensibilità della microCT alle più piccole variazioni di assorbimento di raggi x all’interno del campione (risoluzione di contrasto). L’energia del fascio può essere sintonizzata sopra una vasta gamma permettendo che l’assorbimento ottimale dei raggi X sia scelto per ogni campione secondo il formato e/o la sua composizione.

Il fascio prodotto, inoltre, prima di incidere sul campione, deve essere opportunamente collimato in modo da consentire una scansione uniforme della sezione e un maggior numero di fotoni incidenti per unità di superficie.

3.2. Il rilevatore

Il rilevatore utilizzato è costruito con la tecnologia CCD. È composto da tre parti: – lo schermo al fosforo, che trasforma i raggi X in luce visibile;

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– un supporto di conduzione in fibra ottica, che conduce la radiazione visibile al CCD chip; – il CCD chip, che rileva la radiazione luminosa e la trasforma in segnale elettrico. Come lavora un CCD rilevatore? Una volta che i raggi X colpiscono lo schermo al fosforo, essi vengono trasformati in

radiazione luminosa. Quest’ultima va quindi a colpire i fotodiodi presenti nel CCD chip. A questo punto i diodi diventano conduttori e la corrente che li attraversa va a scaricare dei

condensatori direttamente collegati ad essi, caricati precedentemente, i quali avranno una tensione istantanea ai loro capi, minore di quella di partenza, inversamente proporzionale al flusso fotonico.

In questo sistema ogni diodo rappresenta un pixel. Quando il periodo di integrazione del detector si è concluso, una serie di interruttori si

chiudono e quindi la carica di ciascun condensatore viene trasferita ad un sistema di registrazione di questi dati che è composto da altri condensatori.

In seguito, la carica presente sui condensatori di registro viene trasmessa ad un convertitore A/D che infine trasmette i dati al sistema di elaborazione. Dopo che questo trasferimento è avvenuto, gli interruttori vengono riaperti e i condensatori attaccati ai fotodiodi vengono ricaricati.

A questo punto un nuovo periodo di integrazione può avvenire. Caratteristiche di questo tipo di rilevatore sono: – capacità di rilevare radiazioni incidenti anche per esposizioni prolungate senza problemi

di non linearità e di saturazione termica; – basso rumore. Ciò permette di generare immagini 3D con un alto rapporto segnale/rumore (SNR) e con una

elevata risoluzione spaziale (7).

3.3. Ricostruzione di un’immagine tomografica

In tomografia computerizzata l’immagine è costruita con un procedimento peculiare basato sulla Trasformata di Radon modificata. I passi sono qui di seguito sintetizzati:

– si misura l’attenuazione di un fascio di raggi X in un numero elevato di traiettorie parallele attraverso lo strato corporeo in studio;

– si determina la componente di attenuazione avvenuta nei singoli voxel (volume corporeo elementare) attraverso un algoritmo specifico di ricostruzione di immagini tomografiche (Retroproiezione);

– si realizza infine un display visivo su monitor dei valori numerici ricostruiti. Si ricordi inoltre che l’immagine tomografica computerizzata è un immagine digitale la cui

unità costitutiva è il pixel (all’aumentare della densità elettronica il pixel corrispondente al voxel avrà una gradazione di grigio via via sempre più chiara) (8).

3.4. Immagini digitali: caratteristiche, acquisizione, qualità, elaborazione

La parola digitale deriva dal vocabolo inglese “digit” che vuol dire cifra, numero, perciò “immagine digitale” significa letteralmente immagine “numerica”.

Se prendiamo in considerazione le immagini radiografiche, dette anche immagini analogiche, sappiamo che esse sono formate da un insieme di granuli di sali di argento che,

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ossidati dall’esposizione alle radiazioni X, precipitano durante il trattamento e assumono colore nero. Questi granuli, distribuendosi in maggiore o minore concentrazione sul supporto trasparente della pellicola, determinano nei diversi punti le differenti tonalità di grigio caratteristiche di questo tipo di immagine.

L’immagine digitale, invece, non è formata da granuli di sali di argento ma da tanti, piccolissimi quadratini, denominati “pixel” (da “picture elements” = elementi dell’immagine).

Ciascun quadratino presenta nel suo interno un’unica tonalità di grigio, tale tonalità varia per i diversi pixel a seconda dei punti dell’immagine.

Tutti i pixel uniti assieme formano una matrice bidimensionale o tridimensionale che da’ origine all’immagine finale.

Ad ogni pixel viene assegnato un numero, il cui valore assoluto corrisponde ad una determinata tonalità nella scala dei grigi.

Maggiore sarà il valore di questo numero, più il pixel tenderà al bianco su di un monitor televisivo e viceversa, per valori numerici che si avvicineranno allo zero, la tonalità acquisita dal pixel tenderà al nero.

Per le immagini a colori il tipo di discorso è simile, anche se in questo caso i diversi pixel assumeranno una differente gradazione dei tre colori principali: rosso, verde e blu. Queste gradazioni, sommandosi tra loro, produrranno una differente tonalità di colore finale per ogni pixel. L’insieme bidimensionale o tridimensionale di tutti i pixel formerà l’immagine digitale a colori.

3.4.1. Caratteristiche

L’immagine digitale altro non è che una matrice di numeri e, come tale, rispetto ad una immagine radiografica, che viene chiamata anche immagine analogica, presenta l’enorme vantaggio di poter essere utilizzata da un calcolatore elettronico che può visualizzarla su di un monitor, memorizzarla nel suo archivio elettronico, inviarla a distanza ad un altro calcolatore utilizzando un semplice collegamento telefonico, condividerla con altri computer per attività di teleconsulto.

A differenza delle immagini analogiche, che possono essere esaminate solo sul supporto e nel formato in cui vengono prodotte, le immagini digitali esistono in forma elettronica e pertanto possono essere visualizzate in qualunque formato e su qualunque tipo di supporto: monitor del computer, pellicola o carta.

Le immagini digitali possono essere archiviate insieme con i relativi referti, per poi essere richiamate in qualunque momento.

Ma la caratteristica più importante delle immagini digitali è, senza dubbio, la possibilità di modificarne le caratteristiche a seconda delle necessità per mezzo di algoritmi di elaborazione.

Tali algoritmi, costruiti per esaltare alcune componenti di una immagine, possono migliorare notevolmente le capacità di visualizzazione dell’occhio umano e consentire l’identificazione di particolari che altrimenti potrebbero essere persi.

3.4.2. Acquisizione Le immagini digitali possono essere prodotte direttamente o indirettamente. La produzione

diretta avviene quando l’immagine viene acquisita già in formato digitale, come nel caso della TAC.

Nella produzione indiretta, invece, l’immagine viene acquisita prima in forma analogica e poi trasformata in formato digitale (conversione analogico-digitale).

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Nella conversione analogico-digitale va sempre tenuta ben presente l’accuratezza della trasformazione, perché questa conversione si accompagna sempre ad una perdita di una parte di informazioni.

Prendendo nuovamente in considerazione la nostra immagine radiografica su pellicola, le tonalità di grigio in essa presenti sono innumerevoli, anche se l’occhio umano non riesce a percepirne più di 14-16 differenti, ma per trasformarla in un’immagine digitale dovremmo ridurre queste molteplici tonalità ad un numero più contenuto di esse. Si dovrà perciò definire una scala con 1000 o 2000 differenti gradazioni di grigio e assegnare poi a ciascun pixel, in cui viene suddivisa l’immagine, un determinato valore di questa scala.

Nella trasformazione di un’immagine in formato digitale si realizza la perdita di informazioni precedentemente segnalata.

Ciò si verifica su due piani differenti: il primo riguarda la compressione di una scala formata da moltissimi valori di grigio che viene ridotta a soli 1000 o 2000 valori differenti, il secondo è in relazione con le dimensioni dei pixel che utilizziamo per trasformare la nostra immagine che, per quanto piccoli, non saranno mai paragonabili a un punto geometrico (in genere maggiore di 2 µm).

Quindi, per stabilire l’entità di questa perdita di informazioni, dobbiamo prendere in considerazione i due più importanti parametri che caratterizzano un’immagine digitale: la risoluzione spaziale, definita dal numero di pixel che formano la matrice dell’immagine, e il range dinamico, determinato dal numero di valori di grigio presenti nell’immagine.

Se volessimo ottenere un’immagine digitale con la stessa risoluzione spaziale di quella analogica, un radiogramma di formato 35 x 43 cm dovrebbe essere scomposto in una matrice di 175.000 x 215.000 pixel. Tali dimensioni appaiono spropositate soprattutto in considerazione dello spazio di memoria necessario per archiviare tale immagine (37,6 Gbytes) e del fatto che l’attuale tecnologia dispone di monitors per la visualizzazione con risoluzione massima di circa 2000 x 2000 punti. È perciò necessario ridurre la matrice a valori più accettabili e con essa si ridurrà necessariamente la risoluzione spaziale in conseguenza dell’aumento delle dimensioni dei pixel. Se però consideriamo che in condizioni ottimali, elevata frequenza e massimo contrasto, la risoluzione spaziale dell’occhio umano non si spinge al di sotto di 0,1 mm, allora i valori della matrice, sempre per una immagine di formato 35 x 43 cm, possono scendere a 4096 x 5032 pixel, ampiamente compatibili con gli spazi e i costi delle memorie di massa attuali.

3.4.3. Qualità e rapporto segnale/rumore La qualità di un’immagine rappresenta uno dei fattori più importanti nella pratica della

analisi per immagini. Ciò è facilmente comprensibile per il fatto che immagini di scarsa qualità non consentono la visualizzazione di eventuali alterazioni presenti. Al contrario, evidenziano irregolarità che possono essere erroneamente interpretate.

Esistono dei parametri oggettivi che governano il contenuto informativo delle immagini digitali determinando quindi la possibilità di individuare la loro qualità. Tali parametri sono simili a quelli che consideriamo per le immagini analogiche, anche se nelle immagini digitali assumono maggiore importanza perché i sistemi elettronici sono molto più sensibili al degrado delle immagini di quanto non lo sia l’occhio umano. Inoltre, esistono dei fattori aggiuntivi che intervengono provocando un generale peggioramento della qualità dell’immagine. Tali fattori agiscono in modo del tutto casuale e possono essere solo parzialmente controllati, per ridurre i loro effetti, ma mai eliminati completamente. Essi intervengono producendo rumore, cioè inducendo un degrado o una perdita di una parte delle informazioni contenute nell’immagine.

Il rumore è quindi una componente intrinseca, anche se indesiderata, dei processi di acquisizione e trattamento delle immagini, sia di quelle analogiche che di quelle digitali, ma

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riveste un ruolo sicuramente più importante nelle apparecchiature digitali dove i sistemi elettronici sono particolarmente gravati da alcuni tipi specifici di rumore.

I fattori più importanti che determinano le caratteristiche qualitative di una immagine digitale sono rappresentati dalla risoluzione spaziale e da quella di contrasto.

Della risoluzione spaziale si è già accennato in un precedente paragrafo. La risoluzione di contrasto fa riferimento alla capacità di differenziare strutture vicine

mediante tonalità diverse di una scala di grigi. Tali differenze sono relative all’assorbimento di fotoni X per la tomografia computerizzata.

Il contrasto di una immagine, quindi, è ciò che ci consente di percepire le informazioni contenute nell’immagine stessa, ma, come si può ben comprendere se prendiamo ad esempio le immagini TC, non è solo importante un’elevata risoluzione di contrasto, per registrare anche le più piccole differenze esistenti tra strutture vicine, bensì risulta necessario avere la possibilità di modificare il contrasto in modo selettivo all’interno dell’immagine.

Un’altra possibilità largamente sfruttata consiste nello studio dell’immagine TC tramite una finestra sovrapposta alla scala dei grigi: i livelli che cadono all’interno della finestra attiva sono visualizzati creando il massimo contrasto tra loro mentre gli altri sono saturati ai valori più alti e più bassi della scala, cioè assumono tonalità di bianco o di nero. Questo procedimento è estremamente utile per studiare, sulla stessa immagine, fasi del campione che mostrano caratteristiche di interazione con le radiazioni elettromagnetiche nettamente differenti.

La risoluzione di contrasto viene espressa dal numero di livelli di grigio distinguibili nell’immagine.

Nei sistemi digitali questo numero è pari a 2 elevato al numero di bit che codificano per ciascun pixel. Si passa perciò dai 15-16 livelli di grigio percepibili in una immagine analogica ad almeno 256 livelli di un sistema ad 8 bit, che attraverso la regolazione della finestra consente una utilizzazione ottimale delle informazioni contenute nell’immagine.

Altri parametri ben codificati, da cui dipende la qualità d’immagine, sono l’uniformità spaziale e la linearità.

L’uniformità spaziale rappresenta l’attribuzione di uno stesso valore numerico a tutti i pixel relativi ad un’area omogenea e costante. La valutazione di questo aspetto riveste notevole significato nell’esecuzione dei controlli periodici sui sistemi elettronici e nella messa a punto di campioni di calibrazione.

Concettualmente collegata alla uniformità spaziale è la linearità. Con essa si esprime il rapporto di diretta proporzionalità esistente tra la densità di un punto dell’oggetto di riferimento e il valore registrato per il pixel corrispondente.

Si è più volte accennato all’esistenza di una entità di disturbo, il rumore, che agisce in senso negativo nei confronti della qualità delle immagini.

Esso è il risultato di diversi fattori che, seppur con meccanismi diversi, agiscono degradando le caratteristiche delle immagini. Tale azione può talvolta raggiungere livelli tali da rendere le immagini prive di significatività. Infatti, se due strutture di diversa opacità presentano differenze di assorbimento minori od uguali al rumore del sistema, esse saranno tra loro indistinguibili.

Pertanto la valutazione del rumore di un sistema elettronico assume particolare rilievo; ma un significato assai maggiore riveste la misura dell’effetto del rumore nel processo di formazione delle immagini.

Il rapporto segnale/rumore esprime una valutazione oggettiva di questa interferenza ed è sicuramente un elemento importante per un giudizio accurato della qualità di un sistema digitale.

Come già espresso in precedenza, ricordiamo che il rumore è una componente inscindibile del segnale e pertanto anche l’analisi più accurata delle fonti di rumore ci potrà consentire solo

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di incrementare il valore del rapporto segnale/rumore senza però poter mai eliminare la presenza di questa sgradita componente.

Il segnale sarà perciò associato a una componente spuria rappresentata dal rumore. Per ridurre l’effetto del rumore possiamo misurare più volte il segnale elettrico e

rappresentare su di un grafico la media di queste misure. Dato che il segnale assume sempre valore positivo, mentre il rumore oscilla in modo del

tutto casuale, il risultato tenderà a ridurre gli effetti del rumore, aumentando il rapporto segnale/rumore.

Le principali fonti di rumore sono rappresentate dal rumore quantico, dal rumore elettronico, dal rumore del convertitore analogico-digitale e dal rumore indotto dai processi di elaborazione.

Il rumore quantico è comune sia ai sistemi analogici che a quelli digitali poiché dipende dal meccanismo stesso di produzione dei raggi X a livello del tubo radiogeno e dalla interazione di questi con la materia.

Un fascio di raggi X può essere considerato come formato da tanti piccoli elementi corpuscolati, i fotoni, ciascuno contenente una determinata quantità di energia.

La generazione di questi fotoni come pure la loro interazione con la materia non avviene in modo uniforme.

Se consideriamo una sezione del fascio e rileviamo il numero di fotoni per unità di superficie, questi saranno estremamente variabili a seconda del punto preso in esame. Ciò si spiega considerando che l’emissione dei raggi X è un evento casuale governato da leggi probabilistiche. In base a tali conoscenze, l’entità della fluttuazione del numero di fotoni per unità di superficie è pari alla radice quadrata del valore medio calcolato.

Per esempio, se un fascio contiene una media di 100 fotoni per mm2, il numero di fotoni può variare tra +100 ÷ +10 con un valore percentuale delle oscillazioni pari al 10% (10/100).

Si dimostra facilmente che all’aumentare dell’esposizione, e quindi della concentrazione di fotoni per unità di superficie, l’effetto del rumore quantico si riduce. Infatti lavorando con 10.000 fotoni per mm2, la fluttuazione è dell’ordine di +10.000 ÷ +100 con un valore percentuale pari all’1% (100/10.000).

Il rumore elettronico è una espressione generica utilizzata per indicare tutte le diverse fonti di disturbo legate all’imperfezione dei vari componenti di un sistema elettronico. Il rumore elettronico può essere contenuto il più possibile utilizzando componenti di elevata qualità e schermatura totale dei cavi, ma anche apparecchiature altamente affidabili presentano un certo grado di rumorosità.

Il rumore del convertitore analogico-digitale è esclusivo dei sistemi digitali. Questa apparecchiatura trasforma una grandezza analogica in dati digitali, campionando un segnale continuo e rappresentando i valori delle campionature sotto forma di valori interi finiti. Pertanto, oltre al rumore elettronico, va preso in considerazione anche l’errore implicito nel processo di conversione che dipende direttamente dal numero di bit che codificano per ciascun pixel e dall’ampiezza del range dinamico.

Questo tipo di rumore, che spesso viene indicato con il nome di rumore di quantizzazione, può essere contenuto a livelli praticamente trascurabili digitalizzando le immagini a 12 bit (4096 livelli).

Anche nella conversione digitale-analogica, che interviene nel processo di trasformazione dei dati numerici in segnale elettrico da inviare al monitor televisivo, verrà introdotto un rumore che normalmente presenta un’entità trascurabile.

Il rumore legato ai processi di elaborazione si genera durante il trattamento dei dati. Infatti, qualunque procedimento di elaborazione numerica delle immagini, anche se conduce ad una migliore percezione di una parte delle informazioni in esse contenute, altera i dati originali e, quindi, introduce una certa quota di rumore.

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Per fortuna la tecnologia attuale è tale che il rumore nei sistemi di buon livello viene contenuto entro limiti perfettamente accettabili, anzi le più moderne apparecchiature elettroniche presentano un rapporto segnale/rumore sempre più elevato (8-10).

3.4.4. Elaborazione Come abbiamo già ricordato, l’utilizzo di immagini digitali consente l’analisi oggettiva e

automatica di diversi parametri attraverso algoritmi di elaborazione (image processing) che facilitano l’acquisizione delle informazioni in esse contenute o, in alcuni casi, le rendono evidenti all’esame dell’occhio umano.

Numerosi algoritmi sono stati sviluppati nel corso degli anni in rapporto alle differenti esigenze applicative.

Alcuni di essi tendono a modificare dei parametri intrinseci per consentire l’identificazione di alcune componenti mentre altri consentono l’estrazione automatica dei valori assunti da determinate grandezze, altri ancora riducono lo spazio occupato in memoria da ogni singola immagine per velocizzare la visualizzazione e la trasmissione a distanza.

Qualunque sia il tipo di algoritmo di elaborazione, la procedura operativa è simile per tutti: i numeri che codificano il livello di grigio di ciascun pixel vengono modificati mediante l’applicazione di una funzione matematica e formano un’immagine diversa da quella di partenza.

Una delle classificazioni più seguite distingue i processi di elaborazione in: – puntiformi; – regionali; – globali. Se la modificazione di ciascun pixel avviene tenendo conto dei pixel circostanti il processo

di elaborazione è puntiforme e regionale, altrimenti è globale. Per esempio, per la modifica del contrasto si usano elaborazioni puntiformi mentre per accentuare i margini è necessario ricorrere ad elaborazioni regionali (maggiore influenza dei pixel adiacenti).

Se invece l’image processing interessa tutta l’immagine, come nel caso dell’aumento della nitidezza, allora si ricorrerà ad elaborazioni globali.

Un altro tipo di classificazione distingue i diversi tipi di software in soggettivi e oggettivi. Quelli soggettivi sono usati per rendere un’immagine più idonea ad una osservazione da

parte dell’occhio umano o più appropriata per un’elaborazione successiva. Essi possono essere applicati anche in modo iterativo, cioè ripetuti automaticamente un numero elevato di volte, finché il risultato non venga raggiunto, a discrezione dell’utente. Le tecniche di tipo oggettivo, d’altro canto, correggono un’immagine dalla presenza di degradazioni note e quantificabili. Esse non necessariamente rendono l’immagine più “bella” visivamente ma sono applicate basandosi su alterazioni rilevate e misurate nell’immagine originale e non possono essere utilizzate arbitrariamente in base a valutazioni soggettive delle caratteristiche dell’immagine stessa.

Se consideriamo i differenti algoritmi di elaborazione non in base a come vengono applicate le relative funzioni matematiche, ma ai risultati che esse producono, allora potremo raggrupparli in cinque gruppi principali:

1. Modificazione delle caratteristiche intrinseche; 2. Ripristino delle caratteristiche originali; 3. Analisi; 4. Compressione; 5. Sintesi.

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Di seguito considereremo ognuno di questi gruppi di algoritmi e cercheremo di illustrarne brevemente le principali applicazioni.

La modificazione delle caratteristiche intrinseche è di gran lunga la più utilizzata per l’elaborazione di una immagine digitale.

Virtualmente tutte le possibili operazioni che possono essere usate per incrementare il contrasto di un’immagine (contrast enhancement), per ridurre il rumore di fondo (smoothing), per aumentare la nitidezza (sharpening), per accentuare l’identificazione dei margini (edge enhancement), per cancellare i pixel al di sopra o al di sotto di un valore di soglia (threshold), rientrano in questo gruppo.

Il risultato di queste procedure conduce sempre ad una modifica dei parametri considerati anche se il miglioramento che si ottiene è soggettivo e dipende dal tipo di applicazione e dal giudizio dell’osservatore.

Per esempio, nelle immagini di tomografia computerizzata, in certe situazioni (presenza di passaggio brusco tra zone ad elevata densità e zone a bassa densità), la visualizzazione richiede un bilanciamento del contrasto su valori bassi per ridurre gli artefatti, mentre in altri casi, la stessa immagine richiede che il contrasto sia aumentato drasticamente.

Le regolazioni del contrasto in un’immagine sono associate con una diversa distribuzione della luminosità. Questo vuol dire che un’immagine può, in ragione di un differente contrasto, apparire sia con toni “slavati” che con toni “carichi”.

Un’immagine “salvata” mostra un’indesiderabile basso contrasto. I toni di grigio nell’immagine non coprono completamente il range dal nero al bianco e tendono a conferire un uniforme e diffuso grigiore. I dettagli strutturali sembrano attenuati, rendendo la loro visione tediosa e dando una apparente impressione di ridotta luminosità.

Invece un’immagine molto “carica” è il risultato di un alto contrasto. I toni in questa immagine tendono ad essere o neri o bianchi senza tonalità intermedie.

In genere né la presenza di un basso contrasto né di uno alto, danno a priori risultati visivamente ottimali in un’immagine. Un’immagine ben bilanciata con un buon contrasto è composta da toni di grigio che vanno dai neri scuri ai bianchi luminosi.

I risultati della manipolazione del contrasto non servono a produrre immagini visivamente migliori, piuttosto, essi accentuano un particolare che interessa per una specifica valutazione.

Gli algoritmi di modifica del contrasto non sono i soli ad essere utilizzati. Spesso la qualità di un’immagine può essere ridotta per la perdita di dettaglio in alcune porzioni o in tutta l’immagine.

Talvolta nelle zone più chiare o più scure di un’immagine alcuni margini non risultano ben visibili o mostrano lievi differenze rispetto alle aree circostanti. Ad esempio, in normali condizioni, la trabecolatura dell’osso spugnoso può risultare lievemente sfuocata in TC.

In entrambi i casi l’edge enhancement può essere utilmente impiegato per migliorare la visione di dettaglio.

Altri tipi di degradazione della qualità di un’immagine comprendono la presenza di varie forme di rumore, che provoca un indesiderato aumento della granulosità.

Fermo restando l’opportunità di identificare le diverse cause di rumore e di agire su di esse limitandole al massimo, è anche possibile ridurre lievemente gli effetti visivi del rumore applicando un algoritmo di smooting.

Le operazioni di ripristino delle caratteristiche originali, dopo per esempio l’uso di un software per l’enhancement dei margini o dopo l’uso di un filtro di smoothing, sono operazioni di tipo strettamente oggettivo. Cioè sono basate su operatori matematici ben codificati, studiati accuratamente sull’immagine originale, che provocano l’annullamento delle modifiche apportate con il ripristino delle caratteristiche che l’immagine possedeva prima delle elaborazioni.

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In tale gruppo possiamo anche includere tutti quegli algoritmi che vengono utilizzati per correggere le immagini da alcune componenti indesiderate.

Per esempio, in TC, la stretta vicinanza di zone ad altissima densità con zone a bassissima densità, produce grossolani artefatti che con l’aiuto di un software di correzione dell’indurimento del fascio radiante possono essere notevolmente ridotti. Tali artefatti non ci sono quando si usa radiazione monocromatica.

Tutti i sistemi di trasmissione di immagini digitali possono creare varie forme di distorsione. Le catene televisive associate agli intensificatori di brillanza sono formate: dal sistema di

rilevamento delle radiazioni, da un sistema di lenti e da un pannello con sensori a stato solido per la digitalizzazione. Ognuna di queste componenti contribuisce in misura maggiore o minore alla degradazione dell’immagine finale.

Se i fattori che intervengono a degradare l’immagine possono essere rilevati e calcolati, si possono sviluppare degli algoritmi di correzione che cercano di ripristinare le caratteristiche originali delle immagini.

Le operazioni di analisi dell’immagine, di solito, non danno come risultato un’altra immagine. Esse producono informazioni numeriche o grafiche basate sulle caratteristiche dell’immagine originale.

Agiscono frammentando l’immagine originale in dati numerici distinti e poi riorganizzano questi dati studiando la loro modificazione nello spazio o nel tempo.

Un’operazione di analisi, di solito, produce un dato statistico sulla distribuzione di alcuni parametri nell’interno di un’immagine.

Le operazioni più comuni comprendono: la misurazione delle distanze e degli angoli; il calcolo in una regione di interesse dei valori medi delle densità, per la TC; l’analisi della struttura di un campione con tecniche mutuate dalla geometria frattale, ecc.

Le misure di alcuni parametri nell’interno delle immagini rappresenta l’operazione di analisi più frequentemente effettuata nella pratica.

Le operazioni di analisi dell’immagine possono produrre anche dati statistici sotto forma di istogrammi. Uno dei più utilizzati è l’istogramma delle luminosità o dei livelli di grigio che rappresenta la distribuzione dei livelli di grigio in un’immagine.

Questa distribuzione è visualizzata in forma grafica o in forma di tabella. Questo istogramma descrive l’andamento del contrasto in un’immagine, sia a livello generale che locale, e può essere usato per modificare manualmente o settorialmente il contrasto stesso.

Incluso nelle operazioni di analisi vi è l’ingrandimento di un’immagine o di parte di essa. Nell’ingrandimento i valori dei pixel di una regione di interesse possono essere utilizzati per

costruire una nuova regione, più grande di quella selezionata, in cui ai pixel mancanti viene attribuito un valore derivante dalla media di quelli adiacenti (procedura di interpolazione). Con l’ingrandimento i particolari più piccoli aumenteranno le loro dimensioni ma la risoluzione spaziale rimarrà invariata.

Alcuni processi di analisi degli elementi di un’immagine sono molto più sofisticati dei precedenti e permettono di isolare parti di essa, come avviene con la tecnica della segmentazione.

Tale tecnica, molto utilizzata per le ricostruzioni tridimensionali a partire dal set di immagini bidimensionali, consiste nell’isolare e poi estrarre determinate regioni di interesse da ciascuna immagine mediante una tecnica di tracciamento automatico o semiautomatico.

Le operazioni di compressione e decompressione dell’immagine riducono il contenuto dei dati necessari per memorizzare un’immagine numerica.

La compressione di un’immagine è possibile perché la maggior parte di esse contiene una grande quantità di informazioni ridondanti, cioè ripetitive. L’obiettivo delle operazioni di

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compressione è l’eliminazione di questi elementi ripetitivi per occupare meno spazio fisico sulle memorie di massa o sulle linee di comunicazione elettronica.

Quando le immagini compresse devono essere nuovamente visualizzate, possono essere decompresse con un algoritmo inverso al precedente, che restituisce alle immagini gli elementi originali.

La compressione delle immagini diventa poi quasi obbligatoria, quando bisogna gestire grandi moli di dati, come capita nelle sequenze tridimensionali in tomografia computerizzata, che devono essere memorizzate e/o trasferite in rete in tempi compatibili con le necessità pratiche.

Esistono due tipi di algoritmi di compressione: le tecniche di compressione non distruttiva o di tipo reversibile, ove è possibile riottenere nuovamente tutti i dati dell’immagine originale, e le tecniche di compressione distruttiva o irreversibili, cioè quelle che provocano una perdita di parte delle informazioni, in cui non è più possibile ripristinare i dati originali ma soltanto ottenere una immagine di qualità inferiore rispetto all’originale.

Le tecniche di compressione non distruttiva sono quelle più utilizzate per la necessità di conservare le immagini con immodificata qualità. Questi algoritmi di solito riescono a ridurre la quantità dei dati di un fattore di due, tre od anche quattro volte, cioè l’immagine compressa occupa la metà, un terzo od un quarto dello spazio di memoria occupato dall’immagine originale, senza che si perda in alcun modo la qualità originale. Il fattore di compressione, più o meno elevato, dipende sia dal tipo software utilizzato che dal contenuto specifico di ogni singola immagine.

Le tecniche di compressione con perdita delle informazioni vengono utilizzate solo quando la qualità dell’immagine può essere ridotta drasticamente senza timore di perdere particolari importanti. Questo tipo di algoritmi possono comprimere i dati con fattori variabili da dieci a uno sino a cento a uno e anche più, tutto dipende dalla minima qualità accettabile che l’immagine, che deve essere sottoposta a tale tipo di procedura, deve conservare.

Le operazioni di sintesi dell’immagine creano immagini a partire da altre immagini o dai dati numerici grezzi.

Nel primo caso queste operazioni vengono usate quando l’immagine desiderata è o impossibile da acquisire per ragioni tecniche, o non esiste affatto in forma fisica.

Due sono le classi principali di algoritmi che vengono utilizzati per compiere operazioni di sintesi.

Il primo è la ricostruzione di un’immagine usando la tecnica delle retroproiezioni multiple. Questo tipo di software è stato molto utilizzato nella produzione di immagini diagnostiche

digitali a partire dal 1972 con i primi apparecchi di tomografia computerizzata. Per la prima volta si cercò di ottenere un’immagine di sezioni trasverse del corpo umano a partire da una serie enorme di equazioni che rappresentavano la sommatoria dei valori di assorbimento, lungo un arco di 360°, dei diversi pixel che costituivano l’immagine stessa.

Più recentemente si è venuta sviluppando una seconda classe di algoritmi che consente la produzione di immagini diverse da quelle di partenza, cioè produce un tipo di visualizzazione differente delle informazioni contenute nelle immagini di partenza.

Appartengono a questa classe le ricostruzioni multiplanari (multiplanar reformation), utilizzate per la TC, che danno origine ad immagini secondo piani sagittali, coronali od obliqui, e tutte le tecniche di ricostruzione tridimensionale che visualizzano, in una forma molto vicina a quella reale, alcuni volumi partendo dai dati presenti nelle immagini assiali bidimensionali, con tecniche mutuate dalla grafica computerizzata.

Poiché quest’ultima è in grado di visualizzare oggetti di cui si definiscono le superfici, è necessario procedere alla loro identificazione nell’interno delle immagini bidimensionali utilizzando la tecnica del treshold. Un ulteriore algoritmo applicherà poi su queste superfici le

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luci e le ombre prodotte da un’illuminazione tangenziale. Il risultato finale sarà quello della ricostruzione tridimensionale (11).

3.5. Caratteristiche e applicazioni principali

La microCT può ricostruire gli elementi di volume all’interno di un campione fino a circa 8 µm3 (2x2x2 µm). Ovviamente, la risoluzione spaziale dipende dal numero di scansioni eseguite e la capacità di usare le esposizioni prolungate ai raggi X, senza problemi di non linearità e di saturazione termica del rilevatore, permette un numero di scansioni del campione elevatissimo. Da qui una risoluzione spaziale così alta!

Tuttavia un numero di scansioni elevato comporta un tempo di elaborazione di alcune ore. L’utilizzo di radiazione monocromatica, inoltre, migliora notevolmente la sensibilità della

microCT alle più piccole variazioni di assorbimento di raggi X all’interno del campione e quindi aumenta la risoluzione di contrasto.

Per queste caratteristiche elencate, la microCT è un mezzo d’indagine molto utile nella scienza dei materiali. Essa è, infatti, utilizzata per le analisi 3D della microstruttura di campioni. Con la microCT è possibile effettuare:

– analisi morfologiche (densitometria e misura della porosità); – valutazione delle proprietà strutturali di un materiale (caratterizzazione dei materiali

multifasici e quantificazione dei difetti del materiale quali cricche); – studio del comportamento dei materiali sotto sforzo (sviluppo e propagazione di cricche). Come già detto in precedenza, il vantaggio migliore che offre la microCT è quello di essere

una tecnica di indagine non distruttiva. È inutile dire che in numerosi altri campi la microCT trova largo impiego (elettronica,

biologia, geologia, industria petrolifera, industria dei semiconduttori, archeologia, ingegneria biomedica) (12).

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4. MICROSCOPIA ELETTRONICA A SCANSIONE

L’immagine fornita da un SEM viene formata in un tubo a raggi catodici sincronizzato con un fascio di particelle cariche, soprattutto elettroni, che operano una scansione sulla superficie dell’oggetto.

Gli elettroni vengono generati da una sorgente che emette particelle cariche per effetto termoionico e che è costituita, in generale, da un filamento di W o esarburo di lantanio. Gli elettroni vengono accelerati da una differenza di potenziale variabile tra 0,3 e 30 KV; quindi un sistema di lenti elettromagnetiche fornisce nel piano del campione un’immagine rimpicciolita della sorgente. Gli elettroni passano nel sistema di scansione dove sono deflessi da campi magnetici che permettono una scansione della superficie del campione. L’interazione di questo fascio elettronico con gli strati più esterni del materiale provoca l’emissione di elettroni secondari a bassa energia in corrispondenza del punto in cui il fascio elettronico colpisce la superficie. L’intensità degli elettroni secondari emessi è funzione della composizione atomica del campione e della morfologia della superficie. Le immagini SEM delle superfici sono ottenute per ricostruzione su uno schermo al fosforo dell’intensità dell’emissione degli elettroni secondari.

Il fascio di elettroni che incide sul campione ha un movimento sincronizzato con il fascio di elettroni che eccita gli elementi fluorescenti dello schermo permettendo così di visualizzare l’immagine.

Gli elettroni del fascio incidente, primari, danno luogo a vari effetti, quali l’emissione di elettroni secondari e retrodiffusi, che costituiscono due dei segnali più comunemente usati, raggi X e radiazione nelle regioni UV, visibile e IR.

Per l’osservazione di un campione, è necessario creare il vuoto all’interno del microscopio (P = 10-4 / 10-5 mbar) in modo da ridurre l’interazione tra elettroni e molecole di gas. La risoluzione spaziale ottenibile in immagini da elettroni retrodiffusi è inferiore a quella ottenibile con gli elettroni secondari. Tuttavia le immagini da elettroni retrodiffusi consentono di ottenere il cosiddetto contrasto di fase, cioè la distribuzione spaziale delle varie fasi presenti nel campione.

La forma del volume di emissione degli elettroni backscatterati dipende, a parità di energia degli elettroni incidenti, dal numero atomico medio del campione. Questo fatto viene impiegato soprattutto nell’analisi di materiali compositi dove la diversità di numero atomico viene visualizzata con diverse tonalità di grigio: i campioni e le regioni dei campioni emettono tanto maggiormente elettroni retrodiffusi quanto maggiore è il loro numero atomico medio e perciò appaiono più chiare nelle immagini (5).

Dato che gli elettroni secondari prodotti dal fascio di elettroni primari hanno una bassa energia, solo quelli generati dagli strati più superficiali possono essere rilevati. Per osservare materiali non conduttivi, è necessario rivestirli superficialmente con uno strato di un conduttore (tipicamente oro o grafite), in modo da minimizzare l’accumulo di cariche elettriche sui campioni. Questa limitazione è stata recentemente superata dai SEM a bassa tensione che abbassando il voltaggio di accelerazione degli elettroni a circa 1 keV minimizzano il problema di accumulo di cariche.

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4.1. Analisi chimica qualitativa e quantitativa con la tecnica EDAX

È possibile dotare il sistema di altre sonde per la rilevazione di altri tipi di segnale. Nel SEM è possibile usare uno o più degli 8 tipi diversi di segnale per condurre analisi chimiche qualitative e talvolta anche quantitative.

Una fonte di notevoli informazioni è rappresentata dai raggi X, fotoni di radiazione elettromagnetica ad alta energia e bassa lunghezza d’onda. Nell’analisi microscopica della spettrometria a raggi X si possono impiegare uno spettrometro a lunghezza d’onda (WDS), o uno spettrometro a dispersione di energia (EDS, Energy Dispersive Spectroscopy). Nell’analisi del SEM si usa comunemente lo spettrometro a dispersione di energia.

Quando un fascio di elettroni con energia sufficiente incide su un solido, gli elettroni interagiscono con gli elettroni degli atomi eccitandoli a livelli con energie più alte. La diseccitazione degli elettroni causa l’emissione dei raggi X. I raggi X possono essere emessi generando un background continuo di raggi X (Brehmstrahlung) e un salto di livello atomico che dà lo spettro caratteristico dei raggi X, tipico degli elementi presenti sul campione esaminato. La lunghezza d’onda dei raggi X caratteristici ha un’energia pari alla differenza tra lo stato iniziale e finale dell’atomo: le lunghezze d’onda dei raggi X caratteristici di una certa specie chimica sono legate ad un livello di energia discreto (E).

Esaminando quindi i raggi X caratteristici si può risalire agli elementi presenti ottenendo un’analisi chimica qualitativa.

Il rilevatore è costituito da un monocristallo di Si drogato con Litio al quale viene trasferita l’energia dei fotoni X (da cui la denominazione di spettroscopia X a dispersione di energia EDXS).

Questa tecnica presenta tra i vantaggi quello di non essere distruttiva: il campione, infatti, non viene modificato nel corso delle analisi, ma viene in parte alterato solo durante la preparazione che richiede alcuni accorgimenti.

La prima richiesta è che il campione sia stabile quando è portato alla bassa pressione presente all’interno del microscopio. Per questo sostanze contenenti fasi volatili devono essere preventivamente essiccate o degassate.

Il secondo e più importante requisito è la conducibilità elettrica del campione: per renderlo conduttivo si può deporre uno strato sottile conduttivo sulla superficie nel modo più uniforme possibile.

I materiali usati per questa deposizione sono l’oro e il carbonio. L’oro che viene “sputterato” ha però la controindicazione che non può essere sottoposto ad analisi EDXS, poiché le sue linee caratteristiche rischiano di sovrapporsi con quelle degli elementi effettivamente presenti nel campione.

4.2. Analisi morfologiche al SEM

I campioni che devono essere osservati al SEM per la determinazione della morfologia e della microstruttura devono essere montati e trattati in modo opportuno. I campioni devono generalmente essere incollati su un adeguato supporto, che può essere costituito da un vetrino per microscopio o da una basetta in alluminio già dotata di perno di bloccaggio (stub). Per il fissaggio si adopera uno speciale nastro biadesivo conduttivo, a base di grafite, oppure pasta collante a base di grafite o argento. Il campione, qualora non sia conduttivo per propria natura, deve essere reso conduttivo almeno nel suo strato superficiale mediante ricopertura con un

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sottile strato di oro (sputtering). In casi particolari si possono usare altri metalli, oppure il carbonio sotto forma di grafite. Per realizzare analisi e fotografie di sezioni interne del campione è necessario sezionare distruttivamente quest’ultimo.

In funzione del materiale e della sua morfologia, è possibile raggiungere ingrandimenti di anche 50.000 X (12).

4.3. Conclusioni

Esiste una stretta relazione tra proprietà dei materiali e microstruttura. La microstruttura, a sua volta, dipende, oltre che dalla composizione chimica, dall’insieme dei trattamenti a cui ogni materiale è stato sottoposto.

A fronte di tutto ciò, per migliorare o progettare razionalmente prodotti nuovi, è necessario caratterizzare i materiali ai più alti livelli di risoluzione in modo da comprendere il loro comportamento nei minimi dettagli.

Tale esigenza comporta una continua evoluzione delle tecniche sperimentali e degli strumenti disponibili, ecco perché talvolta è necessario aggiungere alla strumentazione di laboratorio il microscopio elettronico a scansione (SEM).

La microscopia elettronica a scansione è un sofisticato metodo di indagine unico nel suo genere perché in grado di fornire contemporaneamente analisi morfologiche, strutturali e chimiche ad alta risoluzione.

Il SEM è una tecnica già validata nel tempo, ma presenta l’inevitabile svantaggio di essere una tecnica distruttiva se si vogliono analizzare campioni non conduttivi. Infatti essi devono essere sottoposti ad opportuni trattamenti, descritti precedentemente, prima della loro analisi che portano alla loro irreversibile modificazione.

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5. INDAGINI SPERIMENTALI

Questa analisi sperimentale è stata svolta presso il Dipartimento di Tecnologie e Salute dell’Istituto Superiore Sanità.

Lo scopo è quello di analizzare degli innesti per ricostruzioni ossee provenienti da tessuto osseo equino. Tre campioni, aventi strutture morfologiche diverse, sono stati opportunamente trattati dall’azienda produttrice: sono stati deantigenizzati e solo alcuni demineralizzati.

L’analisi è volta a valutare la qualità dell’operazione di deantigenizzazione e demineralizzazione effettuate e, inoltre, a misurare la porosità dei campioni.

5.1. Materiali e metodi

Per lo studio di un recente prodotto impiantabile per ricostruzioni scheletriche derivato da osso equino deantigenizzato sono state prodotte immagini microtomografiche e immagini al microscopio a scansione elettronica.

Per lo studio microtomografico è stata utilizzata la strumentazione denominata SkyScan 1072 (13). Per le osservazioni al SEM è stato utilizzato microscopio a scansione elettronica modello Cambridge Stereoscan 360.

5.1.1. Morfologia e caratteristiche dell’osso equino

L’osso maturo equino è un particolare connettivo nel quale le cellule, od osteociti, sono immerse in una matrice intercellulare composta di materiale osteoide calcificato. Gli osteociti sono alloggiati in piccole cavità dell’osso, dette lacune, dalle quali parte un sistema di canali microscopici, i canalicoli, che si connettono tra loro e vengono anche in contatto con la parete di capillari sanguigni. Infatti, anche se l’osso è riccamente vascolarizzato e possiede reti di capillari piuttosto fitte, gli scambi metabolici con gli osteociti avvengono per diffusione lungo i canalicoli. In questi, gli osteociti inviano dei prolungamenti citoplasmatici.

Tanto le lacune quanto i canalicoli si formano perché gli osteoblasti, vale a dire gli elementi deputati alla formazione dell’osso, sono interconnessi da processi citoplasmatici, quando provvedono alla deposizione della sostanza osteoide. Le cellule e i loro processi agiscono, così, da stampo fin quando il tessuto osteoide viene deposto e successivamente mineralizzato; a quel punto il citoplasma viene in parte ritratto lasciando le cellule, divenute ora osteociti, nelle lacune con prolungamenti più o meno espansi nei canalicoli. Secondo Ham, gli osteoblasti sono responsabili della formazione della sostanza osteoide e secernono altresì l’enzima fosfatasi necessario per la deposizione in questa dei sali di calcio; ciò dà luogo alla formazione dell’osso vero e proprio.

Gli osteoblasti derivano, di norma, da cellule mesenchimali che sono le progenitrici di una gran varietà di tessuti connettivali.

Gli osteoblasti in un osso in formazione si dividono rapidamente, ma solo una parte delle cellule figlie produce realmente sostanza osteoide e quindi forma l’osso; la restante parte viene mantenuta di riserva nello strato osteogenico del periostio e dell’endostio che tappezza la cavità midollare e i canali di Havers. Questi elementi entrano in funzione (si replicano e danno origine a nuovi osteoblasti) quando è necessaria nuova sostanza ossea.

Come è stato prima precisato, l’osso consiste di cellule e di matrice intercellulare impregnata di sali minerali. Questi sono formati per circa l’80% da fosfato di calcio e, per il resto, da

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carbonato di calcio e fosfato di magnesio. Cento centimetri cubici di osso contengono 10.000 mg di calcio rispetto ai 6 mg presenti in un volume equivalente di altro tessuto o ai 10 mg circolanti in 100 mL di sangue. L’osso agisce perciò come riserva minerale che viene continuamente rifornita e utilizzata.

Le cellule dell’osso adulto si trovano in lacune immerse nella matrice dell’osso, ma per tutta la vita osteoblasti (o cellule osteogeniche) sono accolti negli strati profondi del periostio e nell’endostio della cavità midollare e dei canali di Havers.

L’osso appare duro, denso, visco-elastico, disomogeneo, ma in realtà è un tessuto capace di rispondere alle modificazioni ambientali, come possono essere quelle di tipo pressorio, vascolare e nutritizio. L’osso può diminuire di volume (atrofia) o aumentare (ipertrofia), riparare le fratture e riarrangiare la propria struttura interna per resistere meglio agli stress. In condizioni sia normali sia patologiche, l’osso può rimodellarsi per sostenere il massimo carico impiegando il minimo di tessuto. L’atrofia dell’osso si verifica quando su di esso si esercitano carichi costanti ed eccessivi per periodi lunghi. La proliferazione di nuovo osso, comunque, può avvenire in risposta a traumi o a carichi intermittenti. Perciò a seguito dell’azione di carichi si verifica sia l’atrofia sia la proliferazione dell’osso, secondo il grado e la durata dello stress anche in relazione alla maturità dell’osso. Un eccesso di carico sull’osso in accrescimento ne rallenterà o fermerà la crescita, mentre sull’osso maturo può indurre una risposta sia di crescita eccessiva sia di rimaneggiamento della struttura.

L’elasticità è la caratteristica che permette ad un oggetto di cambiare forma ogni volta che è sottoposto ad uno stress e di riacquistare la forma originaria quando questo viene rimosso.

L’osso è relativamente poco elastico; esso può essere allungato solo di circa 1/200 della sua lunghezza iniziale prima di rompersi. In ogni caso anche questa scarsa deformabilità non è di tipo elastico, perché l’osso, se precedentemente allungato fin quasi al limite di rottura, non è in grado di riacquistare la sua forma iniziale. Questa caratteristica è presente in modo abnorme in alcune malattie ossee come il rachitismo.

Il tessuto scheletrico, oltre che alla compressione (o alla trazione), è di norma soggetto a sollecitazioni da taglio e torsione.

Secondo Steindler (1955), la resistenza dell’osso alla tensione è di circa 10 kg/mm2 e alla compressione di circa 16,86 kg/mm2. Altri tipi di stress sono più difficili da misurare.

Un osso è in grado di sopportare molto più peso in una situazione statica che non in una dinamica. Per esempio, le ossa dell’arto di un cavallo sopportano un peso statico quando l’animale è in stazione, ma sono soggette ad un carico dinamico quando corre, salta o scalcia. In questi tipi di attività sull’osso si scaricano stress del tipo della compressione, flessione e delle pressioni laterali. Quando un animale fa perno su uno o più piedi contro il terreno per spostare un peso, agli altri stress si aggiunge quello di torsione. Muscoli e tendini connessi all’osso tendono ad agire come tiranti e alleviano gli stress, in particolare quelli laterali e di curvatura (1, 2).

5.2. Risultati

Le osservazioni al SEM sui tre tipi di osso equino deantigenizzato utilizzati come supporto per la ricrescita ossea sono mostrati nelle figure seguenti. Da queste immagini è possibile apprezzare la diversa struttura morfologica che mostra tre diverse tipologie dimensionali di porosità del materiale di supporto per riparazione-ricostruzione ossea.

La Figura 1 mostra l’osso equino deantigenizzato a basso ingrandimento (10X). Già a questo ingrandimento è possibile evidenziare in maniera precisa la struttura trabecolare dell’osso. In questo caso è stata scelta una sezione di osso con una porosità piuttosto elevata in modo da poter osservare anche la struttura interna. Allo scopo di effettuare un’analisi quantitativa del campione è

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stato possibile condurre una misurazione accurata delle diverse porosità dell’osso. Queste, condotte in numero statisticamente significativo, possono essere utili per una determinazione delle dimensioni della porosità che risulta essere di un valore medio di 750 + 80 micron.

Figura 1. CAMPIONE 1: micrografia al SEM di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 10X

La Figura 2 ci mostra un particolare della sezione ossea scelta in precedenza. L’ingrandimento a 150 X ci permette di mettere in evidenza la singola porosità ossea ed eventuali alterazioni della sua struttura e anche una eventuale presenza di residui.

Figura 2. CAMPIONE 1: micrografia al SEM di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 149X

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La microfotografia di Figura 3, a basso ingrandimento (10 X), ci mostra una sezione di osso con porosità nettamente inferiore a quella mostrata nelle Figure 1 e 2. Anche in questo caso è stato possibile eseguire una misurazione della dimensione media della porosità che risulta essere di 435 + 58 micron.

Figura 3. CAMPIONE 2: micrografia al SEM di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 10X

Nella Figura 4, ad un ingrandimento comparabile con il dettaglio mostrato in Figura 2 (150X), a causa della maggiore compattezza dell’osso di questo campione, è stato possibile valutare un numero maggiore di pori contemporaneamente.

Figura 4. CAMPIONE 2: micrografia al SEM di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 150

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In questa immagine di Figura 5 è stata osservata, a ingrandimento 10 X, una sezione di osso particolarmente compatta, nella quale è stato possibile evidenziare il graduale passaggio tra osso compatto e osso spugnoso. Alle misurazioni, le dimensioni delle porosità mantengono comunque un diametro medio molto simile a quello del campione analizzato in precedenza, risultando in questo caso di 439 + 32 micron.

Figura 5. CAMPIONE 3: micrografia al SEM di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 10X

Il dettaglio che si può osservare in Figura 6, ad alto ingrandimento (150 X) mette in evidenza, nonostante le dimensioni della porosità ancora elevata, l’estrema compattezza dell’osso. Si osserva una minore presenza di fori e quindi le distanze tra le porosità risultano maggiori rispetto alle strutture dei due campioni precedentemente fotografati e analizzati.

Figura 6. CAMPIONE 3: micrografia al SEM di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 150X

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Le immagini acquisite e ricostruite tramite la microtomografia computerizzata 3D degli stessi campioni, prima di essere inviati al SEM, sono mostrate nelle Figure 7-12. L’immagine di Figura 7 mostra la ricostruzione 3D dell’osso equino deantigenato ottenuta dopo aver effettuato un’acquisizione a basso ingrandimento (20 X). La parte di osso in figura è una zona superficiale per poter effettuare il confronto con l’analisi al SEM, ma con la MCT è possibile effettuare anche ricostruzioni di zone intermedie senza dover distruggere il campione.

Figura 7. CAMPIONE 1: immagine microtomografica di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 20X

Questa immagine di Figura 8 mostra un particolare della sezione di osso di Figura 7. Per ottenerla è stata effettuata un’acquisizione a medio ingrandimento (80 X) che ha permesso di ricostruire la singola porosità.

Figura 8. CAMPIONE 1: immagine microtomografica di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 80X

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L’immagine di Figura 9 mostra il campione di un osso equino avente una porosità visivamente inferiore a quello di Figura 7 e 8. L’acquisizione è stata effettuata a basso ingrandimento (20 X).

Figura 9. CAMPIONE 2: immagine microtomografica di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 20X

L’immagine di Figura 10 mostra un particolare della sezione di osso di Figura 9. Per ottenerla è stata effettuata un’acquisizione a medio ingrandimento (80 X) che ha permesso di ricostruire, a causa della maggior compattezza, più pori insieme.

Figura 10. CAMPIONE 2: immagine microtomografica di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 80X

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La Figura 11 mostra la ricostruzione a 20 X di un campione di osso particolarmente compatto, nel quale è possibile apprezzare il graduale passaggio tra osso spugnoso e osso compatto.

Figura 11. CAMPIONE 3: immagine microtomografica di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 20X

Nell’ultima immagine di Figura 12 si può osservare un dettaglio ottenuto con un’acquisizione a medio ingrandimento (80 X), dove compare un unico foro essendo la struttura di questo campione più compatta e con distanze interfori molto maggiore dei precedenti tipi di osso acquisiti e ricostruiti tramite microtomografia.

Figura 12. CAMPIONE 3: immagine microtomografica di osso equino deantigenizzato a un ingrandimento di 80X

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5.3. Discussione

La tecnologia nella progettazione di sistemi protesici e ausili medico-chirurgici ha raggiunto oggi un alto livello tecnico in grado di ripristinare le funzioni loco-motorie dei pazienti in tempi rapidi e con risultati assai soddisfacenti (15). L’adozione di questi sistemi spesso, però, è ostacolata da condizioni sfavorevoli dei tessuti che li devono accogliere.

Per questi motivi, un’attenta analisi del dispositivo deve essere fatta prima del suo impianto all’interno dell’organismo.

Lo scopo della nostra analisi sperimentale è quello di verificare lo stato di mineralizzazione, di misurare la porosità e di valutare la qualità di deantigenizzazione del campione.

Queste tre valutazioni sono tutte e tre fondamentali per la riuscita dell’impianto; infatti, lo stato di mineralizzazione del campione influisce sulla sua resistenza meccanica, la deantigenizzazione è importante perché una struttura tridimensionale sgombra da residui organici consente una rapida ed efficace formazione di nuovi vasi (angiogenesi) portatori dell’apparato cellulare atto al rimodellamento osseo, un’accurata stima delle dimensioni dei pori è utile perché pori troppo piccoli (con diametro minore di 100 micron) impediscono la ricrescita del tessuto.

Per fare queste analisi sono state prodotte delle immagini al SEM e delle immagini microtomografiche tramite apposita strumentazione (16, 17).

Sono stati analizzati al SEM tre campioni differenti (Figure 1, 3 e 5). Si nota che ognuno ha una porosità differente dall’altro, in particolare è molto visibile che il

terzo campione ha dei pori molto piccoli. Nelle Figure 2, 4 e 6 sono stati riportati dei particolari dei campioni ad un ingrandimento

opportuno per analizzare la loro struttura tridimensionale (gli ingrandimenti sono a 150 X e, dei numerosi fatti, ne sono riportati solo uno per campione a scopo illustrativo).

In tutti e tre i campioni è possibile apprezzare una struttura tridimensionale priva di residui organici (sulle trabecole ossee non compare traccia di alcun contaminante).

Inoltre, sempre dalle precedenti foto, è possibile, in prima analisi, dire che i pori hanno un diametro molto maggiore di 100 µm.

Per un’analisi completa della sua struttura interna, è necessario cambiare strumentazione e analizzare il campione tramite microtomografia a raggi X.

Osservando le immagini analoghe a quelle scattate al SEM mostrate nelle Figura 1-6, ma prodotte tramite microtomografia per un confronto (Figure 7-12) è possibile trarre le stesse conclusioni elencate prima. Tuttavia, per le Figure 1-6 si è dovuto ricoprire i campioni con uno strato di materiale conduttore, rendendoli inutilizzabili per le applicazioni medico-chirurgiche per cui sono stati progettati, mentre le Figure 7-12 sono state ricavate senza modificare in alcun modo i campioni da analizzare. Inoltre, da un confronto tra le Figure 1-6 e 7-12 è possibile apprezzare la natura 3D delle immagini microtomografiche.

Quello che però ci proponiamo di fare con questa ulteriore analisi è, come detto, un esame della struttura interna dei campioni senza danneggiare gli stessi.

Di seguito (Figure 13 a-d, 14 a-d, 15 a-d) sono riportate delle immagini di alcune sezioni interne (slide) dei campioni prodotte tramite microtomografia 3D (per ciascuno sono state prodotte centinaia di queste immagini, ma qui se ne riportano solo quattro per ognuno, ciascuna corrispondente alla sezione indicata nella parte sinistra delle figure).

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Figura 13. Slide del primo campione

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Figura 14. Slide del secondo campione

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Figura 15. Slide del terzo campione

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Per ciascuna slide è possibile fare degli ulteriori ingrandimenti senza perdere in qualità dell’immagine e da questi è possibile apprezzare una struttura interna priva di residui organici e con una dimensione dei pori che rispetta le condizioni di impiantabilità; inoltre, si vede che la porosità nei tre campioni è uniforme e che il terzo è visibilmente meno poroso.

Dalle precedenti immagini, inoltre, si nota che le trabecole dell’osso appaiono meno scure nel primo e secondo campione rispetto al terzo. Da qui è possibile concluderne che i primi due sono stati demineralizzati, mentre il terzo è ancora mineralizzato.

Inoltre, dall’uniformità del colore delle trabecole si vede che nel primo e secondo campione non ci sono accumuli residui di apatiti.

Da queste immagini si può concludere che tutti i campioni rispettano i criteri di progetto e le condizioni di impiantabilità:

– i primi due campioni sono stati deantigenizzati con successo, hanno una porosità elevata e sono demineralizzati; per queste caratteristiche possono essere utilizzati per ricostruzioni scheletriche non soggette a carico funzionale e per applicazioni in cui è richiesta adattabilità della struttura del supporto;

– il terzo campione è stato deantigenizzato con successo, ha una scarsa porosità ed è mineralizzato; per queste caratteristiche può essere utilizzato per ricostruzioni scheletriche soggette a carico funzionale.

Queste caratteristiche rispettano quelle elencate nella scheda tecnica dei prodotti e per tanto possono essere utilizzati per gli scopi per cui sono stati progettati.

5.4. Conclusioni

Questo lavoro di comparazione di osservazioni, effettuate tramite l’utilizzo di due differenti metodiche di analisi morfologica (SEM e microCT 3D), di osso equino utilizzato come materiale di supporto in ambito di ricostruzione ossea, è un ulteriore contributo alla messa a punto della nuova metodica microtomografica che si sta svolgendo, con molto interesse, in questi ultimi anni in tutto il mondo (18-20).

Particolarmente in Europa, e negli ultimi tempi in Italia (attualmente in tre centri) si va diffondendo l’utilizzo della strumentazione SkyScan 1072 per studiare e approfondire la metodica microtomografica.

Ricordiamo inoltre che la tecnica di microtomografia tramite strumentazione Skyscan permette osservazioni strutturali senza nessun trattamento particolare del campione oppure alterazioni o danneggiamento dello stesso. Inoltre è possibile effettuare una acquisizione con relativa ricostruzione delle condizioni del campione, sia prima che dopo un test o un impianto, per es., in animale, poiché tale tecnica non altera in nessun modo l’oggetto indagato. Ed è anche possibile analizzare il campione al suo interno per studiare eventuali alterazioni avvenute, non solo visivamente ma anche da un punto di vista sia volumetrico che densitometrico.

Va sottolineato che tramite un software di ricostruzione dedicato è possibile scomporre e ricomporre in 3D un campione tramite delle cosìddette slice in tutte le direzioni e a tutti i livelli che si desidera esaminare (12, 20).

In quest’ottica, la tecnica di microtomografia 3D, tramite strumentazione Skyscan, è da considerarsi una valida e sostanziale alternativa alla osservazione effettuata con SEM (17).

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BIBLIOGRAFIA

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18. Cavallo V, Giovagnorio F. Principi di Radiologia digitale. Roma: Cromac; 1988.

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Roma, dicembre 2005 (n. 4) 13° Suppl.