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D ELEGAZIONE R EGIONALE C ARITAS DELLA S ARDEGNA Osservazione dei percorsi di povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna Rapporto 2006 su povertà ed esclusione sociale in Sardegna

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DELEGAZIONE REGIONALE

CARITAS DELLA SARDEGNA

Osservazione dei percorsi di povertànei Centri di Ascolto

delle Caritas della Sardegna

Rapporto 2006su povertà ed esclusione sociale in Sardegna

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DELEGAZIONE REGIONALE

CARITAS DELLA SARDEGNA

PROGETTO RETE

Osservazione dei percorsi di povertànei Centri di Ascolto

delle Caritas della Sardegna

Rapporto 2006su povertà ed esclusione sociale in Sardegna

(a cura di Raffaele Callia)

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INDICE

Presentazione …………………………………………………………………… p.

Introduzione …………………………………………………...…………………p.

Capitolo primoI Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna ………………………..…….… p.

Capitolo secondoIl disagio percepito. Povertà prevalenti ed emergenti ...……..………………….. p.

Capitolo terzoLa lettura dei dati sul disagio .………………….……………………………..… p.

Capitolo quartoIl disagio vissuto e raccontato.Le “carriere di povertà” nelle interviste biografiche .…………………...…….… p.

Capitolo quintoUn approfondimento sul versante qualitativo dell’indagine. I focus group allargati a testimoni privilegiati ……………………………………………………….… p.

Capitolo sestoAlcuni cenni sul welfare regionale ……………..……………………….…….… p.

Appendice metodologica ………………………………………………………. p.

Ringraziamenti …………...……………………………………………………. p.

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Presentazione di Mons. Vittorio Nozza

(direttore della Caritas Italiana)

La pubblicazione di questo primo rapporto regionale su povertà ed esclu-sione sociale, realizzato dalle Caritas della Sardegna, avviene nell’ambito del Pro-getto Rete Nazionale, promosso dalla Caritas Italiana nel 2003 e sviluppato nel corso di questi anni.

Questo progetto, promuovendo le attenzioni, le funzioni e i “luoghi” es-senziali di ogni Caritas diocesana, vuole garantirne l’identità di organismo pasto-rale in tutti i contesti, a partire da quelli più fragili. Tale azione è quanto compete come compito primario a Caritas Italiana, evidenziato anche dall’itinerario com-piuto negli anni 2001-2004 che, rispondendo alla domanda Quale Caritas per i prossimi anni? ha sottolineato:

- la necessità di assumere un metodo di lavoro basato sull’ascolto,

l’osservazione e il discernimento; - l’esigenza di scegliere, tra tutte quelle possibili, azioni capaci di colle-

gare emergenza e quotidianità; - la scelta di costruire e proporre esperienze/percorsi educativi in grado

di incidere concretamente nella vita delle persone e delle comunità.

Metodo, azioni e percorsi educativi, in estrema sintesi, costituiscono la “spina dorsale” dell’essere Caritas, le coordinate essenziali su cui, alla luce di un’esperienza ormai collaudata, costruire le diverse progettualità.

In tale prospettiva assume fondamentale importanza curare i “luoghi” sen-za i quali è impensabile essere ed esprimere, come organismo, la propria identità e i propri compiti pastorali:

- il Centro di Ascolto; - l’Osservatorio delle Povertà e delle Risorse; - il Laboratorio diocesano per la promozione delle Caritas parrocchiali.

La promozione di questi tre luoghi pastorali in ogni Caritas diocesana è la

finalità principale del Progetto Rete. La raccolta dei dati relativi alle persone che si rivolgono ai Centri di A-

scolto, con la cura quantitativa e qualitativa dei dati e delle connessioni con il ter-ritorio, va considerata come un’azione necessaria soprattutto per abilitare le Cari-tas diocesane ad un lavoro più sistematico e costante in tali realtà.

Inoltre, la promozione di un lavoro comune fra i tre luoghi pastorali propri, non fa del Progetto Rete solo un progetto importante, ma anche un “modo di fare

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Caritas”, che impegna Caritas Italiana a sostenere lo sviluppo delle Caritas dioce-sane a partire da un progetto che promuove la crescita armonica di tutte le loro funzioni essenziali e la loro sintonia di fondo.

Ascoltare le persone in difficoltà, osservare la realtà nel suo complesso e discernere ciò che è necessario fare investe la responsabilità di tutta la comunità ecclesiale e la sollecita ad un coinvolgimento puntuale e costante verso le situa-zioni di povertà vicine e lontane, sia in termini di attenzione personale, ma anche di sensibilizzazione e animazione verso la realtà sociale.

La necessità di tale metodo e impegno ci viene ricordata anche da papa Benedetto XVI nella sua recente enciclica: “La società giusta non può essere ope-ra della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esi-genze del bene la interessa profondamente” (Deus Caritas est, n. 28).

La realizzazione e la pubblicazione di questo dossier regionale si colloca pienamente in questa direzione, anche come stimolo alle Caritas diocesane per va-lorizzare e sviluppare questo lavoro nei propri contesti territoriali.

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Presentazione di don Lorenzo Piras

(delegato regionale delle Caritas della Sardegna)

Un’isola in rete

«Un’isola con tante isole dentro». Tempo fa, in preparazione al Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, una prestigiosa rivista ecclesiale intitolava così il suo reportage sulla Sardegna. Il titolo, “velatamente” provocatorio, sottolineava la difficoltà di dar vita a livello regionale ad un coordinamento efficace fra le diverse diocesi sarde.

Non vogliamo entrare in merito alla provocazione, quanto invece prendere la frase a pretesto per raccontare un’altra esperienza, una storia con una trama as-sai diversa rispetto alle solite. La storia di un lavoro silenzioso, ma bello, che sta caratterizzando gli ultimi anni di attività della Delegazione regionale della Caritas nella nostra isola. Un azione paziente di collegamento, coordinamento, condivi-sione ed impegno dei direttori diocesani e dei tanti laici sui diversi aspetti che comporta il lavorare in Caritas: fra la nostra gente e nelle diverse comunità eccle-siali.

Ebbene, le “isole” si sono unite già da tempo, dando vita ad una realtà co-rale costruita essenzialmente sul dialogo e l’accettazione delle diversità, sull’avere ben presenti obiettivi regionali comuni ma al tempo stesso non svilendo le pecu-liarità di ciascuna diocesi; il tutto “cementato” da una grande passione per il Re-gno.

Da qualche tempo la vita delle nostra Delegazione vive articolata in diversi gruppi regionali, con una presenza piuttosto ampia di diocesi coinvolte sia nel campo dell’educazione dei giovani all’impegno solidale in favore dei più deboli (attraverso il servizio civile) 1, sia sul versante della promozione delle Caritas par-rocchiali. Il tutto senza perdere mai di vista, attraverso il settore dell’educazione alla mondialità, l’orizzonte di un mondo in cui le popolazioni che vivono nei Paesi più poveri reclamano a gran voce maggiore giustizia.

Questo primo rapporto regionale sulle povertà è frutto del prezioso impe-gno dello staff regionale del progetto rete, grazie al quale – come dice la parola stessa – le diverse realtà diocesane si sono messe in rete per ascoltare, osservare e analizzare le varie facce dell’esclusione sociale presenti nella nostra regione.

Seguire con attenzione la sofferenza dei nostri fratelli, approfondirla e condividerla con quanti, nella Chiesa e nella società, hanno a cuore tutti questi fe-nomeni è la logica conseguenza di questa pubblicazione, il cui esito finale si deve tradurre necessariamente in due parole: promozione e animazione.

1 È doveroso ricordare che il Progetto Rete ha cominciato a “mettere radici” anche in Sar-degna proprio grazie ai giovani in servizio civile, attraverso un progetto regionale dal significativo titolo “Per dar voce a chi non ha voce”.

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Promozione perché tale strumento possa diffondere, all’interno delle no-stre comunità ecclesiali, una maggiore consapevolezza delle povertà a partire dai poveri. Questo interessante lavoro viene ora lasciato a disposizione delle Chiese sarde come strumento privilegiato della conoscenza dei nostri territori, per un’evangelizzazione sempre più calata nella realtà, un’evangelizzazione – come ci ricorda il Concilio Plenario Sardo – «che sia incentrata nella testimonianza della carità e nell’impegno a stare dentro la storia del popolo con il dono di essa, ser-vendo gli uomini per amore, in particolare i più poveri» 2.

Animazione proprio perché tale strumento riesca ad animare e ad offrire stimoli operativi a tutta la società, a partire da coloro che hanno responsabilità de-cisionali, a livello politico così come nel privato sociale. Per tale ragione il rap-porto della Caritas è uno strumento a disposizione di tutti, anche di quanti svolgo-no funzioni politiche, affinché, acquisendo maggiore consapevolezza sui fenome-ni di esclusione sociale, siano in grado di assolvere pienamente il proprio mandato di sapienti amministratori della “cosa pubblica”.

Considero questa presentazione una buona occasione per dire un grazie molto affettuoso a tutti coloro che, in diverso modo e con livelli differenti di re-sponsabilità, hanno profuso tempo, pazienza ed energia per fare dell’“isola con tante isole dentro” una rete di ascolto, osservazione e solidarietà in favore dei più deboli.

2 CONFERENZA EPISCOPALE SARDA, La Chiesa di Dio in Sardegna all’inizio del terzo mil-lennio. Atti del Concilio Plenario Sardo, Zonza Editori, Cagliari 2001, p. 253.

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È strana l’arte del bisognoe può rendere preziose cose miserabili.

(WILLIAM SHAKESPEARE, “Re Lear”, Scena II)

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Introduzione

La pubblicazione di questo primo Rapporto regionale su povertà ed esclu-sione sociale, dal titolo Osservazione dei percorsi di povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna, avviene nell’ambito del cosiddetto Progetto Rete Nazionale, promosso dalla Caritas Italiana nel 2003 e rafforzatosi progressiva-mente nel corso di questi ultimi anni.

La Sardegna ha aderito formalmente al Progetto Rete Nazionale verso la fine del 2004, pur sussistendo, già da qualche tempo, una rete più o meno coordi-nata dei Centri di Ascolto e degli Osservatori delle Povertà e delle Risorse.

La formazione di un buon numero di operatori qualificati nel corso del 2005, la costituzione di uno staff regionale del progetto rete, l’adozione pressoché unanime del software denominato OsPo3 in ciascuna Caritas diocesana e l’avvio del rilevamento sistematico di alcuni macro-dati (riguardanti i bisogni delle per-sone, le loro richieste e gli interventi posti in essere), secondo un protocollo di la-voro condiviso a livello nazionale, hanno costituito una sorta di spartiacque rispet-to al passato.

Sono state coinvolte quasi tutte le diocesi sarde (fatta eccezione per Lanu-sei, impossibilitata a partecipare per esigenze organizzative), con un numero con-siderevole di Centri di Ascolto e, soprattutto, di operatori. Peraltro è da segnalare che, dal momento in cui è stata effettuata l’indagine fino ad oggi, la rete dei Centri di Ascolto è cresciuta sensibilmente, arricchendosi sia di alcune realtà di ascolto sorte ex novo sia di quei Centri che operavano svincolati da una logica sinergica e collaborativa nel contesto ecclesiale e civile.

Il volume, adottando un approccio multidimensionale della povertà, con-tiene gli esiti di un’indagine articolata su più livelli, ma contraddistinta da un uni-co trait d’union, il dare voce ai principali protagonisti: attraverso il punto di vista degli operatori dei Centri di Ascolto (coloro che ascoltano, osservano e fanno di-scernimento sulle diverse forme di disagio incontrate quotidianamente); per mez-zo delle riflessioni proposte da alcuni testimoni privilegiati; ma soprattutto attra-verso le testimonianze dirette di coloro che stanno (o rischiano di stare) al margi-ne della società.

Come è scritto nella quarta di copertina, i dati del Rapporto della Caritas pongono in luce come anche in Sardegna «ci siano “vecchie povertà” e “nuovi poveri”: a trovarsi in condizioni di disagio non sono solo i senza dimora o più in generale coloro cui siamo abituati ad associare le immagini proposte dai mass me-dia; ci sono anche quanti vivono situazioni di fragilità all’interno del proprio nu-cleo familiare, i disoccupati e i lavoratori precari (fra cui molti giovani), i “poveri dell’euro” e gli immigrati, ma anche le persone che cercano “rifugio” nell’alcol e nella droga, quelli che non riescono a trovar casa e chi vive il disagio mentale, gli anziani che non possono spendere e le famiglie che spendono troppo e male».

Attraverso le due lenti dell’indagine quantitativa (con l’analisi dei dati sta-tistici dei Centri di Ascolto) e qualitativa (con i focus group e le interviste biogra-

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fiche), la ricerca si è posta l’obiettivo di indagare le varie forme di impoverimento che si segnalano nei vari contesti locali.

Anche se non hanno la pretesa di dire tutto sulle povertà dei sardi (per il semplice fatto che le persone in stato di disagio ascoltate dagli operatori dei Centri di Ascolto non rappresentano tutte le persone disagiate della Sardegna), gli esiti dell’indagine restituiscono in ogni caso una fotografia piuttosto fedele (e pertanto attendibile) sulle condizioni di disagio che si registrano un po’ ovunque nell’Isola.

Ma il dato in sé - quantitativo o qualitativo che sia - non sarebbe sufficien-te a restituire dignità ad ogni vicenda umana carica di sofferenza (spesso inascol-tata), se quanto emerge da questo Rapporto non si traducesse in precise iniziative volte a favorire percorsi condivisi di inclusione sociale.

Alla politica il compito di intraprendere le strade più opportune in ordine a ciò. Alla società tutta, civile ed ecclesiale, la responsabilità di conoscere ed agire sempre più e meglio rispetto a questa parte di comunità sofferente; possibilmente senza soffermarsi nell’atteggiamento compiaciuto rintracciabile in taluni approcci, troppo spesso assimilabili alla mera filantropia piuttosto che alla pratica della giu-stizia sociale.

Le parole chiave che emergono insistentemente da queste pagine sono an-zitutto “relazionalità” e “socialità”, perché ogni sforzo, anche il meglio dotato di risorse finanziarie, risulterebbe vano se non ponesse al centro anzitutto la persona umana.

Proprio per tale ragione, queste pagine – a nostro modo di vedere – aiutano a guardare con maggiore rispetto alle vicende umane di tante persone sofferenti: uomini e donne, giovani e meno giovani. Ci invitano a guardare con rispetto, ad esempio, alle storie di tanti immigrati che lasciano la propria casa e i propri affetti nel tentativo (alcune volte disperato) di trovare migliori prospettive di vita per sé e per la propria famiglia; uno sguardo che equivale a fare esercizio della memoria, sforzandoci di ricordare i tanti milioni di italiani che, molto tempo prima, hanno varcato il mare lasciando i propri cari per trovare un futuro migliore.

Ma non solo, guardare con maggiore rispetto chi soffre può aiutarci, come è scritto in un bel libro di narrativa, «a stanare un timore che da qualche parte ap-partiene a tutti. Perché dentro ognuno di noi, inconfessata, incappucciata, c’è que-sta estrema possibilità: perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci tengono ancorati al mondo regolare» 1.

1 M. MAZZANTINI, Zorro. Un eremita sul marciapiede, Arnaldo Mondadori Editore, Mila-no 2004, p. 13.

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CAPITOLO PRIMO I CENTRI DI ASCOLTO DELLE CARITAS DELLA SARDEGNA 1. Alcuni cenni sulla regione ecclesiale Sardegna Consultando la sezione dedicata alla Sardegna dell’Atlante delle diocesi d’Italia, pubblicato a cura della Conferenza Episcopale Italiana, si legge che quantunque si sia trovata storicamente in una posizione di isolamento, «la regione ricevette abbastanza presto il messaggio evangelico, grazie anche ai cristiani che vennero esiliati in Sardegna già all’inizio del III secolo» 1.

Attualmente la regione ecclesiale Sardegna, con una popolazione di 1.655.677 abitanti 2, è costituita da dieci diocesi distribuite complessivamente su una superficie di circa 24.000 chilometri quadrati. Il recente rimaneggiamento del-la configurazione amministrativa e territoriale, con la costituzione di nuove quat-tro province (in aggiunta a quelle di Cagliari, Nuoro, Oristano e Sassari), ha reso quasi corrispondente - per lo meno in alcuni casi - l’estensione provinciale a quel-la diocesana.

La diocesi di Ales-Terralba si colloca grosso modo nella provincia del Medio Campidano; quella di Alghero-Bosa, invece, si situa fra le province di Nuoro, Oristano e Sassari. L’arcidiocesi di Cagliari e le diocesi di Iglesias e Lanu-sei si distribuiscono, con una certa corrispondenza, rispettivamente nelle province di Cagliari, di Carbonia Iglesias e Lanusei Tortolì. Decisamente più contenuta ri-spetto alla configurazione provinciale risulta, invece, l’estensione della diocesi di Nuoro. Diversa appare anche la conformazione dell’arcidiocesi di Oristano rispet-to all’omonima provincia. La diocesi di Ozieri si colloca, invece, come una “realtà cuscinetto” fra le diocesi di Tempio-Ampurias (a Nord), Sassari ed Alghero-Bosa (ad Ovest-Sud-Ovest) e Nuoro (Est-Sud-Est). Come nel caso di Nuoro, anche l’estensione dell’arcidiocesi di Sassari e quella della diocesi di Tempio-Ampurias

1 CEI, Atlante delle diocesi d’Italia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2000, p. 203. La conformazione e il numero delle diocesi sarde hanno subito diverse variazioni nel corso della storia. In epoca sabauda il rimaneggiamento più significativo si ebbe con la ricostituzione delle diocesi di Iglesias (unita, anche se non incorporata, a quella di Cagliari fin dal primo decennio del 1500) e di Galtellì-Nuoro, rispettivamente nel 1764 e 1779. Tuttavia, le trasformazioni territoriali più rilevanti si verificarono nei primi decenni del XIX secolo, segnatamente con la «ricostituzione della diocesi di Bisarcio-Ozieri nel 1804 (le diocesi più interessate furono Alghero, Bosa, Oristano e, in misura minore, Sassari) e poi con quella di Ogliastra (il titolo di Suelli venne perduto nel 1824 con sede a Tortolì […])». Nel 1839 seguirono «la traslazione del titolo di Civitas a Tempio che rimase unita ad Ampurias e, nel 1927, la traslazione della sede di Ogliastra da Tortolì a Lanu-sei» (Cfr. R. TURTAS, Le vicende della Chiesa dal 1871 al primo dopoguerra, in AA.VV., L’età contemporanea. Dal governo piemontese agli anni Sessanta del nostro secolo, vol. IV, Jaca Book, Milano 1989, p. 315). 2 Dati Istat aggiornati al 31/12/2005.

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risultano più contenute in riferimento alle relative configurazioni provinciali (Sas-sari e Olbia Tempio).

Dai dati pubblicati nell’Atlante della CEI si apprende, peraltro, che le par-rocchie presenti in Sardegna sono 617 e che il numero dei sacerdoti fino al 2000 era pari a 1.264 (937 diocesani e 327 religiosi), mentre il numero delle religiose raggiungeva la cifra di 2.254.

2. La realtà dei Centri di Ascolto delle Caritas sarde Anche in Sardegna, come nel resto d’Italia, le Caritas diocesane si caratte-rizzano per la loro natura essenzialmente pastorale. Una natura ecclesiale che si traduce in un impegno diretto della Chiesa anche in seno alla società civile nel dif-ficile compito dell’educazione e della “testimonianza della carità”, attraverso una serie di azioni di sensibilizzazione e di “opere segno” che favoriscano lo «svilup-po integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare atten-zione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica» 3. Una delle traduzioni più importanti, dal punto di vista operativo, di questo “ministero” (e dunque servizio, missione) affidato alla Caritas è senza dubbio la costruzione capillare di luoghi di ascolto, osservazione e discernimento riguardo ai bisogni e alle forme più svariate di disagio. In questa prospettiva, al fine di far scaturire una consapevolezza piena e diretta dei problemi delle persone, la Chiesa italiana – attraverso la Caritas – ha progressivamente messo a disposizione delle comunità dei luoghi di accoglienza, ascolto, prima risposta, orientamento e pro-mozione della solidarietà, vale a dire una rete di strumenti in grado di favorire l’incontro con i poveri e il loro disagio. La nascita dei Centri di Ascolto (CdA), nel vissuto delle nostre comunità, ha rappresentato sostanzialmente questo passaggio: da una carità protesa unica-mente all’assistenzialismo, non in grado di incidere sulle cause dei problemi e sul-la consapevolezza da parte della società in ordine al disagio, ad una testimonianza della Carità (agape) attraverso l’ascolto innanzitutto delle persone in quanto tali, prima ancora del dare risposta alle loro richieste, e possibilmente favorendo un coinvolgimento pieno delle istituzioni, della società civile e delle stesse comunità ecclesiali in termini di reciproca assunzione di responsabilità. Volendo dare una definizione di Centro di Ascolto 4, si potrebbe dire anzi-tutto che esso è il luogo in cui la comunità cristiana incontra quotidianamente le persone che vivono uno stato di disagio. Proprio per la sua natura il CdA costitui-sce una sorta di “porta aperta al territorio”, uno strumento a servizio della comuni-tà che si caratterizza per alcune principali funzioni:

3 Cfr. Statuto della Caritas Italiana, art. 1. Le Caritas diocesane cominciarono ad essere istituite dai Vescovi a partire dal 1971; a seguire sorsero progressivamente, in ciascuna diocesi, le Caritas parrocchiali. Una ricostruzione ricca di dati e densa di testimonianze circa la storia della costruzione delle Caritas nelle comunità ecclesiali è contenuta nel volume di G. NERVO, La profe-zia della povertà. 25 anni di Caritas Italiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996. 4 Utilizziamo in questa sede la definizione fornita nei percorsi formativi per gli operatori delle Caritas diocesane e parrocchiali.

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- accoglienza, accettando le persone incondizionatamente nella loro integri-tà, senza distinzione religiosa, culturale, sociale, ecc.;

- ascolto delle storie di vita fatte di sofferenza, con un’attenzione alla digni-

tà delle persone e al rispetto della riservatezza ;

- prima risposta alle richieste che necessitano una risposta immediata (cibo, casa, protezione), attraverso il coinvolgimento della comunità e dei diversi attori solidali;

- orientamento nella fitta rete dei servizi, per fare in modo che le storie di

disagio che si manifestano nei luoghi di ascolto (spesso connotate da un insieme complesso di problemi) siano analizzate con cura e possano essere orientate verso le soluzioni più adatte, a partire dalle risorse (formali ed in-formali) presenti sul territorio;

- promozione di reti solidali, per fare in modo che la comunità territoriale

complessivamente considerata (risorsa fondamentale, spesso trascurata nei percorsi di soluzione al disagio) diventi luogo di promozione di reti di so-lidarietà. In questa prospettiva i CdA si rapportano con gli altri attori so-ciali (istituzionali e non) in termini di sussidiarietà, evitando di porsi con uno stile di supplenza.

La rilevazione dei bisogni, attraverso l’uso delle schede personali e di un

database in grado di tenere costantemente aggiornati i dati relativi alle richieste formulate dalle persone che si rivolgono ai CdA, permette un’osservazione attenta dei fenomeni di disagio e, conseguentemente, un serio discernimento sulle dina-miche sociali presenti in un determinato territorio.

A questo proposito va sottolineato che i Centri di Ascolto non sono princi-palmente dei luoghi di rilevazione dei dati 5. Tuttavia, l’ascolto diretto ed attento delle persone consente di registrare una serie articolata di informazioni sui loro bi-sogni e sulle cause che li hanno prodotti, nonché sulle loro richieste e sugli inter-venti posti in essere per cercare di trovare un’adeguata risposta. Proprio questa funzione di “antenne della povertà” collocate nel territorio consente ai Centri di Ascolto di effettuare una lettura attenta del disagio, cosicché, attraverso la colla-borazione con gli Osservatori delle Povertà e delle Risorse 6, gli incontri quotidia-

5 Non è fuori luogo precisare in questa sede che l’utilizzo delle informazioni fornite libe-ramente dalle persone che si rivolgono ai CdA, inserite nel database delle Caritas ed aggiornate ed elaborate ai fini della gestione del servizio attraverso il software denominato OsPo3 (che utilizza indicatori comuni a livello nazionale), è preventivamente autorizzato dagli interessati ai sensi della normativa vigente in materia di tutela della privacy. È appena il caso di rilevare che ciascun opera-tore dei Centri di Ascolto è tenuto a mantenere rigorosamente il rispetto dell’anonimato. 6 Gli Osservatori diocesani delle Povertà e delle Risorse, che favoriscono la collaborazione sulle problematiche sociali tra la Caritas e gli altri organismi pastorali, sono sorti come strumenti della pastorale aventi il compito di «osservare la realtà nell’ottica dell’amore preferenziale dei po-veri». Il secondo Convegno Ecclesiale Nazionale (tenutosi a Loreto nel 1985) ne aveva fortemente sottolineato l’importanza, tenuto conto della necessità per tutte le chiese locali di «acquisire un’adeguata competenza nella lettura dei bisogni delle povertà, dell’emarginazione [attraverso l’implementazione in ciascuna diocesi di] un osservatorio permanente, capace di seguire le dina-

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ni con le persone in stato di disagio si trasformano in veri e propri percorsi di os-servazione del disagio sociale.

Al giorno d’oggi esistono in Italia più di 3.000 Centri di Ascolto, sia nella forma semplice di luoghi di ascolto di ogni sorta di disagio, sia nella forma specializzata di centri dedicati alle problematiche legate all’immigrazione, ai senza dimora, alle dipendenze, alle famiglie in difficoltà, ecc.

Va rilevato, peraltro, che oltre il 70% delle diocesi italiane aderiscono al “Progetto rete nazionale dei Centri di Ascolto e degli Osservatori delle Povertà e delle Risorse”. Ciascuna diocesi si è dotata per lo meno di un luogo centrale (CdA diocesano) che promuove la nascita e il raccordo fra le articolazioni territoriali che effettuano l’ascolto (decanati, foranìe, vicarìe, parrocchie). Partendo dalla realtà delle Caritas parrocchiali, il progetto si pone come obiettivo fondamentale quello di mettere in rete queste realtà di ascolto, osservazione e discernimento ad un li-vello prima diocesano, poi regionale ed infine nazionale.

Come si è potuto leggere nell’introduzione, la Sardegna ha aderito al “Pro-getto Rete Nazionale” nel corso del 2004, pur sussistendo già da tempo una rete più o meno coordinata dei Centri di Ascolto e degli Osservatori delle Povertà e delle Risorse esistenti in alcune diocesi. Alla stesura di questo primo rapporto ha contribuito una parte della rete dei CdA esistenti, attraverso uno sforzo che ha preso avvio anzitutto da una verifica circa la propria identità, il proprio stile di servizio e le prospettive di lavoro per il futuro.

Attraverso questo capitolo ci si è posti l’obiettivo di favorire una lettura – adottando la tecnica del focus group 7 – dei modelli di Centri di Ascolto esistenti nella regione, coinvolgendo direttamente gli operatori che vi prestano servizio in una riflessione sui seguenti punti: a) “chi siamo” (la storia dei CdA); b) “cosa fac-ciamo”; c) “con chi lo facciamo” (comunità cristiana e territorio); d) “come lo facciamo”; e) “dove vogliamo andare” (gli scenari futuri).

3. I CdA della diocesi di Ales-Terralba 3.1. Il Centro di Ascolto diocesano di San Gavino Monreale

Preceduto da alcune importanti esperienze legate all’ascolto dei bisogni e delle richieste delle persone presenti in diocesi, il CdA diocesano con sede a San Gavino Monreale nasce nell’ottobre del 1996. Fra le esperienze più significative che hanno anticipato la sua nascita grande rilievo riveste il Centro di Ascolto “Madonna del Rosario” di Villacidro, che opera ancora oggi sul territorio della diocesi in ordine al problema della tossicodipendenza. In seguito sono sorti anche i CdA di Guspini, Terralba e Lunamatrona.

Il CdA è sorto sotto la direzione di don Vincenzo Salis, grazie al quale c’è stato un decentramento dalla sede episcopale di alcuni uffici diocesani. Dal 1996 ad oggi si sono avvicendati tre direttori: don Vincenzo Salis fino al 2000; don Eli-

miche dei problemi della gente e di coinvolgere direttamente la comunità ecclesiale in modo scien-tifico […]» (Cfr. la Nota pastorale della CEI “La Chiesa in Italia dopo Loreto”, n. 22). 7 Per un approfondimento sugli aspetti tecnici riguardanti questa particolare metodologia della ricerca sociale si rimanda all’appendice metodologica.

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seo Lilliu, che ha terminato il proprio mandato nell’ottobre del 2005 e al quale è subentrato nel mese di novembre don Angelo Pittau (il quale è già stato direttore negli anni 1986-96).

Attualmente gli operatori del Centro di Ascolto diocesano sono sette, pro-venienti da diverse esperienze professionali. Quattro di questi volontari si occu-pano dell’accoglienza, dell’ascolto e dell’orientamento, spesso attraverso inter-venti di vario genere (sociale, sanitario e assistenziale). Altri due sono impegnati nella consegna dei viveri e del vestiario ed infine una operatrice ha il compito di ricevere le persone che arrivano al Centro. Il servizio dell’accoglienza e dell’ascolto viene svolto con particolare attenzione, cercando di non disgiungere mai operatività e stile pedagogico.

Il Centro di Ascolto ha sempre cercato di coinvolgere la comunità ed il ter-ritorio anzitutto attraverso l’animazione, ovverosia favorendo iniziative di sensibi-lizzazione, promuovendo raccolte di vario genere e collaborando con i servizi so-ciali, le strutture sanitarie e i privati.

Tra gli obiettivi futuri vi è quello di continuare a formare gli operatori per svolgere un servizio attento ai bisogni che permangono e a quelli che emergono; ed inoltre, integrare l’operatività con il sempre maggiore coinvolgimento della comunità e delle altre risorse del territorio e magari far sorgere qualche altra opera segno. 3.2. Il Centro di Ascolto Santa Teresa di San Gavino Monreale

Il Centro di Ascolto della parrocchia di S. Teresa è sorto circa otto mesi fa, dopo una laboriosa ricerca di persone disposte a dedicare parte del proprio tempo agli altri. Non si ha una sede fisica destinata esclusivamente all’ascolto, ma nono-stante le difficoltà logistiche viene garantito un servizio a tutti, in particolare alle persone appartenenti alla comunità parrocchiale. Inoltre, tre nuclei familiari ven-gono aiutati concretamente con sostegni di tipo materiale.

Il Centro di Ascolto coinvolge nelle proprie attività anche le altre realtà parrocchiali (gruppi di preghiera, l’Azione cattolica, comitati vari, gruppi di cate-chisti ecc.), i privati cittadini, i servizi sociali comunali, i servizi sanitari e le atti-vità commerciali del paese.

Le persone che si rivolgono al Centro di Ascolto vengono accolte con gen-tilezza ed amore e trovano solidarietà: vengono consigliate, indirizzate, spesso aiutate nell’espletamento e compilazione di istanze alla pubblica amministrazione, richieste di sussidi o invalidità, oltre che ricevere sostegni di tipo materiale.

Per il futuro si vorrebbe avere una sede idonea, onde poter svolgere in ma-niera più adeguata e potenziare i servizi che al momento si effettuano con molte difficoltà. Il numero degli operatori è piuttosto esiguo: tre laiche ed una religiosa. Ultimamente ci si sta attivando, con opportuni contatti, per potenziare l’organico.

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3.3. Il Centro di Ascolto di Arbus

Il territorio di Arbus è abitato da circa 6.800 abitanti. La cura delle anime è seguita da due parrocchie: una dedicata a San Sebastiano Martire e l’altra alla Santa Vergine Maria Regina. La parrocchia di San Sebastiano è la più antica e presta il suo servizio ai 2/3 della popolazione.

Esiste una bellissima struttura adibita a Centro anziani che ospita al pro-prio interno 20 persone in età molto avanzata. È una grande ricchezza per coloro che, soli e colpiti da diversi problemi di salute, non troverebbero un adeguato so-stegno nei familiari a loro volta oberati da diversi problemi.

Mettersi in atteggiamento d’ascolto oggi è un compito non facile, proprio perché emotivamente siamo portati a voler dare subito delle risposte risolutive a chi ci confida i propri problemi. Ma questo spesso non aiuta chi ci sta davanti, soprattutto chi ha bisogno di esporre le proprie difficoltà per trovare chi sappia ascoltare, chi dimostri di saper condividere il disagio.

Le associazioni di volontariato esistenti nel paese offrono un lodevole so-stegno alle persone in difficoltà, ma manca tra le varie realtà un’apertura atta a consentire uno scambio di conoscenze e di idee, utili per un arricchimento vicen-devole dei singoli e dei gruppi. Si rileva la necessità di effettuare degli incontri di formazione per una più adeguata preparazione e comprensione del vero ruolo del volontariato cristiano (e dei volontari) nella società. 3.4. Il Centro di Ascolto di Guspini Sito in via Giovanni Antonio Sanna, al numero 42, il Centro di Ascolto “Mons. S. Spettu” è stato costituito nel dicembre del 1988 su impulso della Cari-tas diocesana di Ales-Terralba e per volontà di un gruppo di cittadini, nonché dei tre parroci di Guspini.

Gli operatori del CdA cercano di conoscere i problemi sociali della cittadi-na ex mineraria e di essere presenti, come comunità cristiana, attraverso un servi-zio quotidiano di ascolto, prima accoglienza, distribuzione di viveri e altri generi, sostegno morale, orientamento ai servizi, collaborazione con altre associazioni e con i servizi sociali, nonché attraverso un’attività di prevenzione “secondaria” con gli oratori.

In prospettiva si vorrebbe sempre più lavorare per progetti, attuando inter-venti volti a favorire maggiormente un lavoro di rete con gli altri Centri e servizi. Per fare ciò si avverte da parte di tutti gli operatori il bisogno di un’adeguata for-mazione umana, cristiana e professionale, ma anche la collaborazione di operatori specializzati (psicologi, avvocati, medici, ecc.). Non trascurabile, peraltro, è l’auspicio che le parrocchie del territorio credano sempre più al ruolo e alla fun-zione del Centro di Ascolto.

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3.5. Il Centro di Ascolto di Sardara

Il Centro di Ascolto della parrocchia Beata Vergine Assunta è nato nel me-se di ottobre del 1998 sotto la guida di don Ireneo Manca. Dopo un primo periodo di formazione mediante incontri di cui alcuni curati da don Salis, allora direttore della Caritas diocesana, il CdA ha iniziato la propria attività aprendo due volte al-la settimana. Successivamente l’apertura si è limitata ad una sola volta ed attual-mente, dopo un periodo di chiusura di circa un anno, il Centro è in fase di riorga-nizzazione.

Il servizio era effettuato quasi esclusivamente dagli operatori della Caritas; raramente avveniva il coinvolgimento della comunità cristiana: solo nei casi in cui le persone manifestavano dei bisogni che il Centro non poteva assecondare.

Dapprima gli operatori accoglievano la persona, cercando di metterla a proprio agio, dopodiché si mettevano in ascolto, naturalmente fornendo una prima assistenza quando i bisogni erano primari, come nel caso dei viveri.

Lo scenario futuro del CdA è quello innanzitutto di riavviare con nuovi stimoli la propria attività, affiancando gli operatori Caritas con altre figure quali lo psicologo, un esperto di problematiche familiari e l’assistente sociale, cui far rife-rimento nel caso si presentasse la necessità delle loro competenze. 3.6. Il Centro di Ascolto di Terralba

Il Centro d’Ascolto “Buon Samaritano” è un’espressione diretta della Cari-tas parrocchiale di San Pietro Apostolo di Terralba. Si tratta di un’associazione i-scritta nel registro regionale del volontariato (al n. 578, settore socio-assistenziale) che dispone di una decina di operatori, i quali prestano la propria opera con turni che garantiscono l’operatività del Centro per tre giorni la settimana.

L’attività del CdA di Terralba è rivolta a tutti coloro che si trovano in si-tuazioni di disagio di diverso tipo: gli interventi più frequentemente richiesti sono, tuttavia, quelli che rispondono a povertà di carattere economico. Il Centro dispone di beni soprattutto alimentari che arrivano da donazioni private e dalle periodiche elargizioni da parte della Caritas diocesana.

L’ascolto viene effettuato soprattutto per favorire un rapporto personale con le persone che vengono a chiedere soccorso, per avviarle ad un superamento di situazioni di solitudine, emarginazione e rassegnazione.

Per oltre 150 giorni all’anno si garantisce il sostegno a circa 600 indigenti del territorio, con l’erogazione di prodotti alimentari, medicinali ma anche sem-plice ascolto. La Caritas parrocchiale di S. Pietro, unitamente alla Caritas diocesa-na e ai servizi sociali del Comune di Terralba, concorre a mettere in atto una sere di interventi fondamentali per il territorio.

Lo spirito del volontariato consente agli animatori di prestare la propria opera nella forma cristiana e sociale, per dare alle persone quelle risposte di cui hanno bisogno con l’ascolto, l’accoglienza e l’assistenza.

Le carenze dei servizi erogati dagli Enti locali portano il Centro di Ascol-to, in virtù anche delle leggi sul volontariato, ad una più attenta valutazione degli interventi verso quei bisogni urgenti che altrimenti non verrebbero assecondati. Ciò di cui vi è bisogno è senza dubbio una più stretta collaborazione con la Cari-

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tas diocesana, affinché si sviluppino degli incontri a livello di foranie, attivando percorsi formativi e dando vita a progetti sia locali che diocesani. 3.7. Il Centro di Ascolto di Uras

Il Centro di Ascolto di Uras è nato nel 1996 dall’urgenza avvertita dalla comunità cristiana di avere uno strumento pastorale al servizio delle persone in difficoltà. Tra i suoi obiettivi vi è quello imprescindibile di essere punto di riferi-mento e di osservazione per la conoscenza delle situazioni di disagio ed emargi-nazione presenti. Gli operatori che operano in questa realtà sono una decina circa.

Prima che il parroco don Ireneo Manca, che ha voluto fortemente il CdA, convocasse i volontari per far nascere il Centro, i problemi del paese erano sotto gli occhi di tutti: alcolisti, famiglie che avevano impellente bisogno di aiuto; an-ziani che vivevano soli se non addirittura in stato di abbandono. Da quando esiste il CdA, esso accoglie, ascolta e si fa carico delle persone in situazione di bisogno. Inoltre si offrono interventi diretti come: consegna di vestiario, servizio mensa, ricerca alloggio e lavoro, distribuzione viveri.

Pur non avendo operatori con competenze specifiche, i volontari si sono rimboccati le maniche cercando di formarsi ed informarsi per fare del proprio me-glio. L’obiettivo è da sempre quello di individuare i bisogni e le risorse presenti per portare l’aiuto più adatto. Questo lo si fa cercando di coinvolgere sia la comu-nità cristiana, sia i servizi sociali ed altre strutture o enti qualora se ne presenti la necessità.

Oggigiorno, l’attuale parroco don Ruggeri, persona molto disponibile e sensibile a questi problemi, incoraggia i volontari a spendersi in questo servizio a favore dei fratelli in situazione di bisogno. Cosicché, grazie ad un continuo lavoro di ricerca e confronto con gli operatori del Centro di Ascolto, e con l’aiuto dei servizi sociali e della popolazione (la quale dimostra notevole sensibilità verso i casi più nascosti, segnalando con discrezione chi ha bisogno di aiuto), si è riusciti a portare un po’ di assistenza e di speranza.

Da quando è iniziata l’attività del CdA molte cose sono cambiate. Si è cre-sciuti un po’ tutti e al momento le sedi operative sono diventate ben tre: una per la distribuzione del vestiario, una per la mensa domenicale ed infine il centro di ac-coglienza per la distribuzione dei viveri. Certo resta ancora molto da fare in ter-mini di consapevolezza della gente sulle problematiche del territorio.

Da notare che, oltre alla collaborazione con la comunità e i servizi sociali, il CdA si riunisce saltuariamente in una sorta di consulta con i paesi limitrofi, per discutere sulle problematiche comuni e per cercare insieme delle soluzioni possi-bili.

L’obiettivo principale per gli operatori del CdA di Uras è quello di conti-nuare ad essere un punto di riferimento per la comunità, affinché chi cerca aiuto possa trovare un luogo accogliente con persone alle quali rivolgersi, per essere capiti ed aiutati. Inoltre, si vorrebbe continuare il lavoro di indagine sulle povertà vecchie e nuove, ma anche delle risorse presenti.

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4. Il CdA di Macomer della diocesi di Alghero-Bosa

Il Centro di Ascolto interparrocchiale di Macomer ha iniziato ad operare nel novembre del 2003, dopo una preparazione durata più di un anno. Il gruppo degli operatori si compone di dieci persone che, con coscienza morale e sociale, vuole mettersi a disposizione del prossimo per ricambiare il bene e la gioia che hanno avuto e continuano ad avere nella loro vita.

Con la loro presenza i volontari desiderano rendere visibile il più possibile il Vangelo: vogliono mostrare l’amore di Dio proprio perché, sentendosi amati da Lui, vorrebbero che anche le persone che incontrano in occasione dell’ascolto spe-rimentino quell’amore gratuito e generoso.

In due anni di attività, i volontari si sono sentiti rinforzati nel loro “lavoro” dai sorrisi e dai ringraziamenti delle persone che a loro si sono rivolte nel Centro di Ascolto, e che sanno che in quel luogo qualcuno è presente per loro. In questo modo essi sentono vive più che mai le seguenti parole: “È dando che si riceve…”.

Al Centro d’Ascolto i volontari ricevono tutti 8, senza distinzione alcuna, preoccupandosi di aiutare le persone a trovare una soluzione adeguata ai propri problemi e facendo attenzione alla situazione di vita di ognuno. I volontari, inol-tre, cercano di far sentire la propria presenza anche telefonicamente, quando chi si è rivolto per chiedere aiuto non ritorna più al Centro. I volontari cercano di sfor-zarsi ed impegnarsi affinché il Vangelo sia davvero lo strumento che indichi il cammino da percorrere per migliorare la vita degli altri. Si tratta di uno sforzo che ha come meta la messa in pratica della pedagogia di Cristo, consapevoli che le sue parole - « […] che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati» 9 -, siano la strada da seguire per aiutare le persone ad affrontare e superare le difficoltà.

La metodologia di lavoro si traduce in: accoglienza, ascolto e accompa-gnamento. Per far questo sono presenti a turno tre volontari, uno si occupa dell’accoglienza e/o dell’accompagnamento, gli altri due si occupano dell’ascolto. L’accoglienza avviene sin dal primo passo della persona sulla soglia della porta (un operatore gli va incontro scambiando alcune parole e l’accompagna dai volontari che si impegnano nell’ascolto). L’ascolto viene prati-cato in tutta calma e disponibilità, cercando di mettere a proprio agio la persona lasciandola libera di aprirsi. Un volontario registra mentalmente ciò che viene det-to per riportarlo in seguito su una scheda personale, l’altro ha una parte più attiva durante l’ascolto sostenendo e incoraggiando l’ospite a mostrare, sempre che lo ritenga opportuno, ciò che lo preoccupa. Quando il colloquio termina e la persona si accomiata, i volontari presenti discutono di ciò che emerso durante l’ascolto, i-niziando a valutare in che modo aiutare la persona che si è presentata. Accompa-gnamento per i volontari significa anzitutto incoraggiamento, conforto e sostegno: si cerca di mostrare ciò anche attraverso il contatto telefonico, se la persona non dovesse più ripresentarsi.

Due volte al mese l’équipe del CdA si riunisce per rivedere insieme le sto-rie di vita ascoltate, sia per valutare insieme come evolve una determinata vicen-da, sia per capire se c’è ancora qualcos’altro da fare.

8 Il Centro è aperto tre giorni alla settimana e telefonicamente risponde tutti i giorni, dalle 9.00 alle 13.00. 9 Gv 15,12.

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Nella sua opera il CdA si avvale della collaborazione di enti, associazioni, gruppi di volontariato. In base alla richiesta espressa si contatta l’ente o l’associazione che risponde anche materialmente alla domanda presentata. Il pri-mo passo di questo cammino è sempre la parrocchia e la Caritas parrocchiale (laddove esiste). Sin dal primo giorno di attività sono stati contattati tutti coloro che operano nel territorio di Macomer, gruppi o enti sia di ispirazione cristiana che laici, pubblici o privati, che in qualche modo operano a contatto con le perso-ne.

I volontari sono consapevoli che le difficoltà sono davvero tante e la pre-occupazione maggiore, in realtà, è data dal fatto che non tutte le richieste possono trovare soluzione. Tutti gli operatori, pertanto, auspicano una maggiore collabora-zione con le associazioni o i gruppi che operano nel territorio, realizzando anche degli incontri in cui conoscersi, al fine di dar vita a momenti di aggregazione e condivisione. Un cammino in questa direzione lo si sta già percorrendo: il Centro di Ascolto, infatti, partecipa quand’è possibile agli incontri pubblici e ai momenti aggregativi promossi da altre realtà sociali e culturali, come per esempio “Sport e solidarietà” e la “Fiera del Libro”. In entrambe le occasioni i volontari hanno cer-cato di promuovere il servizio del Centro di Ascolto per farlo conoscere a tutti, mostrando che a Macomer esiste un luogo in cui chiunque si trovi nel bisogno ab-bia una spalla su cui poggiarsi, una persona con cui gioire o piangere in libertà e senza venire in alcun modo giudicati.

A volte l’apprensione, l’empatia che si prova per gli amici del CdA, ma soprattutto il desiderio di trovare al più presto una risposta alle loro richieste, fa perdere di vista il compito più importante dei volontari, vale a dire l’ascolto. Infat-ti, soltanto se si mette in atto un atteggiamento vero di attenzione, calma e dispo-nibilità, si compie la premessa per poter dare delle risposte e poter essere davvero di aiuto. La fretta della risposta a volte mortifica questa prima e fondamentale par-te del servizio. 5. Il Centro di Ascolto diocesano di Cagliari

La discussione sull’identità del Centro di Ascolto di Cagliari ha coinvolto una ventina di persone. La metodologia usata (focus group) e il confronto diretto dei partecipanti hanno fatto emergere opinioni, suggerimenti, ma hanno anche permesso di avanzare importanti proposte e di cogliere le difficoltà e gli elementi di debolezza sul modo attuale di procedere del CdA.

Sulla storia del Centro non è stato possibile soffermarsi molto, poiché si tratta di una realtà che è stata riavviata da poco tempo 10, con grande impegno e notevole entusiasmo. Si tratta, pertanto, di un Centro in qualche modo “giovane”, che ha maturato negli ultimi mesi un’esperienza fatta di ascolto, osservazione e discernimento nell’ottica del Progetto Rete Nazionale promosso dalla Caritas Ita-liana.

Per quanto riguarda la modalità operativa, in particolare l’approccio da a-dottare nell’incontro con le persone, gli operatori sono concordi nel ritenere che vi

10 Recentemente il CdA diocesano di Cagliari è stato trasferito in viale S. Ignazio, unitamen-te ad altre realtà di assistenza coordinate dal Comune di Cagliari nel “Centro Giovanni Paolo II”.

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è da parte di tutti un atteggiamento di accoglienza, disponibilità, vicinanza e con-divisione dei problemi altrui. Per ciò che concerne le realtà coinvolte e sensibiliz-zate, si tratta per la maggior parte della famiglia di origine, della parrocchia di appartenenza, dei servizi sociali comunali, delle associazioni di volontariato e del-le varie comunità di accoglienza.

Fra le necessità e i problemi emersi in occasione del focus group sono da segnalare: la necessità di uno sportello ad hoc per gli immigrati 11 con la presenza di un mediatore culturale; la carenza della comunicazione – anche scritta (quader-no giornaliero delle consegne, agenda/diario, ecc.) fra gli operatori; la carenza di informazioni nelle schede personali delle persone che si rivolgono al Centro. Per migliorare tale situazione si è proposto di: riprendere il lavoro per la realizzazione della carta dei servizi (quale strumento necessario per orientare le persone, cono-scere ed effettuare visite presso gli enti e le associazioni del territorio al fine di una conoscenza diretta); tradurre il foglio relativo all’informativa e al consenso (tutela della privacy) nelle principali lingue straniere; organizzare dei corsi di lin-gue straniere per gli operatori del CdA per immigrati di futura apertura.

Rispetto alle prospettive per il futuro il desiderio è quello di incontrare il tessuto sociale nelle sue diverse componenti, stimolando e responsabilizzando la comunità rispetto ad una precisa assunzione di responsabilità. Oltre a ciò si tratte-rà di potenziare ulteriormente la preparazione degli operatori, attraverso specifici percorsi di formazione.

6. Il Centro di Ascolto diocesano di Iglesias

Il focus group è stato abbastanza partecipato. Gli operatori presenti lo han-no gradito particolarmente proprio perché è stato visto come un’importante occa-sione per soffermarsi a rileggere la propria esperienza di servizio. In nessun caso si sono riscontrati elementi di disaccordo sostanziali o nodi problematici tra i vo-lontari, anche se non sono mancati punti di vista differenti, scaturiti soprattutto dalla varietà delle esperienze (rispetto alle quali ogni partecipante al focus group ha a che fare quotidianamente, o in ambito lavorativo o attraverso il volontariato) nel campo delle povertà e dell’esclusione sociale. Questo ha permesso non solo uno scambio di esperienze ma è stato anche un arricchimento per tutti i parteci-panti.

L’équipe degli operatori è costituita da circa una decina di volontari stabili provenienti da diverse parrocchie della città: Santa Chiara d’Assisi (la parrocchia della cattedrale); San Pio X (la parrocchia del quartiere più popoloso della città, denominato Serra Perdosa); Cuore Immacolato di Maria; San Giovanni (situata nella frazione di Bindua); Beata Vergine di Valverde e San Paolo apostolo.

Il Centro di Ascolto diocesano ha iniziato il proprio servizio nel 1995, con cinque volontarie ed una suora. Fin dall’inizio gli operatori hanno seguito un per-corso formativo che comprendeva anche il confronto con altre esperienze. Per la formazione iniziale come strumento di riferimento si è utilizzato il testo sui Centri di Ascolto della Caritas Ambrosiana. Nel primo periodo, ai colloqui partecipava

11 L’apertura di un apposito Centro di ascolto della Caritas diocesana, destinato agli immi-grati, è prevista per la fine del 2006.

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il referente del Centro insieme con un volontario e le linee da seguire, gli inter-venti da attuare o le decisioni da prendere erano appannaggio esclusivo del refe-rente. Fin dall’inizio i volontari utilizzavano un tipo di scheda (non dettagliata come quella che è in uso attualmente) nella quale venivano annotati i dati delle persone che si rivolgevano al Centro. Tale scheda è stata sostituita poi dall’“agenda”.

A causa del numero ridotto dei volontari i giorni di apertura del Centro e-rano limitati e spesso gli operatori disponibili dovevano fare acrobazie per coprire i turni. Qualche volta il referente faceva l’ascolto da solo.

A detta delle volontarie più “anziane”, l’inizio è stato faticoso e duro: ogni volontario aveva una sensibilità propria e le scuole formative di provenienza spesso sono state causa di scontri. Col tempo è cresciuta l’esperienza, la cono-scenza reciproca e la stima e questo ha permesso di far crescere il gruppo non so-lo numericamente. Ci si è resi conto che per far funzionare bene il Centro era im-portante l’unità tra i volontari: all’inizio è stato faticoso raggiungerla, ma oggi, grazie alla preghiera e alla formazione si è raggiunto un certo equilibrio.

Col tempo alcune persone si sono allontanate e se ne sono aggiunte delle altre. Crescendo il numero dei volontari si è iniziato a parlare della figura del co-ordinatore con un ruolo interno ed esterno al Centro. All’interno del CdA egli ha il compito di curare i turni dei volontari, i momenti formativi e coordinare il pro-gramma operativo; all’esterno, invece, cura i rapporti con le istituzioni e tutte le strutture pubbliche e private.

Oggi tutti i membri dell’équipe hanno il proprio calendario dei turni e fan-no servizio di ascolto due volontari per volta (per due ore al giorno), dal lunedì al giovedì. Il venerdì, invece, si fa un incontro di preghiera e riflessione condivisa, oltre che un’analisi dei casi che si sono presentati durante la settimana. Questo permette a tutti i volontari di avere una conoscenza più approfondita delle situa-zioni delle persone che si sono presentate al Centro e di trovare tutti insieme le strategie d’intervento per ogni singolo caso, a differenza del passato in cui solo il referente prendeva determinate decisioni. Inoltre, l’ultimo venerdì del mese si af-frontano tematiche particolari anche sotto il profilo culturale. Spesso si invitano delle persone che per la loro professionalità aiutano i volontari a conoscere alcune tematiche, alcune leggi, problematiche, ecc. Con alcune di queste persone si sono create delle collaborazioni che hanno permesso la realizzazione di altri tipi di aiu-to, come ad esempio il Centro prestiti 12. I momenti forti del calendario liturgico diventano occasione di meditazione e riflessione spirituale. Non mancano poi i momenti formativi a livello diocesano e regionale proposti dalla Caritas, non ul-timi quelli organizzati in occasione del Progetto Rete. A differenza del passato, da qualche anno a questa parte per gli operatori del CdA è stato molto importante il contributo offerto dalle volontarie del servizio civile, le quali soprattutto in questi ultimi anni si sono occupate della compilazione dell’agenda durante i colloqui e della stesura delle schede per la raccolta dei dati da inserire nel database.

Nel Centro di Ascolto le volontarie fanno soprattutto accoglienza e ascol-to. Inizialmente cercano di mettere a proprio agio le persone che chiedono aiuto.

12 Tale centro eroga piccoli prestiti (utilizzando la forma del “microcredito”) a persone che si dovessero trovare di fronte ad improvvise difficoltà finanziarie. Funziona in raccordo con il CdA e in costante rapporto con il direttore della Caritas diocesana.

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Generalmente è la volontaria in servizio civile che si occupa di scrivere sull’agenda: vengono presi tutti i dati e le informazioni utili della persona che si rivolge al Centro e si studia insieme a lei un percorso da sperimentare per uscire dal bisogno. A seconda delle problematiche presentate si cerca di orientare le per-sone verso gli Enti competenti. Ad ogni modo, il venerdì si porta il caso a cono-scenza di tutti gli operatori e insieme si cerca di trovare una strategia di interven-to. Qualsiasi tipo di intervento avviene indirettamente attraverso la collaborazione con altri attori (ad esempio i gruppi parrocchiali delle Vincenziane, con le quali le volontarie del Centro collaborano da sempre). In questo modo si cerca di educare le persone a far riferimento alla propria comunità di appartenenza. Se poi qualcu-no dovesse aver bisogno di una certa somma di danaro si interpella – quando op-portuno – il Centro prestiti.

Col passare del tempo l’intesa con le associazioni e gli Enti della città è cresciuta. Le parrocchie restano comunque il ponte privilegiato e l’elemento di ri-scontro delle problematiche presentate al Centro di Ascolto. Inoltre, si collabora sistematicamente con: i servizi sociali del Comune, il Sert, il Cim, la Casa di pri-ma accoglienza Santo Stefano della Caritas diocesana, i Padri Francescani, le scuole; ma anche Inps, Iacp, Telecom, Enel, l’Ispettorato del Lavoro ed una vasta rete di associazioni di volontariato sociale presenti nel territorio. Inoltre, ultima-mente si sta collaborando strettamente con una Farmacia della città e con un lega-le che fornisce il proprio patrocinio gratuitamente, aiutando spesso anche gli stessi volontari a capire meglio certe problematiche.

Con il proprio operato le volontarie, attraverso l’accoglienza e l’ascolto, cercano di aiutare le persone a venire fuori dai loro problemi, responsabilizzando-le e rendendole protagoniste di un possibile percorso di uscita. Si cerca ad esem-pio di far capire loro che è possibile pagare una bolletta a piccole rate piuttosto che farla scadere senza pagarla; o acquistare farmaci generici piuttosto che quelli a pagamento. Si cerca in ogni caso di accompagnarle e orientarle, non sostituen-dosi mai ad esse ed evitando il rischio dell’assistenzialismo. Ed è anche per tale ragione che l’intervento del CdA non è mai immediato.

Anche in futuro per le volontarie sarà importante proseguire su questa strada, continuando a responsabilizzare le persone ad essere autosufficienti ed au-tonome, in ogni caso capaci di gestire i propri problemi. Ritengono, peraltro, che sia importante continuare il cammino di formazione sia spirituale che culturale. Il cammino spirituale consente loro di crescere nella fede e nell’unità e di vedere Dio Padre nei volti delle persone che si rivolgono al Centro. La formazione cultu-rale e soprattutto gli incontri con gli “esperti” aiutano i volontari a prepararsi me-glio ad affrontare determinate situazioni. Condividono l’importanza e l’utilità de-gli strumenti proposti dal Progetto Rete, ad esempio le schede e OsPo3, anche se per alcune resta comunque una difficoltà utilizzarli. A breve inizieranno a fare un corso base di informatica. Non meno importante sarà l’impegno di curare meglio i rapporti con le istituzioni e con il territorio. 7. Il Centro di Ascolto diocesano di Nuoro

Gli operatori del CdA di Nuoro sono una dozzina circa di volontari, i quali prestano servizio gratuitamente per due ore settimanali ciascuno (tutti i giorni,

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dalle 9.30 alle 11.30, con un servizio pomeridiano anche il lunedì, dalle 16.00 alle 18.00).

Ubicato in via Manzoni, al numero 30 (nei locali della Casa San Giusep-pe), il CdA è relativamente recente; le sue origini, infatti, risalgono alla fine degli anni ’80. La sua caratteristica principale è quella di essere un Centro di Ascolto a livello diocesano, in quanto cerca di venire incontro a tutte le necessità e proble-matiche del territorio, raccogliendone possibilmente tutte le istanze unitamente all’apporto di vari gruppi di volontariato: Sesta Opera, Vincenziane, Caritas par-rocchiali, servizi di ospitalità, ecc.

Come Centro Caritas vero e proprio, con le sue caratteristiche attuali, na-sce però solamente nel 1998, quando il Vicario generale della diocesi, mons. Sal-vatore Floris, riunisce il primo gruppo di volontari, il quale inizia a muovere timi-damente i primi passi, con alterne vicende.

Successivamente, viene ufficializzata la sua nascita con la nomina, da par-te del Vescovo, di un direttore, nella persona di don Luigino Monni (attualmente in carica) e di un vicedirettore, don Francesco Mariani. Ben presto gli operatori iniziano a frequentare i corsi nazionali promossi dalla Caritas Italiana, per un per-corso annuale di formazione-base, appositamente organizzato per le équipe delle Caritas diocesane.

Gli operatori del Centro di Ascolto operano nel rispetto dell’anonimato e in coppia. Dopo l’accoglienza fraterna ed il preliminare approfondito colloquio con la persona, ci si sforza di analizzarne i reali bisogni e le richieste, per passare poi (quando possibile ed opportuno), e nei limiti delle poche disponibilità econo-miche, a concretizzare gli interventi più urgenti.

L’opera cerca di andare incontro alle realtà più crude, anzitutto ascoltando e cercando poi di soddisfare almeno parzialmente le esigenze primarie manifestate (bisogni di viveri, necessità di un parziale pagamento di bollette della luce e dell’affitto della casa, acquisto di medicinali, bombole del gas, ecc.) e indirizzan-do anche le persone verso altri organismi assistenziali parrocchiali e non. Un qualche contributo viene anche elargito alla casa che ci ospita e alle missioni. Tali contributi provengono essenzialmente dalla diocesi.

Partendo anzitutto dalla necessità di una maggiore concordanza fra i vari operatori, che si deve concretizzare nell’armonia fraterna (“Caritas”, prima di tut-to fra noi!), nell’unità di intenti e nella massima autonomia nell’operare (seguire gli stessi criteri, ma senza interferire nelle decisioni altrui), si vorrebbe potenziare il CdA con l’immissione di altri operatori, per poter poi allargare il raggio d’azione, sia direttamente (cercando di soddisfare le varie richieste), sia attraverso una rete che sia funzionale ai necessari contatti con tutte le parrocchie della città e della diocesi, e che porti gli operatori a conoscere e a contattare velocemente i va-ri soggetti presenti nel territorio.

Si rileva, tuttora, una qualche difficoltà nel addentrarsi nei vari ambienti, anche parrocchiali, i quali sovente risultano restii alle interferenze esterne e timo-rosi – forse – di perdere una certa autonomia.

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8. Il Centro di Ascolto diocesano di Oristano

Il Centro di Ascolto diocesano di Oristano sta vivendo, oramai da diversi anni, un periodo particolarmente difficile, dovuto ad una certa debolezza organiz-zativa e alla mancanza di coordinamento. A fornire un servizio di ascolto sono so-stanzialmente due operatori volontari, i quali, animati dalla buona volontà, cerca-no di venire incontro – con i pochi mezzi disponibili – alle persone in stato di di-sagio che di tanto in tanto si presentano alla sede del Centro.

Forse è anche a causa di questa situazione che le persone non riescono a cogliere pienamente la funzione di ascolto e di orientamento del Centro di Ascolto diocesano, preferendo rivolgersi a strutture in cui è più facilmente visibile il so-stegno materiale. Alla “mensa della carità” delle Suore Giuseppine, ad esempio, vanno in media 20/30 persone al giorno (oltre a ciò vengono predisposti circa 40 pasti giornalieri consegnati a domicilio).

Di sicuro gioca particolarmente a sfavore l’imbarazzo per le situazioni di difficoltà che si vivono all’interno delle famiglie del territorio. Le persone vengo-no al Centro di Ascolto non nascondendo una certa vergogna. Va anche detto che non sono in molti a conoscere il Centro; generalmente le persone in difficoltà vengono solamente dopo essersi recati ai servizi sociali del Comune. In altri ter-mini il Centro di Ascolto viene considerato come una sorta di ultima spiaggia.

Per il futuro si vorrebbe ripensare completamente la fisionomia e l’organizzazione del Centro, per evitare il rischio di una spiacevole chiusura. 9. Il Centro di Ascolto diocesano di Ozieri

Il Centro di Ascolto per il momento è uno solo, quello della Caritas dioce-sana (situato ad Ozieri), costituito da sei operatori volontari. Le persone che si ri-volgono al CdA non sono tante, poiché la Caritas diocesana ha ripreso le proprie attività in modo sistematico soltanto da due anni circa. La gran parte degli ascolti viene effettuata generalmente dal direttore e, un po’ meno, dal referente del CdA. Ciò accade perché quasi tutte le persone chiedono di poter parlare esclusivamente con loro.

Il CdA di Ozieri è sempre operante e segue gli orari prestabiliti, garanten-do un servizio settimanale (dal lunedì al venerdì) per quattro ore giornaliere.

Gli operatori del CdA hanno seguito tutti i corsi di formazione e sono per-sone abbastanza preparate, in ogni caso sensibili alla sofferenza dei fratelli più bi-sognosi e tutti impegnati nella Chiesa. Valutare se si sta procedendo bene è assai difficile poiché, come già detto, quasi tutti desiderano confidare i propri bisogni quasi esclusivamente al direttore o al referente del Centro. Gli altri operatori si li-mitano e prendere appuntamenti e a programmare le attività settimanali del Centro di Ascolto.

Gli utenti che si rivolgono al CdA sono in gran parte residenti ad Ozieri e alcuni provengono da altre comunità della diocesi. In questi ultimi mesi si sta la-vorando per l’apertura di altri Centri di Ascolto a Bono e a Monti.

Le persone che chiedono aiuto fino ad ora hanno trovato nel Centro di A-scolto un’ottima accoglienza: vengono ascoltati e orientati, offrendo loro una pro-spettiva di cambiamento. Gli operatori si riuniscono settimanalmente per aggior-

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narsi, per programmare e per formarsi, anche attraverso un momento di riflessione spirituale. 10. Il Centro di Ascolto diocesano di Sassari

L’attenzione primaria del Centro di Ascolto della Caritas diocesana di Sas-sari è senza dubbio quella di monitorare e sostenere le persone che manifestano bisogni di vario genere, e che decidono di confidare il proprio disagio personale.

Visti i mezzi piuttosto limitati, il Centro di Ascolto svolge una funzione essenziale di filtro con le parrocchie, con i servizi di assistenza sociale dei vari Comuni della diocesi e, quando si presenta la necessità, con alcune richieste di in-tervento delle strutture sanitarie. La prassi abituale del Centro di ascolto si traduce sostanzialmente in alcune funzioni: accoglienza, ascolto, promozione umana, o-rientamento ed assistenza.

La persona che si presenta può parlare con assoluta libertà dei propri pro-blemi. I suoi dati principali vengono inseriti nelle schede cartacee (nel totale ri-spetto della legge sulla privacy) e successivamente archiviati nel programma in-formatico OsPo3.

Più di ogni altra funzione risulta fondamentale l’ascolto. L’operatore pren-de atto dei bisogni della persona e interagisce con lei attraverso un linguaggio e gesti sempre improntati al rispetto e alla disponibilità. Si cerca in tutti i modi di instaurare un rapporto di fiducia e sicurezza. Essere sempre attenti alle problema-tiche comporta incoraggiare la persona, che affronta momenti più o meno gravi, lenire la sua solitudine e fornire un preciso sostegno morale. Si tratta quindi di of-frire un sostegno, di fare “il punto della situazione” e di offrire un ventaglio di op-portunità che chi soffre molto spesso non conosce, o non è in grado di riconosce-re.

L’orientamento è la fase successiva irrinunciabile. L’operatore mostra alla persona una serie di opportunità: rivolgersi ai servizi sociali del suo Comune, la raccolta del suo curriculum lavorativo, la conoscenza delle strutture integrate al Centro di Ascolto (la mensa, il Centro servizi, l’ostello). L’orientamento, in defi-nitiva, consente la creazione di conoscenze per poter migliorare la propria condi-zione e attutire situazioni di disagio.

In questo servizio alle persone più deboli non va certamente trascurato il sostegno materiale, soprattutto quando si tratta di soddisfare bisogni inderogabili. La tipologia di questi bisogni è varia: danaro per il pagamento di medicine non mutuabili, per canoni di locazione pregressi non pagati, per bollette in scadenza (o già scadute) del telefono, dell’acqua e per il riscaldamento. Va rilevato, peraltro, che è possibile usufruire della fornitura di generi alimentari e di vestiario e del servizio mensa della stessa Caritas diocesana e da pochi mesi è stato attivato un servizio ambulatoriale dentistico totalmente gratuito.

L’assistenza circa i problemi materiali risulta essere spesso particolarmen-te difficoltosa a causa degli scarsi mezzi a disposizione, proprio perché spesso le aspettative sono maggiori dell’aiuto che il Centro di Ascolto è in grado di offrire.

Fino ad ora il lavoro svolto è stato importante e formativo ed ha spinto gli operatori ad effettuare una riflessione critica, anche al fine di non ridurre l’opera del CdA ad un mero servizio di consegna periodica di viveri, vestiario e sussidi

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economici per il pagamento delle bollette scadute. Per questo è necessaria una metodologia di lavoro più organica e sistematica. È necessario, prima di tutto, riordinare tutti i dati in possesso. Solo in questo modo è possibile rendere visibili ai più le esperienze che è stato possibile osservare. Non solo. Il Centro di Ascolto di Sassari ritiene importante un maggiore scambio di informazioni con gli altri Centri di Ascolto diocesani della Sardegna e dell’Italia affinché le altre metodolo-gie di lavoro divengano esperienze condivise, quindi risorse per tutti coloro che lavorano nel sociale. 11. I Centri di Ascolto della diocesi di Tempio-Ampurias 11.1. Il CdA diocesano “Voce amica” di Tempio Pausania

Il centro di Ascolto diocesano “Voce amica” è nato in seno alla Caritas diocesana nel 1992, quasi contestualmente all’Osservatorio delle Povertà e delle Risorse, per offrire un servizio alle persone in stato di disagio ed avere un riscon-tro diretto delle problematiche e delle povertà del territorio. La scelta del nome (“Voce amica”) è derivata dal fatto che i primi ascolti effettuati avvenivano per via telefonica. Quando, infatti, è stata data la notizia dell’apertura del CdA tramite la stampa cittadina, le prime persone si sono rivolte alla Caritas attraverso il tele-fono. Probabilmente ci si rifugiava nell’anonimato perché non si conoscevano di-rettamente gli operatori del centro stesso ed anche per un certo comprensibile pu-dore.

Nelle fasi successive, pur con tante difficoltà, il centro ha cercato di tutela-re la propria identità di ascolto; tuttavia, le emergenze di carattere economico (do-vute a una fase di forte recessione anche a livello nazionale) hanno determinato anche la erogazione di servizi di tipo materiale ed economico. Qualcuno, nel tem-po, ha continuato ad usare il mezzo telefonico. Si tratta soprattutto di persone che hanno bisogno di parlare, esporre i propri problemi, pur richiedendo solo consigli e sostegno verbale. La Caritas diocesana ha investito moltissimo nella formazione dei suoi operatori, tant’è che, gradualmente, nel corso degli anni, il Centro si è av-viato a svolgere le competenze che gli sono proprie.

La caratteristica attuale di “Voce amica” è il suo essere punto di riferimen-to per le persone in difficoltà e interlocutore riconosciuto dalle parrocchie e dalle istituzioni locali. Il CdA è anche struttura di coordinamento e di contributo per ri-disegnare le nuove politiche sociali territoriali, proprio perché alla base del suo operare vi è un progetto educativo: la sensibilizzazione della comunità nel prende-re coscienza dei problemi di povertà e nell’individuare le risposte più adatte da at-tivare.

L’impegno del Centro di Ascolto diocesano si apre a prospettive di pro-mozione di nuovi CdA parrocchiali, nonché di supporto e coordinamento in favo-re di quelli già esistenti in diocesi. Molto forte è il rapporto di collaborazione con i servizi sociali, con i quali si è costruito un proficuo tessuto di dialogo e di stima reciproci. La rete di collegamento si estende anche alle altre realtà istituzionali del nostro territorio: Prefettura, Questura, Tribunale dei minori. Rispetto a quest’ultima realtà è stato individuato nel CdA un referente che cura dei rapporti stabili.

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Esiste, inoltre, un gruppo di lavoro che assicura servizi di ascolto, orienta-mento e presa in carico dei problemi. L’ascolto consiste nell’offrire alle persone, con la massima disponibilità, spazi di comunicazione dei loro problemi, racco-gliendo nel colloquio i dati necessari per tentare di darvi soluzione. L’orientamento si traduce in puntuali indicazioni in ordine ai servizi pubblici e privati che possono contribuire a dare risposte alle esigenze espresse, indicazioni che spesso sono abbinate ad un sostegno concreto (accompagnamento, contatti te-lefonici, vero e proprio disbrigo di pratiche). La presa in carico, invece, comporta un impegno di accompagnamento della persona in difficoltà verso un percorso di ripresa della personale autonomia e capacità di gestire al meglio la vita individua-le e familiare.

Il futuro del Centro di Ascolto si colloca pienamente all’interno del “Pro-getto Rete Nazionale” ideato e promosso da Caritas Italiana. Non è pensabile in-fatti che la prassi dell’ascolto sia disgiunta dalle prassi dell’osservazione e del di-scernimento. Tanto più che l’orientamento di Caritas Italiana, in una prospettiva di “parrocchia missionaria” è accompagnare il servizio diretto ai poveri con quello di animazione dentro la Chiesa e il territorio.

In questa senso la Caritas diocesana di Tempio-Ampurias ha proposto per-corsi di ascolto a coloro che, a vario titolo, svolgono ruoli di animazione nei vari ambiti di pastorale dentro la diocesi. L’obiettivo è duplice: valorizzare la prassi dell’ascolto ed educare a viverla come espressione della Comunità cristiana. In questa prospettiva si collocano tutte le azioni prioritarie, le strategie e i tempi utili a formare e coinvolgere le parrocchie e il territorio. 11.2. Il Centro di Ascolto San Pietro Apostolo di Tempio Pausania

La Caritas parrocchiale San Pietro Apostolo è stata istituita negli anni ‘70 ad opera del parroco di allora, don Luciano. Oggi il gruppo è composto da una quindicina di persone tutte operanti dal 2001. Il Centro di Ascolto parrocchiale è nato nel novembre del 2002 per iniziativa della dottoressa Sini, pediatra e medico generico con un bagaglio di studi di psicologia e psichiatria infantile. Il CdA na-sce inizialmente con la finalità di ascoltare e aiutare le persone in difficoltà, in particolar modo i bambini. Agli inizi, si è pensato di estendere l’ascolto delle pro-blematiche infantili anche alle altre parrocchie, ma a tutt’oggi il progetto non è stato ancora attuato; di fatto, in questi anni, il CdA si è rivolto prevalentemente al disagio adulto.

Gli operatori del CdA incontrano le persone e ascoltano i loro problemi; l’ascolto è finalizzato alla ricerca di soluzioni affinché la persona in difficoltà pos-sa ritrovare fiducia in se stessa. Va sottolineato che i colloqui avvengono con la massima riservatezza nella sede preposta all’ascolto. L’équipe si incontra settima-nalmente per partecipare a momenti di formazione, programmazione e verifica.

Se le risultanze del colloquio con le persone in difficoltà lo impongono si consiglia il ricorso ai servizi sociali piuttosto che al Cim o al “Centro di aiuto alla vita” o a qualunque altro servizio pubblico nel territorio. In questi ultimi anni si sono instaurati dei proficui rapporti di collaborazione con le Vincenziane, anche se si sono riscontrate non poche difficoltà nel coinvolgere direttamente i parroc-chiani. Due volontari del CdA, insegnanti in pensione, mantengono rapporti con le

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scuole, mentre un’altra volontaria (un’infermiera in pensione) cura i rapporti con l’amministrazione dell’ospedale.

Dopo la prima accoglienza, finalizzata a condurre la persona in difficoltà ad aprirsi al fine di individuare insieme i bisogni, si procede a dei colloqui indivi-duali con l’incaricato del servizio. Si cerca di conoscere meglio la persona alla quale vengono poi presentate le strategie che si potrebbero mettere in atto per aiu-tarla ad uscire da una particolare situazione di difficoltà. Se la situazione lo ri-chiede vengono contattati i servizi di competenza. Con l’assistenza immediata, in-fine, si cerca di provvedere alle necessità di tipo primario (piccoli aiuti economici per necessità urgenti, acquisto di medicine, di bombole del gas).

Se si costituirà – come si spera – un Centro di Ascolto interparrocchiale, l’ascolto degli operatori di S. Pietro Apostolo sarà ridimensionato, nel senso che essi faranno unicamente da tramite tra le persone in difficoltà e il Centro di Ascol-to interparrocchiale. 11.3. Il Centro di Ascolto Santa Maria della Neve di Arzachena

Come Centro di Ascolto il servizio ad Arzachena nasce nel 2000, per im-pulso del parroco. Inizialmente il gruppo era composto da sei operatori e succes-sivamente il numero si è ridotto a tre. Allo stato attuale è composto da sei operato-ri e il Centro usufruisce anche della collaborazione di una psicologa volontaria.

Il CdA ascolta ed accoglie molti immigrati, oltre a seguire diverse famiglie locali. Qualche volta le famiglie bisognose vengono individuate con l’aiuto di vi-cini ed amici e poiché provano un certo imbarazzo nel rivolgersi al Centro, sono gli stessi operatori a recarsi, con tutta la discrezione necessaria, da loro. In questo periodo i volontari si stanno occupando di alcune persone ospitate in case prefab-bricate del Comune. Inoltre, si sta provvedendo a fornire ospitalità ed assistenza materiale e morale, in una stanza della parrocchia, a due immigrati (con particola-ri problematiche) e ad un ragazzo proveniente da una struttura di Sassari.

In quest’ultimo periodo il CdA sta svolgendo attività di sensibilizzazione presso le famiglie e i vicini di casa nei confronti di alcuni casi di povertà, al fine di rinsaldare i vincoli di solidarietà comunitari. Nel proprio servizio il CdA colla-bora, fra gli altri, con l’Associazione degli Alcolisti Anonimi e con le Vincenzia-ne.

Lo stile di servizio degli operatori è quello di ascoltare le persone che ne hanno bisogno e che lo richiedono espressamente, facendo sentire loro la disponi-bilità e l’amore dei volontari, oltre a provvedere ad indirizzarle e orientarle verso i servizi preposti alla risoluzione dei problemi. Con l’assistenza si cerca di provve-dere alle necessità primarie; per tale ragione si raccolgono e si distribuiscono in-dumenti, mobili, materassi, biancheria e soprattutto generi alimentari. 11.4. Il Centro di Ascolto interparrocchiale di Olbia

Il “Coordinamento Caritas” è nato nel 1992, per volere delle parrocchie di Olbia e dell’allora vescovo di Tempio-Ampurias, mons. Meloni, come associazio-

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ne legalmente riconosciuta. Aveva la facoltà di intervenire a livello ecclesiale e sociale, come centro studi sui problemi sociali e Centro di Ascolto.

In tutti questi anni si è lavorato con le istituzioni del territorio: Sert, Tribu-nale, Cim, Assessorato ai servizi sociali, ecc. Attualmente si fa ascolto quattro volte la settimana. È certamente fondamentale per gli operatori riunirsi ogni mar-tedì per l’ascolto della Parola, attraverso cui trarre la linfa vitale per motivare il cammino. Ogni operatore, sollecitato dalla lettura diretta della Bibbia, comunica agli altri le impressioni e le ispirazioni che lo Spirito suscita in ciascuno. Inoltre, la riunione serve per la programmazione e la verifica del lavoro.

Con la comunità cristiana il rapporto non è particolarmente intenso, forse perché il Coordinamento non è riuscito a collaborare con le parrocchie se non sporadicamente. Nel territorio, invece, si è sempre registrata una buona collabora-zione con le istituzioni e le associazioni presenti. Attualmente, con l’Assessorato ai servizi sociali la collaborazione non è più tanto assidua e proficua come in pas-sato, forse perché, dal 1997, è cambiato il modo di interagire.

Per quanto riguarda lo stile del servizio, va rilevato che tramite l’iniziale accoglienza si cerca di capire le necessità delle persone, anche quando le stesse si limitano ad avanzare delle mere richieste di tipo materiale. Avviene così che da una richiesta iniziale di aiuto si passi ad affrontare bisogni e problemi più impor-tanti.

Guardando al futuro, si vorrebbe certamente un coinvolgimento pieno con la Chiesa locale, con l’obiettivo di progettare un ascolto e un sostegno più adegua-ti a servizio del territorio, con strutture adatte e con comunione d’intenti. 11.5. Il Centro di Ascolto della Maddalena

La Maddalena ha il suo Centro di Ascolto Caritas dal 2000, nato come “o-pera segno” insieme ad una piccola Casa di accoglienza (3 posti letto) per le e-mergenze. Le operatrici sono perlopiù donne e i due uomini che vi collaborano si occupano in particolare di seguire e accompagnare gli ospiti del piccolo dormito-rio (con cinque posti letto) sorto due anni fa, a pochi metri di distanza dal Centro di Ascolto.

Il CdA è aperto tutti i giorni, dalle 16.30 alle 18.00, tranne il sabato e la domenica. Durante l’apertura viene svolta attività di accoglienza e di ascolto delle persone in situazione di difficoltà e attività di sostegno, attraverso la distribuzione di viveri e di indumenti, prevalentemente destinati ad anziani, famiglie numerose ed immigrati con e senza famiglia.

Per i casi più problematici vengono contattati i servizi sociali o altre asso-ciazioni di ispirazione cristiana che operano sul territorio nel campo delle tossico-dipendenze, alcolismo e tutela della vita (in particolare il Centro di Ascolto “Il delfino” e il “Centro di aiuto alla vita”).

Con l’ascolto e il conseguente orientamento si cerca di trovare insieme alla persona in stato di disagio le risorse e le soluzioni più idonee a superare le diffi-coltà, aiutando, ad esempio, le persone in difficoltà economica anche attraverso la distribuzione di viveri e indumenti.

Per il futuro l’intento del gruppo che opera al Centro di Ascolto è quello di porsi come strumento a servizio della promozione umana e spirituale di coloro che

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si trovano in difficoltà, cercando di orientare le persone ai servizi del territorio e sostenendole nella ricerca di soluzioni rispetto ai problemi emersi durante il col-loquio.

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CAPITOLO SECONDO IL DISAGIO PERCEPITO. POVERTA’ PREVALENTI ED EMERGENTI 1. Una premessa metodologica

Il presente capitolo contiene i principali risultati di una parte del percorso di lavoro qualitativo previsto dal protocollo della ricerca. Attraverso il coinvolgi-mento diretto degli operatori dei Centri di Ascolto si è sviluppata una riflessione condivisa, tramite la tecnica del focus group, riguardante le principali tipologie di disagio percepite nelle varie diocesi. L’attenzione si è concentrata, in particolare, sull’individuazione da un lato delle cosiddette povertà prevalenti (quelle percepite come più frequenti in occasione dei colloqui) e dall’altro delle povertà emergenti (le nuove forme di disagio osservate, sovente definite come “nuove povertà”).

Per le Caritas i punti privilegiati di osservazione del disagio sociale sono senza dubbio i Centri di Ascolto, unitamente alle strutture di prima accoglienza, i servizi di mensa per gli indigenti, i luoghi di distribuzione di viveri e vestiario, nonché tutta quella vasta rete di strumenti di prossimità che caratterizza la comu-nità ecclesiale, in particolare nel servizio di ascolto, orientamento, prima risposta e presa in carico.

I dati quantitativi, estrapolati dal database dei CdA aderenti al Progetto Rete, saranno oggetto di una specifica trattazione nel capitolo seguente. In questa sede ci limitiamo a registrare, seguendo un approccio di tipo qualitativo, le perce-zioni di coloro che quotidianamente incontrano le persone in stato di disagio ed osservano tutta una vasta gamma di bisogni; oltre a ciò, gli operatori registrano le richieste avanzate dalle stesse persone ed intervengono, laddove possibile, con modalità differenti sulla base delle risorse disponibili. Va segnalato che i Centri di Ascolto che hanno partecipato a questa sezione di lavoro sono gli stessi elencati e descritti nel capitolo precedente 1.

Circa gli aspetti teorici riguardanti le tecniche di indagine qualitativa si ri-manda all’appendice metodologica. In questa sede ci limitiamo a rilevare, pren-dendo a prestito le parole del sociologo Mario Cardano, come le metodologie di indagine qualitativa mettano a disposizione dello studioso delle scienze sociali «un insieme composito di strumenti, capaci di rilevare le più minute sottigliezze della vita quotidiana, colte ora nella trama di un’interazione, ora tra le pieghe di una narrazione» 2, come nel caso delle testimonianze rilasciate dagli operatori dei

1 In occasione dei focus group sull’identità dei CdA della Sardegna aderenti al Progetto Re-te, realizzati a cavallo tra il 2005 e il 2006, è stato possibile dar vita ad un momento ad hoc di e-splorazione sulle percezioni degli operatori in ordine alle povertà prevalenti ed emergenti. 2 M. CARDANO, Tecniche di ricerca qualitativa. Percorsi di ricerca nelle scienze sociali, Carocci editore, Roma 2003. Per gli approfondimenti bibliografici relativi alle tecniche di indagine qualitativa si rimanda, ancora una volta, all’appendice metodologica.

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Centri di Ascolto, le quali costituiscono l’oggetto principale di lavoro di questo capitolo. 2. Vedi alla voce “ povertà”

Nelle Sacre Scritture la parola “poveri” ricorre un’infinità di volte, dal Vecchio Testamento fino all’Apocalisse 3.

Consultando il dizionario Zingarelli della lingua italiana, alla voce “pove-ro”, si fa riferimento a colui che «dispone di scarsi mezzi di sussistenza», con un richiamo esplicito all’indisponibilità delle risorse economiche 4.

Andando al di là degli aspetti lessicali, i manuali di sociologia propendono generalmente per una definizione di povertà in termini di “privazione”. Peraltro, a seconda che si tratti di una mancanza dei mezzi di sostentamento fondamentali (per la dotazione di cibo, abitazione, vestiario, cure mediche, ecc.) o di una inca-pacità di sostenere il tenore di vita a livello comune – relativamente ad una data società, in un particolare momento storico – la privazione può definirsi rispetti-vamente “assoluta” o “relativa” 5.

Di privazione relativa in Italia si occupa l’Istituto nazionale di statistica (I-stat), il quale propone ogni anno una stima concernente l’incidenza della povertà relativa sulla base di una soglia convenzionale (la cosiddetta “soglia di povertà re-lativa”) che individua il valore di spesa media mensile per consumi, al di sotto della quale una famiglia viene definita povera. Va ricordato che la soglia di pover-tà relativa viene calcolata sulla base della spesa familiare rilevata dall’indagine sui consumi, la quale viene condotta su un campione di circa 28 mila famiglie 6.

È piuttosto evidente che i modi di intendere la povertà, le cui definizioni appaiono eterogenee – se non proprio ambigue – , non possono esaurirsi nella me-ra dicotomia fra privazione assoluta e privazione relativa. L’orizzonte empirico, infatti, incluso quello in cui si muovono gli operatori delle Caritas, appare assai

).

3 La Concordanza Pastorale della Bibbia (si veda, ad esempio, il testo pubblicato dalle E-dizioni Dehoniane di Bologna) propone un numero particolarmente ampio considerando l’accezione estesa del termine, con cui si contemplano anche i “bisognosi”, gli “indigenti”, i “de-boli”, i “miseri”, ecc. 4 Cfr. Lo Zingarelli 2007. Vocabolario della lingua italiana di Nicolò Zingarelli, Zanichel-li, Bologna 2006. Anche il Dizionario della lingua italiana curato da Aldo Gabrielli, ribadisce che si tratta di un aggettivo indicante colui che «ha scarsa disponibilità di beni materiali», aggiungendo che si tratta di una condizione il più delle volte subita. 5 Si veda, in questo senso, la definizione fornita da Ian Robertson in Sociologia, Zanichelli, Bologna 1988, pp. 291-292. Una definizione di povertà in termini di privazione relativa è anche quella offerta da Luciano Gallino nel suo Dizionario di sociologia, Utet, Torino 1978 (ora ristam-pato per i tipi dell’Istituto Geografico De Agostini, Novara 2006), per il quale si tratta di una «condizione di deficit di risorse necessarie per raggiungere e mantenere quel livello di vita che è reputato decente, civile, tollerabile a lungo senza grandi sacrifici, da un individuo, una famiglia, una comunità locale, un determinato segmento o strato o classe della popolazione»: si tratta di una privazione storicamente e culturalmente relativa, ma oggettivamente misurabile. 6 I dati resi noti dall’Istat l’11 ottobre 2006 rilevano che, nel corso del 2005, le famiglie ita-liane in condizione di povertà relativa erano 2 milioni e 585 mila, pari all’11,1% delle famiglie re-sidenti. Complessivamente si tratta di 7 milioni 577 mila individui, pari all’13,1% dell’intera popolazione. La soglia di povertà relativa per un nucleo familiare di due persone corrispondeva, nel 2005, a 936,58 euro al mese (+1,8% rispetto alla linea dell’anno precedente

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più ampio e complesso di quello in cui si stagliano le definizioni proposte. Gli ap-procci al tema dello studio delle povertà sono certamente molteplici, ma in ogni caso riteniamo necessario non limitarsi unicamente alla dimensione economica, la quale assegna al reddito la funzione di indicatore preponderante.

In questa prospettiva la teoria multidimensionale della povertà può venirci in soccorso nel mettere in risalto, accanto alla variabile del reddito, altre variabili altrettanto importanti che incidono sul benessere delle persone e sulla loro promo-zione integrale. Sono un esempio concreto, in tal senso, le condizioni di salute, il livello di istruzione, le relazioni familiari, le condizioni di lavoro, ecc. Detto in al-tri termini, tutto ciò che di fatto rende una vita veramente degna di essere vissuta.

In questo senso, piuttosto che parlare di “povertà” si potrebbe far riferi-mento alla più generale condizione di “disagio” o, come si evince dall’ultimo rap-porto su povertà ed esclusione sociale in Italia, curato dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione Zancan, ad una più o meno limitata autosufficienza, ad alcune «con-dizioni di fragilità della persona, con forti richiami e ripercussioni sugli aspetti psicologici e fisiologico-sanitari del disagio» 7.

3. Povertà prevalenti ed emergenti dalle osservazioni degli operatori dei CdA

I contributi offerti dagli operatori dei Centri di Ascolto in occasione dei fo-cus group, pur ponendo in evidenza caratteristiche eterogenee del disagio, correla-te ai cosiddetti differenziali territoriali, possono essere in qualche modo ricondotti ad unità rispetto a talune dinamiche generali registrate pressoché in tutte le dioce-si.

Anzitutto va sottolineato che a causa del perdurare della difficile congiun-tura del mercato del lavoro che continua ad accompagnare la Sardegna in questi ultimi anni, segnatamente a causa della crisi del comparto industriale, non trascu-rando tuttavia le gravi condizioni che caratterizzano il mondo agropastorale, le si-tuazioni di disagio sociale si sono particolarmente intensificate.

Cogliendo con la dovuta attenzione gli elementi contenuti nelle testimo-nianze raccolte fra gli operatori delle diocesi sarde, risulta evidente che le situa-zioni di povertà economica e materiale sono cresciute quantitativamente (con l’incremento del numero dei casi che quotidianamente vengono sottoposti all’attenzione degli operatori socio-assistenziali) ma anche qualitativamente. A questo proposito i dati più recenti svelano una realtà per molti versi inedita fino a qualche tempo fa: uno scenario che, detto in altri termini, registra prepotentemen-te una crescita delle povertà relative. È certamente l’avvento delle “nuove pover-tà”, con un’ampia sequela di elementi di complessità, che costituisce la nuova frontiera dell’emergenza sociale: un’emergenza che coglie impreparati non solo i soggetti professionali che svolgono tradizionalmente il proprio servizio di assi-stenza nell’ambito istituzionale, ma gli stessi operatori del terzo settore e il vasto mondo del volontariato sociale.

Oltre alle povertà assolute e a quelle relative si devono pure annoverare le cosiddette povertà soggettive, ovverosia quelle determinate condizioni che, al di là

7 CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili. Rapporto 2006 su povertà ed esclusione sociale in Italia, il Mulino, Bologna 2006, p. 13.

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dell’elemento oggettivo (come ad esempio il livello di reddito), vengono percepite dagli individui come fonte di disagio e marginalità, nonché come causa di frustra-zione di fronte a prospettive di vita messe a repentaglio, ad aspettative e aspira-zioni personali parzialmente o totalmente inappagate.

Dalle percezioni registrate dagli operatori dei Centri di Ascolto risulta che anche nelle nostre comunità ecclesiali si sono affacciate e moltiplicate delle nuove forme di disagio, spesso concomitanti, accanto alle povertà tradizionali: le soffe-renze mentali; le povertà derivanti da problemi di salute; le povertà nel tessuto delle relazioni interpersonali ed affettive; il disagio dovuto alle difficoltà nella fa-se di reinserimento sociale a seguito della detenzione; la marginalità di chi, pro-veniente da un altro Paese, ha difficoltà a trovare una forma adeguata di sostenta-mento, stenta ad integrarsi ed ad essere accettato dagli altri. E in tale contesto non vanno parimenti dimenticate le povertà acuite dalla scarsità di strumenti nel cam-po delle politiche sociali, segnatamente nel campo delle misure preventive e di contrasto al disagio sociale.

In tutte le realtà esplorate si rileva un accordo unanime nel ritenere che in questi ultimi anni stiano emergendo nuove forme di povertà: «la solitudine, la pri-vazione del diritto di cittadinanza, la mancanza di tutela dei diritti fondamentali. La solitudine è un problema che si sta verificando sia tra i giovani che tra gli adul-ti, ed è maggiormente presente se è connessa alla presenza di un handicap fisico o mentale. Sono state diverse, infatti, le richieste di aiuto per avere accanto qualcu-no con cui parlare, fare una passeggiata, stare in compagnia […]. La mancanza di tutela dei diritti fondamentali, quali il diritto di cittadinanza, il diritto alla casa e al lavoro emergono anche in contesti che non risultano legati a situazioni di povertà culturali e materiali» (fg Alghero-Bosa) 8.

Fra le povertà prevalenti rilevate, con riferimenti che quantitativamente hanno occupato il 17% degli interventi sull’argomento, vi è senza dubbio il tema dell’occupazione lavorativa: dalla fatica a trovare uno sbocco occupazionale per le giovani generazioni alla difficoltà (in molti casi all’impossibilità) ad inserirsi nuo-vamente in un contesto professionale per quanti sono stati espunti dal mercato del lavoro improvvisamente e in età avanzata, fino al tema attualissimo della precarie-tà lavorativa 9. Continuano pure ad insistere le problematiche legate alle dipen-denze (da alcol e da sostanze stupefacenti) e alla scarsità di reddito, così pure il problema abitativo e quello riguardante i rapporti conflittuali all’interno dei nuclei familiari.

8 Focus group svoltosi presso la diocesi di Alghero-Bosa. D’ora in avanti i rimandi ai vari contributi saranno indicati con la sigla fg seguita dal riferimento diocesano. 9 Sono oramai numerosi, segnatamente nel campo della sociologia del lavoro, gli studi che affrontano analiticamente il tema della nuova configurazione del c.d. “mercato dei lavori” (termine che indica chiaramente l’eterogeneità di esperienze nel campo della domanda ed offerta di lavoro). Per Accornero, ad esempio, in questi ultimi vent’anni è cambiato il «rapporto di continuità che a-veva segnato il lavoro delle generazioni precedenti. I nostri padri, spesso, potevano vantare i tren-ta, quarant’anni in azienda. I nostri figli sanno che a loro questo non capiterà mai» (cfr. L’Italia dei lavori, intervista ad Aris Accornero a cura di Attilio Giordano, in «Il Venerdì di Repubblica», 2006, p. 28). In Italia, la media di permanenza nello stesso posto di lavoro «è di 10,5 anni. In Sve-zia di 8,5, negli Stati Uniti di 7 […]. E una delle novità della modernità italiana è il ritorno alle migrazioni interne, sia pure molto diverse da quelle bibliche degli anni Cinquanta e Sessanta» (I-bidem).

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Fra le povertà emergenti, invece, gli operatori dei Centri di Ascolto hanno attribuito particolare rilievo (con riferimenti che hanno occupato oltre il 12% degli interventi sul tema) alla “lacerazione” del tessuto familiare, la quale si traduce in mancanza di riferimenti valoriali, debolezza in quello che dovrebbe essere il tradi-zionale ruolo educativo, fino ad arrivare alle situazioni drammatiche di conflitti profondi fra genitori e figli e fra gli stessi coniugi (violenze familiari, maltratta-mento dei minori, separazioni e divorzi). Oltre a ciò, si rilevano come emergenti i bisogni espressi dagli immigrati (soprattutto in alcune aree della Sardegna): in materia di abitazione, lavoro, sanità, inclusione ed integrazione sociale. Del tutto nuovo, poi, è un fenomeno che si registra da qualche anno a questa parte, vale a dire l’impoverimento progressivo, provocato dall’introduzione dell’euro, riguar-dante le famiglie a basso reddito e con scarso potere d’acquisto. Dalle percezioni degli operatori si evince che a crescere sono anche i casi di disagio psicologico; in questo senso le testimonianze di coloro che durante i colloqui rivelano importanti problemi di tipo relazionale e psicologico (dalla semplice solitudine alle forme depressive più gravi) rimandano spesso ad una dimensione non del tutto esplorata di disagio.

Per quanto molte delle variabili siano certamente correlate alla mancanza di reddito, motivo per cui la mancanza di lavoro e di abitazione risultano spesso associate ad un reddito insufficiente rispetto alle normali esigenze di vita, non si può fare a meno di considerare come dalle percezioni degli operatori dei CdA del-le Caritas sarde emergano insistentemente situazioni multiproblematiche di disa-gio; evidenti fragilità della persona integralmente considerata, le quali fanno rife-rimento non solo alla dimensione economica ma anche alla sfera culturale, mora-le, psicologica e relazionale.

A seguire, il presente capitolo propone alcuni approfondimenti sui temi maggiormente dibattuti (anche rispetto al numero di interventi) in occasione dei focus group realizzati nelle diocesi sarde. L’individuazione dei seguenti nuclei tematici serve non solo a restituire il frutto del lavoro prodotto in occasione delle esplorazioni realizzate dagli operatori, ma anche a predisporre delle coordinate te-oriche e concettuali utili per l’approfondimento sia dei dati quantitativi estratti dai database dei Centri di Ascolto (vedasi il capitolo seguente), sia in ordine alle altre sezioni riguardanti l’indagine qualitativa, in particolare le interviste biografiche alle persone in difficoltà e i focus group allargati a testimoni privilegiati.

4. Finché qualcos’altro non li separi: il disagio nei rapporti familiari

I conflitti all’interno del nucleo familiare, i casi di maltrattamento dei figli o fra coniugi, i casi di separazione e divorzio, non sono certo fenomeni nuovi. Ciononostante, gli operatori dei Centri di Ascolto hanno unanimemente considera-to come al giorno d’oggi si assista sempre più spesso ad una sorta di implosione dei nuclei familiari, nel senso che sovente si registrano rotture nelle relazioni fra i membri di una stessa famiglia a causa del cedimento dovuto alla pressione ester-na. Eventi critici “non normativi”, pertanto non prevedibili (si pensi ad esempio al licenziamento o ad una malattia), spesso minano fino alle radici i legami familiari, provocando dei risvolti alcune volte drammatici.

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I casi di conflitti e violenze familiari, così come di separazione e divorzio, hanno meritato una riflessione importante (con riferimenti che quantitativamente hanno occupato oltre il 14% degli interventi sul tema generale, fra vecchie e nuo-ve povertà), con richiami continui alla questione della «mancanza di valori e de-bolezza educativa delle famiglie». Dalle percezioni degli operatori risulta che la famiglia, anche in Sardegna, è minacciata su molti fronti: «spesso non è più luogo di riferimento, di valori, né di affettività. Attualmente [si assiste] ad un sfascio di matrimoni sia di coppie giovani che di persone con una storia familiare di lunga durata» (fg Ales-Terralba).

Per alcuni, le famiglie appaiono troppo spesso come “vittime” di una catti-va cultura offerta dalla società, in particolare dai media. I genitori, in particolare, «si trovano davanti a forti difficoltà nell’educazione dei figli. Molti credono di trovare in un eccesso di protezione la cura più opportuna, ma questo, inesorabil-mente, porta a lasciare nei nostri giovani una insicurezza e una inadeguata prepa-razione ad affrontare gradatamente i problemi quotidiani». Per altri, a causa di un eccessivo permissivismo da parte dei genitori, «vengono acquisiti dei modi di agi-re che con l’età degenerano in comportamenti e atteggiamenti privi di regole» (fg Ales-Terralba).

In alcuni casi, fin dal primo anno di attività del CdA, gli operatori «si sono resi conto che nel territorio […] è emersa la necessità delle persone di essere a-scoltate ed aiutate a risolvere i problemi esistenziali e non solo quelli materiali. I volontari hanno constatato la mancanza di dialogo, di comunione e unione anche all’interno delle famiglie. È emersa la difficoltà delle coppie nel mantenere in pie-di il matrimonio di fronte alle più piccole difficoltà» (fg Alghero-Bosa).

Per le donne questa realtà di conflitto, se non proprio di separazione, è vis-suta con un carico di maggiore problematicità, soprattutto se è legata ad una man-canza di lavoro e di reddito. Non è un caso che domandino di essere ascoltate sempre più frequentemente donne separate ed economicamente non autonome, il che dovrebbe indurre gli analisti e gli operatori del sociale a cominciare a prestare maggiore attenzione a quella che appare come una vera e propria povertà nelle povertà, ovverosia la “povertà al femminile” 10.

Il rapporto tra genitori e figli, fra fratelli e sorelle, fra marito e moglie, po-ne al centro il tema antico e sempre nuovo delle relazioni. In un libro dedicato «ai rischi e alle angosce del vivere insieme, e in disparte, nel nostro mondo liquido-moderno», il sociologo Zygmunt Bauman pone in luce come nell’attuale “moder-nità liquida”, caratterizzata in modo preponderante dalla precarietà, uomini e don-ne anelino la sicurezza del vivere insieme, aspirino ossessivamente all’aggregazione; ciononostante, «sono gli stessi che hanno paura di restare impi- 10 Per ricavare stimoli e suggestioni sul ruolo attuale della donna in Sardegna, e in particola-re sul suo desiderio di riscatto attraverso il lavoro, è di particolare interesse il volume pubblicato dal giornalista Giacomo Mameli, Donne sarde. Protagoniste nel lavoro e nelle professioni, CUEC, Cagliari 2005. Nella parte conclusiva dell’introduzione al volume, scritta dalla sociologa Anna Oppo, si formulano delle considerazioni che ci sentiamo di condividere pienamente: «Ci si può domandare, ad esempio, quanto sia diffusa nell’insieme della popolazione e nei suoi amministrato-ri l’acuta consapevolezza dei “mali” moderni dell’isola manifestata da questi testimoni [al femmi-nile]. Soprattutto se si sia pienamente coscienti che, al di là della carenza delle infrastrutture, di capitali, dei livelli di competenza, il problema è ancora, come è sempre stato, quello della qualità dei rapporti sociali e, dunque, della capacità di associarsi, di costruire reti, di avere “fiducia”» (Ivi, p. 22).

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gliati in relazioni stabili e temono che un legame stretto comporti oneri che non vogliono né pensano di poter sopportare» 11.

Se e in quale misura la precarietà del mondo del lavoro, quale potente pa-radigma dell’insicurezza dei tempi moderni, incida direttamente o indirettamente sulla fragilità dei legami affettivi è una questione che non può essere sviluppata in questa sede, ma che appare in ogni caso come un argomento particolarmente sug-gestivo. D’altro canto non vi è dubbio che l’incertezza sulla stabilità professionale provochi delle ripercussioni importanti sui progetti di vita, sia coniugale sia in or-dine alla decisione di mettere al mondo dei figli, come si apprenderà dal paragrafo che segue. 5. Non lavorare stanca

Abbiamo voluto intitolare questo paragrafo parafrasando in qualche modo Pavese, proprio perché quel che si registra dalle percezioni degli operatori dei Centri di Ascolto è che un’assenza prolungata dall’impegno del lavoro genera di fatto mancanza di prospettive, incertezza rispetto all’identità non solo professiona-le ma anche in termini psicologici, assenza di speranza per il futuro e in definitiva “stanchezza esistenziale”.

Nel libro dal titolo tanto originale quanto evocativo Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…lo scrittore Aldo Nove racconta le storie di vita, per così dire esemplari, di una società contemporanea che della flessibilità fa il suo inno ossessivo (nel proscenio dei media e nei salotti buoni della politica e dell’economia) ma che con la precarietà deve però pur fare i conti (quasi sempre dietro le quinte delle organizzazioni di promozione sociale). Si tratta di interviste vere a persone vere, fatte a chi, come si legge nella quarta di copertina, «lavora in agenzie web, chi fa il pastore precario, chi vive flessibilità di ogni genere, chi ri-mane stagista a vita, chi a vent’anni fa un lavoro “di relazioni di successo”, chi la-vora in uno studio da avvocato ma si mantiene facendo il cameriere, chi fa il part-time in un museo. Lavoratori per internet, lavoratori interinali… E “quarantenni” narcotizzati da una quotidianità sovrastante”, per i quali è sempre più difficile permettersi di fare figli» 12.

Questo senso di insicurezza e di instabilità dovuto ad una precarizzazione del mercato del lavoro che genera disorientamento, paura per il futuro e che «im-pedisce di progettare e credere nelle proprie capacità» (fg Tempio-Ampurias), è percepito come emergente in tutti i contesti diocesani 13. Non a caso le riflessioni 11 Z. BAUMAN, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari 2004. Sul tema della “modernità liquida”, elemento costitutivo dell’epoca della globalizzazione, Bauman ha dedicato diversi saggi, fra cui: La società dell’incertezza (il Mulino, Bologna 1999); Dentro la globalizzazione (Laterza, Roma-Bari 2001); La società individualizzata (il Mulino, Bologna 2002); Modernità liquida (Laterza, Roma-Bari 2002); Il disagio della postmodernità (Mondadori, Milano 2002); Intervista sull’identità (Laterza, Roma-Bari 2003, intervista a cura di Benedetto Vecchi). 12 A. NOVE, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…, Giulio Einaudi editore, Torino 2006. 13 La letteratura sulla precarizzazione nel campo del lavoro è piuttosto vasta. In questa sede ci limitiamo a proporre le considerazione avanzate ben oltre dieci anni fa da E. PUGLIESE, Sociolo-gia della disoccupazione, il Mulino, Bologna 1993: «[…] l’origine dei processi in corso – che ve-

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sulle questioni legate al lavoro (disoccupazione, lavoro precario o in nero, cassa integrazione, ecc.) hanno riguardato un numero di contributi pari a quello relativo alle problematiche familiari (vale a dire oltre il 14% degli interventi sul tema).

Dalle testimonianze raccolte si evince che la disoccupazione, soprattutto quella di lungo periodo, «sembra essere una delle principali cause di povertà, spe-cie se collegata ad uno scarso livello di istruzione e alla mancata acquisizione delle competenze necessarie per rispondere alle esigenze del mondo tecnologico attuale» (fg Tempio-Ampurias). Alcune aree della Sardegna, a causa della chiusu-ra di importanti realtà industriali (come ad esempio le miniere) vivono, oramai da diversi anni, una situazione economica particolarmente preoccupante (fg Ales-Terralba ed Iglesias).

La scarsità di opportunità lavorative si riflette pesantemente sul futuro del-le giovani generazioni. Tutti gli operatori dei CdA sono concordi nel ritenere che i giovani fanno sempre più fatica a costituire un proprio nucleo familiare, in parti-colare quanti si trovano a vivere nella precarietà del lavoro o costretti a forme di ingaggio contrattuale eccessivamente flessibili; una incertezza che si ripercuote pesantemente sul difficile accesso ad alcune forme di finanziamento offerte dagli istituti di credito (mutui per l’acquisto di una casa, prestiti personali, ecc.).

Oltre ai giovani il problema del lavoro riguarda anche gli adulti. Molto spesso, infatti, gli operatori dei Centri di Ascolto si trovano di fronte a mogli i cui mariti sono stati espunti improvvisamente dal mercato del lavoro o che godono di una qualche (debole) forma di ammortizzatore sociale, in particolare la cassa inte-grazione guadagni o i vari sussidi. Si tratta per lo più di persone «che a una certa età faticano a trovare nuove alternative. Questo problema è vissuto da intere fami-glie, spesso anche numerose» (fg Iglesias).

A tutto ciò bisogna poi aggiungere una presenza importante di lavoratori in nero, «sia donne che uomini, che pur di avere ciò che è necessario per vivere non esercitano il diritto ad essere giustamente retribuiti e tutelati» (fg Alghero-Bosa). Non di rado, per disperazione, si accettano occupazioni saltuarie ed irregolari so-prattutto in agricoltura e nella pastorizia (in modo particolare fra gli immigrati), pur dir riuscire a sbarcare il lunario. 6. Quando i soldi non bastano: i poveri dell’euro e quelli della terza settimana

Uno dei segnali evidenti circa l’emergere di nuove forme di povertà è dato dal fatto che ai Centri di Ascolto stanno cominciando a rivolgersi anche persone appartenenti a quello che un tempo si sarebbe chiamato ceto medio. Chiedono sempre più sostegno, infatti, persone dotate di una pensione o di uno stipendio

dono un contemporaneo aumento della disoccupazione giovanile, un aumento della disoccupazio-ne intermittente e in generale della riduzione della stabilità lavorativa – necessita di interpretazioni di più vasto respiro che riguardano il funzionamento generale del sistema economico e in partico-lare le modificazioni del mercato del lavoro. Pur con delle differenze, si può dire che in tutti i paesi industrialmente avanzati la situazione del mercato del lavoro sia stata caratterizzata negli ultimi decenni da un profondo dualismo. Da una parte una fascia forte con una occupazione stabile, pro-tetta sindacalmente; dall’altra una fascia piuttosto estesa di lavoratori saltuari, precari, senza pro-tezione sindacale».

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non più sufficienti a soddisfare i bisogni quotidiani (il cui peso è cresciuto in mo-do esponenziale in questi ultimi anni) e che fino a qualche tempo fa vivevano una vita decorosa e senza privazioni.

Come per le questioni legate al lavoro e le problematiche familiari, anche sul tema dell’“impoverimento da euro” vi è stato, da parte degli operatori dei Cen-tri di Ascolto, un numero di contributi particolarmente elevato (anche in questo caso pari a oltre il 14% degli interventi sul tema).

In numerosi interventi si rileva come, con l’avvento dell’euro (e del conse-guente carovita), «anche le famiglie a basso reddito che prima riuscivano a con-durre una vita dignitosa, pur con qualche sacrificio, ora non riescono più a so-pravvivere e si rivolgono al Centro di Ascolto: vuoi per l’acquisto di una bombola o il pagamento di una bolletta dell’Enel, o più semplicemente per l’acquisto di un medicinale che il Servizio Sanitario Nazionale non eroga gratuitamente» (fg Ales-Terralba).

A detta degli operatori dei CdA, tantissime persone lamentano di non arri-vare alla fine del mese. Alla terza settimana hanno già esaurito lo stipendio (o la pensione) e perciò non sono in grado di far fronte alle necessità primarie della fa-miglia. Fra i nuovi poveri, pertanto, si affacciano anche le «famiglie monoreddito, le quali non riescono a giungere senza difficoltà allo stipendio successivo, facendo non poca fatica a vivere» (fg Cagliari). 7. Un ingannevole rifugio dal vuoto di senso: il disagio da alcol e droga

Accanto alle difficoltà familiari, di tipo lavorativo e più squisitamente e-conomico, gli operatori dei Centri di Ascolto non trascurano di far riferimento an-che al disagio determinato dalle dipendenze da alcol e/o da sostanze stupefacenti (con un numero di contributi pari a oltre il 13% degli interventi complessivi).

In un buon numero di interventi, infatti, si registra come la povertà della solitudine ha spesso tra le sue vittime uomini e donne, di diversa età, incapaci «di gestire autonomamente la propria vita: cadono preda dell’alcol che annebbia ine-sorabilmente le loro capacità, riducendoli ad essere talvolta pericolosi per sé e per gli altri» (fg Ales-Terralba).

A trovare un ingannevole rifugio nell’alcol e/o nella droga sono molto spesso persone che vivono un profondo vuoto di senso, attanagliati dalla depres-sione o dalla mancanza di prospettive per il futuro. Sia l’alcol che la droga «sono spesso causa di grossi conflitti familiari e spesso chi subisce le maggiori conse-guenze di questi abusi sono le donne, madri o mogli di chi fa uso di queste sostan-ze» (fg Iglesias). 8. Migrare in fuga dalla/verso la povertà

Altrettanto importante in quanto a numero di contributi offerti dagli opera-tori dei CdA (pari al 7,7%) è anche la riflessione sulle “nuove povertà” delle mi-grazioni: in uscita ma soprattutto in entrata.

Si è detto che dall’analisi compiuta dagli operatori dei CdA si evince come permangano enormi difficoltà nella ricerca di un lavoro, soprattutto fra le giovani

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generazioni; il che fa spesso scaturire il desiderio di emigrare verso luoghi più at-trattivi, con un conseguente indebolimento anche sul piano demografico della co-munità locale.

La mancanza di opportunità lavorative costringe tanti giovani a pensare il proprio futuro lontano dalla terra natia. Molti, infatti, sono coloro che hanno ab-bandonato la propria famiglia d’origine per trovare lavoro fuori Sardegna, in Italia o all’estero: si tratta di un “esodo” di cultura e operosità che ha impoverito intere comunità. Peraltro, non sono pochi «i giovani che, grazie ai sacrifici delle fami-glie, hanno raggiunto la laurea e la specializzazione in diversi campi, ma che per la carenza di imprese in settori adeguati hanno dovuto lasciare il Paese» (fg Ales-Terralba).

Capita che prima di intraprendere il viaggio in fuga dalla povertà, le per-sone si rivolgano ai Centri di Ascolto per chiedere un sostegno economico per po-ter affrontare il viaggio, oltre che un appoggio, attraverso la rete delle strutture di accoglienza Caritas, nella città presso la quale intendono andare a lavorare.

Oltre a ciò, la vera “sfida migratoria” che anche le Caritas della Sardegna stanno registrando in modo sempre più crescente è quella dell’immigrazione 14.

Un recente studio di Caritas Europa sulla povertà e l’esclusione sociale degli immigrati reca un titolo che pone un quesito inquietante: La migrazione: un viaggio verso la povertà? 15. Per molti degli immigrati che si rivolgono nei Centri di Ascolto delle Caritas sarde quel quesito trova, purtroppo, una risposta dramma-ticamente affermativa.

Gli operatori del CdA di Cagliari (sulla cui provincia gravita la quota più consistente di immigrazione, pari al 45% circa), hanno rilevato che a rivolgere ri-chieste di intervento sono soprattutto romeni: «persone sole e senza punti di rife-rimento, senza dimora e con un livello di istruzione mediamente basso; vengono soprattutto per denunciare la mancanza di casa e di lavoro», nonché la propria in-digenza economica (fg Cagliari).

Alle volontarie del CdA di Iglesias sempre più spesso capita «di avere a che fare con persone extracomunitarie che si rivolgono al centro per chiedere aiu-to: sono per lo più donne rom, marocchini, senegalesi che chiedono aiuti econo-mici, strutture di accoglienza, farmaci, un’occupazione» (fg Iglesias).

Di immigrati senza lavoro e senza casa si occupano spesso anche i Centri di Ascolto della diocesi di Tempio-Ampurias. In particolare ai CdA si rivolgono sempre più frequentemente, «alla ricerca di un lavoro, donne provenienti dall’Est Europa che con i guadagni devono provvedere alle esigenze dei familiari (molto spesso minori) rimasti in patria» (fg Tempio-Ampurias). 14 Secondo i dati Istat gli stranieri residenti in Sardegna al 31/12/2005 risultano pari a 17.930. Le stime del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes propongono tuttavia una valutazione più realistica circa il numero dei soggiornanti stranieri, ottenuta attraverso un computo che contempla, partendo dal numero dei permessi di soggiorno in vigore alla fine del 2004 (18.368), sia i minori registrati sul permesso di soggiorno dei genitori sia i nuovi ingressi più o meno stabili, oltre che l’ammontare dei bambini stranieri nati nel corso del 2005. Questo procedi-mento consente di giungere alla stima finale di 19.955 cittadini stranieri regolarmente presenti al 31 dicembre 2005 (anche se non tutti registrati personalmente come soggiornanti), pari allo 0,7% del totale degli immigrati soggiornanti in Italia. 15 Cfr. La migrazione: un viaggio verso la povertà? Studio di Caritas Europa sulla povertà e l’esclusione sociale degli immigrati, versione italiana del III Rapporto sulla povertà di Caritas Europa, “Migration, a journey into poverty?”, a cura di Caritas Italiana, Roma 2006.

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9. “Cara”, dolce casa…

Si può pretendere di metter su famiglia e avere figli senza avere casa? E si può avere casa quando i costi per l’acquisto sono impossibili da sostenere (tenuto conto dell’impossibilità di ricevere un mutuo dalle banche senza un lavoro stabile) o i canoni di affitto risultano proibitivi? Porsi di fronte a questi quesiti è come tra-sformarsi in un cane che si morde la coda.

Eppure le problematiche abitative, che si traducono nella mancanza di una abitazione dignitosa o nel vivere in una casa precaria ed insalubre, sono preoccu-pazioni ben presenti agli operatori dei CdA, i quali registrano frequentemente le istanze di chi «ha necessità di adeguare e/o ristrutturare la propria abitazione per renderla abitabile», ma anche di chi, a causa di uno sfratto, di un licenziamento che di fatto impedisce il pagamento dell’affitto, di una separazione o di un abban-dono del coniuge, si trova improvvisamente sprovvisto di un tetto sotto cui rifu-giarsi.

Spesso gli alloggi non si trovano. A «trovare molte difficoltà sono soprat-tutto gli immigrati, causa la diffidenza degli abitanti locali, oppure perché gli ap-partamenti costano troppo» (fg Tempio-Ampurias).

Non è neppure svanita la sequela di richieste avanzate tipicamente dai sen-za dimora, i barboni o clochard che dir si voglia, i quali – più o meno liberamente – vivono un’esistenza fatta di stenti, sprovvista di ogni sorta di protezione e sulla cui condizione di vita andrebbero avviati, anche in Sardegna, degli studi seri ed approfonditi, oltre che degli opportuni interventi di inclusione sociale 16. 10. Il lato oscuro della sofferenza: il disagio mentale

Durante i colloqui capita spesso che gli operatori dei CdA si trovino a do-ver affrontare problematiche complesse, in occasione delle quali si sentano del tutto impreparati e sprovvisti di strumenti adeguati. Soprattutto quando il disagio afferisce ad una sfera poco conosciuta o del tutto oscura, quale è quella della sof-ferenza psichica, risulta fondamentale la collaborazione in rete con le strutture de-putate a ciò, in particolare il Centro di igiene mentale.

Non sono rari i casi in cui il disagio si esprime in termini di problematiche relazionali, di depressione acuta o di problemi psicologici di varia natura. Sovente ci si imbatte in un numero rilevante di persone che soffrono «gravi disagi psichici derivanti da cause diverse: mancanza di lavoro, alcolismo, solitudine, incapacità di gestire la propria vita. Molti di costoro fanno riferimento agli operatori del Cen-tro di igiene mentale del territorio, che senza sosta sono chiamati ad intervenire in situazioni di estrema gravità. Questi sono spesso emarginati dalla comunità che non è in grado di comprendere le grandi povertà che il mondo di oggi ci va sem-pre più proponendo» (fg Ales-Terralba).

16 Non di rado la stampa regionale riferisce di episodi in cui si raccontano violenze gratuite a danno di tali persone, i quali culminano talune volte in pestaggi, atti di teppismo e perfino brutali omicidi. Così come è frequente il verificarsi di decessi prematuri a causa di un’esistenza vissuta tra gli stenti.

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Non mentale ma fisico è il disagio di coloro che a causa di un handicap si trovano incapaci di provvedere da sé alle normali esigenze della vita quotidiana e che, a causa di ciò, si trovano costretti «tra le mura domestiche senza la minima possibilità di sentirsi partecipi di una comunità. Anche in questo caso manca la necessaria formazione degli adulti che, in alcuni casi, rassegnati, non si fanno ca-rico di conoscere le norme e le opportunità che potrebbero alleviare le difficoltà ed avvantaggiare i propri congiunti» (fg Ales-Terralba). 11. Le povertà della “generazione X”

Molti interventi proposti in occasione dei focus group insistono sulla man-canza di protezione – se non proprio trascuratezza – delle famiglie nei confronti dei minori, i quali rischiano in taluni casi di ritrovarsi a vivere in contesti di soli-tudine e di emarginazione. È evidente che tale “disattenzione educativa” si riper-cuote sul loro processo di crescita, soprattutto nei momenti in cui sarebbe necessa-rio garantire loro dei punti di riferimento saldi e in grado di orientarli nella vita.

Ciò acquista maggior rilievo quando si prendono in considerazione le pro-blematiche tipiche del mondo giovanile. A questo proposito la “parola chiave” re-gistrata in molte delle percezioni proposte dagli operatori dei CdA è, ancora una volta, la “mancanza di prospettive per il futuro” 17.

Ed è proprio questa “mancanza di prospettive” che sta compromettendo se-riamente la loro capacità progettuale, con il progressivo affievolirsi della speranza verso una società più accogliente ed inclusiva anche nei loro confronti, in grado di favorire le legittime aspirazioni rispetto a un futuro più stabile sotto il profilo per-sonale, familiare e professionale.

In un’indagine realizzata oltre un anno fa dalla Caritas diocesana di Ca-gliari, sulle povertà vecchie e nuove di quel territorio, sono contenute delle consi-derazioni che ben si attagliano ad altre zone della Sardegna. Gli esiti di quella ri-cerca, infatti, pongono in luce come oltre alla marginalità sociale derivante dalla mancanza di reddito da lavoro, in questi ultimi anni «sono aumentati in maniera preoccupante i casi di disagio minorile e un diffuso malessere giovanile, con for-me rilevanti di devianza (teppismo, microcriminalità, tossicodipendenza, alcoli-smo, ecc.) e il consolidarsi del fenomeno dell’abbandono scolastico. L’influenza della strada sui ragazzi e sui giovani è andata crescendo a dismisura dinanzi ad un modello di famiglia incapace di educare, talvolta disgregata, e davanti alla man-canza di interventi istituzionali di prevenzione e di aggregazione. La scuola si è

17 L’ultimo Rapporto pubblicato dalla Commissione governativa sull’esclusione sociale po-ne in rilievo un fenomeno nuovo: a trovarsi in difficoltà, infatti, sono anche i giovani di età com-presa fra i 18 e i 34 anni. È noto come minori e anziani, soprattutto in Italia, siano considerati quali “categorie” sociali più deboli e più a rischio di povertà. Ma «se è vero che bambini e anziani incor-rono più facilmente in situazioni di difficoltà economica i giovani tra i 18 e i 34 anni – si legge nel Rapporto – non risultano poi così protetti». Nel medesimo Rapporto si legge, inoltre, che la lettera-tura in materia di studi sulle povertà «per anni ha individuato nella giovinezza una fase della vita relativamente sicura. I giovani non erano considerati a rischio, come altre categorie, in quanto eco-nomicamente attivi e, in ipotesi, privi del peso di altre persone da loro dipendenti. La portata di tale assunto appare oggi ridimensionata da mutamenti verificatisi nel mercato del lavoro, nei per-corsi formativi e nelle modalità di transizione alla vita».

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rivelata impotente dinanzi alla crisi di valori, mentre il condizionamento dei mezzi di comunicazione di massa si è rafforzato purtroppo in senso negativo» 18.

In altri contesti territoriali si rileva che, tra i giovani, proprio a causa della mancanza di adeguate strutture che consentano positive occasioni di aggregazione e di svago, «o punti di incontro per uno scambio di idee [sta crescendo] il malu-more, la sfiducia nella politica e nel sociale in genere. Essi appaiono sempre più privi di interessi che possano dare un senso alla loro vita, diventando facile preda dei vizi: alcol, droga, azioni di teppismo, aggressività e violenza».

12. La terza età delle povertà

Il problema della solitudine e dell’emarginazione è emergente anche in al-tre categorie deboli, come ad esempio quella degli anziani.

Per comprendere appieno la portata di un fenomeno solo in parte percepito nella sua dimensione strutturale, bisognerebbe soffermarsi anzitutto sugli aspetti demografici. A questo proposito, il dato da cui partire è certamente eloquente: la tendenza in atto, in tutta la Sardegna, è quella di una evoluzione della fecondità che da un lato registra una tendenza a posticipare sempre più la nascita del primo figlio e dall’altro assegna all’Isola il primato di regione con il più basso tasso di fecondità d’Italia di questi ultimi anni 19.

È evidente che tale dinamica della natalità si accompagna ad un progressi-vo invecchiamento della popolazione. Detto in altri termini, saranno sempre di più gli anziani – stante le condizioni socioeconomiche attuali – che avranno bisogno di sostegni di vario genere.

Chiedono aiuto persone anziane con problemi di salute più o meno gravi, rimaste sole a causa di una condizione di vedovanza senza prole o perché abban-donati dalle proprie famiglie. Si tratta di persone per lo più dotate di una pensione che, a causa dell’avvento dell’euro, non è più in grado di soddisfare le normali e-sigenze legate ai bisogni quotidiani. Non di rado, proprio le pensioni costituiscono le uniche fonti di reddito di quei nuclei familiari in cui vi sono ancora dei figli a carico, senza lavoro e con un’età non più giovanissima.

Tuttavia, agli operatori capita frequentemente di incontrare nei Centri di Ascolto anche degli anziani che manifestano come unico bisogno quello di sentir-si meno soli e ancora utili in qualcosa: «il problema della solitudine e della emar-

18 Un ampio stralcio dell’indagine in discorso è stato pubblicato sul periodico L’Isola che c’è, anno XIV, n. 11/12, novembre-dicembre 2004, p. 40. 19 A questo proposito è interessante constatare come, a livello teorico, si stia sviluppando un importante dibattito sulle ragioni che spiegherebbero il calo della natalità nei Paesi europei: se da un lato alcuni studiosi (segnatamente nel campo della storiografia e della sociologia) sostengono che la diminuzione delle nascite sia da attribuire alla diffusione dei sistemi contraccettivi e, più recentemente, alla precarizzazione del mercato del lavoro (con tutto ciò che ne consegue in termini di riduzione di nuovi matrimoni e di nuove composizioni familiari), dall’altro lato sono soprattutto i demografi a parlare di “paradosso economico-demografico”. Nello specifico, è il demografo te-desco Herwig Birg (direttore dell’Istituto di ricerche demografiche di Bielefeld) a parlare di una contraddizione in atto nelle società europee: «Più la vita in una società ricca è confortevole, più sicurezze e garanzie sul futuro del benessere si hanno, tanto meno il singolo opta per scelte così impegnative e durature come mettere al mondo dei figli» (cfr. Dove volano le cicogne, intervista a H. Birg a cura di Stefano Vastano, in «L’Espresso», 4 maggio 2006, p. 129).

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ginazione […] è emergente nelle categorie deboli», fra cui quella degli anziani (fg Alghero-Bosa); la «solitudine di molti anziani» si associa spesso a situazioni di vera e propria indigenza, non potendo «pagare neanche l’affitto o l’acqua» (fg O-zieri).; ci sono «anziani soli e non autosufficienti ai quali non si offrono servizi adeguati alle loro esigenze»; «ricevono [dal Comune] assistenza per una o due o-re, nelle quali ci si occupa di fare loro le pulizie o preparargli da mangiare. Ma il resto della giornata sono letteralmente abbandonati a se stessi e l’assistenza non va oltre» (fg Ozieri). 13. Quando i soldi non sono tutto

Condivisa dagli operatori di tutti i Centri di Ascolto coinvolti nei focus

group è la percezione riguardante l’esistenza di una povertà diffusa di tipo cultu-rale, la quale si traduce molto spesso nell’incapacità di amministrare adeguata-mente le risorse economiche, fino ad arrivare all’accumulo del superfluo e, para-dossalmente, allo spreco. Per gli operatori dei CdA, tale fenomeno è vissuto prin-cipalmente da «persone che faticano a gestire quel poco danaro che si ritrovano in mano, dando magari priorità all’acquisto di cose superflue per appagare vizi o soddisfare i propri desideri piuttosto che pagare, ad esempio, la bolletta della luce o comprare beni di prima necessità» (fg Ales-Terralba).

Per tale ragione, nelle percezioni registrate dagli operatori si rileva che a chiedere aiuto sono spesso anche semplici famiglie monoreddito incapaci di gesti-re in maniera oculata le proprie risorse e facilmente persuadibili dai vari modelli proposti dalla società dei consumi (poveri, ma con due o tre cellulari, con il panta-lone griffato e con l’auto di grossa cilindrata); motivo per cui capita sempre più spesso di vedere nei Centri di Ascolto anche coloro i quali, per poter estinguere definitivamente i propri debiti (è frequente, ad esempio, il ricorso alle società fi-nanziarie), sono indotti a cadere nelle maglie dell’usura, con esiti alcune volte drammatici.

L’incapacità di gestire il denaro è un fenomeno assai diffuso. Si tratta di una povertà più subdola ma altrettanto problematica e che necessita di uno sforzo straordinario sul versante pedagogico per le comunità ecclesiali. Associato a que-sta povertà è un ricorso sistematico, da parte delle stesse persone, a meccanismi di tipo assistenzialistico che sviliscono qualsivoglia proposta di promozione integra-le della persona. Ancora oggi non sono poche le persone che, rivolgendosi ai CdA, «manifestano resistenze se orientate e coinvolte verso l’avviamento ad un lavoro regolarmente retribuito, seppure temporaneo, prediligendo invece il soste-gno economico» (fg Sassari).

Molto spesso gli operatori si trovano di fronte a persone «che chiedono e-sclusivamente assistenza e che non vogliono cercare di risolvere realmente i pro-pri problemi. Capita non di rado, ad esempio, che si presentino dei disoccupati che chiedono esclusivamente sussidi di tipo economico, rifiutando qualsiasi aiuto per una ricerca di lavoro» (fg Iglesias).

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CAPITOLO TERZO LA LETTURA DEI DATI SUL DISAGIO 1. Alcuni cenni preliminari di carattere metodologico

I dati di tipo “quantitativo” illustrati nel presente capitolo fanno riferimen-to al periodo aprile-ottobre 2005. Sono stati raccolti nei Centri di Ascolto delle Caritas diocesane di Ales-Terralba, Alghero-Bosa, Cagliari, Iglesias, Nuoro, Ori-stano, Ozieri, Sassari e Tempio-Ampurias 1.

Nella prospettiva di una comprensione sociologica dei fattori che caratte-rizzano le cosiddette “carriere di povertà”, l’indagine in discorso acquista un valo-re scientifico alquanto significativo, proprio per l’adesione quasi totale da parte delle diocesi (9 su dieci) e per la distribuzione geografica dei 14 Centri di Ascolto coinvolti.

Tenuto conto del fatto che in Sardegna il Progetto Rete ha preso avvio sol-tanto nel 2005, sulla base di una libera adesione scaturita sostanzialmente dalle capacità organizzative contingenti di ciascuna Caritas diocesana, e che le realtà che hanno preso parte alla ricerca per questo primo rapporto non corrispondono alla totalità dei CdA esistenti in Sardegna (alcuni Centri, ad esempio, sono sorti ex novo nel corso di quest’anno), vi è da ben sperare sulle prospettive di ampliamen-to della base dei dati per i prossimi dossier.

Le variabili prese in esame fanno riferimento alle principali caratteristiche anagrafiche (come ad esempio l’età, il genere, lo stato civile, ecc.), ai bisogni (i disagi delle persone dichiarati esplicitamente e/o individuati dagli operatori), alle richieste avanzate dalle persone che si sono rivolte ai Centri di Ascolto e, infine, agli interventi posti in campo direttamente dalla Caritas o con il concorso di altri soggetti. In questa sede ci soffermeremo essenzialmente sulle prime tre variabili. 2. Le principali caratteristiche delle persone ascoltate

Nel corso del periodo aprile-ottobre 2005 sono state ascoltate 703 persone nei CdA coinvolti nell’indagine, secondo la distribuzione indicata nella tabella 1. Non sempre è stato possibile utilizzare le informazioni relative a tutte le persone ascoltate, tenuto conto che diversi campi sono risultati incompleti o contenenti in-formazioni non corrette. Per tale ragione le elaborazioni sono state effettuate

1 Al rilevamento dei dati quantitativi hanno preso parte i seguenti Centri di Ascolto: il CdA diocesano di San Gavino Monreale e quello parrocchiale di Guspini (per la diocesi di Ales-Terralba); il CdA zonale di Macomer (per la diocesi di Alghero-Bosa); per le diocesi di Cagliari, Iglesias, Nuoro, Oristano, Ozieri e Sassari i rispettivi CdA diocesani. Per la diocesi di Tempio-Ampurias, invece, hanno preso parte i seguenti Centri di Ascolto: il CdA diocesano e quello par-rocchiale di Tempio Pausania, il CdA zonale di Olbia, il CdA parrocchiale di La Maddalena e quello di Arzachena.

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prendendo in esame, di volta in volta, soltanto i dati completi e correttamente pre-disposti in un dataset 2. TAB. 1. Persone ascoltate nei CdA coinvolti nell’indagine e distribuzione per diocesi

Persone ascoltate nei CdA

Diocesi N. dei CdAcoinvolti

Valori assoluti

Valori per-centuali

Ales-Terralba 2 91 12,9 Alghero-Bosa 1 23 3,3 Cagliari 1 226 32,1 Iglesias 1 83 11,8 Nuoro 1 20 2,8 Oristano 1 13 1,8 Ozieri 1 19 2,7 Sassari 1 96 13,7 Tempio-Ampurias 5 132 18,8 Totale 14 703 100,0

Dall’analisi della tabella è facile considerare come la maggior parte delle

persone rilevate si sia rivolta ai Centri di Ascolto del Sud Sardegna (il 56,9%), in particolare nelle diocesi di Ales-Terralba, Iglesias e Cagliari. Una quota ugual-mente importante di persone rilevate (pari al 38,4%) si è rivolta ai CdA del Nord dell’Isola (Sassari, Alghero-Bosa, Ozieri e Tempio-Ampurias). Solo una piccola parte, invece (pari al 4,7%), è stata ascoltata dagli operatori dei CdA di Nuoro ed Oristano 3.

Durante il periodo preso in esame, ai CdA si sono rivolti sia cittadini ita-liani che stranieri, con una netta preponderanza dei primi rispetto ai secondi, come si evince dalla tabella seguente. TAB. 2. Distribuzione per cittadinanza delle persone ascoltate nei CdA Cittadinanza N. delle persone

ascoltate %

Cittadinanza italiana 574 81,7 Cittadinanza non italiana 129 18,3 Doppia cittadinanza 0 0,0 Apolidi 0 0,0 Totale 703 100,0

I dati di approfondimento, circa la provenienza nazionale dei cittadini stra-nieri che si sono rivolti ai CdA, sono contenuti in un apposito paragrafo nelle pa-gine che seguono.

2 I dati sono stati immessi nel software denominato OsPo3 (versione 3.2.2) in dotazione presso le medesime strutture operative. Attraverso la funzione di esportazione, i dati relativi al pe-riodo considerato sono stati disposti in un “file dati” successivamente trasformato in un dataset, il quale è stato organizzato in variabili con le relative definizioni al fine di una successiva elabora-zione ed analisi per mezzo del programma SPSS (Statistical Package for Social Sciences). 3 È appena il caso di rilevare che a un maggior numero di persone ascoltate non equivale necessariamente una più intensa incidenza territoriale dei fenomeni di povertà ed esclusione socia-le.

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2.1. La variabile di genere Così come è stato posto in rilievo dagli esiti del rapporto nazionale realiz-zato dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione Zancan 4, le persone che si sono ri-volte ai Centri di Ascolto coinvolti nell’indagine regionale sono in maggioranza donne (55,9%). In termini generali questo dato può essere spiegato in parte dalla condizione di maggiore debolezza della donna, soprattutto dal punto di vista lavo-rativo, ma anche per via del ruolo tradizionalmente affidatole di latrice (e spesso di “curatrice”) delle situazioni di disagio vissute all’interno del contesto familiare. Esaminando i vari contesti socio-territoriali si registra in quasi tutte le Ca-ritas un numero superiore di richieste di ascolto effettuate da donne, tranne che nelle diocesi di Cagliari, Nuoro ed Ozieri (cfr. la tabella 3). TAB. 3. Distribuzione per sesso e diocesi delle persone ascoltate nei CdA Diocesi Valori assoluti Valori percentuali

Maschi Femmine Totale Maschi Femmine Totale Ales-Terralba 25 66 91 8,1 16,8 12,9 Alghero-Bosa 8 15 23 2,6 3,8 3,3 Cagliari 128 98 226 41,3 24,9 32,1 Iglesias 31 52 83 10,0 13,2 11,8 Nuoro 11 9 20 3,5 2,3 2,8 Oristano 2 11 13 0,6 2,8 1,8 Ozieri 14 5 19 4,5 1,3 2,7 Sassari 44 52 96 14,2 13,2 13,7 Tempio-Ampurias 47 85 132 15,2 21,6 18,8 Totale 310 393 703 100,0 100,0 100,0 2.2. La distribuzione per età

Rispetto alla totalità delle persone ascoltate non è stato possibile risalire all’età in 74 casi (cfr. la tabella 4). Riguardo ai dati disponibili (in ogni caso corri-spondenti all’89,5% del totale), l’età registrata fornisce un dato che richiama im-mediatamente l’attenzione. Le classi modali, infatti, ovverosia quelle in cui si ha la massima frequenza statistica, risultano essere quelle dei trentenni e quarantenni (cfr. la figura 1). Detto in altri termini, fra coloro di cui si conosce l’età, più della metà è costituita da soggetti che appartengono ad una generazione relativamente giovane: uomini e donne che dovrebbero poter godere di una vita dignitosamente vissuta e ricca di prospettive e che, invece, si trovano costretti per varie ragioni a chiedere aiuto.

4 CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili…, op. cit., p. 302.

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TAB. 4. Distribuzione delle persone ascoltate nei CdA per classi di età e genere

Classi di età Valori assoluti Valori percentuali Maschi Femmine Totale Maschi Femmine Totale 0-4 0 0 0 0,0 0,0 0,0 5-9 0 0 0 0,0 0,0 0,0 10-14 0 0 0 0,0 0,0 0,0 15-19 5 5 10 1,8 1,4 1,6 20-24 11 18 29 4,0 5,1 4,6 25-29 22 38 60 8,0 10,8 9,5 30-34 36 52 88 13,0 14,7 14,0 35-39 42 48 90 15,2 13,6 14,3 40-44 44 45 89 15,9 12,7 14,1 45-49 34 36 70 12,3 10,2 11,1 50-54 24 42 66 8,7 11,9 10,5 55-59 23 24 47 8,3 6,8 7,5 60-64 16 16 32 5,8 4,5 5,1 65-69 8 11 19 2,9 3,1 3,0 70-74 5 10 15 1,8 2,8 2,4 75-79 1 2 3 0,4 0,6 0,5 80-84 2 5 7 0,7 1,4 1,1 85-89 2 1 3 0,7 0,3 0,5 90-94 0 0 0 0,0 0,0 0,0 95 e oltre 1 0 1 0,4 0,0 0,2 Totale 276 353 629 100,0 100,0 100,0 Dati mancanti 40 34 74 FIG. 1. Distribuzione delle persone ascoltate per genere e classi di età (valori percentuali)

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

0-4

5-9

10-1

4

15-1

9

20-2

4

25-2

9

30-3

4

35-3

9

40-4

4

45-4

9

50-5

4

55-5

9

60-6

4

65-6

9

70-7

4

75-7

9

80-8

4

85-8

9

90-9

4

95 e

oltr

e

Maschi Femmine

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Grazie alla figura 1 è possibile cogliere come la distribuzione per età vari in modo significativo, a seconda del genere, rispetto ad alcune classi di età. Si può rilevare, ad esempio, che la componente femminile risulta prevalente su quella maschile nelle classi d’età più giovani (fra i 20 e i 34 anni) e in quelle più anziane (dai 65 anni in su), con un’eccezione relativa alle persone nella fascia d’età tra i 50 e i 54 anni. La componente maschile, invece, si concentra soprattutto nelle classi di età centrali, con la sola eccezione – già evidenziata – delle persone con un’età compresa fra i 50 e i 54 anni.

2.3. Lo stato civile

Per quanto concerne lo stato civile, le condizioni prevalenti delle persone ascoltate dagli operatori dei CdA sono quelle di coniugato/a (36,6%) e, in misura di poco inferiore, di celibe/nubile (33,3%). Alquanto rilevanti, anche se con per-centuali inferiori rispetto alle prime due tipologie, sono i dati relativi ai separati legalmente e ai divorziati, in quanto raggiungono complessivamente il 20,5%. TAB. 5. Distribuzione delle persone ascoltate per genere e stato civile Stato civile Valori assoluti Valori percentuali Maschi Femmine Totale Maschi Femmine TotaleCelibe o nubile 119 94 213 44,2 25,3 33,3Coniugato/a 98 136 234 36,4 36,7 36,6Separato/a legalmente 35 77 112 13,0 20,8 17,5Divorziato/a 5 14 19 1,9 3,8 3,0Vedovo/a 6 46 52 2,2 12,4 8,1Altro 6 4 10 2,2 1,1 1,6Totale 269 371 640 100,0 100,0 100,0Dati mancanti 41 22 63

Osservando i dati nel dettaglio, appare evidente che la distribuzione assu-me caratteristiche alquanto differenti a seconda del genere, come risulta dalla fi-gura 2: relativamente alla componente femminile, infatti, la condizione prevalente è quella di coniugata (36,7%), a differenza degli uomini la cui percentuale più e-levata è relativa ai celibi (44,2%). Peraltro, è facile osservare come la componente femminile prevalga su quella maschile, oltre che nel caso dei coniugati, anche ri-spetto alle seguenti tipologie: separati legalmente, divorziati e vedovi. Detto in al-tri termini, la componente femminile è nettamente inferiore rispetto a quella ma-schile soltanto nel caso in cui le donne non si siano mai sposate.

La distribuzione per stato civile assume caratteristiche differenti anche in ordine alle diocesi in cui sono stati effettuati gli ascolti. La tabella 6 pone in luce, ad esempio, una netta preponderanza dei coniugati nelle diocesi di Ales-Terralba, Ozieri, Tempio-Ampurias e Sassari (anche se in quest’ultima è altrettanto impor-tante la quota dei celibi/nubili). Nelle diocesi di Cagliari, Iglesias, Nuoro ed Ori-stano la percentuale più alta, invece, è quella relativa ai celibi/nubili. Infine, nel caso di Alghero-Bosa si eguagliano perfettamente le percentuali relative ai celi-bi/nubili e ai vedovi (ciascuna pari al 26,1%).

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FIG. 2. Distribuzione delle persone ascoltate per stato civile e genere (valori percentuali)

0,0 5,0 10,0 15,0 20,0 25,0 30,0 35,0 40,0 45,0 50,0

Celibe o nubile

Coniugato/a

Separato/a legalmente

Divorziato/a

Vedovo/a

Altro

Maschi Femmine

TAB. 6. Distribuzione delle persone ascoltate per diocesi e stato civile (valori percentuali)

Stato civile Ales-T Algh-B Cagliari Iglesias Nuoro Oristano Ozieri Sassari Tempio-A

Celibe o nu-bile 15,4 26,1 34,5 36,1 50,0 46,2 15,8 31,3 27,3Coniugato/a 49,5 21,7 25,7 26,5 25,0 15,4 36,8 36,5 41,7Divorziato/a 3,3 4,3 3,1 1,2 0,0 0,0 0,0 2,1 3,8Separato/a legalmente 19,8 8,7 14,6 19,3 15,0 15,4 26,3 14,6 14,4Vedovo/a 8,8 26,1 3,5 12,0 5,0 7,7 0,0 7,3 8,3Altro 1,1 4,3 2,2 0,0 5,0 0,0 0,0 0,0 1,5Non specifi-cato 2,2 8,7 16,4 4,8 0,0 15,4 21,1 8,3 3,0Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Per quanto concerne le separazioni e i divorzi appare opportuno rilevare che, stando agli ultimi dati Istat disponibili (2002), la Sardegna si pone al di sotto della media nazionale (con dei tassi di separazione e di divorzio per 1.000 abitanti rispettivamente di poco superiori ad 1,0 e a 0,4) 5. Il raffronto con questo scenario pone in luce come la componente di persone separate o divorziate che si sono ri- 5 Cfr. ISTAT, Matrimoni, separazioni e divorzi. Anno 2002, Annuario n. 15, Roma 2006, p. 14. I dati pubblicati nell’Annuario fanno riferimento ai procedimenti esauriti (sia quelli accolti con sentenza, sia quelli omologati senza sentenza) nel corso del 2002.

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volte ai CdA (20,5%) sia per molti versi rilevante. Questi elementi di riflessione, unitamente alle percezioni registrate dagli operatori delle Caritas (di cui si è parla-to nel capitolo precedente), suggeriscono uno sforzo conoscitivo orientato ad ap-profondire le correlazioni esistenti tra debolezza dei rapporti coniugali e fragilità sociale.

2.4. Il nucleo di convivenza Oltre la metà delle persone che si sono rivolte ai CdA vivono con i propri

familiari (57,6%), anche se le persone sole costituiscono in ogni caso una compo-nente rilevante in termini percentuali (20,5%). TAB. 7. Distribuzione delle persone ascoltate nei CdA per nucleo di convivenza Nucleo di convivenza Valori assolu-

ti Valori per-

centualiIn nucleo con propri familiari o parenti 405 57,6Solo/a 144 20,5In nucleo con conoscenti o soggetti esterni alla propria famiglia * 47 6,7Presso istituti, comunità, case di accoglienza, ecc. 34 4,8Altro 8 1,1Non specificato 65 9,2Totale 703 100,0* In particolare nel caso di coppie unite da un rapporto di convivenza fuori dal matrimonio

Per sviluppare degli elementi di riflessione sul rapporto tra le persone che si sono rivolte ai CdA e i relativi nuclei di convivenza, risulta importante mettere a confronto il livello regionale con i dati riguardanti i singoli contesti territoriali. In questa prospettiva va rilevato che ai dati forniti dal CdA diocesano di Cagliari sono associati i valori più elevati in ordine a coloro che vivono presso istituti, co-munità, case di accoglienza, ecc. (29 casi segnalati su un totale regionale di 34). Altrettanto elevata, in ordine a questa diocesi, è la percentuale di quanti vivono in nucleo con propri familiari o parenti (pari al 28,1% sul totale regionale), così co-me la percentuale di coloro che abitano da soli (pari al 22,2%); anche se, rispetto a quest’ultima tipologia, la diocesi di Sassari registra dei dati molto simili (21,5%).

In riferimento a coloro che vivono in un nucleo composto da persone e-sterne alla propria famiglia, come nel caso di quelle coppie non sposate che risul-tano legate da un rapporto di convivenza, è la diocesi di Tempio-Ampurias a regi-strare la percentuale più elevata (31,9% sul totale regionale); seguono Cagliari (25,5%) e Sassari (23,4%).

Dalla tabella 8 si evince che la percentuale delle persone che vivono con propri familiari o parenti risulta preponderante in tutti i contesti esaminati, anche se in misura differente se si raffrontano le varie diocesi. L’areogramma di cui alla figura 3, invece, pone bene in luce l’ampiezza dei valori corrispondenti alle diffe-renti tipologie di nucleo di convivenza, confermando anche da un punto di vista grafico la netta prevalenza di coloro, fra le persone che si sono rivolte ai CdA , che vivono con i propri familiari o parenti.

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FIG. 3. Distribuzione per nucleo di convivenza delle persone ascoltate (valori percentuali)

Presso istituti, comunità

4,8%

Con soggetti esterni alla famiglia

6,7%

Non specificato9,2%

Con propri familiari o parenti57,6%

Altro1,1%

Solo/a20,5%

TAB. 8. Distribuzione per nucleo di convivenza e diocesi delle persone ascoltate nei CdA

(valori percentuali)

Nucleo di convivenza

Ales-T Algh-B Cagliari Iglesias Nuoro Oristano Ozieri Sassari Tempio-ACon propri fa-miliari o paren-ti 75,8 60,9 50,4 57,8 55,0 84,6 57,9 50,0 59,8Solo/a 18,7 30,4 14,2 18,1 25,0 7,7 42,1 32,3 21,2Con soggetti esterni alla fa-miglia * 2,2 4,3 5,3 4,8 10,0 0,0 0,0 11,5 11,4Presso istituti, comunità 0,0 4,3 12,8 2,4 0,0 0,0 0,0 0,0 1,5Altro 1,1 0,0 1,8 3,6 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0Non specificato 2,2 0,0 15,5 13,3 10,0 7,7 0,0 6,3 6,1Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0* In particolare nel caso di coppie unite da un rapporto di convivenza fuori dal matrimonio

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2.5. La condizione abitativa

Per quanto concerne le informazioni relative alla dimora abituale delle per-sone che si sono rivolte ai CdA, vi è da rilevare una percentuale alquanto consi-stente di dati mancanti o di informazioni non meglio definite (pari a circa il 16% dei casi) 6. Tenuto conto delle informazioni disponibili si può comunque afferma-re che la grande maggioranza delle persone considerate nell’analisi vive in un domicilio stabile (76,4%), mentre solo una minima parte ne è risultata sprovvista (7,5%).

Disaggregando i dati a livello diocesano, e ribadendo quanto già scritto circa la consistenza delle informazioni mancanti, risulta che, in rapporto al dato isolano, le percentuali più elevate di persone che hanno dichiarato di disporre di un domicilio stabile si registrano nelle diocesi di Tempio-Ampurias (il 21% sul totale regionale) e Cagliari (20,3%).

In ordine a quest’ultima diocesi va però evidenziato il dato alquanto rile-vante di coloro che hanno dichiarato di non avere un domicilio stabile, pari a più del 50% di tutti i casi registrati a livello regionale. Peraltro, si potrebbe ulterior-mente rilevare che proprio le percentuali piuttosto elevate relative ai campi “Non specificato” ed “Altro” impediscono di quantificare meglio un fenomeno che, per lo meno a livello inferenziale, suggerisce delle cifre molto più elevate riguardo al-la condizione di chi non ha un domicilio stabile: in primo luogo a motivo della cronica difficoltà abitativa della città più popolosa della Sardegna (nonché capo-luogo di Regione); ed in secondo luogo perché proprio sulla Provincia di Cagliari gravita la quota più consistente di immigrati dell’Isola, i quali, soprattutto nella fase iniziale del soggiorno, sono notoriamente costretti ad affrontare gravi pro-blematiche di disagio abitativo. TAB. 9. Distribuzione per diocesi e condizione abitativa delle persone ascoltate nei CdA

(valori percentuali) Condizione abitativa

Ales-T Algh-B Cagliari Iglesias Nuoro Oristano Ozieri Sassari Tempio-AHa un domi-cilio 96,7 95,7 48,2 85,5 95,0 84,6 94,7 89,6 85,6Non ha un domicilio 0,0 0,0 11,9 4,8 0,0 0,0 5,3 10,4 8,3Non specifi-cato 2,2 4,3 33,2 3,6 5,0 15,4 0,0 0,0 0,8Altro 1,1 0,0 6,6 6,0 0,0 0,0 0,0 0,0 5,3Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

6 A questo proposito riteniamo pienamente condivisibile la considerazione esposta nel già citato Rapporto Vite fragili, laddove si rileva che il metodo di classificazione adottato, «(che con-sidera semplicemente la disponibilità o l’indisponibilità di un domicilio stabile) tiene conto della difficoltà oggettiva degli operatori dei CdA a cogliere con precisione il grado di precarietà abitati-va di una persona e, di conseguenza, non consente di effettuare analisi molto raffinate in proposi-to» (CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili…, op. cit., p. 312).

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La tabella 9 permette di fare dei raffronti sul peso che le varie tipologie di condizione abitativa esercitano in termini percentuali su ciascuna diocesi. Attra-verso questa tabella, peraltro, si può confermare il dato regionale circa la prepon-deranza di coloro che vivono in un domicilio stabile, anche se con percentuali dif-ferenti a seconda del contesto diocesano.

2.6. Il livello di istruzione

Come nel caso della condizione abitativa, anche per quanto attiene il livel-lo di istruzione va rilevata una quota piuttosto consistente di dati mancanti, relati-vi al 43,4% delle persone complessivamente ascoltate. A questo proposito è op-portuno precisare che il grado di istruzione, alla stessa stregua di altri tipi di dati, costituisce un’informazione non sempre ricavabile in occasione dei colloqui da parte degli operatori dei CdA (soprattutto nel corso del primo ascolto) 7.

Prendendo in esame le informazioni disponibili, si può comunque attestare che il 47,7% delle persone per cui è stato possibile individuare il livello di istru-zione ha conseguito la licenza media inferiore; il 27,4% risulta in possesso della licenza elementare; il 6,8% possiede un diploma professionale; il 5% ha ottenuto la licenza media superiore e l’1% è in possesso di un titolo di studio non meglio precisato.

Considerando complessivamente questi dati, si può affermare che circa il 75% delle persone di cui si conosce il titolo di studio possiede un livello di istru-zione basso o medio-basso 8. Va tuttavia rilevato che il 9,1% delle persone è risul-tato analfabeta o privo di alcun titolo di studio, mentre a possedere un titolo di studio universitario (compreso la laurea) è soltanto una quota minima (la maggior parte costituita da donne), pari al 3%. In altri termini, l’esistenza di una quota consistente di persone che dichiarano di possedere un titolo di studio basso o me-dio-basso conferma, con una certa evidenza, la stretta correlazione fra i fenomeni di esclusione sociale e il basso livello di scolarizzazione.

La tabella 10 permette di cogliere ulteriori elementi circa il rapporto tra il livello di istruzione e il genere. Un dato che emerge in modo chiaro, ad esempio, è che nel confronto tra uomini e donne sono quest’ultime a costituire la percentuale più elevata di coloro che risultano in possesso dei seguenti titoli di studio: licenza elementare, licenza media inferiore, diploma professionale, licenza media superio-re e laurea.

7 La distribuzione dei dati mancanti a livello territoriale varia da diocesi a diocesi. Si va da percentuali relativamente contenute, come nel caso delle diocesi di Ales-Terralba e Nuoro (di cui non sono stati specificati i dati relativamente all’8,8 e al 15% dei casi), a percentuali corrisponden-ti a circa la metà delle persone rilevate, come ad esempio a Cagliari (50%), Alghero-Bosa (52,2%) e Ozieri (57,9%). Particolarmente elevata, peraltro, risulta essere la percentuale dei dati mancanti relativa alla diocesi di Sassari (71,9%). 8 Facciamo riferimento alla classificazione già adottata nell’indagine nazionale condotta dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione “E. Zancan”, secondo cui si associa ad un livello di istru-zione basso il possesso della sola licenza elementare; quello medio-basso corrisponde alla licenza media inferiore; il livello medio-alto fa riferimento alla licenza media superiore e, infine, il livello alto corrisponde al diploma di laurea, alla laurea specialistica e alle specializzazioni post lauream.

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TAB. 10. Distribuzione per genere e livello di istruzione delle persone ascoltate nei CdA Livello di istruzione Valori assoluti Valori percentuali

Maschi Femmine Totale Maschi Femmine TotaleAnalfabeta 5 4 9 3,0 1,7 2,3Nessun titolo 13 14 27 7,7 6,1 6,8Licenza elementare 48 61 109 28,4 26,6 27,4Licenza media inferiore 79 111 190 46,7 48,5 47,7Diploma professionale 8 19 27 4,7 8,3 6,8Licenza media superiore 9 11 20 5,3 4,8 5,0Diploma universitario 1 0 1 0,6 0,0 0,3Laurea 3 8 11 1,8 3,5 2,8Altro 3 1 4 1,8 0,4 1,0Totale 169 229 398 100,0 100,0 100,0Dati mancanti 141 164 305

Peraltro, utilizzando i dati disponibili (illustrati nella tabella 11) è possibile quantificare in termini relativi, per ciascuna diocesi, il livello di istruzione posse-duto dalle persone che si sono rivolte ai vari CdA coinvolti nella ricerca. TAB. 11. Distribuzione per diocesi e livello di istruzione delle persone ascoltate nei CdA

(valori percentuali) Livello di istruzione Ales-T Algh-B Cagliari Iglesias Nuoro Oristano Ozieri Sassari Tempio-AAnalfabeta 0,0 0,0 6,2 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 2,6Nessun titolo 7,2 0,0 4,4 5,6 5,9 0,0 0,0 3,7 14,1Licenza elemen-tare 34,9 18,2 20,4 31,5 29,4 14,3 62,5 40,7 20,5Licenza media inferiore 49,4 45,5 48,7 50,0 47,1 42,9 37,5 51,9 43,6Diploma profes-sionale 4,8 36,4 4,4 7,4 5,9 14,3 0,0 0,0 10,3Licenza media superiore 2,4 0,0 8,0 3,7 5,9 28,6 0,0 3,7 3,8Diploma univer-sitario 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 1,3Laurea 0,0 0,0 7,1 0,0 5,9 0,0 0,0 0,0 2,6Altro 1,2 0,0 0,9 1,9 0,0 0,0 0,0 0,0 1,3Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Un’ulteriore riflessione può esser fatta a proposito del rapporto tra il livel-lo di istruzione e l’età delle persone che hanno chiesto il sostegno dei CdA. L’analisi dei dati 9 contenuti nella tabella 12 pone in luce, ad esempio, che la clas-se di età che va dai 25 ai 49 anni è quella in cui, salvo che in un caso, si registrano le percentuali più elevate in rapporto alle diverse tipologie. 9 In questo caso i dati disponibili risultano ulteriormente ridimensionati a causa della man-canza di informazioni circa l’anno di nascita di 74 persone, come già indicato nel paragrafo 2.2. di questo capitolo.

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TAB. 12. Distribuzione per classi di età e livello di istruzione delle persone ascoltate nei CdA (valori percentuali)

Classi di età

Analf. Nessun t. Lic.e. Lic.m.i. Dip.p. Lic.m.s. Dip.u. Laurea Altro0-24 22,2 0,0 1,0 9,8 18,5 15,8 0,0 0,0 0,025-49 66,7 30,8 51,9 69,6 66,7 68,4 100,0 70,0 75,050-69 11,1 53,8 39,4 19,0 14,8 15,8 0,0 30,0 25,070 e oltre 0,0 15,4 7,7 1,6 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 2.7. La condizione professionale

Nel capitolo precedente, in cui sono state esaminate le percezioni degli o-peratori dei CdA in ordine alle povertà emergenti e prevalenti nei territori dioce-sani, si è fatto riferimento alla difficile condizione che vivono le persone senza la-voro o con una professione precaria; così pure alla situazione di quanti, pur aven-do un lavoro stabile o una pensione maturata dopo anni di faticoso lavoro stentano ad arrivare alla fine del mese, segnatamente in questi ultimi anni di aumento del costo della vita a seguito dell’introduzione dell’euro 10.

I dati dei Centri di Ascolto confermano sostanzialmente lo scenario de-scritto dagli operatori, a cominciare dal fatto che la maggioranza delle persone a-scoltate si trova in una condizione di disoccupazione (60,7%). Ciononostante, così come è stato posto in rilievo per altri versi dall’indagine nazionale pubblicata nel volume Vite fragili, la presenza anche in Sardegna di una percentuale significativa di pensionati (10,5%) e di persone con un’occupazione professionale (9,2%), «fa percepire le difficoltà incontrate per far fronte alle necessità quotidiane, anche in presenza di una fonte di reddito» 11.

Oltre a ciò, appare particolarmente significativa la percentuale di donne che ha dichiarato di svolgere l’attività di casalinga (pari al 10,2%), non rilevando-si neppure una persona di sesso maschile in tale condizione. Peraltro, mettendo ancora a confronto la componente maschile con quella femminile, risulta che quest’ultima è prevalente anche rispetto alle seguenti condizioni professionali: di-soccupato/a; studente/essa; pensionato/a.

La tabella 13 e la figura 4 consentono di apprezzare meglio le proporzioni relative alle differenti condizioni professionali. In entrambe si ricava che le quat-tro tipologie principali sono quelle dei disoccupati, dei pensionati, delle casalin-ghe e degli occupati.

10 Cfr., in particolare, i tre paragrafi intitolati: Non lavorare stanca; Quando i soldi non ba-stano: i poveri dell’euro e quelli della terza settimana; La terza età della povertà. 11 CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili…, op. cit., p. 317.

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TAB. 13. Distribuzione per genere e condizione professionale delle persone ascoltate nei CdA

Condizione professionale Valori assoluti Valori percentuali Maschi Femmine Totale Maschi Femmine Totale

Occupato/a 31 23 54 12,2 6,9 9,2Disoccupato/a 167 191 358 65,5 57,0 60,7Casalingo/a 0 60 60 0,0 17,9 10,2Studente/essa 1 4 5 0,4 1,2 0,8Inabile parziale o totale 13 6 19 5,1 1,8 3,2Pensionato/a 25 37 62 9,8 11,0 10,5Altro 18 14 32 7,1 4,2 5,4Totale 255 335 590 100,0 100,0 100,0Dati mancanti 55 58 113 FIG. 4. Distribuzione per condizione professionale delle persone ascoltate (valori percentuali)

Disoccupato/a60,7%

Pensionato/a10,5%

Altro5,4%

Inabile parziale o totale3,2%

Occupato/a9,2%

Casalingo/a10,2%

Studente/essa0,8%

I dati disaggregati per singoli contesti diocesani (cfr. la tabella 14) non ri-servano particolari sorprese rispetto allo scenario descritto a livello regionale. La quota prevalente in ciascuna diocesi, infatti, è quella relativa ai disoccupati, seb-bene si registrino alcune significative differenze – esaminando ciascun contesto territoriale – in ordine al rapporto fra questa particolare condizione professionale e le altre indicate in tabella.

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TAB. 14. Distribuzione per diocesi e condizione professionale delle persone ascoltate nei CdA (valori percentuali)

Condizione professionale Ales-T Algh-B Cagliari Iglesias Nuoro Oristano Ozieri Sassari Tempio-A Occupato/a 2,2 10,5 17,4 7,5 0,0 11,1 11,8 5,6 9,2 Disoccupato/a 64,0 63,2 55,8 68,8 77,8 44,4 52,9 68,9 52,3 Casalingo/a 18,0 5,3 7,2 6,3 5,6 33,3 0,0 12,2 10,0 Studente/essa 0,0 0,0 1,4 1,3 0,0 11,1 0,0 0,0 0,8 Inabile par. o tot. 0,0 0,0 0,0 7,5 5,6 0,0 5,9 3,3 6,2 Pensionato/a 12,4 15,8 11,6 2,5 11,1 0,0 29,4 6,7 13,1 Altro 3,4 5,3 6,5 6,3 0,0 0,0 0,0 3,3 8,5 Totale 100 100 100 100 100 100 100 100 100 3. I bisogni e le richieste delle persone ascoltate nei CdA

In senso lato il termine “bisogno” rimanda ad una condizione generale di necessità dovuta alla mancanza di qualcosa (mezzi, risorse, ecc.) o qualcuno (rela-zioni, rapporti, legami, ecc.). Con tale accezione si pone in luce uno stato di minor benessere della persona – più o meno marcato, a seconda dell’entità oggettiva del bisogno ma anche della percezione individuale del bisognoso –, con ripercussioni significative nella sfera della sua libertà.

Ribadendo quanto già espresso in precedenza a proposito del termine “po-vertà” 12, segnatamente circa la necessità di non restringere il campo in modo e-sclusivo alla dimensione economica, risulta in questo caso non del tutto soddisfa-cente il significato del termine “bisogno” associato alla cosiddetta “domanda ef-fettiva”, ovverosia alla richiesta di determinati beni e servizi sorretta da un corri-spondente potere di acquisto 13.

Chi si rivolge ad un Centro di Ascolto generalmente compie come primo atto la formulazione di una richiesta (il pagamento della bolletta del gas o del tele-fono, la possibilità di avvalersi di un servizio di mensa, ecc.). Ciascuna richiesta, in realtà, è portatrice di una o più necessità (manifeste o latenti) che di fatto limi-tano la sfera della libertà del richiedente (il non poter cucinare o comunicare al te-lefono, il non potersi nutrire adeguatamente, ecc.). Tali necessità vanno opportu-namente valutate fino a risalire alle cause primigenie. Per tale ragione, nell’esplorare le storie di vita delle persone che si rivolgono ai CdA, si tenta di non rimanere ancorati burocraticamente alle richieste ma di porre in luce, laddove possibile, la multidimensionalità dei bisogni.

Tenuto conto di tutto ciò, i dati relativi ai bisogni – come è stato scritto opportunamente nel volume Vite fragili – devono essere «interpretati in modo in- 12 Si rimanda al paragrafo intitolato Vedi alla voce “povertà”, del secondo capitolo. 13 Sull’ambiguità del termine “bisogno” cfr. il già citato dizionario a cura di L. GALLINO, Dizionario di sociologia, op. cit., pp. 134-141. In tale opera, peraltro, si rileva che il dibattito so-ciologico sui bisogni si è concentrato, fino alla critica del “consumismo”, attorno «a una serie di dicotomie che contrappongono i bisogni primari ai bisogni secondari, i bisogni essenziali ai biso-gni inessenziali, i bisogni inevitabili ai bisogni evitabili, i bisogni reali ai bisogni fittizi […]». Si tratta di dicotomie il cui impiego nell’analisi sociologica suscita, in Gallino, una serie argomentata di obiezioni.

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dicativo, perché la loro rilevazione può dipendere in qualche misura dal grado di conoscenza dei reali problemi delle persone al di là delle richieste formulate, dal grado di confidenza raggiunto tra operatore e utente o dalla sensibilità dell’operatore stesso». Per tale ragione si può ritenere che in base alle sperimenta-zioni realizzate fino ad oggi nei vari Centri di Ascolto, i dati registrati in occasio-ne dei colloqui «offrono uno spaccato piuttosto verosimile dei bisogni reali degli utenti Caritas» 14.

Dalla tabella 15 si evince che i bisogni maggiormente rilevati nei CdA fanno riferimento ai problemi di natura economica (33,6%) e di occupazione (22,2%), i quali coprono complessivamente più della metà delle necessità registra-te durante i colloqui. Altrettanto importanti sono le percentuali riguardanti i pro-blemi familiari (11%), nonché le problematiche abitative e di salute (8,0%). TAB. 15. Bisogni delle persone rilevati nei CdA per macro-voci (valori percentuali)

Tipologia di bisogno %

Problemi economici 33,6Problemi di occupazione/lavoro 22,2Problemi familiari 11,0Problematiche abitative 8,0Problemi di salute 8,0Altri problemi 6,0Dipendenze 4,7Handicap/disabilità 2,1Bisogni connessi alle migrazioni 2,1Problemi di detenzione e giustizia 1,4Problemi di istruzione 0,8Totale 100,0

Tra i problemi economici maggiormente segnalati durante i colloqui vi so-no anzitutto quelli concernenti il reddito insufficiente rispetto alle normali esigen-ze, vale a dire una cronica difficoltà a soddisfare con il reddito proprio e/o della famiglia bisogni di carattere ordinario (pari al 45,3% di questa tipologia); oltre a ciò, in questa prima categoria si annoverano anche coloro che non possiedono al-cun reddito, le persone che dimostrano difficoltà a sostenere spese improvvise do-vute a malattie, decessi, processi, ecc., nonché coloro che si trovano in situazione di difficoltà economica per incapacità di gestire in modo adeguato il proprio red-dito (in alcuni casi a rischio di usura).

La seconda tipologia evidenziata dalla tabella (problemi di occupazio-ne/lavoro) raggruppa al proprio interno differenti sottocategorie: anzitutto la quota (più consistente) delle persone in cerca di prima o seconda occupazione; a seguire i sottoccupati, le persone che lavorano in nero, coloro che sono stati licenziati o che si trovano in mobilità.

La terza tipologia (problemi familiari) pone al vertice anzitutto coloro che hanno divorziato o che si sono separati. Seguono coloro che sono stati allontanati dalla propria famiglia o che vivono particolari situazioni conflittuali all’interno

14 CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili…, op. cit., p. 320.

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del contesto familiare. Rilevante è anche la componente di donne non coniugate con a carico uno o più figli.

Sempre dalla tabella 15 si rileva che le problematiche sanitarie e quelle di tipo abitativo (ciascuna con una quota pari all’8%) costituiscono dei motivi im-portanti di disagio per le persone che si rivolgono ai CdA della Sardegna.

Prendendo in esame i dati sui bisogni a livello diocesano (cfr. tab. 16), e confrontandoli con lo scenario regionale, si può notare come i problemi registrati più frequentemente dagli operatori di tutte le diocesi sarde (tranne che nei casi di Nuoro e Alghero-Bosa) siano quelli di natura economica. La mancanza di lavoro, o più in generale le problematiche legate all’occupazione, rappresentano ugual-mente una componente statisticamente rilevante. TAB. 16. Distribuzione per diocesi dei bisogni delle persone rilevati nei CdA per macro-voci

(valori percentuali sul totale di ciascuna diocesi) Diocesi Bisogni rilevati dagli operatori dei CdA (valori percentuali)

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Ales-Terralba 1,6 0,5 3,2 10,0 1,1 0,0 0,0 32,6 42,1 4,7 4,2 190Alghero-Bosa 6,3 0,0 0 18,8 4,1 0,0 2,1 29,2 16,7 4,1 18,8 48Cagliari 13,2 1,6 3,6 8,5 0,5 5,4 0,0 15,0 32,8 13,7 5,7 387Iglesias 4,3 0,6 8,1 8,7 0,6 0,6 0,0 28,6 40,4 7,5 0,6 161Nuoro 10,3 8,6 5,2 15,5 1,7 0,0 0,0 24,1 20,7 6,9 6,9 58Oristano 4,0 0,0 4,0 20,0 0,0 4,0 0,0 20,0 40,0 8,0 0,0 25Ozieri 4,1 0,0 4,1 6,1 2,0 4,1 0,0 24,5 30,6 8,2 16,3 49Sassari 5,6 3,5 3,5 7,6 2,0 0,5 0,0 25,3 45,5 5,6 1,0 198Tempio-Ampurias 9,2 0,5 6,2 14,7 4,7 1,4 2,8 19,1 26,0 6,1 9,2 423

Dato regionale 8,0 1,4 4,7 11,0 2,1 2,1 0,8 22,2 33,6 8,0 6,0 100,0

Si è già scritto che, prima ancora del rilevamento dei bisogni, gli operatori

devono confrontarsi anzitutto con le richieste formulate apertamente dalle perso-ne. Come è ben esplicitato negli approfondimenti metodologici del protocollo di lavoro nazionale del Progetto Rete, le richieste rappresentano «ciò che la persona domanda esplicitamente durante i colloqui con l’operatore del CdA. Non sempre la richiesta coincide con il bisogno rilevato, in parte perché essa è relativa alle a-spettative che la persona nutre verso il centro stesso («cosa riesco ad ottenere»), in parte perché la persona può non avere piena consapevolezza del proprio disagio o avere difficoltà nell’affrontarlo. In questi ultimi casi diventa particolarmente im-portante l’opera del CdA, ossia l’accoglienza tramite l’azione dell’ascolto e, lad-dove è possibile, la successiva presa in carico e l’accompagnamento della persona nella creazione di un progetto di uscita dalla situazione di disagio. Si tratta co-

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munque di dati tendenzialmente più oggettivi rispetto ai bisogni, perché riferiti a richieste formulate esplicitamente dagli utenti dei CdA» 15. TAB. 17. Richieste delle persone rilevate nei CdA per macro-voci (valori percentuali)

Tipologia di richiesta %

Beni e servizi materiali 48,0Sussidi economici 18,0Ascolto 12,9Lavoro 7,7Alloggio 3,9Orientamento 3,6Sanità 2,0Sostegno socio-assistenziale 1,6Coinvolgimenti 1,3Altro 0,4Consulenza professionale 0,4Scuola/istruzione 0,3Totale 100,0

Relativamente al periodo esaminato dalla ricerca, nei CdA coinvolti nel ri-levamento sono state realizzate complessivamente 1.804 registrazioni di richieste. L’esame dei dati a livello regionale (cfr. tab. 17) pone in luce una significativa preponderanza di richieste di beni e/o servizi materiali (48%) e di sussidi econo-mici (18%). Sono comunque importanti le percentuali concernenti le richieste di semplice ascolto (12,9%) e di lavoro (7,7%).

Disaggregando i dati a livello diocesano (cfr. tab.18) si nota come nelle diocesi di Cagliari, Iglesias, Nuoro, Oristano e Ozieri la quota prevalente di ri-chieste riguardi sostanzialmente il denaro. Le richieste di beni e/o servizi materia-li, invece, sono risultate prevalenti nelle diocesi di Ales-Terralba, Sassari e Tem-pio-Ampurias. Si distingue, in questo scenario, la diocesi di Alghero-Bosa, in cui le richieste più frequenti sono state quelle di lavoro 16.

Proprio la richiesta di occupazione, peraltro, risulta la terza tipologia mag-giormente rilevata dagli operatori dei CdA delle diocesi di Ales-Terralba, Iglesias, Oristano, Ozieri (insieme all’orientamento), Sassari e Tempio-Ampurias.

È interessante rilevare, infine, anche alla luce delle altre considerazioni fat-te sulle problematiche registrate dagli operatori, la percentuale piuttosto significa-tiva di richieste di alloggio nel CdA diocesano di Cagliari (la terza tipologia più rilevata).

15 Parti rilevanti degli approfondimenti sui concetti di bisogno, richiesta ed intervento, con-tenute nel protocollo di lavoro, sono state pubblicate nel rapporto nazionale: CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili…, op. cit., p. 323. 16 Va opportunamente rilevato che il CdA di Macomer (della diocesi di Alghero-Bosa) for-nisce esclusivamente un servizio di ascolto e orientamento, senza prevedere l’erogazione diretta di sussidi economici e beni o servizi materiali. Questo aspetto, soprattutto se conosciuto preventiva-mente dalle persone che si rivolgono al CdA, induce ad orientare le tipologie di richieste, limitan-do in qualche modo quelle di tipo economico e/o materiale

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TAB. 18. Distribuzione per diocesi delle richieste rilevate nei CdA per macro-voci (valori percentuali sul totale di ciascuna diocesi)

Diocesi Richieste registrate dagli operatori dei CdA

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Ales-Terralba 0,2 15,8 81,3 0,5 0,2 1,3 0,5 0,0 0,0 0,0 0,3 0,0 631 Alghero-Bosa 2,8 13,9 5,6 0,0 2,8 27,8 13,9 5,6 0,0 8,3 13,9 5,5 36 Cagliari 16,3 2,8 22,7 0,4 1,6 14,7 5,6 6,0 0,0 0,8 28,7 0,4 251 Iglesias 4,7 7,4 19,9 0,0 0,5 9,9 7,9 3,1 1,0 0,0 45,0 0,5 191 Nuoro 3,8 15,4 19,2 0,0 0,0 7,7 0,0 0,0 0,0 0,0 53,8 0,0 26 Oristano 3,4 0,0 31,1 0,0 0,0 17,2 6,9 0,0 3,4 3,4 34,5 0,0 29 Ozieri 0,0 3,4 20,7 0,0 0,0 13,8 13,8 0,0 0,0 10,3 37,9 0,0 29 Sassari 2,0 0,8 43,5 1,2 0,0 7,5 4,3 3,9 0,0 0,0 36,5 0,4 255 Tempio-Ampurias 3,4 27,8 35,1 4,5 0,0 9,8 3,1 0,8 0,6 5,3 8,7 0,8 356

Dato regionale 3,9 12,9 48,0 1,3 0,4 7,7 3,6 2,0 0,3 1,6 18,0 0,4 100,0

4. Alcuni cenni sui bisogni degli immigrati

Al secondo paragrafo del presente capitolo si è già fatto cenno al numero degli stranieri rivoltisi ai Centri di Ascolto nel periodo considerato dalla ricerca (129), pari al 18,3% di tutte le persone ascoltate 17. Di questi, soltanto in 111 casi è stato possibile risalire alla nazione di provenienza.

Sulla base dei dati disponibili, la figura 5 pone bene in luce la netta pre-ponderanza delle persone provenienti dal continente europeo (circa il 55%, consi-derando unitamente le persone giunte dai Balcani con quelle provenienti dall’Europa centrale ed orientale), anche se la componente africana è in ogni caso piuttosto significativa (38,7%). Da rilevare, inoltre, che l’unico caso di ascolto di persona proveniente dal continente asiatico è stato quello relativo ad un pakistano.

Considerando i dati sulla provenienza più nel dettaglio, risulta evidente la preminenza di persone provenienti dalla Romania (pari al 37,8%). A questo pro-posito, peraltro, bisogna segnalare che all’interno di questo gruppo nazionale sono stati registrati anche diversi nomadi, i quali rappresentano circa il 22% di tutte le persone provenienti da quella nazione. Fra gli africani, invece, il gruppo nazionale a registrare una netta preponderanza (con il 55%) è quello marocchino. 17 Sulla distribuzione dei soggiornanti stranieri nelle Province della Sardegna, con dati ag-giornati al 31/12/2005, si veda il capitolo da noi curato del Dossier Statistico Immigrazione Cari-tas/Migrantes, dal titolo Sardegna. Rapporto Immigrazione 2006, in «Dossier Statistico Immigra-zione 2006», XVI Rapporto sull’immigrazione in Italia, Caritas – Fondazione Migrantes, IDOS, Roma 2006, pp. 462-466.

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FIG. 5. Distribuzione degli stranieri per area geografica di provenienza (valori percentuali)

Balcani8,1%

America Latina5,4%

Asia0,9%

Europa centrale ed orientale46,8%

Africa38,7%

TAB. 19. Distribuzione per nazione di provenienza degli immigrati ascoltati nei CdA (valori percentuali)

Nazione di provenienza %Romania 37,8Marocco 21,6Senegal 8,1Ucraina 7,2Serbia 4,5Tunisia 4,5Albania 1,8Bosnia-Erzegovina 1,8Brasile 1,8Nigeria 1,8Perù 1,8Algeria 0,9Bolivia 0,9Ecuador 0,9Germania 0,9Kenya 0,9Pakistan 0,9Russia 0,9Sudan 0,9Totale 100,0

Dati disponibili relativi a 111 su 129 immigrati ascoltati

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Della maggior parte degli stranieri ascoltati dagli operatori, peraltro, è sta-to possibile risalire anche alla data di nascita; il che ci consente di affermare che si tratta per lo più di persone relativamente giovani (con un’età media di circa 37 anni), la maggior parte delle quali coniugate (nel 60,7% dei casi). Un quarto risul-ta invece non ancora sposato. Una percentuale minoritaria, in ogni caso importan-te (15,2%), ha dichiarato di trovarsi nella condizione di “senza dimora”.

Per quanto riguarda il livello di istruzione, purtroppo, i dati a disposizione registrano delle lacune piuttosto consistenti. Infatti, su 129 stranieri ascoltati, è stato possibile risalire a tale indicatore solamente nel 40% dei casi. Rispetto ai dati disponibili si può rilevare che un quarto è analfabeta o non possiede alcun titolo di studio; il 13,5% ha un livello di istruzione basso e un altro quarto ha un livello di istruzione medio-basso; ad avere complessivamente un livello di istruzione alto o medio-alto è una quota corrispondente al 36,5%.

Per quanto concerne la distribuzione per diocesi, dalla tabella 20 si può no-tare come siano i CdA di Tempio-Ampurias, Cagliari e Sassari ad aver ascoltato il maggio numero di stranieri (complessivamente nel 91,5% dei casi). Da notare, pe-raltro, che in due casi (Alghero-Bosa e Nuoro) non si rilevano ascolti effettuati a cittadini stranieri. Sempre dalla tabella 20, considerando la variabile di genere, si ricava che a prevalere a livello regionale è la componente femminile.

TAB. 20. Distribuzione per diocesi e genere degli immigrati ascoltati nei CdA

Diocesi Valori percentuali

Maschi Femmine % sul totale regionaleAles-Terralba 33,3 66,7 2,3Alghero-Bosa 0,0 0,0 0,0Cagliari 68,2 31,8 34,1Iglesias 60,0 40,0 3,9Nuoro 0,0 0,0 0,0Oristano 0,0 100,0 1,6Ozieri 100,0 0,0 0,8Sassari 27,8 72,2 14,0Tempio-Ampurias 39,3 60,7 43,4Totale 48,1 51,9 100,0

Dati relativi alla totalità degli immigrati ascoltati Passando all’analisi dettagliata dei dati relativi ai bisogni rilevati dagli o-

peratori, è opportuno precisare anzitutto che la tabella 21, contenendo esclusiva-mente i dati sugli stranieri, con la colonna denominata “problematiche migratorie” ha lo scopo di includere in modo specifico le seguenti tipologie di bisogni rilevati nei vari CdA: espulsione dallo Stato italiano; irregolarità giuridica (derivante dal non essere in possesso del visto di ingresso o del permesso di soggiorno); ricon-giungimento familiare e mancato riconoscimento dei titoli di studio 18.

18 Per un raffronto con i dati nazionali riguardanti i bisogni degli immigrati si rinvia al Dos-sier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, in particolare al capitolo dal titolo I bisogni degli immigrati: rilevazione dei Centri di Ascolto Caritas (a cura di Francesca Levroni e Renato Mari-naro), Ivi, pp. 215- 224.

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TAB. 21. Distribuzione per diocesi dei bisogni degli immigrati rilevati nei CdA per macro-voci (valori percentuali sul totale di ciascuna diocesi)

Diocesi Bisogni rilevati dagli operatori dei CdA (valori percentuali)

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Ales-Terralba 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0 0,0 0,0 1Alghero-Bosa 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0Cagliari 14,3 0,0 0,0 9,1 0,0 27,3 0,0 18,2 23,4 5,2 2,6 77Iglesias 10,0 0,0 0,0 30,0 0,0 10,0 0,0 10,0 30,0 10,0 0,0 10Nuoro 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0Oristano 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 25,0 0,0 0,0 75,0 0,0 0,0 4Ozieri 25,0 0,0 0,0 12,5 0,0 25,0 0,0 12,5 12,5 12,5 0,0 8Sassari 8,6 0,0 0,0 5,7 0,0 2,9 0,0 37,1 45,7 0,0 0,0 35Tempio-Ampurias 12,3 0,0 2,2 5,1 0,7 4,3 6,5 28,3 29,0 3,6 8,0 138

Dato regionale 12,5 0,0 1,1 7,3 0,4 11,7 3,3 24,9 30,0 4,0 4,8 100,0

A livello regionale, i bisogni degli stranieri maggiormente rilevati dagli

operatori dei CdA fanno riferimento anzitutto ai problemi di natura economica (30,0%). Seguono, poi, le necessità legate al lavoro (24,9%), alla ricerca di una prima abitazione o di un’abitazione migliore (12,5%), nonché quelle associate ti-picamente alle problematiche migratorie (11,7%).

Disaggregando i dati a livello diocesano la distribuzione non subisce mu-tamenti sostanziali, il che significa che i problemi economici risultano essere in cima alle necessità rilevate in quasi tutti i CdA (tranne che a Cagliari, in cui pre-valgono i problemi legati all’immigrazione, o ad Ozieri – problematiche immigra-torie ed abitazione). Sono da notare, fra gli altri, anche i bisogni di salute registrati nei CdA di Iglesias e di Ozieri, nonché le problematiche abitative registrate nei CdA di Cagliari, Iglesias, Ozieri, Sassari e Tempio-Ampurias.

In conclusione di questo capitolo ci soffermiamo brevemente nell’analisi dei dati relativi alle richieste effettuate dagli stranieri. A questo proposito la tabel-la 22 pone chiaramente in luce la concentrazione delle richieste su due versanti prevalenti: i beni e/o servizi materiali da un lato (fra cui vestiario, viveri, biglietti per viaggi, ecc.) e dall’altro i sussidi economici per acquistare alimenti, per far fronte alle spese sanitarie o al fine di provvedere al pagamento dell’alloggio.

Fra le richieste prevalenti vi sono anche quelle che riguardano il semplice ascolto (13,3%) e il lavoro: un dato, quest’ultimo, non trascurabile (con una per-centuale sul livello regionale pari all’11,8%), soprattutto se si considera il vincolo previsto dall’attuale normativa italiana in materia, segnatamente per quanto attie-ne il rilascio del permesso di soggiorno. Si segnala, inoltre, il dato rilevante di ri-chieste di alloggio effettuate nel CdA di Cagliari.

È interessante notare, infine, come le voci corrispondenti ad alcune tipolo-gie di richieste indicate in tabella, fra cui “consulenza professionale”, “orienta-

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mento”, “scuola/istruzione”, registrino dei valori percentuali inferiori al 2 per cen-to o pari a zero.

TAB. 22. Distribuzione per diocesi delle richieste degli immigrati rilevate nei CdA per macro-voci

(valori percentuali sul totale di ciascuna diocesi)

Diocesi Richieste registrate dagli operatori dei CdA

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Ales-Terralba 0,0 0,0 85,0 5,0 0,0 10,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 20 Alghero-Bosa 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0 Cagliari 19,2 5,8 21,2 0,0 0,0 11,5 1,9 9,6 0,0 1,9 28,8 0,0 52 Iglesias 0,0 14,3 28,6 0,0 0,0 14,3 0,0 0,0 0,0 0,0 42,9 0,0 7 Nuoro 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0 Oristano 0,0 25,0 50,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 25,0 0,0 4 Ozieri 0,0 0,0 20,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 80,0 0,0 5 Sassari 2,6 5,3 36,8 0,0 0,0 13,2 0,0 2,6 0,0 0,0 39,5 0,0 38 Tempio-Ampurias 0,7 20,4 39,4 3,6 0,0 12,4 2,9 0,0 0,0 5,8 12,4 2,2 137

Dato regionale 4,6 13,3 38,4 2,3 0,0 11,8 1,9 2,3 0,0 3,4 20,9 1,1 100,0

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CAPITOLO QUARTO IL DISAGIO VISSUTO E RACCONTATO. LE “CARRIERE DI POVERTÀ” NELLE INTERVISTE BIOGRAFICHE 1. Gli aspetti principali riguardanti il disegno dell’indagine qualitativa

La lettura incrociata dei dati di tipo quantitativo con le percezioni emerse nei vari contesti locali, in occasione dei focus group realizzati con gli operatori delle Caritas, ha permesso di predisporre un protocollo di lavoro in grado di ap-profondire la conoscenza delle situazioni di disagio più frequenti, in particolare attraverso l’ascolto diretto dei protagonisti: le persone in difficoltà che si sono ri-volte ai Centri di Ascolto.

Peraltro, attraverso lo strumento dell’intervista discorsiva guidata 1, è stato possibile ricomporre i vissuti del disagio sia in una prospettiva biografica (rico-struendo le cosiddette “carriere di povertà”), sia collocando le singole “storie di vita” all’interno di alcune tipologie familiari.

Il piano della distribuzione delle sedici interviste ha coinvolto l’ottanta per cento delle diocesi sarde 2, permettendo di esplorare nove tipologie particolari ed includendo anche due interviste a cittadini stranieri (vedi tab. 1). Le interviste so-no state realizzate dai referenti locali del progetto, per mezzo di un canovaccio, opportunamente predisposto, contenente la mappa delle principali aree tematiche da indagare (vedi tab. 2). Nello specifico, per ricomporre i percorsi di povertà ed esclusione sociale rilevati nei luoghi di ascolto, gli intervistatori hanno esplorato alcuni aspetti nodali riguardanti la genesi degli stati di difficoltà, il ruolo esercita-to dai servizi (formali ed informali), nonché le prospettive per il futuro personale e familiare.

L’utilizzo di questa particolare metodologia di tipo qualitativo ha permes-so di cogliere diversi aspetti interessanti sui fenomeni di impoverimento a livello personale e familiare, non rintracciabili immediatamente attraverso il solo approc-cio quantitativo. Se è vero che non tutte le persone che si sono avvalse del soste-gno dei Centri di Ascolto si riferiscono a nuclei familiari con più membri (come ad esempio nel caso degli immigrati soli, dei single, dei vedovi soli o dei separa-ti/divorziati soli), è altrettanto vero che la maggior parte delle situazioni di disagio delle persone rilevate dagli operatori rimandano, direttamente o indirettamente, a una precisa dimensione familiare. Nella maggior parte delle “storie di vita” ascol-tate dagli operatori delle Caritas, infatti, è presente un nucleo familiare che vive

1 Sul concetto di “intervista discorsiva guidata” si vedano gli approfondimenti contenuti nell’appendice metodologica. 2 In particolare: Ales-Terralba, Alghero-Bosa, Cagliari, Iglesias, Nuoro, Ozieri, Sassari e Tempio-Ampurias.

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una o più situazioni di disagio associate al verificarsi di particolari eventi critici normativi o non normativi 3. TAB. 1. Piano di distribuzione regionale delle interviste biografiche Profilo delle persone intervistate

Numero di interviste

Donne coniugate che vivono in nucleo con propri familiari (casalinghe, con livello di istruzione medio-basso) 3

Vedove (sole o con figli a carico) 2

Persone che hanno costituito famiglie di fatto (con o senza figli) 2

Giovani che vivono in nucleo con propri familiari (disoccupati, con livello di istru-zione medio e medio-basso)

2

Uomini coniugati che vivono in nucleo con propri familiari (pensionati, con livello di istruzione basso)

1

Donne divorziate o separate 1

Donne piuttosto giovani 1

Donne con grave disagio mentale 1 Uomini piuttosto anziani

1

Immigrati (uomini e donne) 2

3 A questo proposito è bene sottolineare come, dal punto di vista teorico, l’analisi del con-tenuto delle interviste ha seguito il solco tracciato dall’approccio microsistemico. Tale approccio è stato adottato anzitutto in occasione dell’indagine condotta a livello nazionale, come viene esplici-tato nel volume Vite fragili. Si veda, nel dettaglio, il capitolo decimo curato da W. NANNI, Percor-si di vita, tra fragilità e risorse, in CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili.., op. cit., pp. 344 e seg. L’autore, in particolare, rileva che la letteratura in materia distingue tra e-venti critici normativi e non normativi. I primi corrispondono a situazioni naturali, le quali «si vengono a determinare in seguito all’entrata o all’uscita dalla famiglia di uno dei suoi componenti (per matrimonio, nuova nascita, morte, ecc.) oppure allo sviluppo individuale dei singoli membri (pubertà, adolescenza, maturità, pensionamento, vecchiaia, ecc.)». Gli eventi critici non normativi, invece, sono riconducibili «ad avvenimenti imprevedibili, legati a situazioni che riguardano la vita della coppia (separazione, divorzio), la vita professionale (licenziamento), vari fatti ed episodi che possono colpire accidentalmente uno dei membri della famiglia (incidenti, malattie, carcerazioni) oppure fenomeni macro-sociali di origine complessa (migrazione, guerra)». Nell’ambito di queste due categorie, peraltro, vi sono coloro che sostengono la teoria dell’evento centrale (l’evento più importante che ha generato a cascata tutti gli altri) e quanti ritengono, invece, che si debba parlare più correttamente di una successione di eventi critici più o meno collegati fra loro.

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TAB. 2. Mappa delle aree tematiche esplorate nel corso delle interviste biografiche

La storia della famiglia Genesi e cause del disa-gio

La situazione attuale del disagio familiare

La rete relazionale (famiglia, amici, vicina-

to…)

Le reti di assistenza (for-mali ed informali)

Prospettive e progetti futuri

Sviluppando l’esposizione su tre distinti livelli di analisi (la genesi e la na-

tura del disagio, le reti relazionali e di assistenza, le prospettive e i progetti per il futuro), i paragrafi che seguono prendono in considerazione, come veri e propri nuclei tematici, alcune particolari tipologie; in particolare: il disagio al femminile, le famiglie di fatto, i giovani, gli anziani e gli immigrati.

Le persone intervistate hanno avuto la possibilità di parlare di sé e della propria famiglia in totale libertà, senza essere vincolate al rispetto di una sequenza ben precisa di argomenti. Tuttavia, era compito dell’intervistatore proporre dei rimandi puntuali ai nuclei tematici indicati nella tabella 2, favorendo l’approfondimento sia della dimensione personale sia di quella familiare del disa-gio.

Superata una naturale resistenza iniziale, quasi tutti gli intervistati hanno apprezzato l’occasione offerta loro per aprirsi, raccontarsi ed essere ascoltati (nel rigoroso rispetto dell’anonimato). Pur essendo rintracciabili molteplici elementi in comune, segnatamente per quanto attiene la multiproblematicità e la fragilità – in potenza o in atto – registrata nella famiglia di origine, le persone hanno posto in luce l’unicità della propria “storia di vita”. Oltre a ciò, dall’analisi del contenuto delle interviste risultano determinanti, nel cogliere le diversità di profilo biografi-co delle persone intervistate, anche le differenti modalità con cui le stesse hanno reagito sia agli eventi critici normativi che a quelli non normativi intercorsi. 2. Quando il disagio ha il volto di una donna Delle sedici interviste effettuate nelle diocesi sarde, la maggior parte ha vi-sto protagoniste delle persone di sesso femminile, coerentemente con i dati emersi dall’indagine quantitativa e con le percezioni registrate dagli operatori dei Centri di Ascolto. In questa sezione sono state considerate le situazioni di disagio vissute da tre donne coniugate, due vedove ed una donna separata. In ultimo, si è presa in esame la storia di una donna con grave disagio mentale.

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2.1. Donne, mogli e madri

Dall’analisi del contenuto di queste tre interviste si coglie, anzitutto, il per-sistere di situazioni di povertà economica per lo più legate alla condizione lavora-tiva, in modo particolare del coniuge. In diversi casi ci si trova di fronte non tanto all’assenza assoluta di reddito quanto invece all’insufficienza dei mezzi economi-ci per far fronte ai bisogni ordinari della famiglia, aggravati da malattie improvvi-se di uno dei membri o dal verificarsi di particolari circostanze che hanno turbato l’equilibrio familiare.

Rispetto alle tre donne intervistate (tutte con un livello di istruzione me-dio-basso, coniugate e con figli nati subito dopo il matrimonio) il disagio ha ri-guardato in tutti i casi la precarietà lavorativa o la totale mancanza di lavoro. Nel primo caso, inoltre, si sommano problemi diversi, fra cui un progetto emigratorio non andato a buon fine e l’esistenza di dipendenze da alcol e forme di disagio mentale nella famiglia d’origine, come si evince dallo stralcio dell’intervista 4. Prima intervista: donna coniugata, madre D.: Perché siete tornati in Sardegna? R.: Siamo tornati in Sardegna perché avevamo nostalgia, perché mica si dimentica la tua terra, pensavamo che ci fosse lavoro, tanto lavoro e anche perché c’era la mamma di B. Invece lavoro non se ne trovava e siamo dovuti ripartire subito […]. Poi siamo rientrati perché era morta mia mamma […] e per guardare mio padre e due dei miei fratelli siamo scesi in paese […] e vivevamo tutti insieme, però la cosa era diversa. Purtroppo non andavamo d’accordo perché eravamo uno a destra e uno a sinistra, miei fratelli hanno problemi, uno ha un ritardo mentale, beve e a volte, quando i bambini erano piccoli li portava con lui per farli rubare; l’altro ha problemi, come si dice, psichici, e anche lui quando non prende la medicina fa casino, e volevano che lavorasse solo mio marito […]. Poi mio marito ha voluto andare a vivere per conto nostro. D.: Ma in quel periodo B. stava lavorando? R.: Sì, ma a sbalzi […] ha lavorato un piccolo periodo, un paio di mesi fa in […] una ditta esterna, fino a quando si è sentito male e lo hanno ricoverato d’urgenza con un’ulcera perforante e lo hanno operato subito… e ci siamo accorti che non era assicurato […]. A volte lavora in campagna ma spesso non lo pagano […]. D.: Per il fatto assicurativo e previdenziale, quando B. è stato male, avete fatto qualcosa? R.: No, perché purtroppo cosa fai? Non si può denunciare un padrone, il lavoro è poco e bisogna fare così, perché B. ha l’età che ha e a questa età lavoro non ne trova ormai […]. D.: Hai lavorato anche tu? R.: Sì D.: Che lavori hai fatto? R.: Ho lavorato al ristorante […] e facevo le pulizie. Poi ultimamente andavo a guardare una si-gnora anziana, che pretendeva molto e poi non voleva pagare. Mi ha tenuto un mese e mi ha dato di meno di quello che mi doveva e poi ha messo un pacco di zucchero sul tavolo e me lo ha dato in modo brutto, come i soldi. Poi lei è morta e non ho più lavorato. Anche nel secondo caso è rilevabile un contesto di disagio derivante dalla precarietà occupazionale del coniuge – estesa anche all’intervistata –, ancora una volta riconducibile all’esistenza di situazioni di lavoro irregolari; un fenomeno che, stando al numero piuttosto elevato di vicende registrate nei CdA, meriterebbe quantomeno una maggiore attenzione da parte delle autorità ispettive preposte.

4 Il testo degli stralci è riportato rispettando fedelmente la trascrizione delle interviste ed omettendo, opportunamente, ogni riferimento personale.

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Seconda intervista: donna coniugata, madre R.: Tutto è iniziato quando mio marito ha perso il lavoro, con le conseguenti difficoltà a mantenere noi stessi e i nostri due figli […]. Lavorava in un’impresa di costruzioni, da ben 17 anni e sempre in nero. Quando non ce la fatta più... e ha richiesto di essere regolarizzato, è stato immediatamente licenziato e, solo per ottenere ciò che gli spettava, ha denunciato il suo datore di lavoro. Da quel momento mio marito non è più riuscito a trovare un’occupazione stabile e deve accontentarsi di lavori saltuari; per aiutarlo ho lavorato e continuo a farlo come donna delle pulizie, in nero, per 6 euro l’ora. Adesso, con i nostri lavori saltuari riusciamo ad avere poco danaro, che viene subito inghiottito dalla spese per la luce e l’acqua e per il nostro sostentamento; per poter risparmiare qualcosa abbiamo dovuto staccare la linea del telefono, ma non posso negare che sostenere il costo della vita è difficile […]. Devo dirvi che la causa contro il suo datore di lavoro è stata vinta da mio marito. L’ex datore è stato condannato […]: dovrebbero risarcirci con un assegno […]. Nel terzo caso sono ugualmente rintracciabili situazioni di fragilità deri-vanti dalla precarietà occupazionale del coniuge, cui si sommano dei rapporti con-flittuali con la famiglia d’origine e dei forti disagi registrati in seno al proprio nu-cleo familiare, in particolare riguardanti il figlio maschio. Terza intervista: donna coniugata, madre R.: la storia della mia famiglia è molto triste… Io, a 16 anni, ho lasciato la mia famiglia…ero in-cinta, abitavo a […]… la mia famiglia abita lì…che errore ho fatto! Adesso me ne pento, lo sai?... Se ci penso vorrei tornare indietro. Poi mi sono sposata, […], ho cinque figli. Mio marito fa solo lavori stagionali, lavora sei mesi all’anno… ma non è questa la cosa più grave […] ... mio figlio è schizofrenico…ha solo […] anni e pensa alla morte…ha la mente di un bambino… si droga […]… mie figlie non stanno più a casa mia… non le vedo più… quella più grande lavora […]… se mi vede in strada non mi guarda in faccia … non mi vuole più vedere […]. Anche l’altra mia figlia di […] anni è voluta andare via di casa […]…io penso che questa è la maledizione di mia madre, lo sai?… perché quando sono andata via di casa lei mi ha detto che mie figlie avrebbero fatto la stes-sa cosa a me… ed è successo così!… io ci credo a queste cose. Il mio figlio più piccolo ha […] anni, abita con mia comare… perché io sono stata male… ho avuto un tumore alla gola… e non ce la facevo a prendermi cura di lui… però ogni tanto lo vedo… lui lo sa chi sono io […]… con me vive l’altro figlio piccolo. Riguardo alle reti di sostegno si può considerare come sia difficile, in que-ste come in altre interviste, rintracciare dei legami favorevoli con il vicinato e, ta-lune volte, con la stessa famiglia di origine: la maggior parte delle situazioni di di-sagio, infatti, segue il canale tradizionale dei servizi pubblici e, non di rado, del privato sociale. Prima intervista: donna coniugata, madre D.: Quando siete stati nella situazione di bisogno a chi vi siete rivolti per avere un aiuto? R.: Abbiamo chiesto aiuto a […], al Parroco, ai sociali, come si dice…assistenti sociali, che ci hanno aiutato un po’ per qualche bolletta e poi alla Caritas che ci ha aiutato molto. D.: Come vanno i tuoi rapporti con il vicinato? R.: […] non vado d’accordo con nessuno perché sono tutti criticoni e gelosi, sto meglio da sola. Qui affianco abita mio compare, che siamo anche parenti, ma non ci parliamo. In famiglia neanche per sogno, con mia sorella a volte ci vediamo da sole […]. Alcune volte capita che lo stesso intervento delle reti del circuito ecclesia-le, in particolare quello parrocchiale, venga percepito come ostile e pertanto da e-vitare, fino ad arrivare a mettere in discussione (in una sorta di antagonismo fra

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poveri, assai diffuso in queste circostanze) il metodo stesso attraverso cui viene erogato il sostegno. Seconda intervista: donna coniugata, madre D. E il vostro parroco? R.: Preferiamo non rivolgerci a lui perché, quando andiamo in parrocchia o l’aiuto ci viene negato o ci sentiamo giudicati. Abbiamo bisogno di danaro: non solo per pagare i 400 euro, anche per la bolletta dell’acqua, che è stata rateizzata; penso di farmeli prestare dalla mia datrice di lavoro. Non hanno rifiutato un aiuto solo a noi, quelli della Caritas parrocchiale, ma anche ad altre persone che ne avevano bisogno. [Con i vicini] non ci intendiamo per niente, perché abbiamo dovuto subire ogni genere di cattiverie, fino alle denunce […]. In questo quartiere viviamo male e oltretutto sono diventata diffidente verso gli altri […]. Devo soffermarmi su una cosa: proviamo molto fastidio nel vedere che gli aiuti della Caritas vadano a persone che non ne hanno bisogno perché, in questo modo, sottraggono l’aiuto alle persone che hanno necessità.

Non molto diverso lo scenario che si ricava dall’analisi del contenuto della terza intervista, in cui emergono ancora una volta dei fragili rapporti con le reti di sostegno familiare ed un rapporto con i servizi pubblici non sempre improntato all’ascolto.

Terza intervista: donna coniugata, madre R.: La mia famiglia è lontana…non li vedo mai, io non guido…con la famiglia di mio marito non ho nessun rapporto… D.: A quali servizi vi siete rivolti per trovare aiuto? R.: Qui alla Caritas mi hanno sempre aiutato, anche nella mia parrocchia…ma non tanto. Una ma-estra viene a casa ad aiutare […] per i compiti… I servizi sociali mi danno un sussidio ma non ar-riva sempre…. l’assistente sociale mi dice sempre che per […] non può fare niente perché ormai è maggiorenne….dice sempre che doveva restare in comunità…Qualche volta non mi ascoltano proprio.

In tutti i casi esaminati in questa sezione, il futuro rappresenta un orizzonte dai contorni assolutamente vaghi. Si va da progetti genericamente pessimistici ad atteggiamenti, non meglio definiti, sganciati da qualsiasi riferimento reale alla di-mensione del disagio. Seconda intervista: donna coniugata, madre R.: Su questo risarcimento [dell’ex datore di lavoro] stiamo facendo molti progetti. Me ne preme uno, soprattutto: andare a Padova per visitare la Basilica di Sant’Antonio […]. Le cose cambiereb-bero se avessimo i soldi del risarcimento. Ho anche pensato a come utilizzarli: una parte per la be-neficenza della nostra parrocchia, il resto per ristrutturare casa nostra e vivere con un po’ più di tranquillità. Pensavo anche di investirne una parte per avviare un’attività, gestita da mio marito.

D’altra parte, non si può trascurare di rilevare che, in luogo di una inde-terminatezza circa il futuro prossimo, prevalga in modo pressante, nelle persone intervistate, il bisogno di soddisfare necessità molto concrete ed immediate, per-cepite come assolutamente prioritarie rispetto a qualsiasi altro “sogno nel casset-to”.

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2.2. Vedove sole o con figli a carico Rispetto a questa tipologia di persone, nella maggior parte delle situazioni il disagio riguarda prevalentemente la sfera economica, in particolare a causa del possesso di pensioni di reversibilità inadeguate rispetto ai bisogni ordinari. Peral-tro, nel caso della prima delle due interviste è il vissuto negativo di solitudine (pur trattandosi di una donna i cui figli si recano spesso a farle visita, badando alle sue necessità pratiche), accompagnato da non pochi problemi di salute fisica, che condiziona fortemente il benessere della persona. Prima intervista: vedova, sola R: […] mio marito aveva 62 anni quando è morto. D: È morto di malattia? R: Sì di cancro allo stomaco. D: Quindi da allora lei è stata sola? R: Sono sempre sola […]… ci veniva qualcheduno ma erano quei due minuti e poi se ne andavano ed io vorrei compagnia per tutto il giorno […]. D: Ritorniamo alla sua vita attuale, di cosa vive? Della pensione? R: Eh sì, buona parte vanno in medicine […] cinquanta mila li… cinquanta euro sono partiti… D: Ha delle patologie particolari? Ha particolari problemi di salute? R: Eh… i dolori, adesso mi è venuta quest’ansia che non c’è la faccio a mandarla via, e credo pro-prio che sia questa solitudine che ho passato quest’inverno. Però è sempre così, prima potevo camminare ma adesso la schiena non molla più a camminare; ci ho un ginocchio che è veramente a terra […] e così aspettiamo quello che manda il Signore. Nel caso della seconda intervista, invece, si rilevano sia problemi legati al-lo scarso livello di reddito che alcuni conflitti più o meno manifesti con i figli, resi più acuti dopo la morte del marito. Seconda intervista: vedova, con figli a carico R: […] non ho mai avuto il bisogno di pensarci, ma dopo che è morto lui tutte le cose messe in-sieme… io ero ossessionata, proprio di questa storia; mi è rivenuta in mente ed ero proprio osses-sionata, lui non lavorava… D.: Era disoccupato? R.: Sì, sì. No, già ci siamo sempre arrangiati. No, ha lavorato come manovale. Ha lavorato in fer-rovia, ha lavorato…a sacrifici però. R.: […] Dopo che eravamo sistemati mi hanno dato il colpo di grazia. D.: Lui, era malato? R.: Lui aveva, soffriva di artrite reumatoide però… Andava bene. Lui aveva un… tumore e non glielo hanno mai riconosciuto. […]. D.: Da quando lui è morto, lei, usufruisce di qualche pensione? R.: Sì, prendo la pensione di quattrocento euro al mese…che non è niente…per i miei figli. Oggi come oggi, non ho neanche i soldi per comprare il pane e neanche per comprare lo yogurt a mia figlia […]. D.: Che rapporto ha con i suoi figli? R.: Non lo so. Secondo me, mi danno colpa… D.: Per che cosa? R.: Perché è morto il padre, invece, dovevo morire io.

È interessante notare come nel primo caso, pur attingendo pienamente alla rete familiare (dei figli e dei coniugi di questi) per assolvere alle necessità di tipo

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quotidiano (pulizia della casa, preparazione dei pasti, ecc.), la persona senta il bi-sogno di ricorrere al Centro di Ascolto per colmare il suo desiderio di compagnia.

A ricorrere agli operatori della Caritas, semplicemente per trovare un’occasione di dialogo, è anche la seconda persona intervistata, la quale si è av-valsa dei servizi sociali per i problemi derivanti dalla mancanza di reddito del ma-rito, nel periodo in cui aveva unicamente delle occupazioni precarie. Seconda intervista: vedova, con figli a carico D.: Lei si è sempre rivolta all’assistente sociale che vi ha sempre aiutati nelle difficoltà più grandi: la casa, il lavoro…poi è venuta al Centro di Ascolto della Caritas… R.: Sì, ogni tanto vengo anche per parlare. D.: Trova sostegno quando viene qui? R.: Sì, sì… me ne vado [anche] da mia comare a vedere la mia figlioccia che mi ha aiutato molto dopo che è morto mio marito. Mi ha aiutato molto avere questa figlioccia […] Nel primo caso le prospettive per il futuro appaiono piuttosto chiare. Prima intervista: vedova, sola R: […] me ne andrò dai miei figli o me ne andrò nell’ospizio anch’io…non lo so. Eh. Non so cosa farò…, ancora poco poco mi reggo e così. D: Quindi sta valutando cosa fare… R: Il fatto è che se vado in ospizio ci vogliono molti soldi e non so se ce la faccio e si aggiusteran-no i miei figli non mi butteranno via. Eh… o pensano da una parte o pensano dall’altra se non ce la farò […]. Non è che mi piace andarmene via di casa, non mi piace, non mi piace. Adesso se fosse stato qui quest’ospizio se l’avevano aperto l’ospizio che c’è. C’è qui l’ospizio però non è stato mai utilizzato… non è stato mai utilizzato.

Nel secondo caso, invece, ci troviamo di fronte ad un approccio rispetto al futuro prevalentemente orientato sui figli; una prospettiva, questa, più che altro considerata come un elemento di riscatto da un vissuto di disagio alquanto lace-rante e non del tutto rimosso.

Seconda intervista: vedova, con figli a carico D.: Per il futuro? R.: Che prospettive ci sono qui? Non ci sono. D.: Ha provato a cercare qualche altro lavoro? R.: A me, mi bastava un lavoro per mia figlia e basta. Un lavoro per loro e basta. D.: Vorrebbe sistemare sua figlia? R.: Si, trovare un lavoretto a lei e basta. 2.3. Donna separata Nel caso dell’intervista ad una donna separata è stato possibile rilevare una serie complessa di situazioni di disagio. Uno degli elementi preponderanti, tutta-via, è correlato all’indebolimento del livello del reddito (con un assegno di man-tenimento insufficiente a far fronte alle normali esigenze) associato alla mancanza di lavoro. Oltre a ciò, il contenuto dell’intervista pone in evidenza una situazione

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abitativa precaria ed alcuni problemi di salute che indeboliscono il livello di be-nessere generale della persona intervistata. Donna separata R.: Mi sono sposata molto giovane, avevo solo 24 anni, mio marito 28 [lavorava in un negozio di ferramenta], mentre io lavoravo come ricamatrice e maglierista: avevamo due buoni stipendi, ci amavamo, vivevamo da soli in un appartamento, eppure c’erano già nel periodo iniziale dei pro-blemi, perché dovevamo subire l’ingerenza e la prepotenza di mia suocera. Pensi che eravamo ob-bligati a donarle una parte alta dei nostri stipendi: veniva a trovarci solo per chiederceli […] eppu-re, nonostante tutte queste difficoltà iniziali, sembrava che avessi l’argento vivo addosso […], il rapporto con mio marito era bellissimo […]. D.: E poi, cosa è successo? R.: Le difficoltà sono aumentate e la causa di tutto è mia suocera, la sua invadenza e la sua gelosia […]. Da mia suocera ho dovuto sopportare di tutto: dalla mancanza di rispetto per la mia persona e la mia fede, alle offese e ai maltrattamenti fisici quando non potevo darle dei soldi. Per le botte prese ho avuto due aborti e una delle gravidanze l’ho passata a letto; successivamente mio marito ha avuto gravi crisi depressive, e quando ne soffriva anche lui mi picchiava […]. D.: E adesso… R.: Dopo tanti maltrattamenti ho preso il coraggio in mano e, contro la mia fede, mi sono separata da mio marito. Dopo una lunga trafila ho ottenuto la separazione e un assegno di mantenimento, prima di 400 euro e successivamente di 540 euro. Non sono riuscita ad ottener altro. Vivo in una camera in affitto con problemi di umidità, non posso lavorare e ultimamente l’assegno di mante-nimento è stato diminuito in modo arbitrario […] a 270 euro. In questo caso, sia la rete relazionale («gli unici aiuti concreti sono arrivati dai miei genitori») sia quella di assistenza («prima di tutto la Caritas per il pacco viveri») sono state fondamentali nel permettere all’intervistata un sostegno imme-diato. Donna separata D.: La aiuta qualcuno? R.: Oh sì, prima di tutto la Caritas per il pacco viveri e frequento assiduamente la mia parrocchia. Ricevo aiuti dalle mie amiche dell’Unitalsi […]. Nei momenti di crisi, subito dopo la separazione, ho potuto contare sulla solidarietà materiale dei miei parenti: quando ho lasciato mio marito e pri-ma della sentenza di separazione non avevo di che vivere. Circa le prospettive emerge chiaramente, nonostante i problemi descritti in precedenza, il desiderio di poter progettare nuovamente il proprio futuro ed essere in qualche modo utile anche agli altri. Donna separata R.: […] i postumi dei maltrattamenti subiti mi impediscono di lavorare per avere una fonte di red-dito. Mi piacerebbe, però, poter insegnare alle nuove generazioni il cucito. 2.4. Donna con disagio mentale

Lo stralcio dell’intervista seguente, la quale ha impegnato l’intervistatore in un notevole sforzo di trascrizione (dovuto alla particolare lunghezza della regi-strazione su nastro magnetico, nonché ai passaggi repentini da un argomento

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all’altro da parte dell’intervistata), fa riferimento ad una donna con conclamata patologia psichica e con una serie di problematiche piuttosto complesse, che fanno da corollario ad un profilo tanto interessante quanto di difficile lettura 5. Tenuto conto di questi elementi, risulta molto arduo risalire cronologicamente all’inizio della/e situazione/i di disagio. Di sicuro, nel vissuto dell’intervistata, ha pesato non poco l’essere passata in modo subitaneo da una situazione di notevole benes-sere economico («Non uscivo di casa se le scarpe non erano uguali alla borsa») – e di presunto equilibrio psicofisico – , ad una condizione di persona senza dimora, indigente, dedita all’accattonaggio e deprivata della propria identità. Donna con disagio mentale D.: Certe volte ci sono dei rovesci inaspettati? R.: Sì ed è stato tremendo. Non uscivo di casa se le scarpe non erano uguali alla borsa, ma dimmi tu se valeva la pena impuntarsi! […] D.: Quanti anni è durato il benessere? R.: Dunque fino ai primi del ‘90 stavo benissimo. D.: È coinciso con la separazione dal marito? R.: Molto, molto, molto! Guardi il patatrac finale, perché quando abbiamo aperto il ristorante, ho venduto la casa a […] che avevo comprato con il mio sudore…e non era facile riuscire a comprarla […]…dunque io ho avuto un trauma: ho perso un bambino che avevo più di sei mesi di gravidan-za. Io lo volevo con tutto il cuore, avrebbe avuto l’età di mio nipote […]. D.: Dopo questa fase, in cui forse ha toccato un po’ l’apice, si è rivolta a qualche struttura… R.: No, quand’ero in difficoltà e vagavo raccoglievo le cose dalle pattumiere, mangiando le cose che gli altri lasciavano, mi facevo la scorta dentro le buste e poi mi nascondevo dentro i carto-ni…non volevo nessuno…ero un animale […]… ma se ripulivo i treni, andavo da un treno all’altro. Ma oggi che posso ragionare dico come mai non fermano uno senza documenti e in quel-le condizioni senza biglietto? Come mai … Per pulire spostavo le zampe degli altri, permesso! Permesso! Sembravo addetta alla pulizia dei treni. […]… ma sarebbe stato un bene se mi avessero portata in caserma perché mi avrebbero fatto ritrovare la mia identità, perché mi conoscevano con un nome diverso da quello che sono… […] io vagavo di notte e di giorno, avevo raccolto queste pattumiere e tutto dentro le buste […] e tutto quello che mi serviva per mangiare […] A un certo punto […] arrivano i carabinieri, mi scappottano la casa, cioè i cartoni… vieni fuori di li! Due col mitra puntato così. Li ho guardati, ha presente quelli che sono contenti di vedere persone belle, ero io […]. Io devo ringraziare questi carabinieri, quelli […]che hanno dato l’allarme, […] perché è per mezzo di loro che mi hanno trovato. Altrimenti…quand’ero all’ospedale ecco da lì che partì: zac, ecco che una donna stavamo ritrovando, cercando, eccola qua. Da lì sono ripartiti tutti i con-tatti con i parenti, che subito sono intervenuti. D.: Ripercorrendo la sua vicenda, si può dire che il disagio è stato determinato da diverse situazio-ni sfavorevoli che poi hanno avuto questo risvolto, tra le quali la perdita del bambino […]. R.: Ancora lo vivo come disagio, non l’ho superato […] D.: Invece a livello più pratico, economico, come vive? R.: A, livello più pratico finanziario sì perché vengo aiutata, però non bastano. Nel senso con le spese. Io non voglio fare una vita che costi…come si dice…faccio le notti, guardo un’anziana di 84 anni, però [le ore di lavoro] non bastano […] D.: Con i suoi lavori, riesce a pagarsi le sue spese? R.: No, non sempre, a volte le [ore le] promettono, ma poi magari non arriva niente, e invece le bollette arrivano e non aspettano… e allora dico oh Dio fammi trovare qualche ora in più […].

5 È interessante evidenziare come, nelle annotazioni dell’intervistatore, vi siano appuntate le osservazioni seguenti: «L’intervistata ha mostrato una notevole carica emotiva, confusione nelle risposte, evidente necessità di raccontare la sua esperienza espressa nella prolissità e nella dovizia di particolari».

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Dal contenuto dell’intervista si evince che, oltre all’intervento determinan-te delle forze dell’ordine, fra le azioni poste in essere dalle reti di sostegno sono risultate fondamentali, per un “primo recupero” della persona, quelle di tipo isti-tuzionale, fra cui quelle intraprese dal Centro di igiene mentale, dalle strutture o-spedaliere e dai servizi sociali. Donna con disagio mentale D.: In questa sua situazione c’è stato qualche intervento per aiutarla da parte dei familiari? R.: No, non volevo perché mi vergognavo D.: Ma qualcuno si è proposto? R.: Sì, sì, […]. Io ero abituata diversamente, perché quando arrivavo [a casa dei miei] arrivava la befana, portavo regali sempre a tutti […]. D.: Da parte degli amici c’è stato interessamento nei suoi confronti? R.: Gli amici sì, mi hanno creduta morta, mi stavano cercando… D.: Si è fatta aiutare? R.: No! No! Dicevo sto benissimo e non ho bisogno di niente […]. D.: Quando ha recuperato tutte le sue energie, si è rivolta a strutture tipo servizi sociali… R.: Sì mi hanno aiutato, ma io non ho fatto niente, ha fatto mia sorella per me, anche a mia insapu-ta.

Il vissuto evidentemente tormentato, caratterizzante la storia personale dell’intervistata, rende alquanto confusa ed incerta la sua percezione rispetto all’orizzonte futuro. La situazione di sofferenza psichica, infatti, condiziona for-temente la sua capacità di formulare proposte concrete e razionali.

Donna con disagio mentale D.: Quali sono le sue prospettive per il futuro, i suoi progetti… R.: […] sa cosa mi piacerebbe fare, non un’agenzia, qualcosa da poter essere utile agli altri, e gli altri da poter essere utili a me […]. Poi lei sa che io sono amante degli animali, però gli animali li tratto come animali, intendiamoci! Però, facevo una volta parte della associazione “Protezione a-nimali”, aprirei un servizio per animali. A […] ho avuto un taxi-dog in società, quando ancora non se ne vedevano in giro, ecco anche qualcosa del genere. 3. Il disagio nelle famiglie di fatto (con e senza figli)

Le due interviste effettuate a persone inserite in famiglie di fatto, per molti

versi denotano caratteristiche analoghe a quelle di altre situazioni familiari. Oltre alla preponderante presenza di disagi di natura economica, associati alla insuffi-cienza del reddito percepito, alla precarietà lavorativa o alla totale mancanza di lavoro, si registrano alcune difficoltà legate alle situazioni particolari descritte.

Nel primo caso, l’intervista ha posto in luce chiaramente l’esistenza di gravi problemi di salute uniti alle difficoltà relazionali con la famiglia d’origine della convivente.

Prima intervista: uomo e donna inseriti in famiglia di fatto D.: C’erano stati problemi di salute, qua leggo tubercolosi ossea…. R. (donna): Sì, ho avuto questo problema all’anca, alle ossa... R. (uomo): Non è stato diagnosticato subito, ha fatto vari ricoveri, la malattia ha fatto i suoi danni per risolvere la situazione ci voleva una protesi all’anca.

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D.: Voi lavorate? R. (uomo): Lei no, riceve una piccola pensione di 200 euro, avevamo preparato domanda per l’accompagnamento, ma non l’abbiamo mai presentata […]. [Io faccio] l’operatore ecologico, l’ho presa a casa mia in casa dei miei […]. R. (donna): Ho dovuto subire due interventi, uno a maggio e uno a luglio. Abbiamo tutta la docu-mentazione pronta e copia dei ricoveri. D.: Una situazione gravissima che chiaramente ha pesato pure sulla famiglia, sull’andamento fami-liare… Da quanti anni è in questa situazione ? R. (donna): 5, 6 anni […]. È dall’età di 9 anni che sono così: sono caduta, ho sofferto di epilessia poi quest’altro problema. D. (rivolta alla donna): E per quanto riguarda la sua famiglia [d’origine] ci sono buoni rapporti? R. (uomo): No, io l’ho portata via, l’ho portata con me, ma siamo rimasti in buoni rapporti… R. (donna): Non ero capita… R. (uomo).: Sa, quando ci sono problemi economici saltano fuori tante cose!! D.: Per le altre cose riuscite a cavarvela? R. (uomo): Arranchiamo un pochettino. La situazione è quella che è in Italia. Da quando è entrato l’euro è cambiato parecchio. Prima con lo stipendio si riusciva, adesso con lo stipendio a malapena ci mangi.

Nel secondo caso, invece, si rileva un’accresciuta carica di problematicità scaturita dall’accumulo di diversi fattori critici, la maggior parte dei quali derivan-ti dal precedente nucleo familiare del convivente. Il profilo che emerge dall’intervista è quello di una donna sentitasi in qualche modo investita di una missione salvifica, nei confronti di un uomo con diversi problemi legati ad un rapporto matrimoniale conclusosi diversi anni prima. Seconda intervista: donna inserita in famiglia di fatto R: La mia famiglia d’origine è una famiglia cresciuta nella povertà, mio padre non c’è più e ab-biamo tirato avanti con onore. Sono cresciuta […] con l’affetto dei miei genitori e non mi mancava niente, infatti un po’ rimpiango quei tempi perché diciamo non mi mancava niente, cioè quello che può servire ad una ragazza. Fino a 18 anni sono stata in casa con mia mamma […]. Poi…. gli sba-gli di gioventù, son voluta andare via, secondo me, per cercare chissà cosa e ho trovato quello che ho adesso […]... l’ho fatto un po’ per sfida, un po’ per aiutare quest’uomo; non pensando di inna-morarmi da perdere la testa perché son passati 16 anni. Lo volevo aiutare più che altro perché sa-pevo la situazione: che lui è separato, [e si dava] al bere, beveva parecchio; lavorava sì…allora la-vorava, però beveva […]. La causa [attuale] del disagio è perché il mio compagno non lavora più. Non lavora, perché ha anche problemi di salute, perché lui dal bere, torniamo al discorso del bere, ha avuto un’infiammazione ai nervi che abbiamo scoperto nel 2001. Lui è infatti è dal 2001 che non beve più, non tocca più neanche un goccio perché è stato malissimo, ha rischiato la paralisi e anche da poco era ricoverato […]. La situazione del disagio familiare è perché nessuno lavora, non c’è un’entrata. Non c’è lavoro nonostante lo chiediamo… Per quanto riguarda le reti relazionali e di assistenza, in entrambi i casi si è potuto constatare come le famiglie di origine delle donne intervistate non sono state in grado di intervenire in loro aiuto. In tutte e due le vicende, peraltro, si ri-leva un importante intervento delle parrocchie (e più in generale delle reti eccle-siali, compreso la Caritas) nel mettere in campo degli interventi di sostegno. Prima intervista: uomo e donna inseriti in famiglia di fatto D.: Voi avete provato a parlare con qualcuno della vostra situazione avete ricevuto assistenza, da parte delle assistenti sociali? R. (donna): Ci hanno aiutato per partire… D.: E i parenti, gli amici?

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R. (uomo): Da parte sua no, l’aiuto viene più dalla mia famiglia. D.: Quando vi eravate presentati avevate chiesto un aiuto per i problemi di salute… R. (uomo): Sì, soldi per partire. Poi li avevo restituiti alla Chiesa perché me li avevano anticipati… Seconda intervista: donna inserita in famiglia di fatto D.: A chi si rivolge in caso di necessità R.: A noi le Chiese ci aiutano […]. Ci danno qualcosa anche le Vincenziane e siamo seguiti dalle parrocchie di S.P., S.G. e dai Salesiani. Ogni tanto ci aiutano dalla cattedrale e parecchie volte ho ricevuto aiuto da voi. I viveri sì sono quelli, però voi, tutte le bollette si può dire me le avete paga-te voi da quando sono qui in via […]. D.: Ci dice qualcosa sui rapporti con la famiglia, gli amici, il vicinato? R.: Io vado d’accordo con tutti […]. Io in via […] sono inserita bene: buon giorno e buona sera con tutti, ma con famiglie tratto solo con due cioè avere rapporti loro a casa, io a casa loro. Con i miei parenti…, ho litigato con una mia sorella […], [ormai] la mia famiglia è questa. Se a loro sta bene è questa, se non sta bene è questa lo stesso.

Nel primo caso le prospettive per il futuro non vengono esplicitate nel cor-so dell’intervista, mentre nel secondo appaiono chiaramente collocate sul piano lavorativo: «il futuro è avere un lavoro, non mi rassegno a vivere così». 4. Nel labirinto del mercato del lavoro: quando il disagio ha il volto dei giovani

La mancanza di lavoro, il possedere un’attività lavorativa precaria, il non riuscire ad intraprendere dei percorsi di autonomia economica e familiare, costi-tuiscono la fonte di disagio prevalente per i giovani che si sono appoggiati ai Cen-tri di Ascolto della Caritas. Gli stralci delle tre interviste seguenti riproducono fe-delmente le situazioni appena descritte. I primi due casi riguardano rispettivamen-te una ragazza di poco meno di trent’anni ed un giovane nato nella seconda metà degli anni ’60. Nel terzo caso, invece, la protagonista non aveva ancora compiuto vent’anni al momento dell’intervista.

Nel primo caso, la persona intervistata è apparsa tutt’altro che serena. Dall’intervista, infatti, si può intuire il suo stato d’animo particolarmente turbato per via di alcuni fattori: la relazione sentimentale con il fidanzato appena conclu-sa; i conflitti con i genitori a causa del suo desiderio sempre più insistente di parti-re per cercare lavoro altrove.

Prima intervista: donna giovane R.: […] a casa siamo rimaste io, mia sorella, mio padre [pensionato] e mia madre […]… la mia difficoltà è che appunto lavoro non ne ho, purtroppo, e non mi piace vivere alle loro spalle, io vor-rei aiutare gli altri e mi fa male pensare invece, che non lo posso fare perché non ne ho i fondi […]. Per il futuro io ho sempre detto che sono diplomata, mi è piaciuto tanto, ero soddisfatta del mio diploma, mi sono diplomata dieci anni fa alla ragioneria e ho preso 56… prima il punteggio si calcolava diversamente. Sono stata veramente fortunata, però poi la situazione qua è andata a roto-li perché si procede per raccomandazioni, non riesco a trovare una via di sbocco. Ho provato, per-ché ero fidanzata, a trovare una soluzione: andare a lavorare fuori a Torino dal mio ragazzo; però mio padre mi ha impedito di andare a lavorare fuori perché gira e rigira non vuole, era giusto, io stavo convivendo e io…, non mi piace convivere, io mi dovevo sposare e poi va beh le cose sono andate male […]. [Mio padre] mi dice sempre una cosa che io non sopporto: “aspetta, aspetta”, io dico: ho trent’anni, è la mia vita… […]. Dovrebbero essere contenti se io vado via perché sto cer-cando un lavoro. Cioè, è la mia vita. Io penso e ripenso, come farò un domani quando purtroppo

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loro non ci saranno più. Io non ci voglio nemmeno pensare a queste cose, però come farò un do-mani?

L’estratto delle due interviste che seguono, oltre a rimarcare gli aspetti problematici legati alla mancanza di lavoro già evidenziati precedentemente, pone in luce un tipico elemento delle difficoltà cui vanno incontro i giovani rispetto alla questione occupazionale: l’assoluta mancanza di orientamento (accentuata, come nei casi seguenti, da un livello di istruzione medio-basso) una volta imbattuti nel “labirinto” del mercato del lavoro. Peraltro, è singolare notare come, anche nel ca-so della giovane donna (cfr. terza intervista), si sia verificata la fine di una rela-zione sentimentale alla stessa stregua della vicenda precedente. Seconda intervista: uomo giovane R.: […] a 19 anni ho fatto il manovale, un giorno con lui, un giorno con lei, un giorno con quello, un giorno con quell’altro. Qualche grossa impresa mi ha preso ma per poco tempo […]. Poi sono andato a fare il servizio militare e sono arrivate le patenti. Arrivate cioè quelle che per me davano la certezza matematica di un posto di lavoro […]. Sono tornato dal servizio militare e i miei geni-tori erano ancora vivi, mio padre lavorava in ospedale e mia madre era casalinga. Mio padre per-cepiva uno stipendio normale e che consentiva di vivere in una famiglia con 3, 4 e anche 5 perso-ne. Poi è venuto a mancare babbo… è venuta a mancare mamma… D.: Quindi la causa del disagio…. R.: È la mancanza dei miei e giustamente del lavoro […]. Sono rimasto nella casa dei miei genitori e sono andato al centro edile per essere assunto e loro sembravano d’amore e d’accordo […]: ma sì! Ti prendiamo, ma qui, ma lì, ma a destra, ma a manca. Questa assunzione non è mai avvenuta, per cui ho lasciato correre e sono entrato con […] a fare il manovale. Un po’ di anni di lavoro co-me manovale in quei palazzi […]. Poi mi hanno chiamato in quelle case popolari […] e là, bene o male,… poi crisi nera. Cioè ho telefonato a Cagliari, poi ho chiamato ad una grossa impresa di Roma […] e ho pensato che essendo una multinazionale ti sbatte dove ti sbatte però il lavoro te lo dà. Mi hanno risposto che loro non assicurano personale….così, loro cercano personale altamente specializzato…..che qui…che lì….che i macchinari….che questo…..che quest’altro […]. Terza intervista: donna molto giovane R: Fino a gennaio scorso lavoravo in carcere come aiuto cuoca. Adesso non sto lavorando più D: Ti eri avvicinata al Centro di Ascolto della Caritas per… R: Per cercare lavoro, per avere una mano ad inserirmi in ambienti di lavoro. Non ho la possibilità di uscire fuori, quindi mi serve un lavoro qui a […]. D: Non ne hai la possibilità? R: Sì perché non è possibile in questo momento. Mamma ha bisogno specialmente con babbo [immobilizzato a causa di un ictus] ed ha bisogno di una mano perché [mia sorella] sta lavorando di notte da un anziano […], per mamma sarebbe difficile da gestire. Quindi i miei problemi sono in secondo piano anche se… D: Hai lavorato come aiuto cuoca ed ora non lavori più perché…? R: Perché io sostituivo i titolari quando erano in ferie o in malattia sino a gennaio. Adesso non mi chiamano più. [Purtroppo adesso] non sto bene, sono in un periodo…sono stata appena lasciata e dunque…sto soffrendo di attacchi di panico questo periodo. Eh… dunque non riesco neanche ad uscire di casa sono stata lasciata dopo due anni e mezzo ..abbiamo anche convissuto e dunque poi sono ritornata casa di mamma e gli spazi erano quelli che erano…a dicembre mi aveva chiesto di sposarlo e poi a gennaio così, di punto in bianco, mi ha detto che non provava più niente. Avrei voluto continuare gli studi ma ho dovuto lasciare perché non sto bene ero iscritta in terza ragione-ria e l’anno prossimo credo di riuscire […].

Per quanto attiene le risorse utilizzate nell’ambito delle reti relazionali e di assistenza, mentre nel primo caso si segnala un primo contatto con il Centro di

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Ascolto, attraverso cui è stato possibile intraprendere un piccolo lavoro tempora-neo, nel secondo caso sono state diverse le reti coinvolte: da quelle relazionali a quelle formali, anche se non sempre con esiti positivi. Seconda intervista: uomo giovane D.: A chi si rivolge in caso di necessità? R.: Qualcuno del palazzo che mi conosce bene. Poi sono andato al Comune e mi hanno detto che mi avrebbero dato una mano d’aiuto: “ma forse sì, ma forse no”; “guardi la lista, quanta gente c’è”; “guardi in che condizioni sono, non è solo lei, lei almeno è solo”; “noi qui abbiamo una lista di padri di famiglia che hanno da fare questo, quello, quest’altro”. Sono andato all’ufficio di collo-camento qualche paio d’anni fa e si parlava dell’antincendio: il periodo stagionale […]. Ho prova-to poi a fare la domanda per operaio forestale e mi son sentito rispondere dall’impiegata del collo-camento, con tanto sgarbo: “ah! non le basta suo fratello?”. Mio fratello è abilitato a guidare il camion dell’antincendio, mentre io voglio fare l’operaio […]. Sono poi andato ai servizi sociali che mi hanno rispedito all’ufficio personale del Comune e da lì mi hanno detto di rivolgermi al collocamento poiché mi toccava farmi fare almeno 3 mesi di lavoro l’anno. All’ufficio di colloca-mento hanno controllato la mia situazione e mi hanno detto che per gli anni di iscrizione potrei es-sere a posto, ma hanno aggiunto che non avendo moglie, non avendo figli, non avendo nessuno a carico, la mia posizione in graduatoria non consente di avere un lavoro. L’unico modo per avere un lavoro è quello di cercare tra i privati. In definitiva qualche mano d’aiuto mi è stata data da voi, quando mi avete dato i soldi per il pagamento delle bollette condominiali […]. Anche nel terzo caso si registrano da un lato l’intervento del CdA (nell’ascoltare la giovane e nel fornirle un supporto morale) e dall’altro, oltre al sostegno dei familiari e soprattutto degli amici, l’intervento non sempre appro-priato della rete di assistenza formale, come nel caso dei suggerimenti forniti dal suo medico di famiglia. Terza intervista: donna molto giovane D. In relazione alla situazione familiare vi siete rivolti al Comune alla Asl, per avere degli aiuti, un’assistenza anche nella gestione quotidiana di tuo padre? R: Il primo periodo avevamo un’assistenza dal Comune per cambiare mio padre, poi alla fine mamma ha rinunciato perché preferisce cambiarlo lei perché [mio padre] si infastidiva. Per un pe-riodo veniva sempre la stessa persona, poi hanno iniziato a cambiare e quindi insomma c’era anche questo…, da parte sua c’era anche sfiducia perché con un estraneo lui non si fidava non ci lasciava un attimo. D: Ritornando alla tua ricerca di lavoro, hai mandato dei curriculum, […] ti sei rivolta a qualcun altro? Tra le tue conoscenze c’è qualcuno che ti ha dato una mano: tra gli amici, il vicinato i paren-ti, sia per la situazione di tuo padre che tua personale? R: Per la situazione di babbo no, per il lavoro sì ho trovato lavoro in carcere attraverso la mia ex cognata; ma si sono interrotti i rapporti con mia cognata e così si sono interrotti anche sul lavoro. I parenti moralmente sì… stanno vicini,… se dovesse capitare qualcosa sarebbero presenti, ma gli amici sono più presenti sempre vicini sin da quando si è ammalato babbo ad oggi. Ci sono stati quelli che sono rimasti presenti ed alcuni si sono allontanati […]. D: Hai pensato di rivolgerti a qualcuno per superare questa situazione? R: Il mio medico mi ha detto di rivolgermi al CIM, ma li c’è lo psichiatra e imbottirmi di farmaci sinceramente… Riguardo ai progetti per il futuro, nel caso della ragazza molto giovane si è già evidenziato il desiderio di proseguire gli studi alla scuola media superiore. Nei gli altri due casi, invece – tenuto conto dell’età –, si registra il tono perentorio con cui viene ribadito il desiderio di trovare quanto prima un’occupazione.

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Prima intervista: donna giovane R.: […] io sono disposta anche ad andare a lavorare fuori, giustamente, perché ci tengo veramente a trovare un lavoro. Adesso, adesso forse, non so se avete sentito qua […], dovrebbero aprire un pastificio […]. Forse, dovrebbero assumermi lì. Forse, ma non si sa, perché qua promettono però poi non mantengono […]. Stando le cose come stanno, dovrei cercare di trovare una via altrove perché qui non credo proprio di trovarne… Seconda intervista: uomo giovane R.: Poiché qui a […] non riesco a trovare lavoro, l’unica soluzione è quella di andare fuori. Gli amici mi hanno dato l’indirizzo della ditta H. di Milano e quindi proverò a farmi assumere là. 5. Quando il disagio ha il volto degli anziani Le persone anziane che si rivolgono ai Centri di Ascolto sono generalmen-te portatrici di una serie ben precisa di bisogni. In molti casi è l’indebolimento e-conomico provocato dall’avvento dell’euro, che ha reso insufficiente la pensione rispetto all’aumento del costo della vita, a generare una qualche forma di disagio; in altri casi – com’è già stato posto in evidenza a proposito dell’intervista alla ve-dova sola ed anziana – è l’insieme delle problematiche tipiche dell’età senile, fra cui i disturbi fisici e un certo impoverimento nelle relazioni, a caratterizzare le dif-ficoltà registrate più frequentemente dagli operatori dei Centri di Ascolto. 5.1. Pensionato depotenziato nel reddito Lo stralcio dell’intervista seguente fa riferimento alla tipica situazione di disagio di un anziano pensionato (con una pensione depauperata da alcune irrego-larità commesse dal suo datore di lavoro), il quale si trova nella condizione di do-ver sostenere economicamente anche i figli già grandi. Se si vuole, questa vicenda – la quale non rappresenta certo un’eccezione nel panorama delle famiglie sarde – è esattamente speculare ad alcune di quelle descritte nel quarto paragrafo, in cui vengono narrate le difficoltà di quei giovani che, a causa della precarietà lavorati-va, si trovano costretti a vivere, loro malgrado, ancora aggrappati al bilancio dei propri genitori. Anziano pensionato, con figli parzialmente a carico R.: […] Ho conosciuto mia moglie a […] dove faceva la domestica e io facevo l’autista […]. Ci siamo conosciuti e lì ci siamo sposati nel 1965; con la grazia di nostro Signore abbiamo avuto sei figli: tre sono sposati e tre sono ancora celibi. D.: E i suoi figli non sposati vivono con lei? R.: No, due di loro lavorano a […].… purtroppo non c’è lavoro e con la mia pensione a volte devo riuscire a pagare l’affitto a questi due miei figli perché lavorano solo pochi mesi durante la stagio-ne estiva e quindi capita che non ce la fanno a pagare l’affitto, perché abitano lì tutto l’anno e d’inverno cercano di arrangiarsi con qualche altro lavoretto, ma non basta. Io da buon padre di fa-miglia mi sono fatto un prestito e lo sto ritornando indietro a 65 euro al mese per dare anche un aiuto a questi miei figli. Io con questo prestito do loro, per esempio, 2.000 euro quando più hanno bisogno e durante la stagione me ne restituiscono anche di più, non perché io lo pretendo, ma si mettono d’accordo tra loro e aiutano me e la loro mamma […]. Un’altra mia figlia sta a casa mia e

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lavora in una pizzeria e con il suo stipendio aiuta in casa […]. Ho un altro figlio sposato, […] ma purtroppo è disoccupato e non riesce a trovare lavoro […] e tocca aiutare anche a lui perché è in grosse difficoltà. Io cerco di aiutare tutti ma con la mia pensione di 650 euro non arrivo. Vado a-vanti per le prime due settimane ma alla terza siamo ogni mese con l’acqua alla gola e arrivano i guai e non so come tirare avanti […]. Io prendo solo 650 euro di pensione perché l’azienda dove lavoravo, da quando ci siamo trasferiti in Sardegna, […] non mi versava tutti i contributi. Me li versava solo per metà. All’inizio me li versavano tutti, poi è morto il vecchio titolare dopo poco tempo ed è subentrato il figlio che mi versava solo la metà. Io protestavo ma lui mi diceva che se mi andava bene era così altrimenti mi poteva licenziare. Io non avevo altro lavoro e ho dovuto ac-cettare perché la mia famiglia era già numerosa e non potevo permettermi di stare un solo giorno disoccupato. D.: Come mai non si è rivolto ai sindacati per cercare di ottenere quanto le spettava? R.: Quando sono andato in pensione il sindacato mi ha detto che potevo avere quanto mi spettava e avrei dovuto iniziare una causa, però ho avuto paura perché ancora non mi avevano dato la buonu-scita. Il sindacato mi diceva che conveniva iniziare la causa perché se accettavo la buonuscita e firmavo allora non c’era più niente da fare. Così ho accettato la buonuscita firmando quello che c’era da firmare, solo che dopo non si poteva più fare la causa proprio perché avevo firmato una clausola dove si diceva che in tutta la vita di lavoro avevo ricevuto tutto quello che mi spettava. [Da un po’ di tempo] c’è una cooperativa di un ristorante che a volte mi chiama per fare degli extra il venerdì, sabato e domenica. È un aiuto molto importante anche se mi danno poco. Dall’analisi del contenuto dell’intervista, da cui si intuisce un certo coin-volgimento della comunità territoriale, si evince che gli interventi attivati per far fronte ai bisogni di questa persona sono da ricondurre essenzialmente alle reti di assistenza informale (prevalentemente la Caritas). Vi è da registrare, peraltro, un dato abbastanza curioso: l’intensa attività di volontariato che caratterizza questa come molte altre persone che, pur vivendo una qualche forma disagio personale o familiare, decidono di destinare parte del proprio tempo in favore degli altri. Anziano pensionato, con figli parzialmente a carico R.: Una volta ho chiesto aiuto al signor […] della Caritas, che mi ha dato generi alimentari, pasta, burro, formaggio, olio e tante altre cose, perché in quel periodo stavamo proprio senza niente e mi ha aiutato ad arrivare alla fine del mese. Sono stato molto contento di questo aiuto perché non sa-pevo come mettere qualcosa nella pentola a pranzo e come fare a mangiare la sera. Mi aiuta ogni mese e così mi posso sentire più tranquillo perché so che quando non ce la faccio c’è qualcuno che mi aiuta. D.: Ma ora mi dica, come sono i suoi rapporti con la gente, ne ha di amici? R.: Conosco tutti a […], frequento tutti, frequento l’associazione […] e quando hanno bisogno vengono a prendermi in macchina e vado con loro per portare gli ammalati a fare la dialisi, li porto a […], dappertutto dove c’è bisogno. Do una mano anche all’associazione degli invalidi, ci vado quasi tutti i giorni e porto gli ammalati dove c’è da accompagnarli. Così ho tanti amici, ci faccia-mo lunghe passeggiate […]. D.: E con i vicini di casa? R.: Vado d’accordo con i vicini, sono stato sempre una persona che ha aiutato il prossimo, dove e quando posso naturalmente, e lo faccio volentieri.

Nonostante la non più giovane età, la persona intervistata appare proiettata verso il futuro in termini (necessariamente) costruttivi; d’altro canto l’intervistato è consapevole che la sua presenza in salute e il suo sostegno economico risultano, almeno per il momento, ancora indispensabili per i propri figli.

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Anziano pensionato, con figli parzialmente a carico R.: Per i progetti futuri mi auguro di stare bene in salute, il diabete… che non salga la glicemia al-trimenti sono guai seri. Continuerò a fare volontariato fino alla morte perché questo mi rende con-tento…sperando di non crepare prima del tempo. 5.2. Anziano solo e abbandonato La solitudine degli anziani è un problema registrato frequentemente nei Centri di Ascolto di tutte le diocesi sarde. D’altra parte, si tratta di un aspetto che è stato rilevato insistentemente anche in occasione dei focus group allargati a te-stimoni privilegiati. La persona intervistata, un anziano con più di novant’anni che per diverse ragioni personali ha ritenuto di dover vivere da solo, era stata accolta poco prima dell’intervista in un casa di riposo, dopo esser stata allontanata dalla casa in cui viveva, nella sporcizia e nell’abbandono («tra il disordine e i topi»). Anziano solo e abbandonato R.: Io ho vissuto sempre con i miei genitori fino a quando sono deceduti, circa quarant’anni fa. D.: Lei si è sposato? R.: Non mi sono mai sposato perché ritenevo che sposarsi significava “legarsi”, e ho sempre prefe-rito restare libero da ogni condizionamento. D.: Come mai, aveva paura o c’erano altri motivi? R.: Vedevo i miei amici che dovevano ubbidire alle loro mogli e questo mi spaventava. D.: E quindi ha sempre vissuto con i suoi genitori? R.: Sì, fino a quando sono morti. Quando morirono i miei genitori, andai a vivere con le mie sorel-le, ambedue sposate e con figli. Mio fratello anche lui era morto. D.: Ma vivevate insieme lei con le sue sorelle? R.: Vivevo alternando un anno con una e un anno con l’altra sorella, ma non mi sentivo molto a mio agio. Avevo sempre l’impressione di essere di peso anche se stavo bene con i miei nipoti, con i quali passavo molto tempo. Poi morì anche una delle mie sorelle e per non restare troppo di peso alla sorella che mi era rimasta e alla sua famiglia andai a vivere da solo in un appartamento […]… ho vissuto parecchi anni da solo in quell’appartamento. Ci stavo bene perché ero indipendente, pe-rò mi sentivo spesso solo. Ero diventato vecchio e all’inizio mi arrangiavo a cucinare e a farmi un po’ tutto a casa […]. D.: Ma quanto prende di pensione, è sufficiente per vivere? R.: Io prendo solo 550 euro. Non sono molti però….meglio che niente!!

La situazione di abbandono e di degrado, descritta precedentemente, è sta-ta la ragione principale per cui si è messo in moto l’intervento delle reti di assi-stenza dei servizi sociali comunali. D’altra parte va rilevato che, nonostante gli sforzi fatti, sia l’assistenza domiciliare che il successivo ricovero non sono stati graditi affatto dalla persona intervistata, forse a causa di una certa diffidenza radi-cata nel tempo – se non proprio idiosincrasia – nei confronti delle regole della convivenza e delle relazioni sociali. Anziano solo e abbandonato R.: Poi il Comune, con l’assistente sociale, mi mandò quattro signore per fare le pulizie un’ora la mattina e un’ora la sera, ma mi hanno rovinato perché mi accorgevo che rubacchiavano. Delle vol-te mi sono mancati anche soldi e non mi trattavano bene…e poi mettevano tutta la casa in subbu-

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glio e io non ero contento e non le lasciavo fare tutto quello che volevano perché io ero il padrone e dovevano fare quello che volevo io non quello che volevano loro. E molte cose me le facevo io. Il servizio che facevano me lo scontavano dalla pensione […]… poi è venuto il nuovo parroco e allora mi ha accettato [nella casa di riposo] e ora sono qua in questo ospizio. Il nuovo parroco è bravo, chiacchieriamo spesso. D.: E si trova bene qui? R.: Si mangia abbastanza bene, ma anche qui le donne che lavorano sono sgarbate. Non mi lascia-no fare niente. Come mi muovo subito mi vengono appresso e mi chiedono dove sto andando e cosa sto facendo. D.: Beh, almeno non soffre di solitudine no? R.: Certo qui non mi sento solo, anzi. Mi vengono a trovare degli amici, spesso. Anche mia sorella e i miei nipoti vengono ogni tanto a trovarmi e a volte mi portano a casa loro a pranzo e a trascor-rere con loro il pomeriggio. Poi di sera mi riportano qui all’ospizio. Io però vorrei tornare a vivere nel mio appartamento… Ma mi dicono che è meglio che io stia qui. Ma la mia vita io la voglio vi-vere indipendente e non legato a tutte queste regole. 6. Quando il disagio ha il volto di un forestiero

L’analisi dei percorsi biografici delle persone straniere che si sono avvalse del sostegno della Caritas, permette di porre in luce, oltre alle stesse situazioni di disagio registrate in occasione degli ascolti alle persone di nazionalità italiana, una serie di problematiche connesse tipicamente alla condizione e allo status di mi-grante.

Dal punto di vista psicologico e relazionale, ad esempio, è innegabile la la-cerazione che si prova nel lasciare la propria comunità, i propri familiari ed amici, per recarsi in un luogo spesso molto diverso da quello d’origine: dal punto di vista linguistico, sociale, religioso, alimentare, ecc. È evidente che quanto più sarà forte il divario fra queste caratteristiche, nel passaggio dal luogo di provenienza a quel-lo di destinazione, tanto più lacerante sarà l’elemento di rottura che caratterizzerà i progetti migratori, con le conseguenze immaginabili dal punto di vista dell’integrazione e dell’inclusione sociale.

Le due persone straniere intervistate, di cui riportiamo a seguire qualche stralcio dell’intervista, fanno riferimento a due situazioni abbastanza frequenti nell’universo delle storie di vita degli immigrati seguite dagli operatori dei Centri di Ascolto delle Caritas.

6.1. Madre separata ed immigrata

L’intervista seguente fa riferimento ad una donna di origine egiziana, lau-reatasi prima di emigrare, giunta in Italia insieme al marito (italiano) e ai due figli. In questo caso il disagio manifestato dalla persona, oltre ad essere legato ad alcu-ne problematiche connesse all’immigrazione, rivela delle difficoltà ancor più si-gnificative nella relazione con il marito, il quale – dal racconto dell’intervistata – risulta essere dipendente da gioco d’azzardo. Donna immigrata e separata D.: Come mai è arrivata in Sardegna, perché? R.: Io sono di origine egiziana…

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D.: Di dove è suo marito? R.: È sardo. D.: Dove lo ha conosciuto? R.: Al Cairo. D.: Ma era lì per lavoro? R.: Sì. D.: […] Lei è venuta subito ad abitare in Sardegna? R.: No, dopo 3-4 anni, aveva finito il contratto di lavoro, non aveva lavoro fisso […]. D.: Avete trovato lavoro? R.: […] Ho lavorato in ristoranti per tanti anni, da signore, ho fatto diversi lavori, ho lavorato in ristorante, ho fatto pulizie […] D.: Attualmente che lavoro fa? R.: Faccio pulizie, 2-3 volte […]. Prima lavoravo da una signora, ho chiesto tre giorni di ferie per controllo, lui gioca e ha chiesto 6 mensilità alla signora: sono rimasta sei mesi senza stipendio. Lui ha il vizio di giocare. D.: A che cosa? A carte? R.: A poker e al lotto!! D.: Aveva chiesto soldi senza che lei sapesse niente ? R.: Sì lui doveva pensare a pagare l’affitto, io al vestiario e alle altre cose, poi è arrivato lo sfratto, gli avvisi e l’ufficiale giudiziario e l’avvocato. Lui non c’era, non si è presentato. Non sapevo cosa fare, hanno sequestrato tutto, tranne i libri dei miei figli e i documenti. D.: [Adesso] sta vivendo con il marito? R.: No, c’è la separazione D.: Aveva un brutto carattere? R.: No, non ci maltrattava. Ha il vizio di giocare e ci ha lasciati in mezzo alla strada

Del caso preso in esame è interessante porre in evidenza come, pur essen-do cittadina allogena, la persona intervistata abbia saputo attingere, fra le reti rela-zionali, più ai legami personali costruiti con i sardi (soprattutto amici e in misura minore i parenti del marito) che con i suoi connazionali. Oltre a ciò, come si evin-ce dallo stralcio seguente, si rileva una certa dinamicità nel coinvolgimento delle reti di assistenza sia formali (servizi sociali) che informali (associazioni di volon-tariato, case famiglia, Caritas).

Donna immigrata e separata D.: [Dopo lo sfratto] dove siete andati? R.: Ho chiamato i carabinieri, non ho nessuno! I miei genitori non vogliono più sentirne di me per-ché sono sposata con un cattolico. Sono rimasta da suor […] D.: È rimasta parecchio tempo da suor […] R.: Si molto tempo, due anni. D.: Come si è trovata? R.: Inizialmente bene, poi ho capito che non era un posto per me e per i bambini. Loro sono peg-giorati a scuola […]. Le assistenti sociali non volevano mai darmi una casa. Attualmente sono da una parente a […]. D.: Una parente del marito o del suo Paese? R.: Di mio marito, viaggio; quindi i biglietti… Ho l’aiuto delle assistenti sociali per alcuni mesi. D.: […] la famiglia di suo marito continua a vederla, a incontrarla? R.: Sì, però poco, non vogliono assumersi le responsabilità. Loro sanno delle situazioni, io non ho chiesto niente. Solo amici, niente parenti. D.: Suoi connazionali o italiani? R.: Italiani D.: Lui è tornato a vivere con i suoi familiari? R.: No, il padre di lui è a andato a lavorare al Comune di Milano. Io sono in buoni rapporti con il padre e il fratello. Lui continua ancora a giocare chiedendo soldi ai familiari…

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6.2. Col pensiero rivolto alla famiglia di origine

Il secondo caso preso in esame si riferisce ad un immigrato marocchino giunto in Italia da solo, avendo lasciato in Patria la propria famiglia d’origine. Si colgono con molta evidenza, in questa “storia di vita”, i tipici problemi lavorativi degli stranieri soli. Il percorso migratorio delineato durante l’intervista (dal Ma-rocco a Verona, da Verona in Calabria e dalla Calabria in Sardegna), oltre a riflet-tere una particolare propensione alla mobilità interna, tipica degli immigrati, indi-ca in qualche modo l’esistenza di una ripartizione geografica della legalità nel mercato del lavoro: man mano che si scende verso il Mezzogiorno (isole compre-se) crescono, infatti, le opportunità di lavoro in nero.

Oltre a ciò, dall’analisi del contenuto dell’intervista sono rintracciabili an-che parecchi elementi riconducibili alla sfera dell’affettività e della genitorialità a distanza, tipici di quegli immigrati che giungono in Italia per cercar fortuna ma che restano pur sempre col pensiero costantemente rivolto alla famiglia d’origine. Uomo immigrato e solo D.: Mi parli un po’ della tua famiglia? R.: Ho lasciato 5 figli in Marocco, sono venuto in Italia nel 2001, mi sono sposato a 22 anni […] D.: Quali progetti avevi quando sei partito? R.: Sono venuto in Italia per trovare lavoro… In una fabbrica… O non so…Un lavoro sicuro… Per avere la tredicesima, l’assicurazione. Pensavo di poter avere un capitale. Quando sono arrivato sono andato a Verona: ho lavorato per un signore in una azienda agricola… Mi aveva accolto be-ne… Mi aveva messo in regola perché a Verona ci sono molti controlli… Ma sono stato sfortunato perché poi è morto e i figli hanno venduto tutto… Sono rimasto di nuovo senza niente… Non so-no venuto per fare del male…Voglio solo lavorare… Sono trattorista… Ho fatto tutti i lavori… Ho lavorato nei campi… Vedi come ho le mani?… Da Verona sono andato in Calabria ma anche lì lavoravo solo in nero… Poi sono venuto in Sardegna, abito a […]…ma non ce la faccio più… i soldi non bastano… D.: Riesci a mandare soldi alla tua famiglia? R.: No… non bastano neanche per me… È così, mi chiamano a lavorare solo per qualche giorno poi mi dicono… grazie… ecco i tuoi soldi… e finisce tutto lì. Ma con 50 euro cosa faccio? Spari-scono subito, non bastano per fare niente. Tutti mi dicono che non mi possono assicurare perché non ce la fanno…, perché devono pagare troppo tasse. Anche loro sono in difficoltà. La legge è così, non possono assumere perché costa troppo. Adesso ho bisogno di tornare in Marocco perché mia madre sta molto male… Sono preoccupato… Voglio rivedere la mia famiglia…

Le reti di sostegno utilizzate dalla persona intervistata, così come avviene in generale nel caso degli stranieri soli, fanno raramente riferimento alle realtà dei servizi pubblici. Infatti, sono soprattutto le agenzie assistenziali di tipo informale a fornire sostegno ed orientamento a queste persone. Uomo immigrato e solo D.: A chi ti sei rivolto per trovare aiuto?…hai amici in Italia? R.: Qualche persona mi ha aiutato… non sono amici…solo gente che ha pietà… D.: I connazionali ti hanno aiutato? Ti hanno segnalato qualche lavoro? R.: No, quelli del Marocco non lavorano come me. Loro vendono …mi hanno detto di venire alla Caritas … D.: Che progetti hai per il futuro…cosa vorresti fare?

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R.: Non so più cosa fare…spero di riuscire a lavorare…per avere un piccolo capitale e poter fare l’ambulante…così posso guadagnare 50/60 euro al giorno…così va bene…

Nella biografia di questa persona, così come in quella di molti altri immi-grati soli, si fa fatica ad individuare un progetto per il futuro che vada oltre il bi-sogno impellente di trovare il necessario per vivere, per sé e per i propri familiari rimasti in Patria. È appena il caso di ricordare che spesso le cronache ci racconta-no, non sempre nel modo migliore e più rispettoso, di progetti migratori trasfor-matisi in clamorosi insuccessi, talvolta in vere e proprie tragedie.

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CAPITOLO QUINTO UN APPROFONDIMENTO SUL VERSANTE QUALITATIVO DELL’INDAGINE. I FOCUS GROUP ALLARGATI A TESTIMONI PRIVILEGIATI 1. L’impostazione generale e alcuni aspetti di metodo

Con questo capitolo, con cui si chiude l’esposizione dei principali esiti del-la ricerca, si intende ricomporre ad unità la pluralità dei contributi concernenti gli aspetti qualitativi dell’indagine, mettendo a fuoco, attraverso l’esplorazione di al-cune aree tematiche, gli elementi caratteristici dei contesti territoriali.

Alla stessa stregua dell’indagine sulle percezioni degli operatori dei CdA, in ordine alle povertà prevalenti ed emergenti, anche il focus group allargato ai te-stimoni privilegiati ha consentito di raccogliere una vasta gamma di dati qualitati-vi. Grazie alla peculiarità di questa metodologia di ricerca, basata sulla discussio-ne in gruppo di argomenti definiti a priori, è stato possibile acquisire utili infor-mazioni sul profilo socio-economico delle diocesi, dando voce a coloro che, per il ruolo rivestito nel contesto territoriale, risultavano edotti circa le dinamiche dei processi di esclusione sociale, le nuove forme di povertà e le trasformazioni in at-to sotto il profilo economico e culturale.

Oltre a favorire l’acquisizione di ulteriori elementi di analisi conoscitiva, la realizzazione dei focus group ha inteso suscitare, in modo più o meno esplicito, una maggiore consapevolezza fra i vari attori sociali partecipanti, dando vita, per quanto possibile, a delle reti territoriali in grado di stimolare delle opportune si-nergie sul piano operativo a servizio della comunità.

Nella maggior parte dei casi i focus group sono stati predisposti e condotti dai referenti locali del progetto rete (ai quali è stato affidato uno schema semi-strutturato di argomenti da sviluppare) 1, valorizzando il più possibile le interazio-ni tra i partecipanti e le analisi da essi proposte.

Circa le aree concettuali esplorate, si è optato per una mappa che preve-desse anzitutto una definizione del fenomeno in termini generali, per poi passare allo scambio di contributi circa la conoscenza (ed esperienza) diretta, da parte dei partecipanti, di particolari forme di disagio. Un’ulteriore area scrutata è stata quel-la concernente le correlazioni territoriali (anche da un punto di vista diacronico) tra i fenomeni di esclusione sociale e i fattori di tipo politico, culturale ed econo-mico. Un’altra area tematica esplorata, infine, è stata quella inerente le nuove forme di povertà e i possibili interventi operativi, al fine di stimolare nuovi e più efficaci percorsi di inclusione sociale a livello territoriale.

1 Oltre a ciò, ai referenti locali è stata fornita una indicazione circa le aree tematiche da e-splorare tramite il focus group, unitamente ai criteri metodologici per l’individuazione e la sele-zione dei testimoni privilegiati

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In riferimento alla selezione dei testimoni privilegiati, i referenti locali hanno adottato dei criteri orientativi condivisi circa gli ambiti socio-professionali all’interno dei quali individuare le persone da contattare 2.

I focus group sono stati realizzati concretamente, uno per diocesi, nel pe-riodo compreso fra marzo e maggio del 2006, ed hanno visto coinvolte comples-sivamente poco meno di un’ottantina di persone. Com’era facile prevedere, i pro-fili socio-professionali dei partecipanti sono risultati alquanto differenti da diocesi a diocesi, il che ha determinato una definizione articolata e straordinariamente densa di riflessioni 3. 2. L’analisi del contenuto dei focus group per aree tematiche

Oltre al peso inconfutabile che esercita la crisi del sistema economico iso-lano, con le inevitabili ripercussioni sul piano dell’occupazione (e della produzio-ne del reddito), emergono come aspetti centrali, in tutte le riflessioni proposte dai partecipanti ai vari focus group, due elementi particolari che a nostro avviso fanno luce su quelle che sono le percezioni diffuse, o se si vuole il comune sentire, in ordine al tema della povertà e dell’esclusione sociale in Sardegna.

Il primo fa riferimento alla povertà come ad una condizione di fragilità (o assenza) del tessuto di relazioni: un elemento, questo, che è stato rilevato non di rado anche nelle riflessioni proposte dagli operatori dei CdA. Nelle relazioni affet-tive, in quelle coniugali, nei legami familiari e in quelli comunitari, nelle relazioni di vicinato e in quelle sociali: in tutti questi casi la vita di relazione appare sempre più minacciata da un fattore per molti versi imponderabile. Peraltro, in contesti biografici in cui il tessuto di relazioni è debole, o finanche assente, il verificarsi di eventi critici non normativi (quali malattie, perdita del posto di lavoro, separazio-ni, ecc.) rende le persone più esposte al rischio di marginalizzazione. In più, lad-dove il tessuto appare vulnerabile anche sotto il profilo economico, è elevata la probabilità che si inneschino a catena dei processi di vero e proprio impoverimen-to.

Il secondo elemento, invece, ha a che fare con l’esclusione sociale dovuta all’impoverimento culturale, laddove per cultura si intende non solo il patrimonio conoscitivo ma anche quello valoriale: detto in altro modo, le persone si trovano sempre più spesso di fronte alla disgregazione progressiva dei punti di riferimento esistenziali, vale a dire i criteri attraverso cui orientare lo stile di vita e dare senso alla propria esistenza. Oltre a ciò, l’impoverimento culturale è da intendersi anche come incapacità nel costruire prospettive di vita e professionali; possibili alterna-tive da percorrere in situazioni di deprivazione materiale e morale.

2 Il protocollo di lavoro prevedeva, in particolare, l’individuazione di cinque aree socio-professionali: l’area del lavoro (imprenditori, commercianti, parti sociali); l’area tecnico-politica (assessori alle politiche sociali, sanitarie e al lavoro, sindaci, assistenti sociali, dirigenti dei servizi socioassistenziali); l’area religiosa (parroci, vescovi, direttori di uffici pastorali, ecc.); l’area del terzo settore (referenti di associazioni o cooperative sociali coinvolte in attività di inclusione socia-le); l’area socio-sanitaria (medici, infermieri, farmacisti, ecc.) ed infine l’area accademica (docenti universitari, economisti, sociologi, studiosi ed esperti delle problematiche sociali). 3 Un elenco dettagliato di tutti i partecipanti ai vari focus group è contenuto nella sezione dei ringraziamenti, alla quale si rimanda.

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In entrambi i casi, sia che si tratti di fragilità del tessuto relazionale o di debolezza di tipo culturale, la componente educativa (a partire dalla famiglia d’origine) gioca un ruolo determinante nei profili biografici delle cosiddette “car-riere di povertà”.

La varietà delle esperienze messe in campo nei focus group ha certamente favorito un confronto dialogico fra punti di vista differenti sul tema delle povertà. Inoltre, per ammissione degli stessi partecipanti, la discussione in gruppo ha costi-tuito una straordinaria occasione di arricchimento e forse – almeno così ci sembra – un potente catalizzatore in grado di produrre mutamenti circa alcune abitudini consolidate, fatte di attività disorganiche e “a compartimento stagno”, protese più alla “cura del proprio orticello” che al raggiungimento di un obiettivo di interesse comune. Anche questo, in qualche modo, è un valore aggiunto del progetto rete proposto dalla Caritas. 2.1. Definizione del fenomeno: i bisogni primari dalla cui mancata soddisfazione deriva uno stato di povertà

I partecipanti ai focus group hanno unanimemente condiviso la difficoltà a fornire una definizione univoca del fenomeno povertà. Il carattere multidimensio-nale, infatti, è quello posto in luce dalla maggior parte delle persone: la povertà «è difficile da definire, essendo una realtà con molte sfaccettature» (fg Cagliari) 4; «è un fenomeno multiforme» (fg Ales-Terralba).

Sono in molti, peraltro, a ritenere che la mancata fruizione dei beni primari sia alla base dei fattori di rischio di esclusione sociale. Così come un posto rile-vante, nelle percezioni di quasi tutti i partecipanti, assumono le dimensioni lavora-tiva ed abitativa: «i bisogni più rilevanti sono il lavoro e la casa» (fg Sassari); «il bisogno primario che può dare origine ad uno stato di povertà è il lavoro», senza il lavoro, infatti, non è possibile avere «il denaro per il sostentamento proprio del lavoratore e della sua famiglia» e la sua mancanza «può essere l’origine di povertà sociale, culturale e di natura psicologica» (fg Alghero-Bosa); «i bisogni primari sono di natura economica (lavoro, casa, vita quotidiana serena)» (fg Tempio-Ampurias).

Costituisce problema il «lavoro che non c’è per i giovani ma anche il lavo-ro che viene a mancare improvvisamente per gli adulti»; ci sono «moltissime fa-miglie che precipitano nel baratro quando viene a mancare l’unica fonte di reddi-to, a causa della morte di un congiunto o di una malattia» (fg Nuoro). Costituisce problema anche il lavoro che c’è ma è precario: «abbiamo individuato nel nostro campo la mancanza di opportunità lavorative stabili; vi sono troppe posizioni la-vorative precarie o in nero e si registra, inoltre, una carenza di percorsi formativi o professionalizzanti per coloro che non hanno completato gli studi di base. Si regi-strano gravi carenze nelle famiglie in cui i genitori di età superiore ai 40 anni hanno perso la propria occupazione per vari motivi e non riescono a reinserirsi nel

4 Focus group svoltosi presso la diocesi di Cagliari. D’ora in avanti i rimandi ai vari contri-buti saranno indicati con la sigla fg seguita dal riferimento diocesano.

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mondo del lavoro» (fg Ozieri). La povertà, dunque, «colpisce anche le famiglie in cui c’è chi lavora ma fa fatica ad arrivare alla fine del mese» (fg Alghero-Bosa).

Emerge prepotentemente il deterioramento dei legami affettivo-relazionali, uno sfaldamento dei vincoli familiari e di coppia, una «disgregazione e debolezza della famiglia» (fg Cagliari) che spesso sfocia in «divorzi e separazioni che stanno rendendo le persone molto povere». (fg Ozieri).

Ma oltre a ciò ci sono anche i poveri in quanto “falsi poveri”: vi sono «i poveri che vivono con dignità la propria povertà (sono quelli che hanno poco, ma condividono) e quelli che vivono la propria condizione senza dignità (soltanto con il desiderio di avere)» (fg Ales-Terralba), una specie di «miseria oziosa» (fg Nuo-ro) che spesso induce a soddisfare desideri non primari «(acquistando cellulari, auto, oggetti hi-tech, e utilizzando varie finanziarie che poi li impoveriscono» (fg Alghero-Bosa). Per cui, non di rado la «difficoltà di arrivare a fine mese è dovuta anche ai bisogni indotti», che coinvolgono «persone che bussano a tante porte per avere assistenza… con due cellulari» (fg Tempio-Ampurias). Tutto ciò pone in lu-ce l’esistenza di povertà culturali, come mancanza «di valori di riferimento» (fg Cagliari), in grado di guidare le persone nei processi decisionali.

Ma povertà è anche assenza di relazioni (solitudine): spesso si associa a «mancanza di partecipazione (il poter contare qualcosa) e perdita di senso» (fg Cagliari). La stessa condizione dei detenuti «è portatrice di altri disagi, solitudine, mancanza di reti familiari» (fg Nuoro). La povertà è anche quella degli anziani con problemi di salute, spesso riconducibile all’indisponibilità di reddito (pensioni minime) e a problematiche «relazionali (la solitudine)» (fg Tempio-Ampurias). 2.2. Conoscenza del fenomeno: la consapevolezza delle situazioni di povertà

È evidente che la consapevolezza circa i processi di esclusione sociale in atto abbia molto a che fare con quanto è stato illustrato precedentemente in termi-ni generali. Motivo per cui, passando dal generale al particolare, si confermano alcune tendenze già registrate.

Sono diversi, nelle testimonianze dei partecipanti, i riferimenti a «donne sole e lavoratrici, famiglie con persone a carico e che hanno problemi di disagio mentale, carcerati, tossicodipendenti» (fg Cagliari); sono «schiere di lavoratori so-cialmente utili e di giovani, magari con titoli di studio di livello superiore – come la laurea –, che non riescono a trovare lavoro e che vivono grazie alla pensione dei genitori. Molti, di fronte a questo “cimitero sociale ed economico”, hanno deciso di intraprendere una strada che – grazie alle promesse delle miniere prima e dei “poli industriali” poi – pensavano di non dover percorrere mai più: quella dell’emigrazione» (fg Iglesias).

In questo scenario assai complesso, di fenomeni nuovi di disagio sociale, non mancano però i cosiddetti “poveri cronici”, coloro che «poveri lo sono dalla nascita, perché nati in famiglie povere da genitori poveri» (fg Nuoro); così come ci sono tante forme di disagio dovute all’uso di alcol e sostanze stupefacenti.

Esistono, inoltre, una serie notevole di vicende di disagio che spaziano dal-la situazione di «ragazze madri alle donne sole, separate dal marito, e con figli; dalla solitudine fino alla disoccupazione; per giungere alle problematiche degli anziani e degli immigrati che cercano di inserirsi in un ambiente per loro estrane-

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o. Chi vive queste situazioni in maniera quotidiana non ha alcuna aspettativa favo-revole per il futuro, per sé e neppure per i propri figli». Spesso, l’emarginazione e la solitudine «impediscono alla persona di percepirsi come cittadino con doveri e, soprattutto, con diritti; inoltre, alcune volte la povertà diviene un vero e proprio “status sociale”, ovverosia qualcosa di cronico e di indelebile» (fg Sassari).

C’è stato anche chi ha raccontato, tra i partecipanti ad un focus group, che dovendosi recare nelle famiglie per motivi professionali (in qualità di assistente sanitaria) per delle visite domiciliari, si è reso conto «della povertà in cui versano molte famiglie insospettabili […]. Alcune famiglie chiedono al consultorio di ave-re i campioni di latte in polvere pur avendo figli non piccoli, perché hanno diffi-coltà anche ad acquistare il latte» (fg Alghero-Bosa).

Un partecipante ha ammesso che nel suo paese «molte persone sono al di sotto del minimo vitale e risultano essere multiproblematiche: alcolismo, abban-dono della famiglia da parte di un genitore, prostituzione delle madri, allontana-mento dei piccoli dalla famiglia». Molte famiglie, peraltro, fanno fatica a «mante-nere i figli allo studio» (fg Tempio-Ampurias).

Molto spesso a pagare il prezzo più alto del disagio sono proprio le donne. Si pone in rilievo, in questo senso, il fatto che esse «devono assolvere i doveri di cura verso la famiglia, senza avere però i sostegni necessari in termini di servizi (asili, strutture per anziani) e d’altro canto non possono, per motivi economici, scegliere di stare a casa a badare alla famiglia» (fg Tempio-Ampurias). 2.3. La conoscenza del territorio: le cause storiche correlate alle dinamiche di povertà

Una considerazione formulata in modo pressoché unanime, da parte dei partecipanti ai focus group realizzati nelle diocesi, è che i processi di esclusione sociale hanno a che fare con fattori strutturali di tipo politico-economico. Esisto-no, infatti, dei fattori costitutivi dei percorsi di sviluppo locale che riguardano di-rettamente il campo delle decisioni e delle responsabilità assunte dalla classe poli-tica (locale e nazionale) e dal mondo dell’economia, con evidenti correlazioni con i processi di tipo culturale.

Vi è accordo unanime, da parte dei partecipanti, nel ritenere che il peso maggiore nell’adozione di un approccio disorganico alle tematiche dell’esclusione sociale (vera e propria anticamera alle strategie di intervento di stampo assisten-zialistico) sia da attribuire in toto alla classe politica, con una indeterminatezza nell’additare le responsabilità che tuttavia non favorisce un’adeguata comprensio-ne delle cause storiche circa le dinamiche di povertà. E questo perché – non è re-torico sostenerlo – se tutti sono ritenuti responsabili allora nessuno è responsabile.

Non sono pochi, in questo senso, a ritenere che sia opportuno cogliere nel profondo tutti gli aspetti connessi al fenomeno deleterio dell’assistenzialismo di Stato, secondo cui intere generazioni sono state allevate «a pane e cassa integra-zione»: lavoratori educati – loro malgrado – alla «poltronite di Stato», abituati a «ricevere senza dare nulla in cambio» (fg Ales-Terralba). Nel lungo periodo que-sta strategia ha dato vita a fenomeni di impoverimento culturale, con riflessi pe-santissimi sul piano delle strutture socioeconomiche. In tutto ciò, taluni hanno ravvisato una vera e propria defraudazione: anzitutto del «lavoro per interi territo-

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ri, come nel caso del Guspinese-Villacidrese e del Sulcis-Iglesiente» (fg Ales-Terralba), trasformati in «veri e propri distretti di povertà» (fg Iglesias). Non solo questo: l’inganno dell’assistenzialismo ha soprattutto mortificato la progettualità di intere generazioni di cittadini e lavoratori.

Le cause – è stato detto – sono prevalentemente da «ascriversi alla gestio-ne politica. [I politici, infatti,] hanno gettato la spugna, non si sono battuti vera-mente per il bene della comunità», ma per mantenere unicamente «la loro posi-zione». Inoltre, anche «la gestione economica ha le sue responsabilità legate alla mancanza di investimenti nel territorio, la quale ha portato alla chiusura di attività che in passato davano lavoro a tante famiglie» (fg Alghero-Bosa).

Dal locale al globale: si è tutti consapevoli del fatto che devono essere op-portunamente considerati sia i fattori endogeni (fra cui quelli legati ai processi di sviluppo territoriale) sia quelli esogeni (primo fra tutti la globalizzazione dell’economia). L’attività politica appare come condizionata dalle logiche del mercato internazionale e dalle multinazionali, per cui «ogni scelta politica è prima di tutto economica. Anche la globalizzazione ha avuto effetti negativi sul fenome-no della povertà. Chi era povero lo è sempre di più e chi non lo era lo sta diven-tando» (fg Alghero-Bosa).

Oltre alla politica e all’economia un ruolo importante lo gioca pure la cul-tura. È stato affermato che non bisogna dimenticare «che il cambiamento deve es-sere anche di tipo culturale. Nelle famiglie, infatti, deve cambiare qualcosa». Non poco dipende «dallo stile educativo: [al giorno d’oggi] molti genitori non voglio-no far fare rinunce ai propri figli e così abbiamo giovani che non conoscono lo spirito di sacrificio […]. Ci stiamo facendo condizionare da esigenze effimere le-gate a bisogni superflui ed educhiamo i nostri figli ad avere anche ciò che non serve» (fg Alghero-Bosa).

C’è anche chi propone una interpretazione in chiave tipicamente sociolo-gica, registrando il passaggio da una convivenza fondata sui rapporti stretti, per-sonali e caratterizzata da un forte senso di appartenenza, ad un sistema sociale in cui i rapporti sono divenuti impersonali ed individualistici: «una delle cause che generano povertà è dovuta alla trasformazione e al cambiamento che si è avuto nell’ambito socioculturale; si è passati, infatti, dalla cultura della società contadina e dei piccoli centri, in cui erano affermati valori come la solidarietà e l’amicizia, a quella tipicamente industriale delle grandi città, in cui le persone non si conosco-no, si ignorano e regna sovrana l’indifferenza» (fg Cagliari) 5.

I fallimenti dei piani di rinascita, la costruzione delle “cattedrali nel deser-to” e l’abbandono (“tradimento”) nei confronti «dell’attività agricola e pastorale» (fg Sassari), l’inadeguatezza ad assumere in prima persona responsabilità di tipo imprenditoriale – «con una scarsissima propensione al rischio» (fg Oristano) –, la

5 È implicito, per molti versi, il richiamo ai termini Gemeinschaft e Gesellschaft (usati a suo tempo da Ferdinand Tönnies), così come è sottinteso il rimando alla distinzione classica che Emile Durkheim propose alla fine dell’Ottocento, fra i sistemi di convivenza fondati sulla solida-rietà meccanica (in cui i membri svolgono le stesse funzioni e condividono gli stessi valori) e quelli basati sulla solidarietà organica (nei quali i membri svolgono ruoli differenti ed hanno valo-ri eterogenei di riferimento). Tuttavia, per evitare il rischio di cadere nei tranelli dei sociologismi capziosi o delle idealizzazioni dei modelli del passato, basterebbe chiedersi - retoricamente - se nelle società contadine si registrassero fenomeni di privazione materiale, con la conseguente man-cata soddisfazione dei bisogni primari.

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mancanza di lungimiranza politica e l’incapacità nel valorizzare le risorse locali – «con una classe di amministratori non in grado di guardare al di là del proprio na-so» (fg Iglesias) – ; ebbene, tutto ciò, a parere della maggioranza dei partecipanti ai focus group, ha posto le nostre comunità al palo per carenza di progettualità, con ripercussioni gravi sul futuro delle giovani generazioni. 2.4. Mutamenti nella sfera del disagio e nuove povertà

«Oggi si è tutti psicologicamente, socialmente, economicamente e cultu-ralmente più vulnerabili»: è questo, sostanzialmente, il forte trait d’union che lega le riflessioni emerse sul tema delle nuove forme di disagio.

Questa vulnerabilità diffusa, su cui ci siamo soffermati più volte nel corso della ricerca (si pensi alle percezioni degli operatori dei CdA o alla stessa lettura dei dati riguardanti le persone che ad essi si sono rivolte), sembra fare strada pro-gressivamente al fenomeno delle “nuove povertà”, con l’incremento dei casi di indigenza fra i lavoratori salariati, di famiglie povere che pure hanno un reddito, dei pensionati depotenziati nel proprio potere d’acquisto.

Il profilo socioeconomico dei poveri è dunque cambiato. Le nuove catego-rie sociali sono quelle dei giovani lavoratori precari, delle donne con figli a carico, dei lavoratori dipendenti e degli anziani con una pensione insufficiente a soddisfa-re i normali bisogni. Il dato economico, ancora una volta, viene percepito come preponderante.

Ciononostante, nello studio delle nuove povertà non va trascurata neppure la dimensione psicologica, in particolare quella che fa riferimento alle percezioni individuali. In molti interventi, infatti, si rileva che «tanti anni fa c’era la povertà economica, la gente andava scalza e viveva alla giornata. Ora i fenomeni sono mutati con l’arrivo del benessere generale: le condizioni di vita sono migliorate ma si sono accentuate alcune forme di disagio» (fg Ozieri). Collocandoci ancora nella dimensione psicologica, si potrebbe sostenere che il timore di poter disporre di meno, proprio perché si è raggiunto un certo benessere nel recente passato, in-duce le persone a non accettare qualsivoglia regressione.

Tuttavia, va rilevato che questa apparente “democrazia della povertà” non è altro che un sintomo palese di un pericoloso processo di indebolimento sociale. Non di rado, infatti, negli interventi si registra un incremento del divario tra i po-chi che hanno sempre di più e i moltissimi che hanno sempre di meno.

Per tale ragione può diventare povero il nostro vicino di casa, il nostro compagno di studi o collega di lavoro. Possiamo diventare poveri noi stessi.

Questa novità fa sì che ci si trovi di fronte ad un fenomeno che – per evita-re il rischio di imbarazzanti stigmatizzazioni – risulta difficilmente rilevabile e quantificabile, assumendo il più delle volte caratteristiche di vero e proprio ano-nimato sociale.

Le parole chiave, utilizzate praticamente in tutti i focus group, sono state: precarietà professionale e disoccupazione; indebolimento del “ceto medio”; disa-gio/abbandono scolastico anche per motivi economici; depotenziamento dei salari e delle pensioni a fronte del “carovita da euro”; sfaldamento dei legami relazionali e solitudine (soprattutto degli anziani); indebolimento delle condizioni di salute

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(anche per motivi di natura economica); incremento dei casi di dipendenza da so-stanze; incapacità cronica ad amministrare il proprio reddito.

Se è vero che le nuove povertà hanno per lo più a che fare con le povertà relative di cui parla l’Istat (quelle, per intenderci, che afferiscono alla sfera dei consumi), è comunque innegabile che il disagio provato abbia importanti ricadute anche sul livello di benessere psicologico e morale delle persone. 2.5. Le ipotesi di lavoro per il territorio

Un’ultima area tematica esplorata, nel corso dei focus group, è stata quella riguardante le strategie operative che andrebbero poste in essere per contrastare i fenomeni di esclusione sociale.

Speculare alla “diagnosi” della crisi del sistema economico associata all’emergenza occupazionale, è la proposta di una “terapia” costituita da nuove e più incisive politiche economiche e del lavoro.

Si avverte la necessità di ripartire dalla «tutela sociale del lavoro» (fg Al-ghero-Bosa). Il lavoro, infatti, è una delle condizioni «che permette di realizzare la promozione umana» (fg Cagliari).

Per alcuni si tratta di trovare risposte unitariamente, interagendo e co-struendo – fra tutti gli attori coinvolti (nella politica, nell’economia e nella società civile) – una «rete di sinergie operative permanenti», in grado di «superare la cro-nica incapacità a lavorare insieme» (fg Iglesias).

Non solo ammortizzatori sociali, dunque, ma strumenti in grado di favorire la produzione del reddito e il benessere diffuso delle comunità.

Le parole d’ordine diventano allora: «bloccare lo spopolamento delle no-stre comunità per far tornare a casa chi è partito; contrastare la disoccupazione in-tellettuale e affrancare un’intera generazione di giovani che è stata tradita dai pro-getti politici ed economici dei loro padri» (fg Nuoro); «attuare urgentemente la legge regionale n. 23 del 23 dicembre 2005, sui servizi alla persona; creare un os-servatorio permanente sui problemi sociali e sulle povertà del nostro territorio» (fg Oristano); «mettere in rete nuove risorse sia finanziarie che di formazione e nuovi coordinamenti mirati alle aree della società più deboli; conoscere sempre più e meglio il territorio e quindi raccogliere i dati sul disagio sociale, in modo da avere un quadro sempre chiaro ed aggiornato sulle povertà e sui bisogni della gente» (fg Ozieri); «costituire tavoli di confronto tra interlocutori diversi al fine di proporre idee e strategie (non si può affrontare globalmente la povertà in solitudine); pro-porre strategie per far emergere le povertà sommerse; sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica e le strutture pubbliche; effettuare una scelta oculata delle persone responsabili e investire sulla formazione di queste; offrire attenzione e opportunità a quei soggetti che hanno difficoltà, per ragioni anagrafiche o altre cause, di accedere al mercato di lavoro o trovare una nuova occupazione, nonché promuovere la sensibilità e la passione dei singoli cittadini» (fg Sassari).

Per sostenere le persone che vivono situazioni di disagio, e più in generale favorire dei processi di contrasto all’esclusione sociale nelle nostre comunità, so-no in molti a suggerire di non limitarsi a mettere in campo interventi di tipo esclu-sivamente materiale, che pure rimangono fondamentali: per aiutare i poveri «dob-biamo pensare a come favorire, attraverso i processi di informazione e di cono-

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scenza, strade nuove e percorsi nuovi per l’integrazione di queste persone con le dinamiche del sistema economico e sociale; occorre metterle in condizione di co-struire un percorso di relazione con le istituzioni», al fine di attivare la tutela dei diritti negati (fg Tempio-Ampurias).

Certo si tratta di azioni progettuali da collocare in un orizzonte temporale di lungo periodo, sebbene alcune decisioni rivestano il carattere di priorità. D’altra parte è da superare una certa logica strutturalmente emergenziale che caratterizza gli interventi nel sociale, i quali appaiono spesso connotati da una certa disorgani-cità e inefficacia. Ma per fare ciò occorre contrastare molte resistenze di carattere culturale. Banalmente, si potrebbe considerare che una “cattiva cultura” può esse-re superata soltanto da una “buona cultura”. E per fare ciò serve necessariamente un progetto unitario.

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CAPITOLO SESTO ALCUNI CENNI SUL WELFARE REGIONALE 1. A mo’ di premessa

La locuzione inglese welfare, oramai entrata prepotentemente in uso nel lessico politico e giornalistico italiano, viene ordinariamente utilizzata non solo tra gli specialisti o gli addetti ai lavori ma finanche nelle denominazioni istituzio-nali; a tal punto che in questi ultimi anni, in Italia, il Ministro per il Lavoro e le politiche sociali è universalmente noto come Ministero per il welfare.

Il termine, tradotto, significa letteralmente “benessere”, “prosperità”; ed è strettamente legato ad un modello di Stato sociale (denominato per l’appunto wel-fare state) messo fortemente in crisi, in quest’ultimo decennio, da alcune esaspe-rate critiche riconducibili al filone teorico del neoliberismo.

A questo proposito, non sono in pochi a ritenere che le difficoltà registrate in ordine all’applicazione di un certo modello di Stato sociale hanno a che fare, anche in Italia, con una crisi di tipo politico-culturale, piuttosto che con fattori di natura esclusivamente economica. Una crisi di “cultura del sociale” che si tramuta in forme sempre nuove di corporativismo, volte a difendere interessi particolari e a mettere in discussione, nella prassi, il valore della solidarietà 1.

In questa prospettiva, parlare di politiche sociali significa, dal punto di vi-sta di un credente, parlare di politiche tout court, proprio perché non può prevale-re l’idea secondo cui ci sarebbe una dimensione della politica residuale, che deve preoccuparsi anche del sociale, anche dei più deboli, anche dei poveri ecc. Se è vero che la «politica è la forma più alta della carità», come ci ha insegnato Paolo VI, ne consegue che, dal punto di vista della Caritas, tutte le politiche sono sociali.

In questo senso, parlando di politiche sociali è preferibile far riferimento ai temi della promozione della persona e della giustizia sociale, piuttosto che far ri-corso a terminologie quali “assistenzialismo” o “beneficenza”. In una prospettiva eminentemente politica, promuovere la persona umana, i suoi percorsi di crescita in termini di benessere individuale, familiare e collettivo significa, in primo luogo, pensare ai “servizi alla persona”: una formula attraverso cui, come ha posto bene in rilievo in un suo editoriale la studiosa Giovanna Rossi, non si intende «utilizza-re genericamente un’espressione innovativa invece di una più antica e stigmatiz-

1 Circa dieci anni fa, il sociologo francese Pierre Rosanvallon scriveva che la solidarietà non può essere concepita come il risultato meccanico del funzionamento dello Stato assistenziale. Quest’ultimo, per Rosanvallon, si presenta ai cittadini come «un dato di fatto, come un sistema au-tonomo e indipendente da essi, mentre nel suo funzionamento finanziario esso non è che la risul-tante dell’interazione dell’insieme dei prelevamenti e delle prestazioni concernenti ciascun indivi-duo. Isolata dai rapporti reali che la strutturano, l’organizzazione della solidarietà attuata da questo Stato assistenziale diventa più astratta. Lo Stato assistenziale procede meccanicamente a un vero e proprio occultamento dei rapporti sociali» (cfr. P. ROSANVALLON, Liberismo, Stato assistenziale, solidarismo, Armando Editore, Roma 1994, p. 36, l’introduzione è di Sergio Ricossa).

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zante, ma un preciso intervento sociale che intende promuovere, secondo una pro-spettiva compiutamente sussidiaria, il benessere relazionale della persona, sogget-to attivo dell’intervento» 2.

Da questo punto di vista, ragionare in termini di welfare significa far rife-rimento ad un fondamentale fattore di sviluppo sociale, non ad un mero costo per la collettività; a un modo civile e moderno di organizzare quell’adempimento del dovere inderogabile della solidarietà di cui, peraltro, parla la stessa Costituzione italiana in uno dei suoi principi fondamentali (art. 2).

Tali preoccupazioni, anche quando afferenti alla dimensione civica della partecipazione sociale, non sono estranee al mondo delle Caritas. Si spiega in que-sto senso l’intensa attività di formazione che la Caritas Italiana, e le stesse Caritas diocesane, propongono insistentemente ai propri operatori, al fine di: potenziare gli strumenti di lettura e interpretazione dei problemi sociali; formare in tutte le comunità territoriali coscienze e competenze in grado di osservare, ascoltare e di-scernere anche nel campo delle politiche sociali; favorire l’acquisizione di stru-menti aggiornati per adempiere quella funzione di vigilanza che dovrebbe esser propria di ogni comunità ecclesiale.

Questi rapidi cenni sul welfare hanno unicamente lo scopo di fornire un contributo di stimolo per la riflessione pastorale sulle politiche sociali. Si tratta di un contributo che sarà in grado di trasformarsi in chiave ermeneutica per le comu-nità ecclesiali solo nella misura in cui la stessa carità non venga relegata «all’ambito delle relazioni di prossimità, o limitata agli aspetti soltanto soggettivi dell’agire per l’altro», ma considerata semmai «nella sua autentica valenza di cri-terio supremo e universale dell’intera etica sociale» 3.

Ma lo sguardo sulle politiche sociali deve andare anche oltre l’orizzonte regionale e nazionale, per giungere possibilmente alle implicazioni sul piano eu-ropeo. Per la Caritas tale dimensione presuppone anzitutto una conoscenza appro-fondita della strategia di Lisbona, la quale ha posto la coesione sociale tra le prio-rità del modello di sviluppo europeo; ed inoltre, laddove possibile, è auspicabile una partecipazione ai partenariati promossi a livello territoriale e transnazionale attraverso specifici progetti 4.

2 G. ROSSI, Editoriale, in «Politiche sociali e servizi», semestrale a cura del Centro di Do-cumentazione sui Servizi Sociali Giovanna Maria Cornaggia Medici – Dipartimento di Sociologia, anno VI, gennaio-giugno 2004, Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2004, p. 3. 3 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 204, p. 112. 4 A questo proposito può essere citata una buona prassi che sta coinvolgendo, proprio in un progetto sostenuto dal Fondo Sociale Europeo, anche una Caritas diocesana della Sardegna. Ci ri-feriamo, in particolare, al progetto denominato Equal extreme, “Percorsi sperimentali di occupabi-lità per situazioni di disagio estremo”, che vede coinvolte a livello transnazionale, sul tema genera-le dell’inclusione sociale, l’Italia e la Spagna. In Italia partecipano al progetto, fra gli altri, la Con-federazione Nazionale dell’Artigianato (CNA) e la Caritas Italiana. Le Caritas diocesane coinvolte, invece, sono cinque: Torino, Arezzo-Cortona-San Sepolcro, Montecassino, Trani-Barletta-Bisceglie e, per la Sardegna, Iglesias. Cfr. N. DE CAPITE – L. PIETROLUONGO (a cura di), “Le abili-tà in rete. Povertà, lavoro, promozione umana: un percorso di ricerca e pratica sociale”, Autenti-crom, Roma 2006.

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2. Un passaggio fondamentale nell’evoluzione del sistema di welfare in Italia Un fondamentale passaggio, nella evoluzione del sistema di welfare in Ita-

lia, è contrassegnato dalla costituzione del Fondo sociale nazionale da un lato e dall’approvazione della legge quadro n. 328 dell’8 novembre 2000 dall’altro. Si tratta di un’importante meta raggiunta a seguito di un percorso assai lungo e non privo di difficoltà. Con tale riforma, infatti, si è finalmente definito un passaggio “epocale”: dal cosiddetto paradigma assistenziale a un sistema di protezione sociale diffusa.

La legge 328/2000 rappresenta per le Caritas uno strumento importante ed irrinunciabile di riferimento, anche al fine di interpretare le politiche sociali e met-terle in atto in maniera organica. Fra i molti aspetti innovativi introdotti da questa legge, la quale ha unificato diverse proposte normative, ne segnaliamo in questa sede almeno due: il principio cardine della sussidiarietà (intesa sia in senso verti-cale sia orizzontale); il fondamento dei diritti soggettivi su livelli essenziali di pre-stazioni o standard omogenei di servizi.

Peraltro, l’affidamento alle Regioni delle competenze esclusive in materia sociale, scaturito a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, presuppo-ne un maggior coinvolgimento comunitario, segnatamente nei processi di costru-zione allargata dei sistemi di welfare locale.

Gli importanti presupposti sul piano costituzionale e legislativo, necessari a dare sostanza a questa evoluzione del sistema di welfare in Italia, non nascondo-no, tuttavia, le incertezze sul versante operativo. Va ricordato, ad esempio, che sul tema delicatissimo dei livelli minimi di assistenza (Liveas), cui sono associati i cosiddetti “diritti esigibili”, non vi è ancora un pronunciamento chiaro da parte del legislatore italiano.

3. La legge regionale sul sistema integrato dei servizi alla persona: verso una nuova stagione di welfare regionale?

Il 23 dicembre 2005, il Consiglio della Regione Autonoma della Sardegna ha approvato la legge n. 23 sul “sistema integrato dei servizi alla persona”.

Si tratta di una circostanza dal grande valore sociale e culturale. Dopo un percorso durato oltre un anno, durante il quale sono state prodotte indagini artico-late sullo “stato dell’arte” riguardante il sociale e il sanitario nell’Isola, sono stati raccolti contributi ed istanze da parte di diverse agenzie impegnate nel settore, non trascurando gli organismi di promozione sociale, fra cui la stessa Delegazione regionale della Caritas (che ha affidato alla Regione un articolato contributo scrit-to) 5, si è giunti finalmente a un traguardo che, se sarà in grado di produrre degli esiti congruenti dal punto di vista operativo, permetterà alla Sardegna di collocarsi sulla stessa traiettoria di quelle Regioni che in questi anni hanno provveduto a re-cepire molto tempo prima i contenuti della legge 328/2000.

5 Vedasi i paragrafi 4 e seguenti del presente capitolo.

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3.1. I primi due passi: la predisposizione del “Piano regionale dei servizi sociali” (febbraio 2005) e del “Piano regionale dei servizi sanitari” (novembre 2005)

Come prima cosa, nel febbraio del 2005 viene presentato il “Piano regionale dei servizi sociali”. I principi ispiratori della prima (sul versante sociale) così come della seconda parte del Piano (sul versante sanitario) sono i seguenti: il riconoscimento della dignità della persona; la centralità delle comunità locali; il valore ed il ruolo delle famiglie; la partecipazione attiva dei cittadini; la reciprocità come risorsa sociale nelle iniziative di auto aiuto; l’autonomia e la vita indipendente; il diritto all’educazione e all’armonico sviluppo psicofisico dei bambini e degli adolescenti.

Da subito si individua come obiettivo prioritario il superamento di alcune criticità esistenti in Sardegna: la debole (o inesistente) integrazione tra le attività sanitarie e quelle sociali; la mancanza di ampie strategie territoriali; la prevalenza di interventi standardizzati. Il Piano è strutturato in modo da includere degli indi-catori relativi alle condizioni di vita, individuare dieci obiettivi sui bisogni priori-tari e otto priorità per qualificare il sistema di offerta, unitamente alla formulazio-ne di tre azioni regionali per sostenere i territori.

I dieci obiettivi sui bisogni prioritari individuati sono i seguenti: la bassa natalità; il rapido invecchiamento; lo sviluppo del capitale sociale; le condizioni di vita familiare e i carichi di cura; i rapporti tra generazioni; la povertà e l’esclusione sociale; le persone più deboli e la non autosufficienza; il disturbo mentale; i comportamenti autolesivi; la promozione della cultura della partecipa-zione e della legalità.

Grazie al Piano, con le sue due parti relative al sociale e al sanitario, si può finalmente dar vita al disegno di legge: lo strumento che rappresenta la traduzione in termini normativi delle scelte e degli obiettivi in esso contenuti. 3.2. Il passo decisivo: l’approvazione della legge regionale n. 23 del 23/12/2005

La traduzione in termini normativi avviene alla fine del 2005. Il 23 dicem-bre, infatti, il Consiglio Regionale della Sardegna approva la legge n. 23, intitolata “Sistema integrato dei servizi alla persona. Abrogazione della legge regionale n. 4 del 1998 (Riordino delle funzioni socio-assistenziali)”. Il testo di legge, composto di 49 articoli disposti in sette Titoli, fa propri i capisaldi contenuti nella legge quadro nazionale 328/2000.

Fin dal primo articolo si evince che attori di questo nuovo “sistema inte-grato di servizi alla persona” sono la Regione, gli Enti locali ma anche le comuni-tà locali e le formazioni sociali, lasciando un ampio spazio di partecipazione an-che alle realtà di promozione umana come la Caritas. Il terzo comma precisa che il “sistema integrato”, con il concorso degli attori di cui sopra, ha il fondamentale compito di «promuove[re] i diritti di cittadinanza, la coesione e l’inclusione socia-le delle persone e delle famiglie, le pari opportunità, attraverso la realizzazione di azioni di prevenzione, riduzione ed eliminazione delle condizioni di bisogno e di-sagio individuale e familiare derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà so-ciali e condizioni di non autonomia».

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La legge 23, peraltro, riconosce esplicitamente un ruolo alla Caritas, rela-tivamente alla istituzione dell’Osservatorio regionale sulle povertà. L’art. 34, in-fatti, annovera fra i componenti del medesimo Osservatorio i rappresentanti delle «organizzazioni sindacali, della Caritas, del terzo settore e delle principali orga-nizzazioni impegnate nel contrasto alla povertà […]». 3.3. Il Piano Locale Unitario dei Servizi alla persona (PLUS) e il ruolo delle Ca-ritas

Uno strumento fondamentale contenuto nella legge 23, che rappresenta una traduzione concreta di quel sistema di compartecipazione programmatoria prevista dal testo normativo, è costituito dal cosiddetto PLUS: il Piano Locale U-nitario dei Servizi alla persona. Tale strumento prevede, anzitutto, una configura-zione meno rigida (e separata) degli ambiti sanitario e sociale, individuandone un terzo a metà strada fra i due (sociosanitario). Il PLUS promuove anzitutto l’associazionismo dei Comuni (raggruppati per distretti) sul livello provinciale: per tracciare il profilo d’ambito, favorire una lettura attenta dei bisogni e delle ri-sorse, individuare le priorità e le emergenze su scala aggregata.

Gli attori istituzionali (Comuni, Province, Regione, altre istituzioni pubbli-che), gli attori sociali (semplici cittadini, organismi di volontariato e di promozio-ne sociale – fra cui le Caritas -) unitamente agli attori professionali (professionisti del socio-sanitario ma anche imprese sociali), concorrono alla elaborazione e alla gestione (con responsabilità differenti) dei PLUS.

Ciascun PLUS, la cui durata è triennale (i primi riguarderanno l’arco tem-porale 2007-2009), adempie sostanzialmente i seguenti compiti: definire il profilo sociale e sanitario del territorio; individuare gli obiettivi strategici e le priorità di intervento; elaborare le modalità organizzative e operative dei servizi sociali e sa-nitari, definire le risorse finanziarie, strutturali e professionali necessarie per ga-rantirne l’operatività; predisporre la ripartizione della spesa a carico dei singoli Enti locali, dell’Azienda Sanitaria e di tutti gli altri soggetti firmatari dell’accordo di programma; favorire le forme di coordinamento tra istituzioni e servizi; imple-mentare la rete dei tavoli di partecipazione dei soggetti deputati; valorizzare l’apporto della solidarietà organizzata, stimolando la partecipazione delle organiz-zazioni di promozione sociale presenti nel territorio; individuare e favorire l’applicazione dei criteri di monitoraggio e valutazione degli interventi.

È fuor di dubbio, tuttavia, che il riscontro circa l’efficacia di questi nuovi strumenti operativi, così come – in generale – della stessa legge 23/2005, dovrà essere effettuato su questioni molto concrete, in particolare sulle misure che sa-ranno intraprese a livello regionale rispetto ad alcuni ambiti prioritari. Anzitutto in ordine alle azioni per la prevenzione della dispersione scolastica; agli interventi di sostegno al reddito delle famiglie in condizioni di povertà; agli strumenti adottati per favorire l’inclusione socio-occupazionale (facendo attenzione, peraltro, affin-ché il reddito di cittadinanza 6 non si trasformi nell’ennesimo strumento di dema-gogico e clientelare assistenzialismo); alle attenzioni non occasionali in favore

6 A questo proposito va segnalato che la legge regionale 23/2005 prevede, all’articolo 33, l’introduzione del cosiddetto “reddito di cittadinanza” quale misura di contrasto della povertà.

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delle fasce più deboli della popolazione (in particolare le donne, gli immigrati, gli anziani, i minori e i diversamente abili); al potenziamento e la qualificazione dei servizi alla persona; alle misure volte ad implementare i servizi essenziali per le comunità delle aree rurali soggette a spopolamento.

Come si è rilevato nella nota a piè di pagina, fra le misure di contrasto alla povertà la legge 23/2005 introduce il reddito di cittadinanza, che, almeno da un punto di vista semantico, evoca sul piano nazionale il poco sperimentato reddito minimo di inserimento (Rmi) o il più volte annunciato – ma mai posto in essere – reddito di ultima istanza (Rui). Che si chiami “reddito minimo”, “reddito di ultima istanza”, “minimo vitale” o “reddito garantito” la musica non cambia: l’Italia (ol-tre alla Grecia) resta l’unico Paese europeo sprovvisto di tali misure di politica so-ciale. Pertanto, è da salutare con favore l’attenzione posta dal legislatore regionale rispetto ad uno strumento inteso, come recita il secondo comma dell’articolo 33, «quale forma specifica di intervento contro l’esclusione sociale e la povertà».

Sul reddito di cittadinanza, ma anche sugli altri ambiti prioritari sopraccitati, si giocherà in modo determinante il futuro delle politiche sociali in Sardegna. Va da sé che sarà prioritario monitorare tutti questi ambiti fin dalle prime fasi di sperimentazione e fare in modo, anche da parte di quanti hanno fortemente creduto e contribuito perché si arrivasse a quest’importante traguardo, che le molte aspettative maturate in questi anni da parte della società sarda, soprattutto delle persone più deboli, non siano disattese o – peggio ancora – tradite. 4. Il contributo della Delegazione regionale della Caritas al dibattito sul recepi-mento della legge 328/2000

I paragrafi che seguono costituiscono parte integrante di un documento consegnato dalla Delegazione regionale della Caritas (nel gennaio del 2005) all’Assessore regionale alla Sanità, la professoressa Nerina Dirindin, in previsione del varo del Piano regionale dei servizi sociali, di cui si è trattato nelle pagine precedenti.

Si ritiene importante pubblicare questo documento non solo per rendere ragione, alle comunità ecclesiali e alla società civile, dell’azione pastorale e del servizio di promozione umana e sociale che le Caritas, anche in Sardegna, portano avanti quotidianamente in ordine al delicato tema delle politiche sociali; ma anche per collocare in un percorso ben preciso lo sforzo fatto, soprattutto in questi ultimi anni, nel tentativo di superare una percezione purtroppo assai diffusa: l’opinione secondo cui il compito esclusivo della Caritas consista nel dare risposte di tipo as-sistenzialistico alle problematiche sociali.

Tale fuorviante percezione è ben lungi non solo dalla stessa natura statuta-ria della Caritas, la quale ha come mission quella di promuovere lo sviluppo inte-grale della persona umana attraverso un’azione prevalentemente pedagogica (col-laborando in rete con gli altri “attori sociali” presenti nel territorio); ma è anche distante dalla pluriennale esperienza che questo particolare organismo pastorale ha autorevolmente maturato nel campo delle ricerche e degli studi sulle povertà, finalizzati a scoprire le cause del disagio e a stimolare le politiche sociali, affinché siano veramente “a misura d’uomo”.

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La stesura iniziale di questo documento che, come si è già rilevato, la Cari-tas ha voluto affidare alle istituzioni regionali, è stata dapprima elaborata da un gruppo ristretto di lavoro. Successivamente il testo è stato emendato, recependo ulteriori elementi di riflessione da parte delle Caritas diocesane e permettendo in tal modo di dar vita ad un contributo unitario e condiviso. 4.1. Premessa su alcuni elementi di carattere generale

Nell’ambito del dibattito volto a favorire l’attuazione, nell’ordinamento regionale, della legge 328/2000, le Caritas della Sardegna hanno voluto porre l’accento su alcuni criteri di carattere generale, sollecitando l’attenzione del legi-slatore regionale su alcune questioni di particolare importanza.

Per prima cosa, al fine di sviluppare un’adeguata riflessione, è opportuno non trascurare alcuni dati di partenza:

1. Il dibattito precedente e seguente l’approvazione della “legge quadro”, le

molte attese che l’hanno preceduta e le lentezze che caratterizzano il suo inserimento nella legislazione di molte regioni, tra cui la nostra;

2. La specifica realtà della Regione Sardegna, in cui gli interventi di carattere

socio-assistenziale si scindono in due distinte aree. La prima è disciplinata da una legge in vigore oramai da oltre 16 anni (la legge 4/1988) e che ha avuto un’attuazione parziale 7. La seconda area, invece, è caratterizzata dall’erogazione di una vera e propria “assistenza economica per categoria” (talassemici, nefropatici, ecc.), stabilendo una differenziazione del bisogno e del relativo intervento – quasi esclusivamente di tipo economico – a se-conda della “patologia”, il che ha fatto in modo che si trascurasse piena-mente la costruzione di una rete integrata di servizi. In altri termini “attiva-re un servizio” non significa soltanto erogare delle prestazioni materiali. Tenuto conto di ciò, pur con la dovuta progressione, riteniamo necessario promuovere il superamento della divaricazione che percorre gli interventi di carattere socio-assistenziale, favorendo il raccordo fra i vari strumenti esistenti e quelli di prossima elaborazione;

3. Il dibattito nazionale sul cosiddetto federalismo, da cui deriva l’effettiva

necessità di accoglimento dei principi generali statali da parte delle Regio-ni. Nell’attuale situazione finanziaria – e senza il concreto ausilio dello Stato –, ciò non potrà dar luogo a un’adeguata attenzione ai livelli essen-ziali delle prestazioni sociali. In altri termini, se da un lato la Repubblica, mediante il nuovo titolo V della Costituzione, ha attribuito allo Stato cen-trale la responsabilità di stabilire i livelli di tutela da garantire ai cittadini, dall’altro lato non ha individuato concretamente i meccanismi e le fasi at-traverso cui realizzare l’effettiva equiparazione delle risorse assegnate ai

7 Tale legge, peraltro, ha introdotto un sistema di responsabilità comunitaria che, seppure disattesa da parte di molti Comuni, costituisce un patrimonio di attenzioni su cui costruire il nuovo assetto organizzativo.

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due settori, della Sanità e dell’Assistenza Sociale. Basti pensare che in Sardegna il rapporto tra spesa sociale e spesa sanitaria è di 1 a 20, il che rende alquanto difficile, per la Regione, affrontare concretamente tutte le questioni aperte sul fronte dei bisogni sociali;

4.2. Da dove partire, ovverosia le “priorità”

Detto ciò, indichiamo di seguito alcuni punti che, a nostro modo di vedere, sono di capitale importanza:

a) la persona “La legge ponga al centro la persona più che il servizio”: la preoccupazio-

ne principale deve essere sempre rivolta alle persone bisognose degli interventi previsti dalla legge. L’obiettivo prioritario è quello di promuovere un sistema di servizi volto a tutelare integralmente il benessere fisico, psichico e sociale delle persone, a cominciare da quelle più deboli, attraverso adeguate misure di contra-sto e prevenzione rispetto a condizioni che fanno scaturire o amplificano situazio-ni di marginalizzazione, disagio psico-fisico, esclusione sociale e povertà. Si trat-ta, in sostanza, di prestare la dovuta attenzione alle potenzialità e ai benefici che dovranno essere contenuti negli strumenti attuativi regionali, ma allo stesso tempo anche ai rischi impliciti per quanto concerne eventuali inadeguatezze, omissioni e sperequazioni nell’erogazione degli interventi.

b) le aree di intervento prioritario Nel porre al centro dell’azione politica la persona integralmente considera-

ta non si può fare a meno di considerare quelle aree – alcune delle quali ad alto ri-schio di esclusione sociale – verso cui dirigere in modo prioritario l’intervento de-gli strumenti normativi regionali. Anzitutto quelle segnate dalla disoccupazione di lunga durata, in cui si coniugano in un circolo vizioso depotenziamento economi-co e (dato forse ancor più grave) mancanza di prospettive per il futuro; ma anche quelle aree caratterizzate dalla povertà relativa (esclusione dagli standard medi di consumo) fino ad arrivare alle sempre più crescenti fasce di indigenti, fra cui i senza dimora (come si ha modo di registrare quotidianamente presso i Centri di Ascolto presenti in quasi tutte le diocesi della Sardegna, così come negli Osserva-tori delle Povertà e delle Risorse).

Nell’elaborazione di adeguate politiche sociali un’attenzione particolare va posta anche alle persone dimesse dagli istituti di pena e prive del sostegno fami-liare, ma anche ai nomadi e agli immigrati non ancora integrati, così come ai di-messi dagli ospedali psichiatrici privi di nucleo familiare sufficientemente attrez-zato. Inoltre, è necessario non trascurare fenomeni quali l’esclusione dall’istruzione di tanti giovani per debolezza economica del nucleo familiare, così come i fenomeni di disagio dovuti a condizioni di benessere psicofisico non suffi-cienti o soddisfacenti (ci riferiamo, in particolare, all’area delle sofferenze menta-li, delle disabilità, delle dipendenze da sostanze, ecc.). Tutte queste persone ap-paiono come dei “tasselli” separati rispetto al “mosaico” della comunità e sovente

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pongono in luce l’inadeguatezza degli strumenti preposti, quasi sempre riconduci-bili alla mera erogazione di un sussidio o di un generico accesso ai servizi.

Un altro “tassello” che contribuisce a comporre le c.d. “aree di intervento prioritario” è quello relativo agli anziani, in una Regione, come la nostra, in cui gli indici di vecchiaia e di dipendenza risultano particolarmente alti, favoriti in ciò anche dalla ripresa, in questi ultimi anni, di un significativo flusso migratorio in uscita. Si tratta di favorire una migliore cura della non autosufficienza degli an-ziani, attraverso il potenziamento della rete familiare e delle strutture preposte all’ospitalità. Anche gli anziani, come gli altri soggetti destinatari dell’intervento sociale, sono persone umane e non dei “pacchi” da “depositare” in strutture ad hoc 8. È da esigere che anche rispetto ad essi le nostre comunità siano includenti, favorendo – per quanto possibile – l’implementazione di misure che facciano de-gli anziani dei protagonisti di una società in continua evoluzione, contribuendo at-tivamente ai bisogni della comunità e recuperando, in tal modo, un ruolo sociale che incrementi l’autostima e il benessere.

Altre aree di intervento prioritario sono quelle dell’adolescenza (verso cui è auspicabile la promozione di misure preventive del disagio giovanile) e dell’infanzia, con un’attenzione particolare al sostegno dei genitori nell’assolvimento dei propri compiti educativi e di cura.

c) la collaborazione fra gli attori coinvolti e l’integrazione fra i livelli sanitario e socio-assistenziale In sintonia con lo spirito della legge 328/2000, si tratta di promuovere un

approccio che sia in grado di favorire una ricerca costante di sinergie fra i servizi e le istituzioni, capace di integrare la collaborazione fra i vari attori coinvolti (pubblici e privati, istituzionali e del volontariato), le comunità, le famiglie e le stesse persone in stato di bisogno.

Sia che si tratti della predisposizione dei piani socio-assistenziali o dei programmi comunali di intervento, sia che si affronti – come in questo caso – il tema dell’attuazione di leggi quadro in materia di interventi e servizi sociali, il concetto di sistema integrato non avrebbe senso senza l’individuazione di “tavoli di lavoro” in cui favorire il dibattito e il confronto, trattandosi di veri e propri momenti aggregativi delle comunità, e non meri luoghi tecnici di definizione di strumenti e obiettivi.

Peraltro, la titolazione della legge (“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”) attribuisce ai cittadini, quindi an-che alle organizzazioni, la possibilità di partecipare al dibattito sull’integrazione

8 A questo proposito Giovanni Paolo II, nella Lettera agli anziani (Milano, 1999), nel sottolineare che l’ideale «resta la permanenza dell’anziano in famiglia, con la garanzia di efficaci aiuti sociali rispetto ai bisogni crescenti che l’età o la malattia comportano» ha riconosciuto che vi sono alcune situazioni in cui «le circostanze stesse consigliano o impongono l’ingresso in “case per anziani” perché l’anziano possa godere della compagnia di altre persone e usufruire di un’assistenza specializzata». In ogni caso, rispetto alle persone anziane Giovanni Paolo II ribadi-sce che è necessario assumere tre precisi doveri: l’accoglienza (anche per mezzo di strutture pensate a misura d’uomo); l’assistenza (poiché trattasi di persone bisognose di attenzioni e cure particolari) e la valorizzazione delle loro qualità (in quanto detentori di esperienza).

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tra servizi sociali di diversa natura e servizi sanitari. Si evidenzia, in particolare, la possibilità concreta di porre in luce (denunciandole pubblicamente, se occorre) eventuali trascuratezze, contraddizioni, sprechi e ingiustizie. Non ci sembra fuori luogo ricordare in questa sede che il dibattito politico e sociale quotidiano, le noti-zie della stampa e la conoscenza concreta di alcune vicende come semplici citta-dini, ci mostrano un servizio sanitario sostanzialmente autoreferenziale, anche nell’uso delle risorse (fatto più a misura degli operatori che dei fruitori dei servi-zi); un sistema organizzativo poco consapevole del fatto che ogni euro risparmia-to, o comunque sottratto ad un uso superficiale, potrebbe diventare prezioso per bisogni reali ed urgenti.

Inoltre, assolutamente prioritario risulta il raccordo fra i due livelli d’intervento: sanitario e socio-assistenziale.

Trattasi di tema non nuovo (e dunque quanto mai urgente). Basti pensare che la stessa bozza del piano socio-assistenziale della Regione Sardegna di quasi dieci anni fa segnalava che fra «l’intervento sanitario promosso dalle aziende sanitarie locali e l’intervento socio-assistenziale proprio degli enti locali non si [era sviluppato] un adeguato raccordo, non si [era] consolidato un sistema di servizi consapevole dell’intersettorialità e dell’interdipendenza delle azioni sanitarie e di quelle sociali, ma due sistemi separati [tendenti] a circoscrivere, impropriamente, i loro ambiti. Ad un sanitario fortemente medico-centrico e ospedalocentrico, in Sardegna più che altrove, si è contrapposto un sociale tradizionalmente debole […]» 9.

Oggi più che mai si tratta di adottare, da parte della Regione, delle misure concrete per favorire il massimo livello di integrazione possibile tra l’intervento sanitario e quello socio-assistenziale.

d) integrazione e territorializzazione

Tenuta presente questa necessità di integrazione, si richiama l’attenzione sui problemi della corretta “territorializzazione” degli interventi sociali e quindi sulla coincidenza dei due ambiti programmatori e gestionali: sanitario e sociale. L’irragionevole scelta in senso contrario, che si sostanziasse nella costituzione di organismi diversamente articolati sul territorio, sarebbe premessa di diseconomie, di spreco e quindi di offesa nei confronti di chi, per mancanza di risorse, potrebbe non essere assistito. In Sardegna non esiste un assetto distrettuale per la Sanità, in quanto i Distretti, pure funzionanti de facto, non hanno ricevuto un mandato legi-slativo che riguardi contenuti, competenze e risorse. E questo perché la Regione non si è dotata di un proprio strumento attuativo del D.L.vo 229/99.

Il recepimento della legge 328 è un’occasione da non perdere, anche al fi-ne di permettere che Sanità e Assistenza Sociale abbiano un unico riferimento ter-ritoriale. L’attuazione dei Piani di zona 10 potrà avere contenuti rivoluzionari sul piano dei rapporti interistituzionali e potrà essere portatrice di benefici, in quanto saranno liberate risorse da mettere a disposizione dei cittadini; quelle stesse risor- 9 ASSESSORATO DELL’IGIENE E SANITÀ E ASSISTENZA SOCIALE – PRESIDENZA DELLA GIUNTA REGIONALE, Piano socio-assistenziale per il triennio 1997-1999. Bozza per la consulta-zione, Riproduzione Centro Stampa Regione Sardegna, Cagliari 22 luglio 1996, p. 9. 10 All’epoca della stesura del documento, la Delegazione regionale della Caritas non era al corrente della previsione dei cosiddetti PLUS (i piani locali unitari di servizio alla persona).

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se ora impiegate da Comuni di uno stesso territorio, anche vicinissimi fra di loro, che duplicano interventi che potrebbero essere efficacemente organizzati su base consortile.

e) la promozione delle reti di solidarietà, della sussidiarietà orizzontale e del volontariato La promozione delle reti di solidarietà è un paradigma irrinunciabile per

qualsiasi progetto di integrazione sociale. La rete di solidarietà primaria per eccel-lenza è la famiglia, in quanto soggetto che eroga autonomamente servizi primari di cura, sostegno e promozione della persona. Proprio per tale ragione, la famiglia è da considerare quale punto di partenza delle politiche sociali e partner attivo dei servizi. Si ritiene fondamentale, in tal senso, un opportuno sostegno in suo favore con l’impiego di risorse adeguate, anche attraverso l’applicazione di appositi strumenti normativi regionali.

Le reti di solidarietà si costruiscono anche attraverso la promozione di rapporti collaborativi fra le istituzioni e l’associazionismo. Pur essendo, la nostra, una Regione con un altissimo numero di associazioni che operano nel campo del volontariato, la capacità di tali organizzazioni risulta sovente indebolita, anche a causa di un’insoddisfacente collaborazione con le istituzioni e i servizi. Troppo spesso le organizzazioni istituzionali e quelle che fanno capo al mondo delle asso-ciazioni di volontariato hanno operato per linee parallele, intersecandosi solo oc-casionalmente.

Un’impostazione condivisa riguardo alla lettura dei bisogni e alle modalità di azione, concertata attraverso opportuni luoghi e momenti di lavoro (fra cui la programmazione, il monitoraggio e la verifica degli interventi), non fa altro che favorire il miglior livello possibile di integrazione fra gli attori coinvolti. D’altra parte, anche il volontariato si è (è stato) sviluppato più in funzione suppletiva ri-spetto a carenze organizzative dei servizi istituzionali, piuttosto che in rapporto di collaborazione (e pertanto in funzione integrativa) nella realizzazione dei pro-grammi di analisi, prevenzione e contrasto dei fenomeni di marginalizzazione so-ciale. Il che rimanda alla necessità di un serio discernimento da parte delle autorità regionali preposte, riguardo ai servizi gestiti dai privati, in un sistema cresciuto sensibilmente e in cui non sempre è possibile distinguere con chiarezza tra profit e non profit.

Da parte sua la Caritas, pur non essendo un’associazione di volontariato (in quanto espressione diretta della Chiesa), ha statutariamente il compito di pro-muovere il volontariato e di sensibilizzare la comunità tutta nel farsi carico dei bi-sogni dei più deboli. Forte di questa lunga e preziosa esperienza, giocata quotidia-namente a diretto contatto con i poveri, la Caritas, anche in Sardegna, ritiene di poter dare appieno il proprio contributo nei processi di analisi dei bisogni e di co-struzione delle reti di solidarietà, attraverso una metodologia fatta di ascolto, os-servazione e discernimento dei bisogni, ma anche di intervento concreto 11. 11 È il caso di sottolineare, in questa sede, che anche in Sardegna si sta costruendo – per mezzo del c.d. “Progetto Rete Nazionale” della Caritas Italiana – un coordinamento regionale dei Centri di Ascolto e degli Osservatori delle Povertà e delle Risorse, anche al fine di studiare siste-maticamente il fenomeno dell’esclusione sociale, contribuendo a produrre una Banca dati regiona-le sempre aggiornata e un Dossier regionale periodico sulle povertà.

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Infine, una particolare attenzione andrà posta allo sviluppo di una seria e concreta sussidiarietà orizzontale, attraverso cui gli Enti Locali, guardando all’efficienza e qualità degli interventi, stabiliscano corretti rapporti di collabora-zione con il volontariato e il settore non profit in genere (in cui esistono non po-che realtà di servizio e figure professionali di alto profilo, non sempre adeguata-mente riconosciute).

f) alcune scelte concrete

Tenuto conto delle argomentazioni fin qui esposte, e coerentemente con

esse, riteniamo di concludere il nostro contributo con l’indicazione di una serie di scelte concrete che si potrebbero adottare per favorire, anche in Sardegna, l’attuazione dei principi contenuti nella “legge quadro” del 2000:

1. Anzitutto, la puntuale applicazione delle garanzie previste dal Parlamen-

to ed inserite nell’articolo 24 della Legge 328, non trascurando la reale natura de-gli strumenti in esso contemplati (il reddito minimo per le disabilità parziali o to-tali, le varie indennità, il riconoscimento dei vari emolumenti in termini di pari opportunità), considerati quali «misure di contrasto alla povertà» e «incentivi per la rimozione delle limitazioni personali, familiari e sociali di portatori di handi-cap».

A tal proposito, uno dei motivi di maggior lentezza, per quanto concerne l’applicazione della normativa statale, è costituito – anche in Sardegna – dallo scarso interesse manifestato da parte di molti Enti locali, i quali, con l’applicazione puntuale dell’art. 24, perderebbero molta discrezionalità nell’utilizzo dei fondi. Quando la legge 328 sarà adeguatamente recepita, stante il vincolo a dedicare le risorse disponibili solo ai Livelli Essenziali di Prestazione Sociale (LEPS), si dovrà porre attenzione a che le Amministrazioni locali non de-roghino ai bisogni essenziali, utilizzando le risorse a proprio esclusivo piacimento. Finora quest’elemento ha frenato le Regioni e attenuato molte spinte rivendicative dei Comuni. Riteniamo sia dovere della Caritas richiamare l’attenzione (coeren-temente con la sua funzione pedagogica) sul fatto che ci si trova di fronte ad un sistema di diritti da applicare senza deroghe di comodo o per la strumentale ricer-ca di consenso 12.

2. Si ribadisce l’importanza della tutela non solo formale del diritto alle prestazioni, sia nelle strutture sia a domicilio. Più che un diritto, la prestazione dei servizi rimane un privilegio per pochi se non si provvede ad innalzare il reddito minimo. Rispetto a ciò si potrebbe studiare un sistema in cui si rendano operativi dei “voucher” personali per l’acquisizione dei servizi indispensabili, a patto che non si traducano in un alibi per l’omissione di altri interventi necessari o in una cattiva qualità degli interventi pubblici.

3. Non è fuori luogo ricordare, in questa sede, l’importanza che avrebbe un primo bilancio sulla sperimentazione realizzata in ordine all’introduzione del red-dito minimo di inserimento, compiuta in passato in quattro comuni campione della

12 Si fa riferimento, in particolare, all’uso improprio dei fondi ad hoc da parte delle Ammi-nistrazioni locali, sovente non ispirato a criteri di giustizia, tanto meno a principi di razionalità e-conomica.

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Sardegna, fra cui due capoluoghi di Provincia (Sassari e Oristano). Si potrebbe provvedere a divulgare gli esiti di tale sperimentazione e verificare che cosa ha si-gnificato tutto ciò per queste comunità, ma anche che cosa potrebbe rappresentare per gli altri Comuni della Sardegna un’eventuale applicazione di tale strumento.

4. È vano invocare l'intervento parentale che non vada oltre il rapporto ge-nitori-figli. Molte persone vi rinunciano per l’impossibilità a pagare il ticket co-munale richiesto. Si tratta di rivedere questo meccanismo non trascurando di con-siderare anche i portatori di handicap gravi o i sofferenti mentali. In altri termini, rispetto al tema dell’affido parentale si richiede la possibilità di favorirlo dotando gli interessati (se bisognosi) di adeguati supporti economici. In alcuni casi una persona che ha in affido dei parenti e ne ha reale bisogno può non averne diritto (ad esempio una nonna non dotata di adeguati strumenti economici che ha in affi-do due nipotine), mentre in altri casi lo ha chi ne ha diritto ma non ne ha alcun bi-sogno reale. In questo senso si suggerisce di rivedere con maggiore discernimento i meccanismi che disciplinano tale istituto.

5. Si vorrebbe richiamare l’attenzione sulla necessità di considerare i setto-ri dell’assistenza e dei servizi sociali non come un’opportunità per costruire nuovi immobili e neppure come automatico produttore di occupazione: convinzioni as-sai radicate nei nostri Comuni, proprio perché i lavori edilizi sono divenuti in al-cuni casi strumenti di propaganda, mentre l’occupazione della forza lavoro, in de-terminate circostanze, è servita solamente ad alimentare i meccanismi del consen-so elettorale. Ribadiamo: la legge ponga al centro la persona più che il servizio; si rafforzi la formazione degli operatori e non ci si fermi soltanto alle strutture.

6. In sintonia con quanto contemplato dalla legge 328, si vorrebbe suggeri-re – per quanto possibile – l’istituzione di un organo ispettivo con funzione di tu-tela degli interessi soggettivi dei cittadini, in particolare nei rapporti con quella parte della pubblica amministrazione operante nel settore socio-sanitario. Una sor-ta di “difensore civico” che, con funzione diversa e aggiuntiva rispetto a quella of-ferta dalle garanzie giurisdizionali, si renda garante di fronte ai cittadini dell’effettiva applicazione dei servizi sanitari e sociali, della promozione degli in-terventi atti a «garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza», della prevenzione, eliminazione o riduzione di tutte quel-le «condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, deri-vanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione» 13.

Davanti a noi abbiamo una buona occasione per promuovere una politica che sia davvero a misura d’uomo, che sia rispettosa della dignità della persona umana integralmente considerata. Una politica, se possibile, che dichiari la sua opzione preferenziale per i più deboli.

13 Cfr. l. 8 novembre 2000, n. 328, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, art. 1, “Principi generali e finalità”.

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Appendice metodologica

1. Dal Progetto Rete Nazionale al Progetto Rete Sardegna

La pubblicazione del presente volume, s’inscrive pienamente nell’ambito di lavoro del Progetto Rete Nazionale promosso dalla Caritas Italiana nel 2003. L’obiettivo prioritario di tale progetto consiste essenzialmente nell’implementare e rafforzare la rete dei Centri di Ascolto (CdA), degli Osservatori delle Povertà e delle Risorse (OPR) e dei Laboratori delle Caritas parrocchiali in tutte le diocesi italiane.

I Centri di Ascolto sono “porte aperte al territorio”, ovverosia strumenti promossi dalle Chiese locali per ascoltare, accompagnare, orientare e prendere in carico – insieme ad altre realtà territoriali – le persone in stato di disagio, stimo-lando le comunità al fine di favorire una loro assunzione di responsabilità.

Gli Osservatori delle Povertà e delle Risorse (il cui “atto di nascita” è da collegare al Convegno Nazionale Ecclesiale di Loreto del 1985), sono strumenti promossi al fine di osservare e rilevare sistematicamente le situazioni di povertà e di esclusione sociale, studiandone le cause e le risposte date dalla comunità locale, sia civile che ecclesiale.

I Laboratori delle Caritas parrocchiali, invece, hanno la fondamentale fun-zione di stimolare le comunità parrocchiali «alla testimonianza della carità, attra-verso l’ascolto delle persone in difficoltà, l’osservazione della realtà sociale» a li-vello locale, con un’attenzione mai slegata ai Paesi più poveri del pianeta.

La sperimentazione del progetto rete ha anzitutto favorito progressivamen-te l’uso di un unico metodo di rilevazione dei bisogni, delle richieste e degli inter-venti, attraverso l’impiego di una “scheda aggregata” di rilevamento (contenente i campi di osservazione essenziali) e l’adozione di un software in grado di acquisi-re, elaborare e condividere i dati delle persone che si rivolgono ai Centri di Ascol-to.

In Sardegna il progetto rete ha avuto inizio formalmente verso la fine del 2004, dapprima con l’avvio di un percorso di formazione ed accompagnamento rivolto agli operatori delle diocesi già impegnate nel servizio presso gli Osservato-ri delle Povertà e delle Risorse, i Centri di Ascolto e le Caritas parrocchiali. In un secondo momento, su indicazione dei direttori delle Caritas diocesane, sono stati individuati dei referenti locali del progetto, i quali hanno dato vita allo staff regio-nale del progetto rete 1.

È grazie a questo staff che a partire dal 2005 si è dato avvio ad un percorso di lavoro regionale condiviso che, attraverso le tre dimensioni costitutive

1 Fanno parte dello staff regionale del progetto rete: Salviano Figus (per la Caritas di Ales-Terralba); Simonetta Fadda (per la Caritas di Alghero-Bosa); Maria Bonaria Scano e Maria Sanna (per la Caritas di Cagliari); Giuliana Pilisio (per la Caritas di Iglesias); Alfonso Landolfi (per la Caritas di Nuoro); Giovanna Lai Masala (per la Caritas di Oristano); Bachisio Usai e Pina Sechi (per la Caritas di Ozieri); Marco Fresu e Francesca Corronca (per la Caritas di Sassari) e Giovanna Sanna (per la Caritas di Tempio-Ampurias).

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dell’ascolto, dell’osservazione e del discernimento, è stato incentrato fondamen-talmente:

- sul collegamento con tutti i CdA esistenti e potenzialmente aderenti alla proposta progettuale (nonché sull’impegno a moltiplicare possibilmente i luoghi di ascolto);

- sul raccordo collaborativo con gli Osservatori delle Povertà e delle Risorse

esistenti (sviluppando possibilmente le sinergie con altre realtà di osserva-zione, ad intra e ad extra del tessuto ecclesiale);

- sulla promozione nelle Caritas parrocchiali di uno stile di lavoro condivi-

so.

Ebbene, queste tre realtà pastorali, se dialoganti, costituiscono il vero e proprio “tessuto connettivo” della presenza della Caritas nelle comunità ecclesiali e nella società civile.

Va precisato, peraltro, che in occasione di questa prima sperimentazione sarda del progetto rete hanno preso parte nove diocesi su dieci: è mancata all’appello solamente la diocesi di Lanusei (per ragioni di natura organizzativa), anche se l’idea di poter annoverare questa importante realtà ecclesiale, a partire già dal prossimo anno, sta cominciando a trovare diverse traduzioni concrete.

I CdA coinvolti nei rilevamenti previsti dal protocollo di lavoro dell’indagine (quantitativa e qualitativa) sono stati di volta in volta elencati nei ri-spettivi capitoli. 2. Brevi cenni sul protocollo di lavoro quantitativo

Il protocollo di lavoro quantitativo si è basato essenzialmente sull’elaborazione statistica dei dati riguardanti le persone che si sono rivolte ai Centri di Ascolto aderenti al progetto, relativamente al periodo compreso fra apri-le ed ottobre del 2005.

L’adozione di una metodologia di rilevamento condivisa, con la raccolta dei dati contenenti le informazioni di tipo anagrafico (data di nascita, nazionalità, sesso, livello di istruzione, professione, ecc.), i bisogni delle persone rilevati dagli operatori dei Centri, le richieste formulate dalle persone ascoltate e gli interventi posti in essere dai CdA, permette di misurare in modo omogeneo i fenomeni di di-sagio delle persone, non concentrando l’attenzione unicamente sulla sfera econo-mica. È evidente che una tale metodologia non ha la pretesa di rappresentare in modo onnicomprensivo i fenomeni di impoverimento di un dato territorio (in que-sto caso la Sardegna), sia perché non tutti i “disagiati” decidono di rivolgersi ai Centri di Ascolto della Caritas (sovente anche per pudore), ed anche perché non tutte le persone sono al corrente dell’esistenza di uno strumento di questo tipo. D’altra parte però, per usare una metafora, la “fotografia” scattata, per quanto par-ziale, annovera un numero considerevole di “pixel”; è stata ottenuta grazie

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all’impiego di un obiettivo dalle apprezzabili caratteristiche tecniche e con uno sviluppo rigoroso della pellicola. Detto in altro modo, pur trattandosi in termini statistici di un campione non rappresentativo dell’intero universo, i dati dei CdA esaminati hanno consentito una significativa comprensione sociologica dei fenomeni di impoverimento. Del resto, come è stato rilevato nel più volte citato volume dal titolo Vite fragili, le ci-fre riguardanti la loro consistenza complessiva fanno ben «intravedere le enormi potenzialità di tale realtà ai fini della corretta comprensione delle difficoltà quoti-diane delle persone appartenenti alle fasce più deboli della popolazione, della loro consistenza e della loro gravità» 2. 3. Alcune considerazioni sul percorso di lavoro qualitativo

Nel suo volume, diventato oramai un classico, dal titolo Metodologia della ricerca sociale, Raymond Boudon afferma: «Senza dubbio l’impiego di metodi statistici può portare in generale alla possibilità di una verifica rigorosa. Ma come utilizzarli quando si studia un oggetto che è unico?» 3.

Ebbene, il disegno della ricerca qualitativa è stato predisposto in modo da contemplare due obiettivi essenziali, proprio a partire dalla consapevolezza dell’“unicità” dell’oggetto “povertà ed esclusione sociale”.

Da un lato l’obiettivo era quello di integrare l’analisi di tipo quantitativo con una metodologia in grado di cogliere molteplici e rilevanti aspetti sui fenome-ni di impoverimento a livello personale e familiare, non individuabili immediata-mente attraverso il solo approccio di tipo statistico.

Dall’altro lato si è voluto privilegiare un percorso a due corsie, tramite: un approfondimento attraverso le interviste biografiche ai “protagonisti” (i cosiddetti – absit iniuria verbis – “utenti” dei Centri di Ascolto) e un’esplorazione tematica per mezzo di due focus group (uno riservato agli operatori dei CdA e l’altro esteso a testimoni privilegiati individuati in ciascun contesto diocesano).

L’impiego dell’intervista discorsiva, in particolare, è avvenuto adottando un approccio conosciuto in letteratura come multimethod, ovverosia in sintonia (ma non in subordinazione) con le altre tecniche di ricerca qualitativa e quantitati-va utilizzate nel corso dell’indagine. L’intervista viene definita come lo strumento più diffuso nel campo delle scienze sociali per la «costruzione della documentazione empirica» 4, ed è nient’altro che una forma sui generis di conversazione, nella quale delle persone (generalmente due: l’intervistatore e l’intervistato) s’impegnano in un’interazione verbale nell’intento di raggiungere un obiettivo cognitivo definito a priori.

Nell’intervista discorsiva guidata, a differenza di quella strutturata, l’intervistatore conduce la conversazione seguendo un canovaccio contenente una mappa di aree tematiche da esplorare 5. Nella fase di realizzazione, l’intervistatore 2 CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili.., op. cit., pp. 415-416. 3 R. BOUDON, Metodologia della ricerca sociale, il Mulino, Bologna 1970, p. 110. 4 R. FIDELI – A. MARRADI, «Intervista», in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. V., Isti-tuto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1996, pp. 71-82. 5 Cfr. M. CARDANO, Tecniche di ricerca qualitativa…, op. cit., pp. 73-106. L’autore segna-la che le locuzioni “intervista discorsiva” e “intervista guidata” si devono rispettivamente a Rositi

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si limita ad introdurre un tema con una domanda rivolta all’intervistato, lascian-dogli sviluppare l’argomento in totale autonomia, intervenendo il meno possibile durante l’intervista e lasciando che gli elementi salienti si sviluppino a partire dal “mondo vitale” della persona intervistata.

Nello specifico sono state realizzate sedici interviste distribuite in tutta la Sardegna (due per ogni diocesi, tranne che nei casi di Lanusei ed Oristano), co-struendo un panel che permettesse di indagare in profondità alcune particolari ti-pologie di disagio emerse nel corso dell’indagine quantitativa, così come in occa-sione dei due momenti di approfondimento di gruppo effettuati dagli operatori dei Centri di Ascolto e da alcuni testimoni privilegiati.

A questo proposito, un’altra metodologia utilizzata nella fase di approfon-dimento dell’indagine qualitativa, sia come strumento esplorativo (dal forte con-notato partecipativo) sia per integrare il corpus della ricerca come supporto inter-pretativo, è quella, appunto, dei focus group 6.

La caratteristica principale di questo metodo è data dall’interazione che si stabilisce fra i soggetti che partecipano alla discussione di alcuni argomenti prede-finiti. Tale strumento si rivela particolarmente efficace «per raccogliere dati quali-tativi in un tempo limitato, privilegiando l’analisi in profondità e valorizzando le interazioni tra i partecipanti, con le conoscenze, le norme e le rappresentazioni so-ciali da queste generate» 7.

(cfr. F. ROSITI, Strutture di senso e strutture di dati, in «Rassegna Italiana di Sociologia», anno XXXIV, 1993, n. 2, pp. 177-200) e a Pizzorno (cfr. A. PIZZORNO, Considerazioni su questioni tec-niche comuni a varie scienze sociali, e in particolare sull’intervista, in «Atti del primo Congresso nazionale di scienze sociali», il Mulino, Bologna 1958, p. 147, nota 7). 6 Per una trattazione articolata e relativamente recente sul tema in discorso, si rimanda al volume curato da M. BLOOR – J. FRANKLAND – M. THOMAS – K. ROBSON, I focus group nella ri-cerca sociale, Edizioni Erickson, Trento 2002. 7 Ibidem.

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Ringraziamenti

Non potrebbe intraprendersi e realizzarsi alcun tipo di iniziativa, tanto più se que-sta reca il nome di progetto rete, senza la costruzione sapiente di un fitto intreccio di rela-zioni collaborative, di rapporti personali vincolati alla condivisione appassionata di un i-deale.

Per tale ragione, la sperimentazione tutta sarda del progetto rete, che trova una traduzione editoriale in questo Rapporto 2006 su povertà ed esclusione sociale, comporta necessariamente l’assunzione di una serie non piccola di obblighi di gratitudine.

Dobbiamo render grazie, in primo luogo, a tutti i componenti dello staff regionale del progetto rete della Caritas, per la pazienza e l’impegno dimostrati in questi anni, cui si è aggiunta – negli ultimi due mesi – la fatica supplementare nel recupero dei vari con-tributi locali, dovuto allo spiacevolissimo inconveniente cui siamo andati incontro con il furto del nostro notebook, in cui erano contenuti – fra le altre cose – anche diversi capitoli del presente Rapporto già ultimati. Sono stati personalmente coinvolti nel percorso di la-voro i seguenti referenti locali del progetto: Salviano Figus (per la diocesi di Ales-Terralba); Simonetta Fadda (per la diocesi di Alghero-Bosa); Maria Bonaria Scano e Ma-ria Sanna (per la diocesi di Cagliari); Giuliana Pilisio (per la diocesi di Iglesias); Alfonso Landolfi (per la diocesi di Nuoro); Bachisio Usai, cui si è affiancata, soprattutto negli ul-timi mesi di lavoro, Pina Sechi (per la diocesi di Ozieri); Giovanna Lai Masala (per la diocesi di Oristano); Marco Fresu e Francesca Corronca (per la diocesi di Sassari) ed inoltre Giovanna Sanna (per la diocesi di Tempio-Ampurias). Insieme a tutti loro è stato possibile creare una prima rete di ascolto, osservazione e discernimento a servizio delle comunità ecclesiali. Grazie a questo lavoro, peraltro, sarà certamente meno faticoso mol-tiplicarne ed irrobustirne le maglie.

Fra tutti loro vorrei ringraziare, in modo particolare, Giovanna Sanna e Marco Fresu, per aver avuto la pazienza di leggere in tempi particolarmente stretti le bozze del volume, suggerendo in alcuni casi emendamenti e rettifiche importanti.

Un sentito grazie va, ovviamente, ai direttori delle Caritas diocesane della Sarde-gna e ai loro collaboratori più stretti, i quali, a diverso titolo, hanno dato il proprio contri-buto alla realizzazione di questo progetto.

Un grazie particolare, pertanto, al direttore don Angelo Pittau e a don Vincenzo Salis, a Maria Antonina Sebis, Carla Serpi, Isa Saba e ai tanti operatori dei CdA della diocesi di Ales-Terralba che hanno partecipato al focus group. Un grazie di cuore a don Lorenzo Piras (direttore di Alghero-Bosa e delegato regionale), esteso ai suoi collaborato-ri più stretti (fra cui Nino Pala, Vittoria Marras, Rita Monti, Renzo Stentella, Piero Atene, Gennaro Cadoni, Andrea Vallebona, Carolina Catalano, Giuseppina Dessì, Elvira Murru). Grazie a don Marco Lai (direttore della Caritas diocesana di Cagliari) e ai collaboratori che hanno dato un prezioso contributo per la riuscita del progetto rete anche in quella diocesi (fra cui Federico Caddeo, Elena Pinna, Rosaria Floris, Franco Manca, Marcello Porceddu e i tanti operatori che con grande generosità prestano il proprio servizio nei CdA della Caritas). Un grazie, in amicizia, a don Roberto Sciolla (direttore della Caritas diocesana di Iglesias) e a Giuliana Pilisio, esteso a Renzo Pasci, Aldo Maringiò, don An-tonio Carta e alla coordinatrice del CdA diocesano Giuseppina Angius, nonché a tutti gli operatori del CdA “Marta e Maria” e a quelli del “novello” CdA di Carbonia “Madonna del Buon Consiglio”. Grazie anche a don Luigino Monni (direttore della Caritas diocesa-na di Nuoro) e a don Francesco Mariani (vicedirettore), a Tullio Moni, Daniela Bosu, Luisanna Sanna e ad Ignazio Sale. Un grazie sincero a Giovanna Lai Masala (per la pa-

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zienza, la disponibilità e l’ospitalità dimostrate), a Giuseppe Sanna e al direttore della Ca-ritas diocesana di Oristano, don Franco Porchedda. Un grazie affettuoso anche agli amici della Caritas diocesana di Ozieri: al direttore don Mario Curzu e ai suoi collaboratori più stretti (Giovanna Pani, Tonino Becciu, Franco Cau, Loretta Meledina, Maria Luisa Flores e gli altri operatori della Caritas diocesana). Un vivo ringraziamento va anche a don Fran-cesco Soddu (direttore della Caritas diocesana di Sassari) e ad Antonello Manca (vicedi-rettore), ad Antonio Grassi, Mario Salaris, suor Anna Maria Floris, Luisa Massa, Ierina Ruiu, Miriam Manca, Alberto Palmas e a tutti i collaboratori che quotidianamente opera-no – con autentico spirito di servizio – nel CdA diocesano, nella mensa, nell’ambulatorio e nelle altre iniziative della Caritas. Un grazie particolarmente affettuoso a suor Luigia Leoni (direttrice della Caritas diocesana di Tempio-Ampurias) e ai suoi collaboratori, fra cui: Mariolina Muntoni, Donatella Careddu, Nina Manchia, padre Giuseppe Piga, Marisa Muzzetto e i tanti operatori che collaborano nelle diverse “opere segno” promosse grazie all’impulso della Caritas diocesana.

A tutti loro, e ai molti ai quali chiediamo venia per averne dimenticato il nome, giunga la più viva riconoscenza.

È altrettanto doveroso ringraziare tutti gli operatori che, con il proprio prezioso contributo, hanno permesso la realizzazione del secondo capitolo del volume, in partico-lare quanti hanno preso parte alla effettuazione dei focus group sulle percezioni riguar-danti le povertà prevalenti ed emergenti nei vari territori diocesani. Non citiamo i nomi unicamente per non rischiare di dimenticarne ingiustamente qualcuno.

Un grazie speciale, inoltre, va alle “dodici pioniere” coinvolte nel progetto regio-nale di servizio civile Per dar voce a chi non ha voce, attraverso cui sono state poste basi assai solide per l’implementazione del progetto rete: Marina Frau e Maura Fanari (Ales-Terralba), Sylvia Cambula e Federica Ruiu (Alghero-Bosa), Silvia Fenu e Valentina Oro (Cagliari), Ylenia Dessì e Valeria Poggi (Iglesias), Anna Letizia Bacciu ed Alessandra Nicastro (Ozieri), Noemi Depperu e Valentina Fontana (Tempio-Ampurias).

Grazie anche ai tanti amici (sociologi, economisti, sindacalisti 1, psicologi ed as-sistenti sociali) che hanno dedicato parte del proprio tempo per discutere su alcuni model-li teorici ma soprattutto per ragionare insieme su poveri e povertà.

Una particolare riconoscenza va manifestata a coloro che, nelle varie diocesi, hanno deciso di accogliere l’invito a prender parte ai focus group allargati a testimoni privilegiati. Nel ricordare la loro partecipazione cogliamo l’occasione per esprimere sen-timenti di viva gratitudine.

Al focus group della diocesi di Ales-Terralba hanno preso parte: mons. Giovanni Dettori (vescovo); Ignazio Marras (preside); Gualtiero Atzei (medico); Salvatore Manno (insegnante); Bruno Mancosu (responsabile dei servizi sociali del Comune di S. Gavino Monreale); Salviano Figus (referente locale del progetto rete).

Per la diocesi di Alghero-Bosa: Mario Aresu (presidente dell’associazione per la tutela dei diritti degli handicappati); Pietrina Bosu (insegnante in pensione); Filippina Bellu (Caritas parrocchiale di S. Pantaleo); Franca Congiu (assistente sanitaria del consul-torio familiare); Candida Pintus (commerciante); Mariano Scanu (sindacalista); Cristina Simone (assistente sociale del Comune di Macomer); Francesco Sulas (assessore alle po-litiche sociali del Comune di Birori); Simonetta Fadda (referente locale del progetto rete).

Hanno partecipato al focus group della diocesi di Cagliari: Angelo Vargiu (asses-sore alle politiche sociali del Comune di Cagliari); don Roberto Atzori (sacerdote); Tere-sa Dessì (medico); Oriana Putzolu (dirigente sindacale); Paola Fiori (assistente sociale); Giampiero Farru (responsabile del CSV Sardegna Solidale); Franco Manca (direttore

1 Un ricordo grato ed affettuoso va indirizzato, in particolare, a Sergio Usai, recentemente scomparso.

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dell’Osservatorio Industriale della Sardegna); Maria Bonaria Scano e Maria Sanna (refe-renti locali del progetto rete).

Per la diocesi di Iglesias: Viviana Ledda (assistente sociale del Comune di Car-bonia); Brigida Aru (assessore alle politiche sociali del Comune di Iglesias); don Salvato-re Benizzi (parroco e direttore dell’Ufficio diocesano per i problemi sociali); don Roberto Sciolla (direttore della Caritas diocesana); Angela Borghero (responsabile dell’associazione “Gruppo Comunità di via Marconi”); Luisella Enas (referente dell’associazione di volontariato vincenziano); Suor Ilda Brambilla (operatrice sanitaria); Giuseppe Madeddu (presidente della cooperativa sociale “San Lorenzo”); Giuliana Pilisio (referente locale del progetto rete).

Al focus group della diocesi di Nuoro hanno preso parte: don Luigino Monni e don Francesco Mariani (rispettivamente direttore e vicedirettore della Caritas diocesana); Luisa Becciu (operatrice dei servizi sociali nell’ambito della detenzione); Ignazio Ganga (dirigente sindacale); Graziano Pintore (assessore alle politiche sociali del Comune di Nuoro); Rosy Guiso (operatrice presso una cooperativa sociale che si occupa di anziani); Lidia Caria (operatrice della ASL locale); Alfonso Landolfi (referente locale del progetto rete).

Nella diocesi di Oristano il focus group ha coinvolto: Mariano Biddau (assessore alle politiche sociali del Comune di Oristano); Filippo Scalas (sindaco del Comune di Nu-rachi); Anna Orrù (assistente sociale della Provincia di Oristano); Ada Marcis (vicepresi-dente di Antea-Cisl); padre Giovanni Zedda (parroco di Aritzo); Rosario Caeto (referente dell’associazione diocesana di assistenza ai sofferenti); padre Giovanni Petrelli (referente della Comunità “il gabbiano”); Lilly Cogotti (presidente diocesana dell’associazione di volontariato vincenziano); Pierluigi Ladu (infermiere professionale) Bruno Palmas (me-dico e referente del tribunale del malato); Giuseppe Cocco (ex dirigente sindacale); due collaboratrici della Caritas parrocchiale Beata Maria Vergine immacolata di Oristano; don Franco Porchedda (direttore della Caritas diocesana); Giovanna Lai Masala (referente locale del progetto rete).

Per la diocesi di Ozieri: Maria Teresa Rau (pediatra); Elvira Sanna (operatrice so-ciale del Comune di Ozieri); Antonio Costanza (rappresentante dell’associazione dei commercianti); Tonino Becciu (presidente della cooperativa sociale Spes); don Sanciu (cappellano dell’ospedale civile di Ozieri); Raimondo Meledina (sindacalista); Bachisio Usai (referente locale del progetto rete).

Al focus group della diocesi di Sassari hanno preso parte: don Francesco Soddu e Antonello Manca (rispettivamente direttore e vicedirettore della Caritas diocesana); Tino Grandi (esperto dell’area lavoro); Miriam Manca (collaboratrice della Caritas diocesana); suor Anna Maria Floris (referente del CdA diocesano); Suor Maria Lucia (per l’area reli-giosa); ed inoltre Italo Damiani, Luisa Massa e Ierina Ruiu (collaboratori della Caritas diocesana); Francesca Corronca e Marco Fresu (referenti locali del progetto rete).

Hanno partecipato al focus group della diocesi di Tempio-Ampurias: Caterina Garofalo (presidente della consulta del volontariato di Tempio Pausania); Salvatore Fran-co (medico); Gianni Sanna (assessore alle politiche sociali del Comune di Luras); Mar-gherita Cossu (assessore alle politiche sociali del Comune di Laerru); Laura Sini (pedia-tra); Carlo Marcetti (docente di economia all’Università di Sassari); Mariolina Muntoni (referente dell’Associazione Italiana Genitori e collaboratrice della Caritas diocesana); Marisa Muzzetto (collaboratrice della Caritas diocesana) e Giovanna Sanna (referente lo-cale del progetto rete).

Un doveroso ringraziamento giunga anche agli amici e colleghi della Caritas Ita-liana. A Renato Marinaro, Francesca Levroni e Walter Nanni (per aver condiviso la gene-si e lo sviluppo del progetto rete in Sardegna e i suoi risvolti “quantitativi” e “qualitati-vi”); a Laura Calvanelli (per il tratto di strada fatto insieme nella formazione degli opera-tori dei CdA); a Nunzia De Capite e Luigi Pietroluongo (per le sollecitazioni e

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l’amichevole mutuo aiuto nel “dialogo” assolutamente opportuno tra progetto rete e pro-getto equal-extreme); ed infine – ultimi ma non ultimi – a Marco Iazzolino e Paolo Pez-zana, per l’impegno volto a far crescere la consapevolezza, anche negli ambienti ecclesia-li, circa la centralità delle politiche sociali.

Ci sarà certamente consentito, infine, chiudere questa sorta di tabula gratulatoria esprimendo la maggiore riconoscenza a quanti, pur nel disagio e nella sofferenza, hanno deciso di affidarci le proprie storie di vita. Siamo ben consapevoli che nel loro sguardo è sempre possibile intravedere il nostro; quello sguardo impaurito e dolente che – come racconta il bel libro della Mazzantini – avremmo potuto avere anche noi «se il [nostro] spicchio di mondo non [ci] avesse accolto. Perché in ogni vita ce n’è almeno un’altra» 2.

RAFFAELE CALLIA

2 M. MAZZANTINI, Zorro. Un’eremita sul marciapiede, op. cit., p. 14.

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Osservazione dei percorsi di povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna

Rapporto 2006 su povertà ed esclusione sociale in Sardegna Questa pubblicazione contiene gli esiti del primo Rapporto regionale della Caritas, riguardante i fenomeni di disagio ed esclusione sociale, rilevati in Sardegna attraverso l’ascolto, l’osservazione e il discernimento delle storie dei “principali protagonisti”: i poveri, gli “ultimi della fila”, coloro che stanno al margine della società. I risultati di questo rapporto, che dal punto di vista metodologico si colloca nell’ambito della teoria multidimensionale della povertà, pongono in luce come anche in Sardegna ci siano “vecchie povertà” e “nuovi poveri”: a trovarsi in condizioni di disagio non sono solo i senza dimora o più in generale coloro cui siamo abituati ad associare le immagini proposte dai mass media; ci sono anche quanti vivono situazioni di fragilità all’interno del proprio nucleo familiare, i disoccupati e i lavoratori precari (fra cui molti giovani), i “poveri dell’euro” e gli immigrati, ma anche le persone che cercano “rifugio” nell’alcol e nella droga, quelli che non riescono a trovar casa e chi vive il disagio mentale, gli anziani che non possono spendere e le famiglie che spendono troppo e male. Oltre ad includere una descrizione analitica della “rete” dei Centri di Ascolto coinvolti nella ricerca, il Rapporto propone un punto di vista del disagio attraverso le due lenti dell’indagine quantitativa e qualitativa: con la prima si propone un’analisi statistica dei dati registrati nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna; con la seconda, invece, si focalizza l’attenzione sulle storie di vita delle persone in stato di disagio, arricchendo la riflessione con le percezioni degli operatori delle Caritas e con quelle proposte da una rete articolata di “testimoni privilegiati”. La CARITAS è «l’organismo pastorale della Chiesa italiana che opera dal 1971 per promuovere la testimonianza della carità, il dono di sé, l’amore preferenziale per gli ultimi. Ciò si traduce in iniziative di educazione alla solidarietà, alla mondialità, all’interculturalità e alla pace; azioni di ricerca e sensibilizzazione e, se necessario, stimolo delle istituzioni e denuncia di ingiustizie; interventi concreti di solidarietà locale o internazionale in situazioni di emergenza o sottosviluppo». La DELEGAZIONE REGIONALE DELLA CARITAS è «l’organismo specifico della Chiesa sarda» costituito «per meglio aiutare la comunità cristiana dell’Isola a vivere la testimonianza della carità nel servizio dei poveri», in base alle indicazioni date dalla Conferenza Episcopale Italiana (Cfr. CES, La Chiesa di Dio in Sardegna all’inizio del terzo millennio. Atti del Concilio Plenario Sardo).