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PROVINCIA DI BERGAMO SETTORE POLITICHE SOCIALI e LABORATORIO PROVINCIALE EXTRASCUOLA PROGETTI EXTRASCUOLA Laboratorio di esperienze e apprendimenti fra scuola, famiglia e territorio SEMINARI E INCONTRI FORMATIVI Itinerari Formativi

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PROVINCIA DI BERGAMOSETTORE POLITICHE SOCIALI

eLABORATORIO PROVINCIALE EXTRASCUOLA

PROGETTI EXTRASCUOLA

Laboratorio di esperienze eapprendimenti

fra scuola, famiglia e territorio

SEMINARI E INCONTRI FORMATIVI

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PROGETTI EXTRASCUOLA

Laboratorio di esperienze eapprendimenti

fra scuola, famiglia e territorio

SEMINARI E INCONTRI FORMATIVI2005-2007

PROVINCIA DI BERGAMOSETTORE POLITICHE SOCIALI

eLABORATORIO PROVINCIALE EXTRASCUOLA

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Coordinamento editoriale:

Silvano Gherardi – Dirigente del Settore

Il quaderno è a cura di:

Franco Floris direttore della rivista Animazione Sociale e conduttore del Laboratorio Provinciale Extrascuola

Emilio Majer educatore professionale, consulente del Settore area minori

Piergiorgio Reggio docente della facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Cattolica di Milano, esperto di formazione adulti

Beatrice Testa pedagogista, funzionario del Settore

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LABORATORIO PROVINCIALE

EXTRASCUOLA

ASSOCIAZIONI GENITORI: Age e Agesc

ASSOCIAZIONI: Arci e Auser

ASL DELLA PROVINCIA DI BERGAMO - Ufficio L.R. 23/99

COMUNI, COMUNITÀ MONTANE E AMBITI TERRITORIALI

COOPERAZIONE: Confcooperative e Lega delle Cooperative

DIOCESI DI BERGAMO - Ufficio Pastorale dell’Età Evolutiva e Ufficio Pastorale Scolastica

MEDAS onlus

PROVINCIA DI BERGAMO - Settore Politiche Sociali

UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE

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AUTORI DEI CONTRIBUTI

Max Archetti, referente nel Laboratorio delle associazioni che gestiscono progetti extrascuola

Don Alessandro Beghini, Ufficio per la Pastorale dell’Età Evolutiva della Diocesi di Bergamo

Corrado Brignoli responsabile dell’Unità Operativa per le Politiche della Famiglia della Comunità Montana Val Cavallina

Giusi Caio, referente del Coordinamento dei responsabili degli Uffici di Piano degli Ambiti Territoriali della provincia di Bergamo

Franco Floris direttore della rivista Animazione Sociale e conduttore del Laboratorio

Benvenuto Gamba referente del Coordinamento dei responsabili degli Uffici di Piano degli Ambiti Territoriali della provincia di Bergamo

Vanda Gibellini dirigente dell’Istituto Comprensivo di Ponte Nossa e referente per la Scuola nel Laboratorio

Elena Lazzari responsabile della Divisione Servizio Sociale Centrale del Comune di Bergamo

Marta Locatelli collaboratrice dell’Ufficio per la Pastorale dell’Età Evolutiva della Diocesi di Bergamo

Emilio Majer consulente del Settore Politiche Sociali della Provincia di Bergamo area minori

M. Carla Marchesi responsabile dell’Ufficio Interventi Educativi dell’Ufficio Scolastico Provinciale e referente per la Scuola nel Laboratorio

Silvio Petteni presidente provinciale AGESC e referente per le Associazioni dei genitori nel Laboratorio

Marica Preda presidente della cooperativa sociale Linus e referente per la Cooperazione sociale nel Laboratorio

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Piergiorgio Reggio docente della facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Cattolica di Milano, esperto di formazione adulti

Elena Righetti formatrice esperta in educazione degli adulti e in progettazione didattica

Stefano Rota coordinatore Assistenza Domiciliare Minori del Consorzio Solco Città Aperta

Andrea Sammali psicologo di comunità e psicoterapeuta, formatore e supervisore

Beatrice Testa pedagogista, funzionario del Settore Politiche Sociali della Provincia di Bergamo

Marco Zanchi referente del Consorzio Solco Priula e coordinatore dei progetti dell’Ambito Territoriale dell’Isola Bergamasca e Bassa Valle San Martino

Astrid Zenarola collaboratrice dell’Ufficio per la Pastorale dell’Età Evolutiva della Diocesi di Bergamo e referente per gli Oratori nel Laboratorio

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La pubblicazione nasce all’interno di un progetto attivato dalla Provincia di Bergamo Settore Politiche Sociali in collaborazione con il Laboratorio Provinciale Extrascuola, ambito di raccordo interistituzionale costituito con l’obiettivo di studiare, promuovere e sostenere le esperienze dei servizi e progetti dell’extrascuola nel territorio provinciale. Il volume raccoglie documenti prodotti nell’ambito del Laboratorio e contributi dei relatori e formatori del percorso “Progetti extrascuola. Laboratori di esperienze, apprendimenti e relazioni fra scuola, famiglia e territorio”, realizzato nel periodo novembre 2005 - giugno 2006 e articolato in incontri di formazione e seminari.

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INDICE

PRESENTAZIONE pag. 9di Valerio Bettoni e Bianco Speranza

1. UN PROGETTO PER L’EXTRASCUOLA Il progetto extrascuola e il Laboratorio provinciale pag. 15

di Beatrice TestaI servizi extrascuola in provincia di Bergamo pag. 24

di Emilio MajerI ragazzi dell’extra.lab. Fare laboratorio con i ragazzi pag. 38

a cura di Franco Floris

2. SCUOLA, FAMIGLIA E TERRITORIO INSIEME PER GLI APPRENDIMENTI

La scuola per il diritto all’apprendimento pag. 81di Maria Carla Marchesi

Gli oratori per l’extrascuola pag. 90di Astrid Zenarola, don Alessandro Beghini e Marta Locatelli

La cooperazione per l’extrascuola pag. 93di Marica Preda

L’associazionismo per l’extrascuola pag. 98di Max Archetti

I genitori fra scuola ed extrascuola pag. 101di Silvio Petteni

Il territorio: l’extrascuola come strumento per le politiche sociali per i minori - Gli Ambiti Territoriali e i servizi extrascuola pag. 103

di Giusi Caio

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- L’approccio comunitario come necessità per le politiche per i minori pag. 105 di Benvenuto Gamba

3. EXTRASCUOLA: “IMPRESE DI COMUNITÀ” INTORNO AL DIRITTO DEI RAGAZZI ALL’APPRENDIMENTO Progettare nell’extrascuola pag. 113

di Piergiorgio ReggioQuali progetti pag. 117

di Elena RighettiUn laboratorio degli apprendimenti pag. 128

di Piergiorgio ReggioAccompagnare e sostenere i processi di apprendimento pag. 138

di Elena RighettiUn laboratorio di comunità pag. 145

di Franco Floris e Piergiorgio ReggioExtrascuola come impresa di comunità pag. 162di Andrea Sammali

4. BUONE PRASSIUn patto educativo per l’extrascuola in Val Seriana pag. 173

di Vanda GibelliniLa sovracomunalità come risorsa: l’esperienza della Val Cavallina pag. 177Corrado Brignoli

Partnership possibili: l’esperienza nell’Isola Bergamasca pag. 180

Marco ZanchiInterventi di tutela e prevenzione: progetti territoriali nella città di Bergamo pag. 182

Elena Lazzari e Stefano Rota

5. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI pag. 191

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PRESENTAZIONE

Questa pubblicazione, che abbiamo il piacere e la soddisfazione di

presentare, propone molteplici contributi e riflessioni sull’extrascuola,

un’area delle politiche sociali per i minori che, benchè caratterizzata da

una rete di servizi e progetti che svolgono una capillare azione educativa

e preventiva, per molti anni non è stata sufficientemente considerata dalle

istituzioni territoriali. Siamo convinti che – in una stagione nella quale

il dibattito socio-educativo è condizionato dalle attenzioni sul futuro del

welfare – pubblicazioni come queste, insieme al percorso di formazione e

di elaborazione culturale che l’ha prodotta, siano particolarmente preziose

e necessarie.

E’ importante infatti in campo educativo, superando la logica imminente

delle emergenze, mantenere aperti spazi di riflessione e occasioni di

confronto sulle prassi, sulle esperienze, sui saperi che, nei territori, soggetti

diversi del pubblico e del no profit stanno costruendo insieme.

Nel nostro territorio provinciale sono molte le iniziative esistenti. La

ricognizione effettuata nell’anno scolastico 2003-2004 ne ha evidenziate

127. L’aggiornamento al gennaio 2007, circa 200. Sono molte, radicate nei

territori, anche se spesso presentano dimensioni di fragilità, sul piano del

modello organizzativo o dell’impianto pedagogico, ma soprattutto sul piano

delle risorse economiche.

Le fonti di finanziamento utilizzate per i progetti dell’extrascuola spesso

non sono in grado di garantire per il futuro risorse certe e stabili: il passaggio

dalla legge 285/97, che metteva a disposizione risorse esclusive e mirate,

alla L.328 ha aperto ad una negoziazione circa le priorità di destinazione

delle risorse, e nei territori aumentano i bisogni e si dilatano le priorità;

la logica dei bandi annuali della legge regionale 23/99, che di recente ha

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riconosciuto l’importanza dell’azione svolta dai servizi extrascuola, sostiene

innovazione e sperimentazione, ma non favorisce la stabilizzazione di una

rete di offerta.

Eppure noi tutti sappiamo che gli spazi della quotidianità, i luoghi educativi

che stanno dentro la vita ordinaria delle comunità sono quelli in cui si

gioca la qualità dei processi di crescita dei nostri figli.

Perché ciò che è in gioco non è la sopravvivenza dei servizi, né il posto di

lavoro degli educatori, né l’esistenza di luoghi di custodia che sollevino le

famiglie dalle preoccupazioni circa la gestione del tempo libero dei figli.

Istanze queste legittime ma parziali.

Crediamo che ciò che è in gioco è la possibilità di dare concretezza a parole

quali “promozione dei diritti e delle opportunità”, prevenzione del disagio,

promozione di cittadinanza, che, se non si sostanziano in atti concreti,

finiscono per celebrare se stesse e colorarsi di retorica fastidiosa.

La responsabilità sociale cui siamo chiamati come amministratori, come

soggetti istituzionali e della società civile è quella di fare davvero politica

per i minori, dare concretezza agli orientamenti con delle scelte di priorità,

chiedendo che anche gli altri facciano la loro parte; perchè gli enti locali,

i Comuni, che per i cittadini sono l’interlocutore vicino e raggiungibile,

e i soggetti della società civile non siano lasciati soli nel rispondere alle

domande crescenti di sostegno alle molte fragilità e insieme di promozione

di condizioni di vita buone, per sè e per i più piccoli, nei territori.

Nella nostra provincia abbiamo tante realtà, tante disponibilità e abbiamo

costruito prassi e saperi importanti proprio nell’ottica della valorizzazione

reciproca e della concertazione. Non perdiamo questo orizzonte comune

di pensiero e di lavoro.

Le riflessioni svolte all’interno del Laboratorio provinciale e i contributi

portati nel percorso formativo hanno evidenziato con chiarezza alcuni dei

compiti della “politica”, quella vera, seria, vicina:

- costruire le condizioni perché i ragazzi, e anche gli adulti, possano fare

esperienze di apprendimento. Esperienze significative sul piano individuale,

della costruzione di sé, ma anche esperienze riconosciute socialmente,

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che assumano rilevanza sociale;

- individuare e proporre strategie diversificate che possano rispondere a

situazioni, problemi, soggetti specifici; evitare strategie standardizzate che

inevitabilmente escludono ed espellono chi non sta dentro il sistema;

- individuare modalità diverse di apprezzamento dei ragazzi, modalità che

diano valore a quello che sanno essere e sanno fare;

- aumentare la cultura tra gli adulti, promuovere reti per costruire un humus

culturale più alto, un humus diffuso, non solo di elite o di nicchia;

- costruire e ridefinire insieme i significati, confrontandosi tra soggetti

diversi, ponendosi come comunità.

Il nostro impegno come Settore Politiche Sociali è stato e sarà quello

di sostenere i progetti dell’Extrascuola agendo, attraverso iniziative

concertate, le tre funzioni che ci sono proprie: la ricerca, la formazione e

la promozione culturale.

Esprimiamo un ringraziamento a tutti gli enti e le organizzazioni che

partecipano al Laboratorio provinciale Extrascuola, al conduttore dott.

Franco Floris, ai relatori e ai testimoni di buone prassi e a tutti i soggetti che

operano nelle molte iniziative realizzate nei territori, che ci accompagnano

nei percorsi di promozione culturale e di formazione.

Bianco Speranza Valerio Bettoni

Assessore alle Politiche sociali Presidente

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1UN PROGETTO PER

L’EXTRASCUOLA

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IL PROGETTO EXTRASCUOLA

E IL LABORATORIO PROVINCIALE

di Beatrice Testa

Cuciture

Un sarto ebreo ricevette da un nobile della sua città l’incarico di

cucire un raro capo di vestiario con un tessuto prezioso acquistato a

Parigi. Il nobile raccomandò al sarto di realizzare un capolavoro. Il

sarto sorrise e rispose che non c’era bisogno di incitamenti perché lui

era il migliore della regione.

Terminata l’opera portò il vestito dall’illustre cliente, ma ne ricevette

in cambio solo ingiurie e accuse di aver rovinato il tessuto.

Il sarto frastornato e avvilito andò a chiedere consiglio da Reb

Yerahmiel che gli disse pressappoco così: “Disfa tutte le cuciture del

vestito e poi ricucile esattamente negli stessi punti di prima. Poi

riportaglielo”. Il sarto seguì lo strano consiglio e riportò il vestito al

nobile. Con sua sorpresa il signore fu entusiasta del lavoro e aggiunse

anche un premio al salario. Reb Yerahmiel gli spiegò poi: “La prima

volta tu avevi cucito con arroganza e l’arroganza non ha grazia.

Perciò sei stato respinto. La seconda volta hai cucito con umiltà e il

vestito ha acquistato valore”. E’ decisiva l’intenzione più della perizia,

l’ispirazione più della maestria, anche negli umili lavori […] . La sola

abilità tecnica è sterile, vana.

Per chi è abituato a considerare solo il prodotto finito e non il modo

con cui lo si lavora, per chi giudica l’opera e non l’intenzione, questo

racconto è invano.

Le cuciture quotidiane, che chi lavora in ambito educativo deve

continuamente fare, disfare, rifare, sono un lavoro antico, paziente

e insostituibile che, pur avendo poco a che fare con la novità,

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produce ogni volta risultati nuovi, importantissimi.

Non sempre le cuciture sono evidenti, molte volte la loro presenza

è percepibile solo dalla coesione di ciò che prima non era unito,

ma è nel lavoro di cucitura e non nel suo risultato finale l’essenza

del processo.

Testo di Erri De Luca “Cuciture”1 riportato in un articolo di Franca

Mazzoli, pedagogista di Bologna, sul numero di settembre 2005 della

rivista “Bambini” ed Junior.

Negli ultimi anni si sono sviluppati in modo diffuso interventi aggregativi che

fra i loro obiettivi si propongono di offrire ai ragazzi un supporto scolastico

all’interno di un contesto diversificato e secondo un’articolazione che

coniuga il momento dello studio al momento del gioco, dell’animazione,

della relazione.

Nonostante questi servizi si siano a volte sviluppati come proposte

“residuali” o “di carattere compensativo” rispetto ad altri ambiti educativi

e formativi, essi rappresentano degli interventi che si collocano in una

posizione potenzialmente strategica per le politiche sociali rivolte ai

minori.

Questi servizi infatti si pongono in un’area di connessione fra le

responsabilità e le attenzioni educative della famiglia, della scuola e del

territorio e consentono di attivare proposte che integrano al loro interno

valenze promozionali, preventive e di integrazione culturale.

Se da un lato la residualità ha generato soluzioni creative, che hanno

portato ad investire risorse diversificate (dagli operatori professionali, a

giovani volontari e ai genitori associati) e a valorizzare contenitori e soggetti

socio-educativi già impegnati nel territorio, dall’altro lato ha messo in

evidenza alcuni limiti e soprattutto alcuni elementi di fatica che rischiano

di depotenziare e disperdere il patrimonio di esperienze e di energie che

1- Erri De Luca “Alzaia”, Feltrinelli 2004, p.33

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questi progetti hanno saputo mobilitare.

La mancanza di un raccordo organico fra le componenti impegnate

nell’attuazione degli interventi, la solitudine delle figure educative, la

carenza di supporti e orientamenti necessari per sostenere la fatica della

gestione del ruolo educativo in un “setting” debole possono indurre forme

di turn over, discontinuità degli interventi e azioni non sufficientemente

qualificate sul piano educativo.

A partire da questa analisi il Settore Politiche Sociali della Provincia di

Bergamo - d’intesa con l’ASL, l’Ufficio Pastorale dell’Età Evolutiva della

Diocesi di Bergamo e l’Ufficio Scolastico Provinciale - ha promosso un

progetto specifico finalizzato a dare visibilità e riconoscimento sociale e a

valorizzare e supportare le esperienze di collaborazione tra scuola, famiglia

e territorio per qualificare il tempo dei ragazzi nell’extrascuola.

Il Progetto Extrascuola propone un insieme di azioni coordinate sviluppate

a più livelli:

- il Laboratorio Provinciale Extrascuola, come luogo di raccordo e

coordinamento dei referenti degli Enti e delle Organizzazioni significative

di questa area di intervento per allargare la condivisone delle finalità del

progetto; in questa sua configurazione interistituzionale il Laboratorio

ha costituito il motore e la bussola del progetto stesso ed ha sviluppato

un percorso di rilettura delle esperienze e di elaborazione di riflessioni

ed orientamenti utili alla progettazione, alla gestione e alla qualificazione

delle iniziative nell’extrascuola;

- la ricognizione delle esperienze di collaborazione scuola-famiglia-territorio

per qualificare il tempo dei ragazzi nell’extrascuola, finalizzata a favorire

la conoscenza e promuovere la visibilità di queste iniziative e del

potenziale che esse possono rappresentare all’interno delle comunità

locali ;

- i percorsi di formazione pensati per valorizzare, sostenere e qualificare

ulteriormente, anche attraverso il confronto di esperienze, le risorse

educative e le realtà organizzative che sono impegnate in queste

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forme di intervento: responsabili e coordinatori dei servizi, operatori

professionali e volontari, referenti delle agenzie educative territoriali,

partner in un patto per assicurare una “continuità responsabile”

tra scuola ed extrascuola, fra apprendimenti nel tempo scolastico e

apprendimenti nel tempo libero.

Il Laboratorio Provinciale Extrascuola

A partire dalla condivisione delle analisi e delle ipotesi di lavoro prospettate

dal Progetto Extrascuola, il Laboratorio Provinciale ha avviato il suo

compito di riflessione ricercando un comun denominatore che potesse

aiutare a definire in modo più chiaro e condiviso i progetti dell’extrasuola,

un insieme di iniziative diffuse capillarmente nel territorio e promosse

da vari soggetti (enti locali, parrocchie, associazioni, cooperative, ecc.) in

raccordo con la scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado che,

come ha ben evidenziato la ricognizione svolta, presentano caratteristiche

diverse e a volte originali.

Ciò che in particolare il confronto fra le diverse componenti del Laboratorio

ha permesso di cogliere con maggiore chiarezza è che le potenzialità

dell’extrascuola possono essere concretizzate soltanto assumendo scelte

pedagogiche consapevoli e operando traduzioni organizzative coerenti

che consentano di attraversare alcune ambivalenze che sfidano l’impegno

educativo a trovare un equilibrio originale fra diverse centrature:

- extrascuola come luogo dove i ragazzi possano fare insieme “compiti

e non solo compiti” o come percorso di ricerca intorno all’avventura

dell’apprendere in un rapporto di continuità fra scuola e tempo libero,

fra saperi della scuola e saperi dell’extrascuola;

- un “dopo-scuola” per recuperare cosa e chi non riesce a scuola o

un nuovo modo di promuovere dentro le comunità, a favore di tutti

i ragazzi, l’apprendimento e la cultura, attraverso nuove forme di

partnership fra una “scuola che si fa territorio” e un territorio che si

assume la responsabilità di dar vita a una formazione di qualità a scuola

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e non solo;

- una opportunità per portare attenzione alle difficoltà o alle potenzialità

di apprendimento cognitivo del singolo ragazzo o per integrare i processi

di formazione della scuola con gli apprendimenti, altrettanto essenziali

per la crescita, promossi dai diversi ambiti di socializzazione: famiglia,

gruppalità istituzionale della scuola e della classe e gruppalità elettive

del tempo libero.

L’analisi delle esperienze e il confronto fra le diverse prospettive di

osservazione rappresentate nel Laboratorio ha inoltre favorito l’emergere

e l’esplicitarsi di alcune “insidie pedagogiche” in cui le progettualità

dell’extrascuola possono incorrere se non supportate da una progettualità

sufficientemente pensata sul piano educativo:

- il rischio di una doppia marginalità: soprattutto quando lo spazio

extrascolastico si colloca ai margini della scuola, da una parte sopportato

con sufficienza (come esperienza di serie B rispetto alla scuola) e

dall’altra gestito con altrettanta sufficienza, inficiato da superficiali

pregiudizi e luoghi comuni sulla scuola;

- il rischio di aumentare la ghettizzazione sociale di chi fa fatica, quando i

ragazzi con problemi sociali rischiano di ritrovarsi (solo) tra loro, senza

una scambio sociale allargato, con un forte impoverimento relazionale

sia orizzontale che verticale. L’intenzione di integrare si trasforma

inconsapevolmente in una doppia emarginazione: al mattino in classe,

al pomeriggio nell’extrascuola…;

- il rischio di omologazione dei bisogni e dei problemi attraverso

interventi generici e semplicisti; limitarsi a fare i compiti non basta,

perchè problemi diversificati di apprendimento richiedono interventi

diversi e specifici: perdita di motivazione e del senso dell’andare a

scuola, carenza di identificazione positiva in figure adulte, mancanza

di esperienza positiva nei gruppi di pari, disturbi cognitivi specifici che

richiedono attenzioni specialistiche, ecc.;

- il rischio della presa in carico di problematiche complesse con

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professionalità e strumenti deboli, che portano spesso ad accettare

deleghe impegnative (da famiglie, scuole, comuni, servizi sociali) con un

eccesso di presunzione in chi opera (a livello professionale o volontario)

senza una progettualità definita, senza una adeguata condivisione in rete

dei problemi e delle risorse e senza il conforto di funzioni di supporto,

di opportunità di formazione e di confronto con altre esperienze.

Attraverso l’analisi e la riflessione intorno alle criticità e alle potenzialità

individuabili nelle esperienze si è progressivamente delineato uno

scenario nuovo per l’extrascuola, ricco di una molteplicità di direzioni di

investimento possibili in rapporto ad una comune preoccupazione delle

comunità adulte: incoraggiare, sostenere e orientare i ragazzi nell’avventura

dell’apprendere che si snoda in un rapporto di continuità fra scuola, tempo

libero, famiglia e territorio. Si è potuto cogliere che dietro questa comune

preoccupazione ci sono domande molto diverse cui spesso, per imperizia,

per ristrettezze di tempo o di risorse, si rischia di offrire una risposta

univoca, in termini semplificati o standardizzati. Non esiste quindi un

modello di doposcuola, ma possono convivere modalità articolate di farsi

carico insieme dei problemi correlati alle esperienze di apprendimento dei

ragazzi, che si collocano su quadranti diversi dello scenario complessivo

dell’extrascuola, come si può desumere dalla tavola che segue, elaborata

nell’ambito del Laboratorio:

STORIE DI NORMALITÀ

STORIE DI DIFFICOLTÀ

CO

MP

ITI

AG

GR

EG

AZ

ION

E

Sostegno alle competenze necessarie per rispondere

alle sollecitazioni della scuola

Concretizzazione del diritto alla gruppalità, restituendo apprendimenti sociali che danno senso allo studio e alla cultura e promuovono l’avventura dell’apprendere

Sostegno alle difficoltà individuali, restituendo forme di “diverso

apprendimento” e offrendo una

“seconda chance” di successo

Aiuto in rapporto alle competenze relazionali, restituendo capacità di apprendimento sociale e speri-mentazione di sé in gruppalità di tipo elettivo (oltre il gruppo classe)

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L’analisi dei processi di implementazione delle diverse esperienze

ha permesso, infine, di cogliere la possibilità di istituire percorsi

di progettazione sociale e laboratori di comunità che, a partire dal

riconoscimento dell’extrascuola come “bene comune”, possano dar vita

ad una piccola ma significativa impresa di comunità intorno al diritto dei

ragazzi all’apprendimento.

Questa nuova direzione di lavoro apre una prospettiva di senso del tutto

inedita per i laboratori dell’extrascuola: da strumenti messi in campo dalla

comunità adulta per accompagnare i ragazzi nell’avventura dell’apprendere

a contenuto fondamentale di un dialogo aperto nella comunità intorno ai

nuclei di una nuova pedagogia della democrazia, testimoniata in modo

diretto ai ragazzi da una comunità che sa riconoscere le sfide emergenti e

sa mobilitarsi per salvaguardare il bene di ciascuno e di tutti.

Non è stato facile portare a temine gli intenti che il Laboratorio Provinciale

Extrascuola si era proposto, poiché non è mai facile lavorare su aree

educative di confine, dove il problema non è quello di definire, chiarire,

distinguere le competenze (il “chi fa che cosa” e “con quali risorse”), ma è

quello di individuare i modi con cui lavorare sulle aree delle competenze

plurime, sulle aree intermedie dove ciò che serve è costruire legami. Il

futuro di molti progetti, ma anche delle politiche per i minori in genere, si

gioca sulla capacità di costruire accordi che regolino i momenti di intreccio

delle competenze, di sciogliere i nodi dei confini.

Le iniziative del Laboratorio Provinciale

Nonostante le difficoltà relative anche alla necessità di far dialogare

culture e linguaggi diversi, di coniugare vincoli e potenzialità specifici di

ciascun contesto organizzativo, il Laboratorio Provinciale Extrascuola è

stato in grado di elaborare una nuova prospettiva di lettura dei progetti

extrascuola, esito dell’incontro tra le competenze e i saperi diversificati

messi a disposizione dai suoi componenti e la provocazione culturale di

Franco Floris, che ha poi curato un documento di sintesi delle riflessioni

prodotte, dal titolo “I ragazzi dell’extra.lab. Fare laboratorio con i ragazzi”

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che viene proposto a pag. 39.

Un altro prodotto significativo realizzato attraverso lo sforzo coordinato

delle diverse realtà rappresentate nel Laboratorio è la “fotografia” dello

stato dell’arte dei servizi/progetti dell’extrascuola in provincia di Bergamo

che è stato possibile tracciare attraverso l’elaborazione dei dati raccolti

nel corso di una specifica ricognizione sulle iniziative attive nell’anno

scolastico 2003-2004, i cui dati essenziali sono riportati a pag. 24, e di cui

è in corso un aggiornamento rispetto alla situazione nell’anno scolastico

2006-2007.

Infine il Laboratorio provinciale ha offerto un contributo importante nella

definizione del percorso di promozione culturale e di formazione promosso

dal Settore Politiche Sociali della Provincia di Bergamo e realizzati da

novembre 2005 a marzo 2006.

Il percorso si è concretizzato in una articolata serie di iniziative promozionali

e formative. Aperto con il seminario “Progetti extrascuola Laboratori di

esperienze apprendimenti e relazioni fra scuola famiglia e territorio” del 14

novembre 2005 e proseguito con l’iniziativa, attuata da marzo a maggio

2006 “Progetti extrascuola: incontri formativi e seminari”.

La proposta formativa intrecciava due distinti moduli proposti in modo

complementare: quattro incontri formativi, rivolti in specifico ai responsabili

e coordinatori dei progetti/servizi extrascuola, strutturato in forma di

laboratorio, e due seminari, che hanno offerto la possibilità di sviluppare

ulteriormente i contenuti condivisi nel laboratorio, aprendo il confronto ai

molti e diversi interlocutori territoriali dei progetti extrascuola2.

Prospettive di sviluppo

Per il 2007 il Laboratorio provinciale ha elaborato un piano di lavoro

finalizzato a dare continuità e sviluppo a quanto già realizzato attraverso:

• l’aggiornamento della ricerca: per produrre una anagrafe aggiornata

2 - Nella sezione “Extrascuola: Imprese di comunità intorno al diritto dei ragazzi all’apprendimento” a pag. 113 di questo volume sono riproposti i contributi più significativi presentati nei due percorsi di promozione culturale e di formazione.

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dei progetti/servizi attivi, per approfondire i contenuti pedagogici delle

esperienze e tenere monitorati gli sviluppi nell’area dell’extrascuola,

per meglio comprenderne le caratteristiche e le evoluzioni e per

continuare a tenere aperti orizzonti di studio.

• lo studio condotto nell’ambito del Laboratorio;

• la formazione attraverso percorsi costruiti insieme ai referenti della

programmazione territoriale (in primo luogo quindi gli Ambiti

territoriali) da realizzarsi in aree territoriali diverse della provincia per

incontrare e valorizzare i saperi che si costruiscono nelle esperienze e

a partire dalle esperienze;

• la promozione culturale, individuata come funzione essenziale per

tenere aperto il dibattito culturale. In questa prospettiva si colloca

l’iniziativa del Convegno nazionale “Aver cura della cultura dei figli”

del 23-24 Marzo 2007 organizzato con il Laboratorio provinciale e la

rivista “Animazione Sociale”. Questa iniziativa può rappresentare uno

stimolante ambito di approfondimento culturale e di confronto dove

far convergere gli esiti dei diversi percorsi di riflessione culturale e

le analisi svolte intorno alle esperienze e ai saperi connessi al tema

generatore dei processi di apprendimento di questa generazione e della

costruzione, con modalità spesso inedite, di imprese di comunità.

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24

I SERVIZI EXTRASCUOLA IN PROVINCIA DI BERGAMO

Una “fotografia” dei servizi

di Emilio Majer

Nel percorso di lavoro del Laboratorio Provinciale Extrascuola una

particolare attenzione è stata dedicata ad ancorare la riflessione teorica ai

riscontri rilevabili dalla realtà circa i servizi e la loro caratterizzazione nei

diversi territori.

Per questo il Settore Politiche Sociali3 della Provincia di Bergamo, in

collaborazione con il Laboratorio, gli Uffici di Piano e gli Enti titolari e

gestori dei progetti, ha condotto un lavoro di ricerca sui servizi extrascuola

attivi nel territorio provinciale.

Una prima ricognizione è stata attuata nell’anno scolastico 2003-2004 con

l’obiettivo di sviluppare una conoscenza più approfondita e supportata da

dati descrittivi e qualitativi sul diversificato insieme dei progetti/interventi

educativi extrascolastici al fine di offrire un contributo, in termini di

informazioni ed analisi, utile alle realtà interessate a promuovere questo

tipo di interventi e ai soggetti impegnati nella programmazione sociale nei

diversi Ambiti Territoriali.

L’elaborazione dei dati rilevati ha consentito di sviluppare una prima

“fotografia” di un universo assai eterogeneo e in costante movimento,

difficile da fissare in un’immagine definita e stabile, vista la tendenza di

questi servizi a nascere e morire o a trasformarsi nell’arco di uno o due

anni scolastici.

L’interesse prevalente di questa prima ricognizione non è stato tanto quello

di avere un quadro esaustivo dell’offerta territoriale, quanto piuttosto

quello di farsi un’ idea più chiara e avvalorata da riscontri oggettivi sulla

consistenza quantitativa, ma soprattutto qualitativa, dei progetti al fine

di poter intravedere potenzialità e direzioni di sviluppo di una tipologia

di interventi spesso e ingiustamente ritenuta residuale all’interno delle

3 - Gli strumenti e le procedure di rilevazione della ricognizione svolta nel 2007 sono stati predisposti dall’Osservatorio Politiche Sociali del Settore

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politiche educative dei territori.

In occasione dell’ organizzazione del convegno “Aver cura della cultura

dei figli”del 23 e 24 marzo 2007, è emersa nel Laboratorio provinciale

l’esigenza di avere una nuova “fotografia” aggiornata di questi servizi.

A questo scopo nel gennaio 2007 è stata avviata una seconda ricognizione

che si sta chiudendo proprio mentre va in stampa questa pubblicazione.

Abbiamo pensato quindi di integrare la restituzione sintetica della ricerca

svolta nel 2003-2004 con alcune anticipazioni dei dati ricavati dalla

ricognizione di aggiornamento del 2007, dati che sono ancora in fase di

elaborazione e che saranno oggetto di un successivo e specifico report di

ricerca.

Definizione dei progetti/interventi oggetto della rilevazione

Entrambe le rilevazioni hanno inteso individuare e descrivere l’articolato

ed eterogeneo insieme di progetti/interventi educativi extrascolastici

variamente nominati (ad es. spazi compiti, non solo compiti, laboratori,

ecc.) rivolti a ragazzi della scuola dell’obbligo e delle scuole superiori che

propongono, in orario pomeridiano, attività di tipo scolastico, associate

ad attività di tipo ludico, ricreativo e animativo, espressivo e culturale, di

ricerca e di laboratorio con la possibilità di sperimentare relazioni con

coetanei e con adulti.

Tali progetti/interventi possono essere attivati all’interno anche di servizi e

progetti più ampi, come oratori, centri di aggregazione giovanile, progetti

adolescenti, ecc. e possono essere promossi da vari soggetti titolari, come

enti locali, istituti scolastici, parrocchie, cooperative, gruppi e associazioni

di volontariato, comitati genitori ecc.

In entrambe le ricognizioni i progetti sono stati rilevati attraverso l’invio

di questionari indirizzati a enti locali, scuole, oratori, cooperative sociali,

gruppi, associazioni e comitati genitori operanti nella provincia di

Bergamo. Nel corso della prima ricerca sono stati rilevati n. 127 progetti

di interesse della ricognizione, mentre nell’aggiornamento del 2007 sono

stati individuati n. 193 progetti.

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Le tipologie di progetti/interventi rilevati

Dall’analisi dei progetti segnalati nel corso della prima ricerca è parso

immediatamente evidente che gli interventi nell’extrascuola costituiscono

una realtà multiforme dai contorni non troppo definiti e neppure definibili.

Si è quindi ritenuto utile cercare di distinguere i progetti sulla base di

diverse variabili, individuando in tal modo alcune tipologie distintive.

Di seguito si propongono le definizioni di ciascuna tipologia e si evidenziano

alcuni elementi qualificanti rilevati dall’analisi dei dati qualitativi raccolti

nel corso della ricerca.

1. Solo compiti

Servizi/progetti che hanno come oggetto di investimento esclusivo o

prevalente il rafforzamento dell’attività didattica proposta dalla scuola e il

supporto nell’espletamento dei compiti assegnati dagli insegnanti.

Gli interventi proposti possono riguardare: lo svolgimento dei compiti, il

supporto nello studio, corsi e interventi di recupero scolastico in orario

extracurricolare, corsi di approfondimento delle materie trattate nel tempo

scuola.

Elementi qualificanti

• presenza di una cultura pedagogica evoluta, con attenzioni educative

che vanno ben oltre una funzione di supporto nell’esecuzione delle

consegne scolastiche;

• obiettivi che fanno riferimento allo sviluppo di interesse e motivazione

nei confronti dell’esperienza scolastica, all’assunzione di metodi

di studio adeguati allo specifico profilo cognitivo del ragazzo, alla

valorizzazione delle potenzialità personali, all’aumento del livello di

autostima;

• funzione del supporto didattico vista come strumento di promozione

di competenze più ampie, sia a livello cognitivo che relazionale e di

prevenzione di situazioni di disagio o di rischio correlate all’insuccesso

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scolastico;

• presenza di attenzioni specifiche di ordine pedagogico nei progetti

rivolti in via prevalente a ragazzi stranieri o svantaggiati (più della metà

dei progetti “solo compiti”): interventi di alfabetizzazione, attenzione a

sviluppare un clima di integrazione e di valorizzazione delle diversità,

interventi complementari rivolti sia ai ragazzi che alle famiglie

straniere;

• rapporto educatori/utenti di circa 1/5.

2. Compiti e aggregazione

Progetti e interventi che propongono in modo complementare sia attività

attinenti la didattica (supporto compiti, studio assistito, ecc.) sia attività

ludiche, ricreative e motorie strutturate o libere, laboratori espressivi o

ambientali, attività sportive e motorie, momenti di convivialità (merenda,

feste, ecc.), gite e esperienze di socializzazione e di integrazione, ecc.

Elementi qualificanti

• obiettivi educativi che fanno maggiormente riferimento ad aspetti

relazionali, allo sviluppo di competenze espressive e sociali e alla

capacità di confrontarsi con le regole, oltre che all’incremento dei livelli

di autostima e di autonomia personale;

• presenza di attività connotate come azioni orientate a finalità di

prevenzione del disagio minorile;

• enfasi posta sullo sviluppo di un lavoro in rete fra le diverse agenzie

per arricchire i percorsi di proposte e di opportunità, ma anche per

sviluppare un maggiore senso di appartenenza dei ragazzi alla comunità

locale;

• valorizzazione, in alcune realtà, del ruolo di sostegno che nell’aiuto

compiti possono svolgere i ragazzi stessi fra di loro;

coinvolgimento, in alcuni servizi, dei ragazzi in momenti di progettazione

e di decisione delle attività;

• coinvolgimento della famiglia, in molti casi attraverso momenti di

convivialità e di socializzazione;

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• rapporto educatori/utenti di circa 1/10.

3. Attività raccordate al progetto scuola

Attività aggregative e di socializzazione che, pur non proponendo nel

tempo extrascolastico attività attinenti i compiti e lo studio, tuttavia si

raccordano strettamente con la programmazione scolastica, in quanto

perseguono obiettivi orientati allo sviluppo di competenze complementari

all’orizzonte formativo ed educativo della scuola.

Sono iniziative rivolte in prevalenza ai ragazzi della scuola secondaria di

primo grado, che propongono una gamma molto diversificata di attività:

gruppi musicali di istituto, concorsi di produzione letteraria e grafico

pittorica, opportunità di socializzazione mirate all’integrazione di alunni

disabili o stranieri, pratiche motorie e sportive, laboratori espressivi (di

musica, canto, teatro, ecc.), gite e uscite per la conoscenza del territorio.

Elementi qualificanti

- Obiettivi di riferimento diversificati: far sperimentare, attraverso proposte

ludiche e ricreative, il piacere dell’apprendimento; offrire opportunità di

aggregazione dove sia possibile sperimentare relazioni diversificate con

pari e con adulti significativi; incrementare le competenze espressive

e relazionali dei ragazzi e stimolare autonomia, protagonismo e

partecipazione; sensibilizzare alla solidarietà tra pari, rafforzando le

relazioni inclusive tra coetanei;

- presenza frequente di un impegno diretto di alcuni insegnanti della

scuola locale, che possono così svolgere una funzione educativa rilevante

nel connettere le esperienze del tempo scuola con quelle del tempo

extrascolastico.

4. Altre attività nell’extrascuola

Sono interventi non configurabili all’interno delle precedenti tipologie,

ma attinenti, in modo più o meno diretto, l’area dell’extrascuola e della

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corresponsabilità scuola, famiglia e territorio e programmati in stretto

raccordo con la scuola.

Nella prima ricognizione sono stati ascritti a questa tipologia soltanto

quattro progetti, che proponevano azioni particolari e diverse: una rete di

solidarietà fra famiglie per dare supporto nei compiti e nel tempo libero a

bambini stranieri o in difficoltà; un servizio di assistenza dei figli durante

assemblee scolastiche dei genitori; un servizio di mediatori culturali

impegnati nel tempo extrascolastico per favorire l’incontro fra scuola e

genitori di bambini stranieri; una ludoteca le cui attività, pur non essendo

attinenti la didattica, sono definite in stretto raccordo con la scuola e

previste nel POF.

Queste tipologie di intervento, che nella prima ricognizione sono state

ricavate a posteriori, sono state invece proposte nel questionario di

rilevazione del 2007 come riferimento per i compilatori per collocare le

esperienze segnalate.

Nel 2007 vi è stato un cospicuo aumento delle segnalazioni relative ai

progetti della tipologia 4. Altre attività nell’extrascuola in cui sono confluite

esperienze impegnate su diversi versanti:

- iniziative mirate ad aree specifiche di intervento quali: la socializzazione

di ragazzi disabili o l’integrazione culturale e l’alfabetizzazione di ragazzi

stranieri, l’ascolto e il riorientamento di ragazzi della scuola superiore a

rischio di dispersione scolastica;

- interventi finalizzati a sensibilizzare gli adulti e a sviluppare competenze

e mobilitare risorse per l’attivazione di iniziative relative alla genitorialità

sociale: ad es. proposte volte a favorire la partecipazione dei genitori nella

scuola, percorsi per la definizione negoziata dei tempi della scuola fra

docenti, genitori e alunni;

- progetti territoriali volti a promuovere reti sociali impegnate a sviluppare

progettualità integrate rivolte ai ragazzi, agli educatori e ai genitori.

Oltre ai 193 progetti rilevati nel 2007 come congruenti con le tipologie

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proposte, sono pervenute 33 segnalazioni di esperienze che, per motivi

diversi, non si è ritenuto utile comprendere nella elaborazione quantitativa

dei dati.

Si tratta in particolare di:

- CAG e spazi aggregativi che non evidenziano raccordi specifici con la

scuola, o elementi che riconducono ad iniziative di corresponsabilità fra

scuola, famiglie e territorio, e che sono stati oggetto di altre rilevazioni

specifiche (n. 12 segnalazioni);

- corsi proposti in ambito scolastico ad integrazione dell’offerta formativa,

come ad es. corsi di lingua, corsi per il conseguimento della patente

europea informatica o dell’idoneità alla guida del motociclo, corsi di

recupero scolastico, proposte teatrali e iniziative che fanno riferimento

alla tipologia del “consiglio comunale dei ragazzi” (n. 10 segnalazioni);

- interventi di assistenza educativa nei tempi di anticipo, posticipo e

intermensa (n. 7 segnalazioni);

- corsi per genitori su tematiche diverse, quali l’educazione all’affettività,

l’orientamento, ecc. (n. 4 segnalazioni).

Ecco il quadro delle esperienze segnalate nel 2003, disaggregate per

tipologia e poste in raffronto con i dati rilevati dall’aggiornamento del

2007.

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Tav. 1. Tav. 1. Progetti rilevati per tipologia – Raffronto ‘03 –‘07 (valori

assoluti)

Il grafico evidenzia un incremento generale dei progetti extrascuola che

passano, come si è detto, da 127 rilevati nel 2003 a 193 nel 2007.

I progetti che vedono il maggiore incremento sono quelli riferibili alla

tipologia 2. Compiti e aggregazione, che passano da 63 a 107 e alla tipologia

4. Altre attività dell’extrascuola.

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La distribuzione dei progetti nel territorio

Il lavoro di ricognizione svolto ha messo in evidenza la capillare diffusione

dei servizi e progetti extrascuola nei diversi territori della provincia di

Bergamo.

Nel 2003 questi servizi erano presenti in 69 comuni (pari al 28% dei

comuni della provincia), mentre nel 2007 la loro presenza è stata rilevata

in 107 comuni diversi (pari al 44 % dei comuni della provincia).

Un elemento molto significativo che si può cogliere dall’analisi di questi dati

è anche quello relativo alla continuità nel tempo dei progetti extrascuola.

In 50 dei 107 comuni dove nel 2007 si è rilevata la presenza di un servizio

extrascuola non erano stati rilevati progetti nella precedente ricognizione

del 2003. Questo significa che in quasi la metà dei comuni nei quali nel

2007 è stato rilevato un servizio extrascuola l’apertura si è avuta nel corso

dell’ultimo triennio.

Rispetto ai 69 comuni dove era attivo un servizio extrascuola nel 2003, in 48

casi è presente anche nel 2007 (magari con un cambio di denominazione o

enti promotori), mentre in 21 comuni non se ne rileva più la presenza.

Il quadro della distribuzione dei progetti rilevati negli Ambiti Territoriali

della provincia di Bergamo (considerando il comune dove si svolge

effettivamente l’attività) si presenta alquanto eterogeneo, sia per quanto

riguarda il numero dei servizi rilevati, sia per quanto riguarda il trend di

crescita registrato nel corso del triennio, come si può vedere nel grafico

della tavola n. 2.

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Tav. 2. I progetti extrascuola nei 14 Ambiti Territoriali – Raffronto ‘03 – ‘07

(valori assoluti)

La titolarità e la gestione dei progetti

Diverse sono le tipologie dei soggetti che promuovono e gestiscono progetti

extrascuola.

E’ opportuno precisare che il concetto di titolarità in riferimento ai progetti

dell’extrascuola non è univoco e facilmente definibile, come avviene per

altre tipologie di intervento. Infatti i progetti dell’extrascuola nascono

generalmente da una collaborazione paritetica fra più attori sociali che

concorrono al progetto portando prerogative e risorse diverse, ma spesso

equivalenti sul piano dell’importanza. Il dato relativo alla titolarità dei

progetti, qui illustrato solo in relazione alla ricognizione del 2003, se non

può essere rappresentativa per definire in modo univoco la responsabilità

rispetto al progetto, può comunque aiutare a cogliere la rilevanza

dell’investimento dei diversi soggetti nella collaborazione.

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Tav. 3. Enti titolari e gestori dei progetti extrascuola – Rilevazione ‘03 (valori assoluti)

Come si vede dalla tavola n. 3 riferita ai dati rilevati nel 2003, in generale

gli enti locali si riconoscono come titolari della parte più consistente dei

progetti dell’extrascuola, ed in particolare di più della metà dei progetti

della tipologia 2. Invece poco meno della metà dei progetti compresi

nella tipologia 1. Solo compiti hanno come titolare un istituto scolastico.

L’impegno diretto della scuola si evidenzia in particolare anche nelle attività

extrascolastiche della tipologia 3. Significativo risulta anche il ruolo del

mondo ecclesiale e dell’associazionismo.

Come si può desumere dal confronto fra i dati relativi agli enti titolari e agli

enti gestori (tav. 3), i comuni affidano la gestione dei servizi prevalentemente

a cooperative e, in alcuni casi, ad associazioni. Dei 51 comuni titolari di

servizi solo 6 dichiarano di esserne anche i gestori.

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Le realtà ecclesiali sono nella quasi totalità dei casi titolari e gestori delle

proposte.

Anche da parte delle scuole vi è la tendenza ad essere al tempo stesso

titolari e gestori delle proposte.

Gli utenti dei progetti dell’extrascuola

I servizi e i progetti dell’extrascuola si rivolgono a tipologie di utenza

diverse. Per quanto riguarda il dato dell’età nelle due ricognizioni si è

rilevato che nel 2003 il 60% dei servizi accoglieva ragazzi di una sola fascia

d’età, mentre i rimanenti rivolgevano le loro proposte a più fasce d’età

contemporaneamente, magari prevedendo tempi e attività differenziate.

Nel 2007 i servizi che accolgono un’unica fascia d’età rappresentano il

52% sul totale dei progetti.

In rapporto ai 127 progetti extrascuola rilevati complessivamente nel

territorio provinciale nella ricerca del 2003, i ragazzi della scuola primaria

trovavano accoglienza nel 70% dei progetti delle varie tipologie, quelli

della scuola secondaria di 1° grado nel 61% dei servizi, quelli degli istituti

superiori nel 13%.

Nel 2007 si riduce il divario fra l’accoglienza riservata ai bambini

della primaria rispetto a quelli della secondaria di 1° grado e,

contemporaneamente, cresce la percentuale delle proposte che vengono

rivolte ai ragazzi della scuola superiore.

Tav. 4. L’accoglienza dei ragazzi delle diverse fasce d’età nei progetti extrascuola - Raffronto ‘03 – ‘07

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Tav. 5. L’accoglienza dei ragazzi delle diverse fasce d’età nei progetti extrascuola – Raffronto ‘03 – ‘07 (valori assoluti)

L’elaborazione dei dati svolta nel 2003 ha permesso di analizzare in

termini più approfonditi il rapporto che i servizi extrascuola riescono ad

intrattenere anche con alcune tipologie di utenti che vivono particolari

condizioni. In specifico si sono potuti evidenziare i seguenti aspetti:

- più di un terzo dei progetti era rivolta alla generalità dei ragazzi

- un altro terzo vedeva una presenza minoritaria, all’interno di gruppi di

ragazzi senza particolari problemi, di ragazzi che possono richiedere

attenzioni specifiche: disabili, stranieri, ragazzi con difficoltà di

apprendimento o d’altro tipo

- poco meno di un terzo dei servizi rilevati era rivolto in via esclusiva o

prevalente (maggiore del 50% del totale utenti) di ragazzi caratterizzati da

particolari condizioni o difficoltà.

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Tav. 5. N. Servizi delle diverse tipologie che accolgono ragazzi con condizioni particolari - Rilevazione ‘03 (valori assoluti)

In totale quindi n. 82 progetti (pari al 64,5 % dei progetti analizzati)

vedevano nel 2003 la presenza, in misura minoritaria o maggioritaria, di

ragazzi con particolari condizioni o difficoltà.

Se si analizzano questi dati in relazione alle quattro tipologie di interventi,

si evidenzia una situazione che meriterebbe un’ ulteriore analisi critica e

un approfondimento sul significato effettivo di quanto emerso.

I dati sembrano indicare infatti che la modalità “solo compiti” viene spesso

impiegata come proposta privilegiata per i ragazzi che vivono condizioni

o difficoltà particolari, dato che più della metà dei progetti focalizzati

sull’aiuto nell’esecuzione dei compiti (15 su 28) vede la presenza esclusiva

o prevalente di questa tipologia di ragazzi.

Peraltro considerando il dato che 11 di questi 15 progetti vedono la

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compresenza di ragazzi stranieri e di ragazzi con difficoltà scolastiche e

tre anche di disabili, è importante comprendere se questo rapporto fra i

progetti “solo compiti” e le tipologie particolari di ragazzi sia la risultante di

una progettazione mirata sulla specificità di loro bisogni o se sia invece la

conseguenza di una dinamica di adattamento dell’utenza al tipo di offerta

disponibile nel territorio.

Conclusioni

Da questa sintetica restituzione delle risultanze emerse a seguito delle due

azioni di ricerca si delinea un quadro dei servizi e progetti dell’extrascuola in

forte sviluppo: aumenta la loro quantità e la loro distribuzione nei territori,

le proposte si diversificano e si attrezzano per accogliere in modo più

specifico, oltre che i bambini delle elementari, anche i preadolescenti e gli

adolescenti, oltre che i ragazzi alla ricerca di opportunità di socializzazione,

anche ragazzi che devono affrontare sfide più impegnative.

Il dato critico che pare necessario tenere monitorato con molta attenzione

è quello relativo alla capacità di questi progetti di mantenersi e qualificarsi

nel corso del tempo. Non è facile rilevare il grado di continuità espresso

nel corso degli anni, in quanto i progetti, anche in relazione alle fonti

di finanziamento cui attingere, si trasformano sotto diversi punti di

vista: cambiano denominazione anche se sono gli stessi gli attori che

collaborano alla loro realizzazione, cambiano ente titolare o gestore,

interrompono temporaneamente la loro attività per poi riproporsi dopo

una sospensione di uno o due anni, ecc. Rispetto alla loro stabilizzazione

come un’offerta costante all’interno del quadro di opportunità per i minori

e le famiglie, diversi sono i fattori che possono contribuire: una politica

diversa dei finanziamenti, un’azione di promozione delle possibilità e

delle potenzialità dei servizi, e soprattutto una programmazione sociale, ai

diversi livelli, attenta a preservare e valorizzare nel tempo queste risorse,

anche attraverso azioni di coordinamento, di supporto, di formazione, di

accompagnamento.

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I RAGAZZI DELL’EXTRA.LAB.

FARE LABORATORIO CON I RAGAZZI

Documento di sintesi del Laboratorio Provinciale Extrascuola

a cura di Franco Floris

Queste pagine rappresentano il prodotto di sintesi della riflessione che

progressivamente ha preso forma all’interno del Laboratorio provinciale

extrascuola - con il contributo quindi di educatori e insegnanti, associazioni

e cooperative sociali, referenti di enti locali e di oratori, ecc. - che, a partire

dalle innumerevoli esperienze di “doposcuola” e dalle domande alle

quali essi stanno rispondendo nelle comunità locali, è giunto a scoprire

come con questa generazione di ragazzi della scuola elementare e media

sia necessario progettare, a scuola come nell’extrascuola, un insieme di

iniziative animate da quello che è stato delineato come “apprendimento in

laboratorio”.

Il laboratorio dell’apprendere è sempre anche un laboratorio della comunità

locale in cui la scuola, che in questi anni ha interagito sempre più

intensamente con il territorio, partecipa direttamente, in modo consapevole

e attivo, alla progettazione, mettendo in gioco le specifiche competenze

sull’apprendere, sulle difficoltà nell’apprendere e sugli interventi per

attenuarle là dove è possibile. Se, per fare un esempio, il tradizionale

doposcuola era normalmente organizzato senza la partecipazione della

scuola, i laboratori di cui si verrà a parlare non sono più attuabili, proprio

per i problemi che intendono affrontare, senza la partecipazione della

scuola. Da parte sua la scuola non può più considerare tali laboratori come

attività di volontariato di un qualche insegnante e quindi facoltative, ma

come iniziative che rientrano nella sua funzione istituzionale di scuola

chiamata a radicarsi nelle comunità locali, a divenire sempre di più una

scuola della comunità.

Ma in questo processo di progettazione sul territorio, la scuola stessa è

sollecitata ad accettare la sfida di ripensarsi e di ripensare il proprio modo

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di fare lezione e di gestire i diversi momenti in una logica di “laboratorio”.

Il divenire consapevolmente “laboratorio” è un compito che tocca da vicino

i diversi ambiti in cui già oggi si lavora con i ragazzi. Ai problemi tuttavia

non può essere data una risposta preconfezionata. Quanto detto, pertanto,

rimanda all’apertura di un “cantiere ragazzi” dentro le diverse comunità

locali. E’ nella direzione di questo cantiere che è possibile offrire alcune

indicazioni.

LA PRESA DI COSCIENZA DI ALCUNE DOMANDE

In realtà, il punto di partenza di queste pagine non sono stati i problemi

dei ragazzi a scuola o nel tempo libero, ma piuttosto le molteplici forme di

mobilitazione delle comunità locali a fronte della percezione di un disagio

dagli incerti confini, l’interrogarsi sugli stili di vita verso cui si stanno

incamminando i ragazzi e, più da vicino, sul loro disinteresse rispetto alla

scuola e allo studio personale, come se non riuscissero a dare un loro

significato a queste esperienze.

Tale disagio dei ragazzi viene maggiormente riconosciuto, anche rispetto

ad un passato recente, come disagio che nasce dentro la comunità (e

non solo dentro la scuola) e la ricerca del “che fare?” sempre meno viene

delegata a qualche esperto.

A fronte delle perplessità rispetto alla maturazione dei figli, molte famiglie

hanno cominciato a uscire di casa per ritrovarsi in luoghi di dialogo in

cui cogliere il limite di molti modelli di pensiero e di azione familiari e

a re-interrogarsi su come abilitare i figli a vivere un’avventura sociale e

culturale che permetta loro di inserirsi criticamente e creativamente nella

società del futuro.

I luoghi di incontro sono i più diversi. Chi si incontra nell’ambito della

scuola, alla luce di un rapporto collaborativo tra genitori e insegnanti, chi

si incontra in parrocchia o in qualche associazione, chi si ritrova nei centri

di aggregazione giovanile, chi si incontra perchè le domande sono state

intercettate dall’amministrazione locale che ha convocato un tavolo di

riflessione, chi infine ha promosso gruppi o piccole associazioni che, a

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volte con il sostegno dei servizi sociali e/o della scuola, hanno cominciato

a ricercare come sostenere i figli nell’avventura scolastica e, ancor di più,

nell’avventura dell’apprendere.

Questi e altri segnali portano a sottolineare il diffondersi di una nuova

consapevolezza e imprenditività della comunità locale, la cui caratteristica

è l’aver colto la crucialità della sfida culturale fra i ragazzi e il volerla

affrontare, non delegandola come nel passato a una sola componente

(scuola, famiglia, associazionismo, servizi educativi del Comune…), ma co-

costruendo progetti di comunità in cui i vari attori possano essere risorsa.

Questa mobilitazione crescente sta sollecitando le comunità locali a

soffermarsi su alcune domande intorno all’interesse dei ragazzi per la

scuola e, più in generale, per la cultura.

Una domanda di doposcuola

Una prima domanda porta a interrogarsi sul tradizionale doposcuola e sulla

sua funzione a fianco dei ragazzi della scuola elementare e media. In questi

anni i doposcuola si sono moltiplicati, evolvendo in progetti più articolati,

percorrendo strade diverse come risposta alle domande emergenti nelle

comunità locali.

Fare i compiti a casa, da sempre un punto fermo nella formazione dei

bambini e dei ragazzi, serviva e serve ancora a richiamare la famiglia al suo

impegno nel seguire i progressi o i rallentamenti scolastici dei figli, a dare

autonomia ai ragazzi nel fare i compiti da soli, a intervenire con diverse

forme di sostegno familiare o extrafamiliare.

Diversamente dal passato, fare i compiti è diventato spesso un problema

perchè i genitori hanno poco tempo, in quanto lavorano anche al pomeriggio

e, di conseguenza, i ragazzi si trovano soli o quasi nell’affrontare i compiti.

Ma è diventato un problema anche perché, se i ragazzi devono fare i

compiti, non sempre ha senso farli nel chiuso della propria cameretta.

Questo perché, oltre ai problemi connessi ai compiti, emergono altri

problemi cui le famiglie sono giustamente sensibili, in particolare quello

della solitudine davanti alla TV o alla playstation e della mancanza di spazi

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in cui incontrarsi fra coetanei nel tempo libero, stare insieme e, perché no,

fare i compiti.

Una domanda di tempo libero alternativo

Una seconda domanda è relativa all’uso o consumo del tempo libero.

Dal punto di vista di molti genitori il problema ondeggia fra fare i compiti

e vivere il tempo libero, tra autonomia individuale e autonomia sociale

dei ragazzi, dove per autonomia individuale si intende la capacità di

organizzarsi da soli nel fare le cose, compresi i compiti, e per autonomia

sociale si intende la possibilità di luoghi di incontro come gruppo, in modo

da sperimentarsi, attraverso il gruppo, autonomi anche emotivamente dalla

famiglia e capaci di approccio critico alla vita sociale con le sue proposte

non sempre in sintonia con quelle della famiglia.

Se a questo si aggiungono le preoccupazioni dei genitori per il successo

scolastico dei figli e, più in generale, per il successo nello sport e in altre

attività parascolastiche o del tempo libero, si intravedono, da una parte,

un’ansietà crescente per il disamore dei figli verso la scuola e verso lo studio

e, dall’altra, l’incremento ossessivo di corsi, attività, laboratori ai quali i

figli vengono iscritti per incrementare il portfolio delle competenze in una

società che si ritiene, a torto o a ragione, dal futuro incerto e fortemente

competitiva.

La paura di non farcela e la voglia di primeggiare si incontrano in forma

ansiosa. Per altri genitori la scuola e lo studio sono importanti, ma non

sono tutto, perché la vita richiede quelle competenze che permettano al

ragazzo di esprimere una sua imprenditività sociale, prendendo le distanze

dai modelli di vita offerti dai media e dal mercato quando inducono

sudditanza e apatia. L’esigenza di questi genitori è di offrire ai figli percorsi

in cui immaginare stili di vita “altri”, rispetto a quelli proposti dal mercato.

Per alcuni sono percorsi ispirati a un approccio ecologico, per altri a

fattori di spiritualità e di religiosità, per altri ancora a valori che portano a

investire la famiglia in scelte come l’adozione nazionale o internazionale,

il consumo equo e solidale, la difesa dell’ambiente…

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Una domanda di animazione sociale e culturale

E infine c’è una terza domanda che emerge, una domanda sentita

fortemente dai genitori che si rendono conto che i figli fin dalla scuola

media (dalle elementari) non riescono a dare un significato all’andare a

scuola e, soprattutto, tendono ad abbandonare la scuola, come succede nel

biennio della scuola superiore.

Sono troppi i ragazzi che si chiedono perché andare a scuola e sono troppi

quelli che ci vanno per quel che loro offre l’amicizia con singoli compagni,

ma non il sapere scolastico o l’ambiente nel suo insieme come luogo in cui

riconoscersi ed essere riconosciuti.

Dietro l’alto tasso di indifferenza alla scuola e di abbandono precoce ci

sono fattori riconducibili alla storia del ragazzo e della sua famiglia, ma

sono in gioco anche fattori che, nel loro insieme, rimandano all’affievolirsi

del significato dell’entrare in contatto con “la cultura già fatta” in vista

della “cultura da fare”. In altre parole, emerge un problema di “animazione

culturale” dei ragazzi, cioè di entrata attiva e consapevole dentro la cultura

umana e i suoi percorsi, al punto che escludersi (o essere esclusi?) da tali

percorsi può essere segno di ricerca di stili di vita alternativi ma anche

segno di rassegnazione alla “barbarie”.

Quello che preoccupa genitori, insegnanti ed educatori è che questo

distacco dalla cultura (scolastica, ma non solo) avvenga a volte fin dagli

inizi della scuola media, anche se poi gli effetti si manifestano nelle scuole

superiori. Oggi si sta allargando la forbice tra chi ce la fa a immaginarsi in

modo sensato e attivo nella scuola e nella vita e chi invece si arrende. Una

forbice che si forma fin dalle elementari e che cresce con gli anni.

LA FATICA A FAR GRUPPO E L’AVVENTURA CULTURALE

Le domande che sono emerse chiedono alle comunità locali di trovare il

tempo per fermarsi a ragionare con calma per esplorare che cosa è in

gioco, prima di chiedersi che fare o verso dove andare.

In gioco sono la libertà dei ragazzi, la possibilità che essi giungano alla

“presa di coscienza di sé all’interno della presa di coscienza del mondo”, con

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quel che questa comporta di capacità di analizzare problemi, chiamare

per nome le sfide, rifuggire dalle semplificazioni, impegnarsi per aprire

varchi di futuro sensato, opporsi fin dove è possibile alle diverse forme di

fuga dalla libertà e di ingiustizia. Il rischio è che questi ragazzi, una volta

entrati nell’adolescenza, non sappiano “leggere” la società complessa e

riposizionarsi attraverso riflessioni autonome confrontate con le idee degli

altri per salvaguardare la propria libertà e il futuro della stessa umanità. Le

nuove forme dell’emarginazione passano non solo dalla povertà materiale,

ma anche e sempre di più da quella culturale, poiché chi non saprà

analizzare progressivamente l’evolversi della società locale e globale, e

non saprà posizionarsi criticamente al suo interno, rischia di soccombere

dal punto di vista culturale e di finire ai margini dal punto di vista sociale.

La cultura non può essere ridotta all’insieme delle conoscenze e delle

competenze apprese a scuola. Del possedere una cultura fa parte la

competenza nel pensare, esplorare problemi, rielaborare le esperienze,

indagare sui retroscena, non sottrarsi a interrogativi etici rispetto alle sfide

della biologia e della sostenibilità dello sviluppo, discutere con altri sulla

società e sul suo futuro, confrontare diversi punti di vista sui problemi in

cui è in gioco l’uomo, orientarsi confrontando criticamente le possibili vie

di uscita, senza lasciarsi manipolare dai preconcetti e pregiudizi imperanti

nei media, saper mettere in discussione i propri schemi mentali, difendere

la progettualità personale in una società dove gli attentati alla responsabilità

nel pensare e decidere autonomamente sono numerosi e insidiosi.

Come possono i ragazzi diventare cittadini, e quindi elaborare antidoti

rispetto ai rischi di qualunquismo etico, semplificazione dei ragionamenti,

dipendenza dai messaggi del format televisivo e mediatico che vende

affascinanti pacchetti di stili di vita per addestrarli come consumatori?

La fragilizzazione dell’esperienza di gruppo

La risposta va cercata con una riflessione articolata che ricolleghi attorno

alla maturazione dei ragazzi la funzione dell’apprendere e dare significato

alla propria esperienza umana nelle tre grandi esperienze di gruppo che

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sono la famiglia, la scuola e le libere aggregazioni.

Tale riflessione non può che partire dalla fragilizzazione di queste che sono

gruppalità di base. Frutto dell’insieme dei processi sociali, etici, economici

che si intrecciano nella società moderna, la fragilizzazione si manifesta

proprio mentre cresce il pluralismo (a volte il conflitto) tra subculture,

facendo mancare i luoghi dove la complessità possa essere esplorata per

aprirsi varchi di progettualità autonoma.

La crisi rende i ragazzi disponibili alle proposte della società del consumo

e ai virus dell’epoca come il narcisismo, il tribalismo, il rifugio nelle ricette

dei tecnici, il ricorso a una qualche sostanza per sciogliere le difficoltà di

comunicazione interpersonale, la semplificazione del pensiero. Ma, peggio

ancora, la mancanza di esperienza gruppale rende più faticosa la ricerca

culturale dei ragazzi, a partire dal loro muoversi dentro le contraddizioni

del nostro tempo e la necessità per loro improrogabile di scoprire temi

generatori di futuro e piccoli sentieri verso cui incamminarsi.

Una famiglia che fatica a essere gruppo-laboratorio. Il luogo principale

della maturazione sociale e culturale dei ragazzi è la famiglia.

La famiglia è gruppo-laboratorio anzitutto come organismo che

continuamente tesse legami di reciproco riconoscimento che inducono

nei ragazzi la conferma esistenziale di base e la spinta all’autonomia

progettuale. La famiglia svolge la sua funzione proprio in quanto motiva e

sostiene nell’uscire alla ricerca di nuove relazioni, sia a livello orizzontale

nel gruppo dei pari, sia a livello verticale nello scambio con adulti diversi

dai genitori. Inoltrandosi in tale direzione i figli entrano in reticoli sociali

in cui possono essere attori. Purtroppo, non sempre la famiglia aiuta i figli

a vivere una positiva esperienza sociale. A volte, per ansia o per paura,

se non per egoismo, o perché non è socialmente inserita, finisce per

“privatizzarli”.

La famiglia è anche luogo dove i figli vengono stimolati a prendere la parola

dentro discorsi e ragionamenti sempre più complessi. La parola in famiglia

può esplorare, in un clima di comune ricerca, i significati nascosti dentro

le esperienze quotidiane e produrre così inediti significati del vivere. Se

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la famiglia progressivamente aumenta il confronto e la discussione al

suo interno, affrontando le grandi sfide della società, i ragazzi possono

riconoscersi in valori comuni, condivisi perché testimoniati e argomentati,

a partire dai quali entrare criticamente in contatto con altre visioni della

vita per intavolare ulteriori confronti, discussioni, produzioni culturali. In

fondo, il metodo per fare cultura lo si apprende quotidianamente a casa.

Ma se a casa non si parla, non si discute, non si argomentano i punti di

vista e le decisioni, non si commenta il telegiornale o un altro programma

televisivo, non si parla di fame nel mondo o di pace, di amore e di sessualità,

del perché il lavoro e del perchè la scuola, i ragazzi finiscono per escludere

tutto questo dal loro modo di trascorrere le giornate, impedendosi di “farsi

una cultura”. La fragilizzazione della famiglia rende più faticoso il cammino

sociale e culturale dei ragazzi, li disorienta, li rende fragili, sopratutto

rispetto a compiti gravosi che richiedono continuità di investimento

nel tempo, come la maturazione sociale e culturale e, più da vicino, la

motivazione alla scuola e allo studio.

L’affievolirsi delle relazioni a scuola. La maturazione sociale e culturale

avviene dentro e intorno al mondo della scuola dove, da una parte,

vengono offerti ai ragazzi dei saperi disciplinari e un modo per apprenderli

e, dall’altra, vengono intrecciati legami orizzontali e verticali, amicali e

istituzionali, gruppali e intergruppali che diventano il luogo privilegiato

in cui prende forma il senso della scuola e dove avviene il contatto dei

ragazzi con la “cultura già fatta” in vista dell’impresa, sempre nuova per

ogni generazione, della “cultura da fare”.

La fragilizzazione del gruppo-classe e del rapporto tra ragazzi e adulti

minaccia la possibilità non solo di apprendere le discipline, ma anche di

apprendere dai vissuti personali, in quanto viene a mancare il grembo

accogliente in cui l’esercizio di una parola consapevole possa liberare i

significati in gioco nelle esperienze e permetta di confrontarli e rielaborarli

per generare nuove visioni della vita.

L’affievolirsi delle relazioni all’interno della scuola non può non

preoccupare, anche perché non è risolvibile migliorando l’impegno nel

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fare meglio le lezioni e dunque impegnandosi in progettazioni didattiche

sempre più raffinate. Questo è necessario, ma non sufficiente.

La crisi della gruppalità va presa sul serio, anche perché non è legata alle

sole vicende personali, come invece si tende a fare quando si va alla ricerca

di un qualche capro espiatorio, in caso di bullismo o di microviolenza.

La fragilizzazione dei legami ha radici profonde, poiché è esito di quella

crisi della gruppalità che invece chiede di contenere le energie negative

per sublimarle nel produrre luoghi vivibili, accettando il prezzo da pagare

perché questo sia possibile.

Solo una scuola che prova a ragionare con calma su questa crisi dei legami,

non facilmente esorcizzabile, come si è detto, con la buona volontà dei

singoli insegnanti e neppure con l’investire le competenze nel preparare

meglio le lezioni, può elaborare risposte efficaci alle problematiche derivanti

dalla fragilizzazione delle relazioni significative in ambito scolastico.

Proprio la diffusione di fenomeni di apatia, microviolenza, arroganza,

aggressività, incapacità di concentrarsi sullo studio, in quanto sommersi

dall’ansia per le dinamiche relazionali, pone spesso in crisi la scuola come

luogo di socializzazione e di maturazione culturale.

Il debole fascino delle aggregazioni nel tempo libero. Oggi più che

mai vengono ad avere un significato particolare, rispetto al futuro dei

ragazzi, le variegate forme di apprendimento nelle aggregazioni del tempo

libero. Ma anche qui si ripropongono alcuni interrogativi già presenti

nella scuola, inerenti ad esempio il rapporto tra individuo e società,

più da vicino la conquista della soggettività e il senso della gruppalità,

l’adattamento all’esistente (con il rischio di essere fagocitati) e l’invenzione

del presente in modo creativo, l’accumulo di competenze e la riflessività o

metacomunicazione che oltrepassa le singole competenze, il rapporto tra

esperienze ludico-creative e apprendimento scolastico.

La fragilizzazione dei gruppi rende più difficile la liberazione del tempo

dalla pressione al conformismo, al consumo, all’adattamento passivo.

Diventa difficile per i ragazzi ritrovarsi in luoghi in cui prendere le distanze

da tale pressione e trovare un’autonomia attraverso il gioco e la creatività,

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l’accoglienza che va oltre i legami di simpatia o di interesse, lo sviluppo

degli interessi individuali attraverso esperienze collettive, la capacità di

sollevare lo sguardo dal qui e ora per interrogarsi sui grandi problemi

dell’umanità e su come ormai, con i piccoli gesti di ogni giorno, si è attori

sulla scena della globalizzazione.

La stanchezza emerge nelle aggregazioni sportive, ricreative e religiose che

rischiano di essere usate in modo strumentale dai ragazzi e dalle famiglie

per i servizi che offrono, senza essere luogo di legami continuativi. Si

moltiplicano le appartenenze o, forse, non ci si identifica in alcun gruppo.

Ognuno si muove all’interno di molteplici amicizie, senza tuttavia far

gruppo. E se c’è un gruppo, spesso è luogo di scambio affettivo, ma più

difficilmente è luogo di confronto fra idee, scelte, stili di vita. Ai ragazzi

viene così a mancare quella presa di coscienza di sé rispetto alla quale

l’esperienza di gruppo è decisiva.

Verso una nuova articolazione dell’apprendere

Dentro il quadro ora descritto non mancano, tuttavia, numerosi segnali

che alimentano la fiducia rispetto al futuro sociale e culturale dei ragazzi. Il

principale è l’imporsi progressivo di una “continuità responsabile” tra scuola

ed extrascuola, fra apprendimenti nel tempo scolastico e apprendimenti

nel tempo libero, alla luce di una maggior comprensione delle diverse

modalità di apprendimento in cui si esprime l’intelligenza umana.

Se fino a qualche anno fa la scuola era a volte chiusa nelle sue funzioni

didattico-disciplinari, sulla base di un’autorevolezza da tutti accettata,

anche dai ragazzi, e riconosceva agli altri attori sociali (in particolare, alla

famiglia e all’associazionismo) una competenza sulle sfide del tempo libero

(ivi compreso il fare i compiti), oggi la famiglia, la scuola, le associazioni

e lo stesso Ente locale sentono di dover rispondere insieme, in una logica

di maggior valorizzazione delle competenze distintive e insieme di una

maggiore interazione tra tali competenze, di un continuum educativo che

va dal progetto didattico-educativo e sociale della scuola ai processi di

apprendimento oltre la scuola, al progetto del tempo libero con le sue attività

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ludico-aggregative come luogo non meno importante di apprendimento.

E questo a partire dal riconoscere che solo con il contributo di tutti è

possibile riprendere in mano questioni educative al confine tra le varie

organizzazioni, ma basilari per ogni progetto.

In altre parole, si è presa coscienza che l’apprendere è un’esperienza

pervasiva dell’intera esistenza (si apprende continuamente), che

l’apprendere è l’humus in cui le persone possono immaginare e perseguire

un diverso futuro per sé e per gli altri, è la bussola che può orientare l’agire

(si apprende per cambiare). In tal modo l’apprendimento è percepito come

risorsa individuale e sociale, come bene individuale e collettivo per poter

rispondere sempre da capo alla domanda ineludibile per ogni generazione:

”Quale uomo, quali competenze, per quale società?”.

Un aspetto importante del dibattito, perché apre nuovi scenari di azione,

è quello relativo alla diversità delle forme di intelligenza e pertanto delle

modalità di apprendimento.

Non solo l’attenzione si è spostata negli anni dall’apprendimento in sé al

“soggetto che apprende”, ma soprattutto al fatto che ogni ragazzo è dotato di

un’intelligenza pluridimensionale, emotiva e cognitiva, personale e sociale,

astratta e operativa, al punto che in ognuno l’intelligenza è un’originale

commistione tra intelligenze in cui può prevalere una forma di intelligenza

piuttosto che un’altra e, di conseguenza, lo stile personale di apprendimento

viene a caratterizzarsi in modo peculiare. Di conseguenza, un ragazzo può

avere successo nel pensiero astratto o viceversa in azioni che richiedono

intelligenza pratica e fantasia in situazione. In realtà, l’apprendimento

non avviene a “compartimenti stagni” ma piuttosto nella logica dei vasi

comunicanti, al punto che, ad esempio, sviluppare l’apprendimento

emotivo e sociale nel tempo libero in ragazzi che fanno fatica a scuola,

libera energie da investire a scuola nell’esercizio dell’intelligenza logico-

razionale.

In secondo luogo è interessante il collegamento tra l’apprendimento

e la possibilità di immaginare nuovi mondi concettuali e nuovi stili di

vita che permettono di lavorare a un futuro almeno in parte diverso.

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L’apprendimento, in quanto ha a che fare con il cambiamento, permette

ai ragazzi di fare i conti con forme di vita sociale sempre più raffinate e

complesse, difficili da padroneggiare, in cui assumono un ruolo decisivo

la riflessività (la capacità di interrogarsi e dare significato agli eventi), la

creatività (la capacità di pensare altro dall’esistente e di pensarlo in modo

autonomo e insieme dialogico), la partecipazione (la capacità di uscire

dalla solitudine come dalla dipendenza dagli altri per dar vita a laboratori

di nuova cittadinanza).

E’ in questa prospettiva che oggi è cresciuta la consapevolezza di dover

individuare trame nuove di continuità educativa tra i diversi luoghi

di apprendimento e, allo stesso tempo, di dover lavorare insieme per

affermare le “differenze positive” fra tali luoghi, in modo che tutti siano

partecipi nell’affermare e valorizzare il senso delle diverse agenzie di

apprendimento e cambiamento individuale e sociale. Qui vengono ad

articolarsi gli interventi che vanno dalla scuola, con le sue discipline e il

suo lavoro istituzionale, agli interventi nel tempo libero, visto sempre di

più come luogo cruciale in cui accompagnare l’apprendimento sociale ed

emozionale delle nuove generazioni verso l’autonomia. E qui vengono a

collocarsi i numerosi e diversificati interventi che intendono farsi carico

delle difficoltà di aggregazione e apprendimento dei ragazzi e che vanno

sotto l’ombrello dell’extrascuola.

IL LABORATORIO COME PRINCIPIO ATTIVO

Alla luce delle considerazioni fatte e che connettono le fatiche inerenti

lo sviluppo sociale e culturale dei ragazzi con le fragilizzazione delle

gruppalità di base come la famiglia, la scuola e le aggregazioni nel tempo

libero, può essere avanzata l’ipotesi che con questa generazione di ragazzi

è necessario perseguire in modo metodico e coerente nuove esperienze

di gruppalità che si qualifichino come “laboratori” di esperienza sociale e

culturale. In altre parole, alla fatica delle gruppalità non si può rispondere

che con investimenti qualificati proprio sulle gruppalità. E alla fatica che

connota l’ apprendimento sociale e culturale si può offrire un sostegno

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decisivo attivando molteplici forme di laboratorio in cui i ragazzi possano

essere attori.

All’ipotesi dello sviluppo di laboratori si è arrivati riflettendo sulle

esperienze che vengono oggi fatte in non poche scuole, in certi oratori,

in alcuni doposcuola che non si riducono ai soli compiti, come in alcune

associazioni che credono nell’animazione dei ragazzi come luogo per dare

vita a nuove forme di socialità, controcorrente rispetto a quelle che propone

la società dei consumi. Il denominatore comune ai laboratori è la ricerca di

proposte educative che siano frutto di un fecondo incontro tra le domande

dei ragazzi e le costruzioni culturali in cui gli adulti si riconoscono, ma

anche la scommessa su un metodo di lavoro che faccia dei ragazzi stessi

dei ricercatori culturali.

Il perché del laboratorio

Più da vicino, la proposta che qui viene avanzata è un invito esplicito

rivolto alle comunità locali e alle diverse agenzie sociali ed educative a

non banalizzare il momento critico della preadolescenza (senza rifugiarsi

in frasi fatte come “tutti siamo stati ragazzi”), alle prese con sfide come la

crisi della gruppalità e della motivazione ad andare a scuola, che una volta

emergevano solitamente nell’adolescenza. Riavviare una progettualità

sociale ed educativa è un compito improrogabile, altrimenti il rischio è che

i ragazzi siano abbandonati alle loro scelte proprio mentre forse ricevono

molte attenzioni affettive.

In quale direzione muoversi?

I sentieri da percorrere vanno individuati nelle singole comunità ma –

questa almeno è l’ipotesi alla base di queste pagine - tutti vanno immaginati

e organizzati con un approccio che qui viene identificato come “laboratorio

di animazione sociale e culturale”. L’ipotesi è che il futuro dei ragazzi della

scuola media (ed elementare) passa dalla partecipazione a laboratori sociali

e culturali realizzati a scuola (all’interno delle ore di lezione e al pomeriggio

in cui la scuola deve lasciare maggiore spazio all’animazione), nelle

parrocchie dove è necessario uscire da approcci puramente trasmissivi dei

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contenuti religiosi o da approcci puramente attivistici per animare gruppi

in cui all’interno di relazioni accoglienti possa avvenire l’incontro fecondo

tra le domande di senso dei ragazzi e la proposta evangelica, nel mondo

ludico-sportivo oggi troppo centrato sul fare “attività” e sull’acquisire

“tecniche” sempre più raffinate, ma poco attento a fare di ogni squadra un

gruppo e a trovare uno spazio per la parola, il racconto pensoso dei vissuti

e l’apprendimento dalle esperienze che si vivono insieme.

Pensare e agire in termini di laboratorio e sviluppare laboratori diversi tra

loro come risposta alle domande e agli interessi dei ragazzi, riqualificando

le proposte già esistenti o perseguendone delle nuove, chiede una nuova

mobilitazione delle risorse della comunità e richiede nuovi percorsi di

formazione per gli adulti e, più da vicino, scuole per animatori sociali e

culturali, aperte in particolare agli adolescenti e ai giovani che intendono

gratuitamente investire le loro energie nel lavoro educativo con i ragazzi. Un

investimento, come si intuisce, non semplice, che richiede alle comunità

locali di sedersi a un qualche tavolo per comprendere quel che succede e

per immaginare laboratori che abbiano senso per i “nostri” ragazzi.

Gli ingredienti di un laboratorio

L’idea di laboratorio rimanda all’accostamento di ingredienti diversi e alla

presenza di un elemento catalizzatore che, a certe condizioni, è in grado di

scatenare inedite combinazioni, che generano altro dall’esistente.

Quali sono i principali ingredienti in gioco in un laboratorio che voglia

qualificarsi come sociale e culturale?

• Il gruppo e l’animatore. Il primo elemento è una domanda più o meno

consapevole di spazi in cui interagire con altri mettendo in gioco se

stessi in modo non formale, rispondendo a un bisogno intimo di essere

riconosciuti dagli altri in modo continuativo e gratuito. Un laboratorio

ha come soggetti il gruppo dei pari, il gruppo classe o il gruppo

sportivo o parrocchiale o anche il gruppo informale, e la presenza di

un facilitatore, di un animatore, di un accompagnatore del processo di

sviluppo di legami e di conoscenze.

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• Un’azione collettiva partecipata. Il secondo elemento è l’azione

collettiva partecipata che vede i ragazzi come protagonisti fin dal

prendere forma dell’azione, in quanto vi immettono il loro punto di

vista, prendono parte in modo esplicito alle decisioni, si immergono in

azioni non troppo programmate alla ricerca di una via di uscita da un

problema, da una difficoltà, da una sfida che richiede le energie mentali

e fisiche di tutti. Il contrario dell’azione collettiva è l’attività in cui al

centro c’è un fare, ripetitivo quasi sempre, pensato come qualcosa che

educa, plasma, dà forma. A volte il laboratorio stesso viene confuso

con una qualche esercitazione pratica, incentrata sulla manipolazione

di oggetti, sul riempire schede, sull’apprendere una tecnica (ad esempio

danza o chitarra), sul fare giochi di animazione. Se al centro delle

attività ci stanno le cose da fare e le tecniche da apprendere, al centro

del laboratorio ci sta un gruppo che agisce.

• Il pensiero investigativo e creativo. Il terzo elemento del laboratorio

è la valorizzazione del pensiero e della creatività di tutti. Il laboratorio

non è un’attività preconfezionata, qualcosa di pronto all’uso in cui

assumere passivamente dei ruoli, ma è invece un’azione che richiede

l’arte di farsi domande, immaginare fuori dagli schemi usuali, vedere

da un altro punto di vista, prevedere le mosse da fare “piegandosi”

all’evolversi della situazione, riflettere mentre l’azione si sviluppa e, al

termine, sostare, fermarsi, fare spazio al racconto e dunque a una parola

che esplora i significati che si sono sperimentati, le scoperte che l’agire

insieme ha permesso di fare, ridefinire i valori personali e di gruppo e

confrontarsi su come tutto questo influisce sugli stili di vita e insieme

rimanda a un diverso modo di pensare la società e di immaginare un

futuro più attento all’uomo.

• La canalizzazione delle energie. Il quarto elemento è la canalizzazione

delle energie in un’impresa personale e collettiva, in quanto finalmente si

intravede una direzione, un senso su cui vale la pena investire, accettando

quel che di fatica, sofferenza, sublimazione delle attese, dilazione del

piacere comporta. Nel laboratorio ognuno può interiorizzare un metodo

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di lavoro e delle regole coerenti per organizzarsi, ma soprattutto può

intuire quel senso che è in grado di chiedere costosi investimenti

personali e di accettare delle regole, percepite non più come rinuncia al

piacere, ma come guida a una profonda soddisfazione.

Alcune ambivalenze

Se questi sono i principali elementi che costituiscono un laboratorio

sociale e culturale, è opportuno mettere in luce alcune ambivalenze nelle

quali cade chi confonde un laboratorio con altri modi di agire, a scuola

come nei gruppi sportivi, all’oratorio come nelle palestre. Che cosa, viene

da chiedersi, “non è” allora un laboratorio sociale e culturale?

• Non solo fare, non solo parlare. Laboratorio non è attivismo ma

neppure nozionismo, non è svolgere attività materiali ma neppure

moltiplicare riunioni, discussioni, parole. Un laboratorio non è riducibile

a fare attività nel tempo libero, dall’aggiustare il motorino al prendere

parte a un corso di danza o di chitarra. Muoversi in tale direzione può

alimentare l’attivismo di una generazione di ragazzi fin troppo attiva,

limitandosi quindi ad aggiungere attività, procedendo per accumulo,

moltiplicazione, sovrapposizione, ma senza interrogarsi su dove si

intende andare.

• Fare laboratorio è integrare il fare, l’immaginare e il pensare in

spazi organizzati, ma non troppo definiti o programmati, in cui i

ragazzi possano immaginare azioni e immergersi nell’avventura del

fare, produrre significati confrontando punti di vista, abbandonarsi a

ragionamenti stimolanti, esprimere emozioni, parlare anche di cose da

grandi. In conclusione non c’è laboratorio senza azione, ma non c’è

azione senza riflessione.

• Non solo compiti, non solo “lezioni”. Un laboratorio non può ridursi

al fare i compiti o al tradizionale doposcuola. Fare del doposcuola un

laboratorio chiede di esplorare maggiormente la domanda che sta

dietro la richiesta di doposcuola da parte dei genitori e di pensare come

collocare le risposte in un ventaglio di possibilità. Un laboratorio ha due

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acceleratori, quello dei compiti e quello dello stare insieme. La creatività

è saper dosare il loro utilizzo, man mano che la situazione si evolve.

Introdurre la modalità del laboratorio implica assumere le conoscenze

che si innestano nelle domande dei ragazzi, nella loro ricerca, nelle

modalità esplorative dell’apprendere, nell’azione di gruppo in cui

ognuno può portare il suo contributo e il cui risultato finale è più del

contributo di ognuno. A scuola e nel doposcuola si fa poco laboratorio,

se con questo si intendono percorsi di vera ricerca in presenza di

testi da studiare e documenti da utilizzare, piste di lavoro e domande

aperte, risposte non precodificate. Per non parlare dell’assenza quasi

totale di laboratori che pongano al centro le dinamiche di gruppo, la

rielaborazione delle emozioni, l’insorgenza di fatiche nelle relazioni,

la gestione creativa dei conflitti, l’animazione delle riunioni in modo

democratico, la presa di decisioni che siano frutto di discussioni

argomentate.

• Non troppo dentro le cose, non troppo fuori. Un laboratorio è un

modo concreto per immergersi nelle azioni, per vivere le cose da

fare con gusto, per trovare senso nell’avventura di gruppo come nel

quotidiano “perdere tempo”. Ma il laboratorio propone anche di non

schiacciarsi troppo sulle cose, ma di vedere “da fuori”, dall’alto, da altri

punti di osservazione, rispetto a quelli abituali, quel che si sta vivendo,

quel che si sta facendo. E questo, con calma, in un momento di pausa

che permette di vedere da un’altra prospettiva, per posare l’attenzione

su aspetti inusuali, per vedere in modo inedito le cose di sempre, per

distinguere, per valorizzare e apprezzare, per farsi domande non banali.

In un parola per essere maggiormente partecipi e capaci di scendere

dentro le cose, fermandosi ogni tanto a osservarle dall’alto.

• Non solo consumo, non solo gioco. Un laboratorio rimanda all’idea

che non basta consumare, fosse anche consumare gioco e giochi,

quelli della playstation o, più in generale, quelli del tempo libero. A

quali condizioni il gioco è crescita? A quali condizioni le attività ludiche

sono luoghi creativi, nel senso che alimentano significati che i ragazzi

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possono utilizzare come mattoni della loro autonomia di pensiero e

di azione? E a quali condizioni il gioco e le attività ludiche, più che la

somma di attività individuali, sono un’avventura collettiva che permette

di far nascere interrogativi, dialoghi, creazioni?

• Non solo ragazzo, non solo adulto. Certamente il laboratorio intende

abilitare i ragazzi a essere sempre più autonomi nel loro apprendere, nel

loro “fare cultura”, reagendo alla dipendenza cui li sollecitano i media e

le mode, ma anche all’idea dell’adulto come depositario del sapere, che

a ogni problema ha una risposta. Ma un laboratorio non esiste senza un

adulto che lo attiva e che, mentre invita i ragazzi a entrare in un clima di

scambio, li stimola a sperimentare un contatto con ciò che è fuori di loro

e che, in quanto tale, può suscitare diffidenza e indifferenza, piuttosto

che curiosità e interesse. Nel laboratorio l’adulto, che è presente, ma

spesso nella penombra, in seconda fila, per non sostituirsi ai ragazzi,

non impone le sue idee ma non nasconde il suo punto di vista, valorizza

le idee dei ragazzi ma mette in discussione le loro semplificazioni, fa

sintesi e rilancia domande.

• Non solo individuo, non solo gruppo. Il laboratorio è sempre una piccola

avventura collettiva, ma è attento alla necessaria dialettica tra “io” e “noi”.

Questo a partire dall’idea che i ragazzi sono alla ricerca di un gruppo

in cui sentirsi gratuitamente accolti e poter essere se stessi, ma anche

di un io che sa vivere positivamente il noi-gruppo, sperimentando una

soddisfazione che l’essere solo io non permette di toccare con mano.

In concreto, un laboratorio sa alternare il lavoro di gruppo con il lavoro

individuale, la discussione in gruppo e la rielaborazione personale

delle idee emerse, la cura del “parlamento interiore” di ognuno con la

narrazione delle proprie emozioni e pensieri negli incontri di gruppo.

L’ORIENTAMENTO TRA ALCUNE ACCENTUAZIONI

Il differenziarsi delle esperienze conferma che non esiste un modello

vincente di laboratorio. Non solo, un esperimento che ha avuto successo

in una comunità può non averlo in un’altra, perché altro è il contesto,

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altri sono i bisogni, altra è la fase che la comunità attraversa nella sua

evoluzione.

In particolare, l’analisi delle esperienze mostra come i progetti

dell’extrascuola concretizzano risposte articolate a domande differenziate

poste dalle famiglie, dai ragazzi e dalla scuola, domande che sollecitano

l’impiego consapevole di attenzioni, modalità e strumenti diversificati.

Va detto tuttavia che, nelle pagine che seguono, la descrizione dei

percorsi verte quasi unicamente sui possibili laboratori del tempo libero.

Analoga ricerca andrebbe svolta sull’insegnare a scuola in una logica di

laboratorio.

Un nuovo investimento sul gruppo dei pari

Un primo modello è quello che fa perno sul diritto dei ragazzi al tempo

libero, al gioco e alle attività creative spontanee, in cui al centro sta

l’avventura del giro degli amici e la capacità di fare del gruppo dei pari un

luogo di identificazione che “stacca” positivamente dalla famiglia e dalla

scuola.

In altre parole, al gruppo del tempo libero viene riconosciuta una funzione

educativa sua propria, in quanto è un luogo privilegiato in cui giungere

a una presa di coscienza di sé non ingenua. Tale presa di coscienza aiuta

a sollevare il velo dei propri difetti e insieme ad accettarsi con i propri

limiti, tenere i piedi per terra e insieme sognare un futuro degno di essere

perseguito, superare il narcisismo per aprirsi al “noi” e avventurarsi insieme

in una qualche impresa, pagando il prezzo necessario in termini di fatica e

di canalizzazione delle proprie energie.

Un ruolo particolare vengono ad assumere gli “interessi” dei ragazzi, quel

che a loro piace come luogo di espressione del sè, più che la conquista di

una serie di “competenze” individuali. In questa direzione ogni interesse dei

ragazzi, da quello sportivo a quello per la danza, è luogo in cui sviluppare

competenze di tipo sociale e progettuale che consolidino la capacità

di avere un metodo di lavoro e dunque l’apprendere a organizzarsi per

risolvere problemi.

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In questa ipotesi di laboratorio il fare i compiti non è in primo piano, ma

non per questo non se ne ha cura. Essi vengono fatti in un clima accogliente

e sereno, di tipo cooperativo, spesso con la presenza di giovani animatori

che sanno motivare i ragazzi a lavorare (non sempre, va detto, con un

metodo adeguato, che andrebbe ricercato invece insieme agli insegnanti),

come accade negli oratori, nelle associazioni educative o nei centri di

aggregazione.

La centratura sul sostegno nei compiti

Un secondo modello è il laboratorio centrato sul sostegno nel fare i

compiti, sia in forma individuale che all’interno di un gruppo, a partire

dalla fatica che i ragazzi stanno facendo e dal bisogno di un periodo più o

meno prolungato di rinforzo e sostegno. L’intento è che i ragazzi diventino

autonomi nello studio, acquisiscano un metodo di lavoro, superino i

blocchi rispetto a singole materie e, più in generale, ritrovino stima in se

stessi scoprendo potenzialità prima sconosciute, sappiano chiedere aiuto

nelle difficoltà e individuare a chi chiederlo, abbiamo fiducia in un paio

di adulti o di giovani disponibili a dare una mano in eventuali momenti di

crisi.

Se in questo modello l’attenzione viene eccessivamente incentrata sul

singolo, sul “caso”, possono insorgere alcuni problemi. Un primo problema

è il rischio di ghettizzare chi fa fatica nell’apprendimento, al punto che

riesce ormai a posizionarsi solo in quel ruolo. Un secondo problema

può insorgere quando i singoli ragazzi vengono convogliati in luoghi

protetti, nei quali scambiano quasi unicamente con coetanei con problemi

simili, provenienti anche loro da famiglie problematiche. E così, dopo la

ghettizzazione del mattino a scuola, i cosiddetti casi sociali rischiano di

vivere una seconda ghettizzazione al pomeriggio. Il terzo è che il sostegno

dato ai ragazzi raramente prevede la presenza di esperti che riflettono

sulle disfunzioni nell’apprendimento e sugli opportuni interventi.

Come far sì, pertanto, che il necessario sostegno scolastico pomeridiano

diventi luogo di una positiva integrazione sociale, in modo che ogni ragazzo

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si sperimenti nelle reti della normalità a fianco dei coetanei? E come far sì

che le disfunzioni soggettive nell’apprendimento siano riconosciute e che

vengano individuate, in collaborazione con qualche esperto dei problemi

dell’apprendimento, iniziative di supporto?

La centratura sull’animazione a scuola

Un terzo modello è quello che porta ad applicare la logica del laboratorio

all’interno della scuola, soprattutto negli interventi integrativi e opzionali.

In questo caso, l’accento cade sul laboratorio come esercitazione di gruppo

intorno a sfide cruciali, sia per lavorare meglio a scuola, sia per vivere in

modo più denso il tempo libero. Si pensi all’attivazione di gruppi diversi

dalle classi, in cui in ragazzi possono liberamente scegliersi per esprimere

e praticare insieme degli interessi, accompagnati in modo discreto da

insegnanti e/o educatori-animatori.

In questa direzione il laboratorio può offrire una seconda chance di

esperienza di gruppo in vista della propria autonomia personale, in cui il

punto d’attrazione è un interesse, piuttosto che una tecnica o una disciplina:

dalla solidarietà con i coetanei del terzo mondo, allo costituzione di una

piccola band o di attività di danza che si qualificano per essere svolte in

uno spazio pubblico qual è la scuola e dunque aperto a tutti, aperto al

pluralismo delle espressioni del sè, trasversale rispetto sia alle classi in

cui la gruppalità si è forse irrigidita, sia ai gruppi del tempo libero, spesso

selettivi se non tribali e con legami molto allentati.

Il laboratorio può essere allora un insieme variegato di esercitazioni che

portano a sperimentare le dinamiche di gruppo, conquistare una maggiore

consapevolezza del proprio mondo interiore, sporgersi sull’avere cura

dell’ambiente e delle stesse “sorti del mondo”, interagire con proposte

provocatorie come quelle che possono offrire associazioni impegnate a

fianco dei più poveri, ma anche le aggregazioni giovanili di un paese che

producono piccoli o grandi beni collettivi a livello di sport, musica, teatro…

Il laboratorio a scuola può essere una sorta di piazza della comunità, con

l’intento di aprirsi, confrontarsi, apprendere dalle esperienze che stanno

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avvenendo nel proprio piccolo paese o nei mondi più lontani. E dunque

luogo di incontro e scambio con la comunità locale e con la comunità

globale, ma a patto che sempre all’azione seguano la riflessione e la

rielaborazione critica, alle domande segua la ricerca di risposte utilizzando

in modo consapevole i testi della cultura umana, compresi quei grandi

patrimoni che sono le discipline che la scuola con passione offre

all’apprendimento dei ragazzi.

LABORATORI DELLA GENITORIALITÀ

Una sorta di prolungamento dei laboratori con i ragazzi possono essere i

laboratori tra genitori per inoltrarsi in percorsi di “genitorialità diffusa”,

ma anche in esperienze stimolanti di “famiglia sociale”. Se nel primo caso

al centro ci sono le preoccupazioni per i figli, nel secondo ci sta il bisogno

di sperimentarsi “famiglie”. In entrambi i casi quel che i laboratori possono

offrire è la possibilità di tessere nuovi reticoli sociali, ritrovare una parola

che ha peso in quanto intrisa di esperienza e in grado pertanto di generare

significati e progetti, alimentare la consapevolezza del potere delle famiglie

rispetto all’avvenire dei figli, come all’avvenire della comunità. Nei

laboratori è possibile incontrarsi e riconoscersi, far emergere domande e

cercare insieme risposte, togliersi la maschera del proprio ruolo e mettersi

in gioco come persone in un clima di fiducia, accoglienza, ricerca pensosa

intorno ad alcuni problemi, incontrare esperti ma senza delegare il diritto

e dovere di confrontarsi fra famiglie.

Il confronto sugli stili di vita

Un primo gruppo di problemi su cui confrontarsi tra famiglie è quello

legato agli stili di vita che stanno interiorizzando i ragazzi e che facilitano

o scoraggiano la concentrazione anche nello studio e, prima ancora, la

capacità di dare un senso soggettivo all’andare a scuola. In questo ambito

emerge il bisogno degli adulti di prendere la parola sui loro vissuti, sulle

loro responsabilità educative, sui nodi irrisolti che sembra di intravedere

e che hanno a che fare - prima che con la loro responsabilità di genitori

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- con le logiche di mercato e di consumo, con la pressione alla conformità

che affievolisce la libertà, con la fatica di interagire con gli altri che sembra

inaridire i ragazzi, con la possibilità che il paese sia uno spazio dove i

ragazzi possono esercitare i loro diritti e i loro doveri.

La quotidiana battaglia intorno alla scuola

Un secondo ambito in cui diventa importante prendere la parola tra

genitori è quello del fare i compiti, del metodo di studio, dell’equilibrio tra

tempo scolastico e tempo libero, della fatica nell’apprendere, del disagio

a scuola, del bullismo che mina alla base la fiducia di alcuni ragazzi con

conseguente repulsione verso la scuola e lo studio. Qui il confronto fra

i genitori si fa più pensoso, ricco più di domande che di risposte, alla

ricerca di punti di riferimento senza rifugiarsi in sterili ricettari. Qui

diventa possibile un’inedita alleanza tra famiglie e scuola, tra genitori e

insegnanti, accompagnati da esperti che rifiutano di dare ricette, mentre

invece orientano lo sforzo di tutti nel riflettere e nell’immaginare altri

modi di fare, a partire dall’ascolto di chi ha esperienza a fianco di ragazzi

che apprendono con entusiasmo, ma anche di ragazzi demotivati.

L’elaborazione di politiche locali per i ragazzi

Un altro punto di incontro tra genitori è quello legato alle politiche per i

minori dell’Ente Locale, alle direzioni sulle quali investire le risorse umane

e finanziarie, culturali e religiose della comunità. Fare laboratorio tra

famiglie può essere un luogo in cui comprendere i problemi dei ragazzi e

immaginare alcune ipotesi di lavoro, per poi andare a proporle e discutere

all’interno dei vari tavoli di progettazione presenti nella comunità.

In questi anni si assiste anche al moltiplicarsi di piccole ma vivaci

associazioni locali che esercitano una forte pressione sulle varie istituzioni

sociali ed educative affinché riconoscano e sostengano progetti nei quali le

famiglie possano agire concretamente sul territorio, da sole o in partnership

con altri attori sociali, rispetto alle attività del tempo libero, rispetto ai vari

modelli di sostegno allo studio. Da questo punto di vista, il laboratorio può

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essere incubatore di nuova intraprendenza sociale ed educativa di reti o

associazioni di famiglie.

GLI ATTORI DI UNA COMUNITÀ CHE INTRAPRENDE

Come si è già visto, le attività di laboratorio sono stimolanti, oltre che per

le concrete iniziative a fianco dei ragazzi, per quel che delineano in termini

di “impresa di comunità”.

La scena si popola di attori adulti, individuali e collettivi, spinti dalla

rinnovata attenzione alla sfida dell’educare e del conoscere.

E’ interessante osservare, a questo punto, come vengono a riformularsi

positivamente le funzioni dei vari attori sociali.

Le famiglie come attori sociali

In primo luogo incomincia ad emergere la funzione della famiglia come

attore che influisce sulle decisioni che la riguardano. Più che nel recente

passato le famiglie fanno opinione, esprimono il loro punto di vista, non

sono passive. O per lo meno le famiglie intendono tornare sulla scena

del sociale, consapevoli che gli itinerari di sviluppo dei loro figli sono

connessi e che le soluzioni ai problemi vanno cercate, prima che a livello

di interventi con e sul singolo, nel perseguire un diverso modo di essere

dell’intero paese, in particolare un diverso modo di dare senso alla scuola

e al tempo libero. Dopo aver ritenuto in anni recenti che bastasse offrire

ai figli possibilità sempre nuove di conquistare competenze individuali

(dall’inglese alla danza, dall’informatica ai viaggi all’estero), la famiglia

intuisce che occorre soffermarsi sui problemi e ragionare con calma sul

futuro dei figli, senza rifugiarsi negli esperti e nei tecnici, per comprendere

da che parte andare come famiglie e come comunità.

Ma per fare questo la famiglia stessa è chiamata a reagire all’isolamento, in

cui sempre più viene a trovarsi, che induce un sostanziale impoverimento

del suo capitale sociale e culturale, nel momento in cui non trova tempo

materiale e disponibilità interiore per incontrare altre famiglie e avviarsi

verso una “genitorialità diffusa”, che ha cura non solo dei propri figli ma di

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tutti i ragazzi della comunità, e una “famiglia sociale”, che sente che solo

vivendo dentro i reticoli della comunità può trovare stimoli per una crescita

dei figli a livello sociale (i ragazzi sviluppano il senso di appartenenza alla

comunità) e culturale (i ragazzi possono entrare in contatto e confrontare

modi diversi di pensare).

Non mancano le ambivalenze: dalla sensazione di non avere tempo per

fare i compiti con i figli o di non sapere come farli, all’improvvisazione

nel sostenere l’autonomia nel fare i compiti (fare i compiti con i figli è più

complicato oggi), dall’incapacità di mettere in discussione i messaggi della

società dei consumi alla necessità di investire risorse per tenere alta la

capacità di apprendimento dei ragazzi, dalla continua richiesta di servizi

di sostegno alla critica (a volte ingenerosa) verso una scuola cui si tende a

delegare la soluzione di tutti i problemi.

L’associazionismo per “un paese che educa”.

Il tempo libero è in gran parte animato dalle associazioni educative, spesso

a titolo di volontariato, e da cooperative sociali attivamente inserite nelle

comunità locali.

Come si è già detto l’associazionismo, di ispirazione cristiana o laica,

vive, con le dovute eccezioni, un momento di incertezza, in quanto la

concorrenza del tempo libero del consumo, l’espandersi dell’impegno

scolastico che sembra a volte assorbire tutto il tempo dei ragazzi, la tendenza

delle famiglie a riempire il portfolio di “brevetti” individuali, l’affievolirsi

della proposta religiosa, hanno portato a una sorta di ripiegamento delle

associazioni su se stesse e alla ricerca di “clienti” per le proprie iniziative,

piuttosto che all’esercizio della responsabilità verso tutti i ragazzi di una

comunità.

Del resto l’indifferenza reciproca tra mondo sportivo, mondo delle palestre,

gruppi parrocchiali viene oggi colpita, a volte in modo violento, dalla “fuga”

dei ragazzi, al punto che cresce il bisogno di uscire dai propri confini, per

ritrovare vitalità in quanto paese o città.

Piuttosto che proporsi come luoghi dove si sa già quel che si deve fare (ma

mancano i ragazzi), le associazioni più sensibili si stanno riposizionando

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come luoghi in cui gli adulti possono ragionare in termini di “un paese

che educa”, per aprirsi poi alle domande dei ragazzi, consapevoli che il

patrimonio valoriale, imprenditoriale e organizzativo delle associazioni è

una ricchezza della comunità. A patto che le associazioni, piuttosto che

ricercare nicchie autoprotettive, si pongano come agenti che sensibilizzano,

provocano, mobilitano la comunità intera.

Non mancano le ambivalenze che vanno da un eccesso di chiusura nel

proprio guscio di associazione all’incapacità di fermarsi a pensare con

distacco e ironia, dall’idea che se ogni associazione si espande a macchia

d’olio conquistando nuovi spazi cresce la comunità (a volte crescono solo le

divisioni e si perde il senso del far paese) al ritenere di sapere già quali sono

i problemi e che “il problema” è trovare finanziamenti, dall’autoritarismo

che nega la partecipazione e impedisce agli adolescenti di vedere nelle

associazioni un luogo di investimento personale al pragmatismo che tutto

riduce ad accumulare attività senza avere un vero progetto educativo,

dal partecipare ai vari tavoli sociali per difendere il proprio orticello

all’impedire che altri possano offrire un positivo contributo nel ridefinire

il senso dei propri interventi.

Una scuola che si identifica con la comunità locale

Nella scuola in questi anni, là almeno dove la scuola ha maturato la scelta

di voler essere “scuola di comunità”, è cresciuta la consapevolezza di essere

una preziosa agenzia di progettazione e formazione per il paese.

Da questo punto di vista la scuola sta assumendo una funzione attiva nel

mobilitare la comunità locale intorno a sfide che vanno dal dare senso

alla scuola e allo studio, all’autonomia dei ragazzi nel fare i compiti, al

prendere atto delle difficoltà dei ragazzi e della necessità di offrire loro un

sostegno competente nell’apprendere. Il processo di “radicamento” della

scuola procede a macchia di leopardo, ma, dove è in atto, la scuola offre

un contributo prezioso al paese, mentre a sua volta viene legittimata e

valorizzata come espressione della comunità.

La scuola è sempre più presente nei diversi “tavoli” in cui la realtà locale

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esprime la sua progettualità e, in non pochi casi, è un originale laboratorio

culturale della comunità, un luogo cioè nel quale i cittadini possono

incontrarsi, aprirsi a domande e problemi, riflettere e immaginare risposte

che mobilitano l’intero paese, dal doposcuola, ai laboratori di adultità e di

genitorialità.

Non mancano le ambivalenze, che vanno dall’enfasi sul sovraccarico di

lavoro dentro la scuola al punto da rendere la scuola incapace di ascolto

dei problemi della comunità al rischio di scolasticizzare il tempo libero

senza coglierne le possibilità rispetto alla maturazione di abilità basilari

per l’autonomia dei ragazzi.

Il ruolo di attivazione e di regia dell’Ente locale

Un nuovo attore sulla scena del tempo libero e degli interventi

extrascolastici, come della scuola in una logica comunitaria, è oggi

l’Ente locale che è passato nel volgere di pochi anni da una funzione di

erogazione e finanziamento di servizi, a una funzione di attivazione e regia

delle risorse della comunità e della sua capacità di assumere i problemi

che la attraversano. In altre parole l’Ente locale, in quanto luogo di governo

dei problemi vicino ai cittadini, svolge una funzione di antenna sensibile

all’evolversi della domanda sociale, ma piuttosto che ricercare tecnici per

“risolvere i casi” sta finalmente lavorando per fare crescere tra i cittadini

la consapevolezza che alcuni problemi vanno affrontati attraverso una

partecipazione dal basso, comprensibilmente con il sostegno delle

risorse formali, rappresentate dai servizi socio-educativi e dalle pubbliche

istituzioni, in primis la scuola.

L’Ente locale assume un compito di promozione del sociale, facendo

attenzione a due livelli di azione, tra loro autonomi pur nella necessaria

coerenza di intenti.

• Un primo livello è quello della politica. A questo livello, piuttosto che

decidere da solo con i propri tecnici o in un qualche giro chiuso di

cittadini, l’Ente locale aiuta a fermentare domande e idee, per poi

offrire ai cittadini sensibili ai temi dell’apprendimento dei ragazzi spazi

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pubblici in cui possano emergere ipotesi di lavoro, linee educative,

opzioni strategiche, priorità da perseguire.

• Un secondo livello è quello tecnico-professionale, in cui l’Ente locale,

rappresentato dai funzionari e da professionisti competenti, interagisce

con le diverse organizzazioni sociali in gioco intorno all’abbandono

scolastico o al bisogno di spazi per fare i compiti e giocare, per

attivare quello scambio progettuale tra scuola, famiglie, associazioni,

cooperative alla base della progettazione partecipata. In altre parole, a

livello tecnico-professionale l’Ente locale è impegnato a garantire forme

di consulenza e accompagnamento indispensabili per lo sviluppo di

una progettazione partecipata.

Nel muoversi tra questi due livelli l’Ente locale sente di assumere un triplice

compito: un compito di mobilitazione della cittadinanza rimanendo un

attore “dietro le quinte”, in modo che i cittadini possano sperimentare la

loro responsabilità; un compito di regia politica che valorizza l’autonomia

delle professioni e le competenze esperienziali dei cittadini; un compito di

controllo, supportato da forme di valutazione partecipata, in cui tuttavia

ritrova una sua “solitudine” in quanto deve a volte prendere decisioni

controcorrente a difesa del pubblico interesse, soprattutto quando si tratta

di valutare gli esiti degli interventi.

E’ facile cogliere alcune ambivalenze, dall’eccesso di presenzialismo (a

volte autoritarismo) degli amministratori alla semplice privatizzazione

dei problemi attraverso la delega a un’associazione o a una cooperativa,

dalla resistenza a fermarsi per pensare e ragionare prima di fare (per non

limitarsi al principio: “purché qualcosa si faccia”) alla ricerca ansiosa di

visibilità che porta a guardare con diffidenza percorsi che richiedono

investimenti a medio termine, dalla non trasparenza sulla procedure di

esternalizzazione dei servizi alla genericità dei criteri di valutazione degli

esiti che lascia troppo potere discrezionale agli amministratori.

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FASI E NODI DELLA CO-PROGETTAZIONE

Ragionare in termini di laboratorio chiede alla comunità di rendersi

ulteriormente competente nel proseguire con intelligenza e passione per

la strada intrapresa in questi anni rispetto all’immaginare e attivare i servizi

sociali, sanitari ed educativi: la “progettazione sociale” come costruzione

collettiva partecipata. Un laboratorio non può che essere il coagulo di una

progettazione partecipata.

La progettazione sociale parte dal riconoscimento della complessità dei

problemi e degli intrecci tra fattori che appesantiscono le situazioni.

Di conseguenza invita gli attori sociali a uscire dai propri confini istituzionali

e dai propri mansionari professionali per interrogarsi su come smuovere

l’intera comunità, in modo che possa generare nuove rappresentazioni

delle sfide, inediti progetti, nuove partnership tra risorse professionali e

risorse volontarie.

Il riconoscersi intorno a un patto fra cittadini

Il punto di partenza, anche per i problemi connessi al fare i compiti e al

riconoscere significato alla scuola e, più in generale all’animazione sociale

e culturale nel tempo libero, è allora una diffusa domanda di aiuto delle

famiglie cui si risponde con una mobilitazione sociale, che comporta un

diverso modo di interagire anzitutto fra cittadini responsabili.

È come se la risposta alla domanda vada cercata uscendo dalla propria

solitudine di genitori e di operatori sociali, ritrovando la fiducia e la parola

in luoghi in cui ci si senta dalla stessa parte rispetto ai problemi. Invece

di delegare ai professionisti la lettura delle sfide e l’individuazione dei

percorsi, genitori e amministratori, operatori professionali e insegnanti,

animatori dell’oratorio e volontari delle associazioni sentono che è

necessario sottoscrivere un “patto fra cittadini” per ritessere legami,

ritrovare la parola, esercitare il pensiero e la fantasia nell’esplorare le

domande esplicite e implicite dei ragazzi e delineare che cosa fare.

In questo agire progettuale le sensibilità e i punti di vista, le competenze

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e le professionalità trovano un loro senso e vengono a riconoscersi

reciprocamente. Piuttosto che rinchiudersi nella difesa di un proprio

territorio di competenza, ci si ritrova a fare politica locale, quella politica

intesa come “sortire insieme”, in modo partecipato.

Non vanno negate alcune ambivalenze. La più evidente è quella di chi usa i

tavoli della progettazione sociale per dare sfogo al proprio narcisismo o al

proprio bisogno di dominio.

Un’altra è il rifugio nel pragmatismo che propone un’attività dopo l’altra

come se bastasse “fare” per sciogliere nodi che invece richiedono pensiero,

fantasia, costanza. Un’altra è il superficiale accostamento tra progetti che

diversi sono nati e tali rimangono, e si fa uso strumentale della progettazione

partecipata come via di accesso ai finanziamenti pubblici.

Un’altra ancora è l’assenza di investimenti per estrarre da esperimenti come

le attività di animazione con i ragazzi i significati e i valori, le strategie e le

scelte metodologiche in modo che diventino patrimonio della comunità.

Una ricerca che genera nuove letture e ipotesi

Sempre di più sta lievitando l’esigenza di lavorare in una logica di ricerca-

azione partecipata, per intraprendere percorsi che sollecitano la comunità

a prendere coscienza del “suo” disagio, senza drammatizzazioni, ma anche

senza superficialità, in modo che lo stesso disagio venga utilizzato come

motore per una ricerca collettiva.

In realtà il disagio che emerge è sempre qualcosa di grezzo, dove il problema

sembra presentarsi in un’impalpabile immediatezza, in cui tutto sembra

chiaro, mentre man mano che la ricerca procede i collegamenti tra i dati

superficiali e la loro interpretazione si fanno intricati.

Solo a prima vista è facile esplorare la fatica dei ragazzi a scuola, la

mancanza di un metodo di studio, la debole autonomia nel fare i compiti o

studiare da soli, le difficoltà gravi nell’apprendere, l’uso problematico del

tempo libero, la crisi delle gruppalità.

Tale esplorazione richiede un intenso lavoro di lettura e comprensione

e, prima ancora, la formazione di un soggetto collettivo, in cui possono

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ritrovarsi le istituzioni pubbliche e il privato sociale, la scuola e le

associazioni di genitori, a partire dalla disponibilità a muoversi in un clima

di fiducia, di disponibilità all’ascolto, di impegno a riflettere insieme in

modo critico e creativo.

Man mano che vengono approfonditi i legami tra problemi, la ricerca-

azione porta a far lievitare ragionamenti e intuizioni che fanno spazio a

ipotesi di intervento che forse prima non si intravedevano e delle quali non

si coglieva il significato, a priorità che non necessariamente andranno a

scegliere come bersaglio i ragazzi.

Forse tali priorità richiedono un inedito dialogo fra genitori rispetto all’uso

del tempo libero e alla loro presenza a fianco dei figli, oppure un diverso

dialogo tra genitori e scuola rispetto al carico dei compiti come rispetto

alle dinamiche di esclusione a scuola o a interventi che perturbino

l’appiattimento culturale di una comunità. E questo nella convinzione che

in un paese culturalmente morto, morta o insignificante è spesso la sua

scuola, morto o affievolito è facilmente il senso che i ragazzi attribuiscono

alla cultura e alla scuola.

In altre parole, sostare in una fase di comprensione approfondita delle

sfide permette di scorgere letture inedite dei problemi dei ragazzi fino a

intravedere su che cosa positivamente costruire, ma insieme interroga il

modello di presenza degli adulti al loro fianco, in una società in cui il

futuro da promessa sembra diventato minaccia.

In questa fase del progettare vengono a confrontarsi e contaminarsi,

spesso solo indirettamente ma non per questo in modo superficiale, visioni

dell’uomo e della società, stili di vita e aspettative per il futuro, culture

educative delle famiglie e delle associazioni, approcci al senso della scuola

e della cultura, modi di immaginare il legame tra i ragazzi e la comunità.

Non si tratta comprensibilmente di dare sfogo a residue diatribe ideologiche,

né di enunciare astratti valori, ma piuttosto di radicare creativamente i

valori in concrete “priorità d’azione”. In fondo l’azione a fianco dei ragazzi

è un modo per rendere pratiche un insieme di scommesse culturali, etiche,

politiche ed educative che nel loro compiersi generano la comunità.

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L’attivazione di esperimenti e il coordinamento

Si entra, a questo punto, nella fase dell’attivazione e del coordinamento

degli interventi che si ritengono importanti, pensati da subito come

“esperimenti” da tenere sotto controllo e da cui apprendere passo dopo

passo, con un’attenzione aperta all’evolversi di problemi che chiedono

una continua ricerca-azione, un progetto articolato, capace di contenere

una pluralità di esperimenti e di valutarli per vedere se gli esiti attesi sono

stati raggiunti o se si siano verificati esiti imprevisti ma interessanti.

In quanto esperimenti, i vari laboratori sono azioni concrete, da decostruire

e ricostruire per apprezzare e valorizzare il senso insito nella loro fragilità

e parzialità a fronte di sfide che non possono essere vinte una volta per

tutte.

Al centro del lavoro progettuale c’è un’azione consapevole di coordinamento

degli esperimenti e di scambio fra i vari programmi d’azione di una

comunità rispetto all’apprendimento. Per questo il coordinamento non è

qualcosa di meccanico, quasi che si tratti di assemblare delle parti, ma

piuttosto qualcosa relativo al fermento culturale che viene a esserci nel

momento in cui i vari esperimenti vengono riletti in modo che possano

dar ragione di se stessi, confrontati tra loro affinché nel contaminarsi si

rigenerino, rimessi in discussione in modo non ansioso, proprio perchè di

esperimenti si tratta.

Una comunità è progettuale se apprende da quel che succede e se quel

che succede é stato immaginato e perseguito alla luce di alcune ipotesi

ancorate a domande o problemi.

Una comunità che apprende dai laboratori

Un ultimo passo è quello che porta una comunità locale nel suo insieme

ad apprendere dal suo investimento nelle diverse forme di laboratorio.

Soffermarsi sui laboratori, visti come modi di esprimersi e dunque come

un successo di tutti, nella loro parzialità arricchisce il senso di potere della

stessa comunità, la quale può vedere che è possibile avvicinarsi ai problemi

senza lasciarsene sommergere, immaginare e concretizzare progetti e, allo

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stesso tempo, convivere con problemi la cui soluzione non è a portata di

mano. Emerge il volto di una comunità che, se per alcuni versi è stressata e

impotente, per altri esprime una sua generatività sociale. E’ una comunità

in grado, pur fra contraddizioni, di governare pezzi non indifferenti del

suo futuro nell’accompagnare le nuove generazioni nella conquista di

una loro autonomia progettuale. In altre parole i vari laboratori abilitano

la comunità a immaginare un futuro meno minaccioso e a rigenerare la

fiducia nella sue possibilità.

Questa rigenerazione avviene quotidianamente, ma rischia di non divenire

patrimonio consapevole se chi anima i laboratori non prevede momenti in

cui la comunità tutta possa percepirlo come una sua avventura, come un

luogo generatore di un diverso modo di guardare al futuro, e, più da vicino,

di un diverso modo di fare politica e fare cultura.

ALCUNE ANNOTAZIONI ORGANIZZATIVE

Dal punto di vista organizzativo pensare in termini di laboratorio chiede di

sviluppare un modello flessibile di azione, dove per flessibilità non si intende

l’improvvisazione, ma piuttosto la capacità di avere sufficientemente chiare

alcune mete e alcune scelte di metodo per poi pensare la programmazione

man mano che le situazioni si evolvono. La flessibilità è allora la capacità

di lavorare sull’esistente e di fare i conti creativamente con il presente.

Un laboratorio è flessibile perchè è una piccola istituzione con un buon

livello di plasmabilità.

In quanto istituzione è dotata di un progetto sufficientemente stabile nel

tempo, in quanto plasmabile è una sorta di organismo capace di innovare,

aprirsi alla partecipazione di nuovi attori, modificare la sua offerta con il

variare delle situazioni.

Il livello politico, il livello tecnico-progettuale e il livello gestionale.

L’organizzazione di un laboratorio chiede di distinguere e di rispettare

l’autonomia dei tre livelli.

• Il livello politico. Se sul piano politico un laboratorio non può essere

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che espressione di una comunità, è importante che ci sia un luogo

politico dove possa esserci una pubblica discussione per legittimarne

il significato come patrimonio comune, ma anche per sottrarlo a ogni

tentativo di appropriazione da parte di qualcuno.

Nasce da qui la necessità di un luogo politico in cui le diverse espressioni

della comunità e gli interessi in gioco di famiglie, scuola, servizi sociali

possono lavorare insieme per delineare le finalità istituzionali e dunque

i confini dell’iniziativa, i principali destinatari, le priorità che deve

perseguire, gli attori che è chiamata a coinvolgere, l’associazione o la

cooperativa che andrà ad animarla. A questo livello un laboratorio ha

bisogno di un atto politico amministrativo che lo legittimi e impegni

anzitutto l’Ente locale e le altre istituzioni che intendono promuoverlo

a garantire le risorse umane e finanziarie necessarie sul breve e medio

periodo. Così come è stato prospettato finora, un laboratorio richiede

tempo per generare pensiero e inventiva, esperimenti, capacità di

apprendere dagli errori.

• Il livello tecnico-progettuale. A livello tecnico-progettuale si ritrovano

coloro che, a partire dal mandato politico e sulla base delle diverse

competenze formali e informali, sono chiamati a prendere parte alla

progettazione di iniziative dell’extrascuola attivando quel percorso

sociale al cui interno ha senso un laboratorio.

Al tavolo tecnico partecipano gli operatori sociali a contatto quotidiano

con i problemi dei ragazzi, i professionisti che hanno ricevuto l’incarico

di accompagnare lo sviluppo del progetto in modo da garantire un

processo partecipato, i rappresentanti delle famiglie o delle associazioni

familiari e della scuola, i responsabili dell’associazione o della

cooperativa cui si chiede di animare il lavoro con i ragazzi.

E’ importante che il progetto venga elaborato con la partecipazione di

tutti, anche perché non è detto che il progetto si esprima unicamente

attraverso il lavoro con i ragazzi, ma può anche prevedere iniziative

rispetto al rapporto tra scuola e famiglie, come tra scuola e servizi

sociali o rispetto al bisogno di confronto tra genitori sui problemi

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connessi all’apprendimento. In tal modo il tavolo tecnico-progettuale,

man mano che il progetto si consolida sul territorio, diventa il luogo di

confluenza dei nuovi problemi, delle nuove esigenze, ma anche il luogo

in cui si rielabora il progetto, si verifica la coerenza tra le iniziative e ci

si interroga su come restituire il senso del lavoro svolto alla comunità.

• Il livello gestionale. Il livello gestionale vede come attori principali le

organizzazioni che gestiscono i diversi esperimenti del progetto, dal

doposcuola a fianco dei ragazzi al lavoro con gli adulti e con le istituzioni.

Come emerge dalle cose dette, tali organizzazioni non possono essere

abbandonate a se stesse. Il confronto con i due precedenti livelli

permette a chi gestisce le iniziative di muoversi dentro un progetto

condiviso che legittima il senso del proprio agire. Allo stesso tempo

tale confronto impedisce che le iniziative vengano strumentalizzate o

privatizzate da chiunque. Tutto questo consente agli operatori di sentirsi

partecipi di una comunità, di avere luoghi di confronto, di occuparsi

non solo di compiti e di metodo di studio, ma anche e soprattutto di

una comunità che investe sull’apprendimento. Comprensibilmente

questo richiede all’associazione o alla cooperativa di essere radicate

sul territorio, di identificarsi con la comunità locale, di non limitarsi a

gestire un servizio con prestazioni a ore, bensì di scommettere fino in

fondo sull’attivazione di processi partecipativi nella comunità, avendo

garanzie di investimenti sul medio periodo.

L’intreccio tra competenze professionali e competenze esperienziali.

Un laboratorio mette in gioco competenze diverse, alcune espressione di

professionalità psico-educative e organizzative, altre espressione di una

competenza esperienziale, come quella dei volontari, dei genitori, dei

giovani coinvolti come animatori.

A ben guardare la storia delle iniziative nel tempo libero vede spesso in

primo piano l’autorganizzazione di cittadini alla ricerca di risposte alle

sfide che i ragazzi incontrano. Da sempre, ad esempio, le esperienze di

extrascuola valorizzano giovani con pochi anni più dei ragazzi, forse

con poche competenze di fronte a problemi gravi, ma molto credibili

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nell’interagire con i ragazzi in situazioni di disagio leggero o di normalità.

In quanto antenne sensibili nel percepire le domande non superficiali dei

ragazzi e nel percepire il momento di chiedere una mano ai professionisti

per affrontare le difficoltà, con la loro mediazione spesso i ragazzi riescono a

dare un senso al loro quotidiano andare a scuola e vivere il tempo libero.

L’INVESTIMENTO SULLA FORMAZIONE

Non basta limitarsi a enfatizzare le competenze informali delle

comunità locali, come si rischia di fare quando queste non vengono

qualificate attraverso adeguati percorsi di formazione. In altre parole, c’è

riconoscimento vero delle competenze, anche informali, solo dove emerge

una politica della formazione per i cittadini, soprattutto per i giovani

animatori, sapendo che tale investimento può avere ricadute immediate

sul lavoro con i ragazzi, ma anche sul futuro della comunità. Una comunità

che investe sulla formazione si garantisce un capitale culturale ed educativo

per il futuro, un capitale che è in grado di farsi carico di nuove sfide.

L’apprendimento riflessivo sulle esperienze

Non bisogna però ridurre la formazione ai tradizionali momenti di aula.

Un primo livello di formazione è quello legato all’apprendimento all’interno

del processo di coprogettazione, e, in particolare, all’interno delle azioni

con i ragazzi, ben sapendo che nessuna azione è l’applicazione banale di

un piano o di un programma, ma è in se stessa, nel suo farsi, un evento

denso. In quanto tale va analizzato in modo raffinato incrociando i diversi

punti di osservazione dei partecipanti, per estrarre dei significati che sono

già impliciti nell’azione ma che, se non vengono intenzionalmente estratti,

disperdono una parte importante del loro potenziale di trasformazione

delle persone, dei gruppi, delle comunità.

Si apprende dalle esperienze nel verificare se gli obiettivi sono stati raggiunti

e se ognuno ha svolto il suo ruolo, ma soprattutto nell’interrogarsi sul

perché, sulla mappa di ragionamenti che danno senso al percorso che si è

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fatto e al verso dove andare.

Se lungo il cammino è necessario fare verifiche tecniche, non meno

importante è la rivisitazione delle esperienze per far emergere dal limite

che le avvolge, come ogni azione umana, le scoperte valoriali, le conquiste

relazionali, le domande che rimangono aperte e bruciano perchè si è

consapevoli che è improbabile fermare certe carriere di disagio.

Al centro della riflessione, tuttavia, deve esserci non una semplice verifica

- riprogettazione, ma piuttosto un lasciarsi andare a pensare, in modo

da approssimarsi a significati inediti, intuizioni generatrici e scenari di

speranza, ipotesi che possono riaprire giochi nel modo di relazionarsi con

i ragazzi per ritrovare con loro delle motivazioni per lo studio.

Solo all’interno di questo esercizio di riflessività collettiva ha senso tornare

alle domande che ruotano intorno al che fare, che cosa cambiare, su cosa

insistere, di che cosa sorridere, su come svolgere il proprio ruolo, in altri

parole sul come riprogrammare gli interventi.

Nodi ricorrenti nella domanda di formazione

Facilmente il lavoro di rilettura delle esperienze mette in evidenza la

necessità di una formazione mirata intorno a particolari tematiche. Spesso

il problema della formazione è arrivarvi con delle domande che nascono

dall’azione.

E’ possibile, con un’approssimazione che può servire da indice, elencare in

modo sommario alcuni nodi ricorrenti nella formazione.

• La relazione educativo-animativa e l’animazione di gruppo. Un

primo insieme di domande verte solitamente sulla relazione tra un

educatore e un singolo ragazzo, ma soprattutto, se la logica è quella

del laboratorio, sul rapporto tra animatore e gruppo. In che modo

valorizzare le risorse che emergono da una relazione educativa per

investirle nell’apprendere e in che modo accompagnare un gruppo nel

suo percorso verso l’autonomia? E a quali condizioni un gruppo è luogo

di apprendimento?

• Il laboratorio e le sue componenti. Comprensibilmente un certo numero

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di domande verte su che cosa sia fare laboratorio. Anzitutto, cosa non è

laboratorio, da quali altre pratiche prende le distanze? In positivo, qual

è il “principio attivo” che lo anima? E come animare la partecipazione

per fare in modo che i ragazzi possano toccare con mano forme di

socialità in cui si esce dalla dipendenza e dalla controdipendenza,

per accettare consapevolmente forme costruttive di interdipendenza

dagli altri? E che cosa vuol dire offrire ai ragazzi delle provocazioni o

perturbazioni in modo che rifuggano dai luoghi comuni e dalla frasi

fatte e sappiano fare domande non banali, interagire fra visuali diverse,

generare nuova cultura contaminando gli stili di vita oggi esistenti?

E qual è il ruolo dell’adulto in quanto accompagnatore della ricerca

dei ragazzi? E, prima ancora, che cosa vuol dire fare ricerca rigorosa e

creativa con i ragazzi?

• La conoscenza della conoscenza. Un terzo nucleo di domande riguardano

la “conoscenza di come si conosce” e le difficoltà più frequenti

nell’apprendere e in quel particolare tipo di apprendimento che è fare

laboratorio. Come conoscere il proprio modo di conoscere, entrare

in contatto con le diverse intelligenze e riflettere sulle strategie per

valorizzarle, darsi ragione del come si è appreso in modo che questa

competenza possa essere esercitata in altri ambiti?

La ricerca della risposta a questi interrogativi diventa interessante se

avviene in momenti di ascolto e di confronto tra animatori e insegnanti

in grado di dare ragione del processo di apprendimento a scuola come

nel tempo libero e in grado anche di delineare che cosa vuol dire avere

un metodo di lavoro, organizzarsi per apprendere.

• I blocchi che inibiscono l’apprendere. Un altro gruppo di domande

rimanda ai fattori soggettivi, familiari, ambientali che appesantiscono

la disponibilità o la capacità nell’apprendere, con quel che questo

comporta di blocchi a scuola e nello studio e, prima ancora, di caduta

dell’autostima, rifugio nell’indifferenza per autoproteggersi, abbandono

alla microviolenza per scaricare la tensione e reagire al rifiuto e

all’emarginazione che si sperimenta a scuola.

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Più in generale, qui emergono i problemi dei cosiddetti “ragazzi difficili”

e il rischio che essi vengano abbandonati a se stessi e marginalizzati,

scaricando in tal modo problemi che hanno alla base una molteplicità

di fattori soggettivi, familiari, ambientali e anche didattici, su ragazzi

che da tali problemi sono già sommersi.

• Il tempo scolastico e il tempo libero nell’apprendere. Un gruppo di

domande ruota intorno al rapporto tra tempo libero e tempo di scuola,

tra apprendimenti nel tempo libero e loro ricaduta nell’apprendimento

scolastico, tra valorizzazione delle intelligenze che maggiormente

vengono agite nel tempo libero e connessioni con l’arte dello studio e

della centratura sui compiti scolastici.

La lettura educativa del tempo libero, in quanto tempo in cui i ragazzi

possono conquistare la loro autonomia e intraprendere progettualmente

mettendo a frutto le competenze man mano acquisite, è oggi molto

indebolita per il prevalere di ipotesi che vedono nel tempo libero soltanto

il tempo della passività e del consumo e, a volte, dell’imbarbarimento

culturale. Ma come declinare da educatori il senso del tempo libero?

Quale può essere oggi la funzione del tempo libero e come, allora,

liberare il tempo libero? Che dire inoltre delle gruppalità dei ragazzi

nel tempo libero e della carenza di luoghi dove esercitare autonomia e

creatività?

• I tre livelli della progettazione. Un altro grappolo di interrogativi rimanda

alla progettazione sociale dei laboratori, con quel che comporta di

intreccio tra livello politico e sociale che delinea il senso e le finalità

istituzionali, livello tecnico-progettuale che è il luogo in cui viene

elaborato e rielaborato un laboratorio a scuola o nel tempo libero, livello

gestionale in cui al centro è il lavoro di chi quotidianamente affronta

i problemi man mano che emergono, attenti sempre a mobilitare le

risorse della comunità.

Lo sviluppo di una progettazione sociale richiede una competenza

raffinata che va alimentata in momenti di formazione in cui evidenziare

la differenza tra progettazione partecipata e pianificazione dall’alto,

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riflettere sul percorso che pemette di attivare una comunità senza

scaricare sulle risorse informali ruoli e compiti che invece spettano ai

professionisti, orientarsi sulle regole di ingaggio tra gli attori sociali in

gioco nel far fronte alle fatiche dell’apprendere (scuola ed ente locale,

famiglie e cooperative sociali, associazioni e servizi sociali…).

Altri nuclei possono essere facilmente individuati, ma più importante

è ribadire l’importanza di una formazione articolata sulle domande

emergenti dall’esperienza e, di conseguenza, non ridurre la formazione

alla trasmissione di schemi tratti da un qualche manuale o di ricettari utili

quanto un fuoco di paglia. Partire dal riconoscere domande permette anche

di elaborare nella formazione il senso del proprio lavoro professionale o

volontario fino a condividere che la vera soddisfazione non è solo dare

una mano a ragazzi in difficoltà, ma anche consolidare le condizioni che

permettono loro di sentirsi accolti come (piccoli) attori a fianco di altri

attori nella conquista di una loro fragile e umanissima autonomia.

CONCLUSIONE

Nessun laboratorio ha un padre solo o una madre sola. Piuttosto è una

sorta di piccola ma significativa impresa di comunità. Agli inizi forse alcuni

fanno da traino per altri. E questa funzione di traino o di motore può essere

assunta dalla scuola come da un’associazione, da un assessorato come da

un gruppo di famiglie. Ma, una volta avviato il processo, tutti sono chiamati

a fare da traino o da motore, mettendo in gioco le proprie competenze per

provare a “sortire insieme” dai problemi.

La scommessa alla base delle riflessioni presentate in queste pagine è che ciò

che può aiutare i ragazzi a divenire liberi è certamente l’aiutarli nell’avventura

dell’apprendere o, più da vicino, del fare i compiti e dell’acquisire un

metodo di lavoro, ma in realtà ciò che può aiutarli maggiormente è il

toccare con mano l’essere in una comunità che sa prendere atto delle sfide

che l’attraversano, sa fermarsi per riflettere e orientarsi, sa mobilitarsi

mettendo in gioco le risorse di tutti. Forse il vero apprendimento attraverso

un laboratorio (o, più da vicino, un’attività dell’extrascuola) come quello

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tratteggiato in queste pagine è un apprendimento di tipo politico. Mentre

apprendono a fare gruppo o fare compiti forse i ragazzi apprendono l’”arte

del buon governo” dei problemi e la soddisfazione personale e sociale ad

un tempo che nasce dal perseguire quest’arte.

Probabilmente nessuno è oggi in grado di garantire un futuro ai ragazzi,

ma forse questa generazione di adulti è ancora in grado di consegnare

loro da una parte la capacità di pensare, immaginare, attribuire significato

alle esperienze personali e collettive, chiamare per nome le sfide, generare

intuizioni che aprono squarci di futuro là dove sembra che non ci possano

essere, dall’altra la soddisfazione che nasce dall’aver cura di ciò che è “altro

da sé”, per ritrovarsi in avventure collettive, per provare, ancora una volta,

a “sortire insieme dai problemi”. Forse questa “consegna generazionale” è

il senso anche di ogni laboratorio dentro una comunità.

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2SCUOLA, FAMIGLIA

E TERRITORIO INSIEME PER GLIAPPRENDIMENTI

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LA SCUOLA PER IL DIRITTO ALL’APPRENDIMENTO

di Maria Carla Marchesi

Il dibattito e la riflessione sviluppati nel Laboratorio Provinciale

Extrascuola rappresentano un interessante punto di arrivo in relazione

alle sperimentazioni realizzate negli ultimi anni nei servizi per i ragazzi,

ma costituiscono soprattutto il punto di partenza di un pensiero che deve

esprimere scelte e percorsi nuovi, utili all’ arricchimento del patrimonio

di esperienze già esistente.

Dal punto di vista della scuola è soprattutto importante riflettere intorno

al tema dell’apprendere proprio perché il senso della scuola risiede nel

significato che viene assegnato a questo termine.

Innanzitutto è necessario assumere il principio che “apprendere” è un

bisogno insopprimibile della persona, per poter crescere nella propria

unicità e originalità, ma è anche un bisogno insopprimibile del gruppo

sociale cui la persona appartiene. I processi di apprendimento costituiscono

anche uno strumento indispensabile di appartenenza alla dimensione

sociale e di superamento dei limiti della propria piccola esperienza e del

proprio piccolo mondo.

L’apprendimento è un diritto sancito nella costituzione italiana per tutte

le persone, senza distinzione di razza, sesso e ceto sociale: eppure nella

pratica è ancora faticosissimo il percorso di superamento di molte barriere.

E’ un diritto per tutti i minori ed è un diritto per tutta la vita, perchè la

dimensione dell’apprendere che viene costruita nel bambino piccolo

segnerà anche il suo essere adulto, la sua capacità di persona che apprende

per tutta la vita in un mondo in continua e frenetica trasformazione, che

chiede alle persone di possedere gli strumenti adeguati per apprendere

nuovi contenuti in forme nuove.

L’apprendimento non è un’operazione tecnica, tipica soltanto in età

evolutiva: è un processo che si manifesta in un divenire continuo

determinato dalla coesistenza di molti fattori. Siamo forse troppo abituati

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a pensare l’apprendere come un’operazione cognitiva, più che come un

processo, dimenticando troppo spesso (anche se la letteratura pedagogica ce

lo ricorda ormai da molti anni) che la componente cognitiva è strettamente

legata alle dimensioni affettive e relazionali. L’apprendere è fatto anche di

motivazione ad apprendere, di un bisogno che diventa motivazione e che

implica una scelta in funzione di un obiettivo.

L’apprendere è un processo strettamente legato all’ambiente in cui si vive,

perchè la motivazione è sostenuta e prodotta dagli stimoli, dai “perché”

posti davanti al bambino, alla sua intelligenza e alla sua sensibilità, da

parte del suo mondo.

E’ un processo fatto di tempi e strumenti, cioè di condizioni che lo possono

facilitare o ostacolare.

L’insieme di tutti questi elementi rende possibile il raggiungimento degli

obiettivi di apprendimento rappresentati come punti di arrivo temporanei,

ma, immediatamente, anche punti di partenza per nuove acquisizioni in

un processo ricorsivo.

Apprendere è anche un fare esperienza, esperienza di situazioni, di eventi

e di fenomeni. Esperienza concreta, acquisita attraverso un processo

inseparabile dagli eventi che caratterizzano la vita delle persone. E’ un fare

esperienza sul piano dell’elaborazione intellettuale, ma anche sul piano

della elaborazione emotiva e relazionale.

Questa esperienza elaborata di fatti, fenomeni, situazioni e vissuti è tanto

più intensa quanto più essa si attua in un ambiente attento ai processi di

apprendimento specifici dell’individuo nel rispetto delle sue caratteristiche

peculiari, in altri termini, nel rispetto dell’originalità di ogni persona.

Ogni persona e ogni momento della vita sono irripetibili e ogni esperienza

è unica e originale. Essa diventa utile alla crescita se viene confrontata con

le esperienze, le sensibilità, le motivazione degli altri. Finchè la conoscenza

è patrimonio individuale non è conoscenza, non è sapere. Diventa sapere

quando viene diffusa, quando diventa patrimonio comune. Questo esige la

possibilità di confronto e di mediazione.

Apprendere è quindi un’operazione di carattere sociale. Per questo motivo

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è interessante indagare i luoghi e i tempi dell’apprendimento.

I processi di apprendimento fra famiglia, scuola e territorio

Nel percorso del Laboratorio provinciale extrascuola la riflessione si è

sviluppata intorno a tre di questi luoghi: la famiglia, la scuola e il territorio.

Ogni luogo ha le sue caratteristiche, ha i suoi tempi, le sue condizioni, le

sue peculiarità:

• La famiglia è il primo luogo in cui avviene la trasmissione di informazioni,

conoscenze, abilità, ma soprattutto di modelli di comportamento, che

sono filtrati da valori propri di riferimento. Di solito, se l’ambiente

familiare è positivo, la trasmissione dei modelli e dei valori avviene

nella quiete e nella sicurezza affettiva ed emotiva del contesto familiare,

che consente ai componenti di investire in modo efficace le proprie

risorse, di accettare il limite e l’errore, di sentirsi comunque garantiti e

soprattutto di sentirsi comunque accettati.

Sappiamo però che non in tutte le famiglia sussistono queste condizioni

favorevoli, non sempre per cattiva volontà o limiti dei genitori.

Questo luogo di apprendimento ha comunque un tempo concluso,

un tempo che finisce perché l’individuo procede verso l’autonomia,

va cioè verso la capacità matura di scelte proprie di apprendimento,

di rilettura delle informazioni, dei modelli e dei valori proposti dalla

famiglia; questa capacità rappresenta il senso della sua maturità.

• La scuola è il secondo luogo importante per l’apprendimento che

i bambini incontrano dopo la famiglia. La scuola va considerata

innanzitutto come un luogo “sociale” di apprendimento, in quanto

essa rappresenta lo strumento primario che le società, anche le più

povere, si danno per promuovere la crescita personale e sociale della

popolazione.

Ma cosa significa “apprendere a scuola”?

Molti autori si sono espressi su questo tema, e vale la pena qui mettere

in evidenza alcune funzioni particolari che caratterizzano l’esperienza

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di apprendimento a scuola:

- trasmettere contenuti ed elaborare cultura: attraverso la scuola è

possibile per il bambino passare dalle esperienze di apprendimento

informale, di per sè stesse confuse e anarchiche, all’ordine della

conoscenza, a un ordine formale che il sistema sociale ha elaborato in

quanto capace di riassumere i saperi fondamentali da acquisire come

strumenti essenziali per la crescita verso l’età adulta. Apprendere

attraverso processi formali di istruzione risulta certamente economico

a livello sociale, ma rappresenta un’esperienza impegnativa per

ciascun individuo, in quanto esige la padronanza dei linguaggi

specifici della conoscenza formale e richiede di adattare la propria

mente, le proprie motivazioni e le proprie sensibilità ad una serie

di vincoli e procedure di ordine formale. Questo ordine formale

fa riferimento ad un sapere riconosciuto e codificato in base alle

caratteristiche e alle norme che governano il mondo degli adulti,

prevede tempi e modi precisi per conseguire gli apprendimenti ed

è formulato sulla base di obiettivi riconosciuti utili per la persona e

per la società. Si tratta di un ordine formale che evolve nel tempo,

anche faticosamente, a volte dolorosamente, secondo le istanze

sociali prevalenti;

- valutare: la scuola ha anche il compito di restituire al singolo

individuo e alla sua famiglia gli esiti del percorso di crescita che,

con l’impiego dei suoi mezzi, ha contribuito a produrre e al sistema

sociale i risultati del processo di apprendimento che le giovani

generazioni stanno compiendo attraverso lo strumento scuola.

In famiglia non esistono strumenti di valutazione formali, ma

meccanismi di conferma e di apprezzamento dei progressi espressi

a vari livelli. Nella scuola spesso la valutazione degli apprendimenti

diventa esclusivamente misurazione, e la misura non è uno strumento

di apprezzamento. Questo aspetto costituisce per la scuola una grave

difficoltà non ancora risolta: non basta misurare per poter motivare

ad apprendere; la misura dice soltanto a quale punto del percorso

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di apprendimento si è giunti, ma affinchè il percorso proceda con

successo è necessario che l’individuo riceva dalla valutazione uno

stimolo alla crescita continua, è necessario cioè che la valutazione

diventi effettivamente strumento di promozione. Ecco perché oggi si

discute con molto fervore nella scuola sul concetto di profitto e sul

peso che esso deve assumere all’interno dell’esperienza scolastica;

- proporre metodologie efficaci di insegnamento, che costituiscono gli

strumenti per l’esercizio della professione dell’insegnante, oltre che

l’elemento di garanzia per il successo dei processi di apprendimento.

Oggi si parla molto di successo formativo: non è possibile che la

scuola “perda” i ragazzi, soprattutto coloro che vengono esclusi dal

percorso di apprendimento nel biennio della scuola superiore. Le

radici dell’insuccesso appartengono a tempi molto precoci. Da anni

la scuola ha capito che l’apprendimento per scoperta, considerato la

forma più efficace di apprendimento, riesce a produrre un maggiore

protagonismo degli alunni, consente di superare una funzione

meramente trasmissiva della scuola tradizionale, per promuovere

una costruzione attiva e collettiva del sapere. E’ questa una modalità

non semplice da implementare, perchè richiede da parte degli

insegnanti, tempi, risorse e capacità di coniugare tra loro tanti ambiti

codificati della conoscenza e soprattutto di promuovere dimensioni

di auto apprendimento.

• Il territorio infine, visto come luogo sperimentale di apprendimento, dove

si produce anche una sintesi fra le esperienze di apprendimento, che

si potrebbero definire asistematiche, vissute dentro la famiglia e quelle

degli apprendimenti formali della scuola. Il territorio è anche un luogo

di incontro e di incontri, di imprevisti, di stimoli. Può anche essere un

luogo difficile, di ulteriore esclusione per qualcuno, di ulteriore stimolo

alla competizione per altri. I luoghi territoriali dell’apprendimento

sono spesso ambiti già finalizzati, pensiamo ad es. allo sport o ad

altre opportunità strutturate, ma possono essere occasioni di potente

rielaborazione di ciò che si propone come sperimentale e che diviene

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occasione per arricchire, modificare e a volte sostituire ciò che manca o

risulta limitato negli altri due luoghi dell’apprendimento. Il territorio è

un luogo di possibili interazioni e convergenze, dove la multiculturalità

è obbligatoria, non tanto perché ci sono i bambini stranieri, ma

soprattutto perchè si incontrano dimensioni di vita quotidiana che i

ragazzi portano con sé e che sono differenti da famiglia a famiglia, da

territorio a territorio, da ambiente a ambiente. E’ un luogo di garanzia

sociale perché può diventare un luogo che la comunità educante

elegge come ambito privilegiato del proprio agire educativo collettivo.

Mantenendo la specificità di ciascun luogo è possibile ripartire da una

analisi maggiormente approfondita dei bisogni dei ragazzi e dare ad

essi risposte flessibili e aperte, capaci di mantenere l’atmosfera della

relazione affettiva familiare e amicale, capaci di sostenere modelli di

azioni e di pensiero che significhino valori di solidarietà, di rispetto,

di giustizia, ma anche di bellezza e di creatività, capaci di dare stimoli

diversi e alternativi ai percorsi che i ragazzi già trovano nei loro normali

contesti, capaci di multiculturalità elaborata, cioè fatta prima oggetto

di pensiero da parte degli adulti, dove la cura della fragilità (non solo

dello straniero o del disabile, ma di chiunque esprima delle lentezze) sia

un’attenzione assolutamente presente e continua.

È importante sottolineare che non si può improvvisare e nemmeno fare

da soli se si desidera essere comunità. Bisogna lavorare insieme e questo

richiede impegno e fatica.

A questo riguardo sembra opportuno rivolgere un richiamo specifico agli

insegnanti. Per essere parte attiva dentro i percorsi di costruzione di una

comunità educante, da parte degli insegnanti ci deve essere quello che può

essere chiamato “l’orgoglio dell’insegnare”: per aiutare ad apprendere e

per offrire strumenti utili ad apprendere durante tutta la vita, è necessario

aver voglia di insegnare, con un orgoglio che va sicuramente oltre lo

stipendio, la sicurezza del posto di lavoro, un orgoglio che si connota per

la passione per l’uomo e per l’umanità, per la responsabilità di chi è con

me, per il piacere di contribuire alla crescita di una persona che molto

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probabilmente, da adulta, non vedrò, ma alla quale lascio un po’ della mia

eredità di persona.

Il diritto ad apprendere fra scuola ed extrascuola

Nel corso del lavoro del Laboratorio Provinciale è stato più volte affrontato

il tema del rapporto tra scuola ed extrascuola.

Come Comitato tecnico di educazione alla salute, si è espressa una

sostanziale sintonia con quanto esposto nel documento del Laboratorio

provinciale in riferimento al “diritto all’apprendimento”, come diritto della

persona in quanto tale, perché apprendere significa evolvere, cambiare, e,

come si è detto, non riguarda solo l’età evolutiva, ma riguarda tutte le fasi

della vita delle persone.

Nella cultura del sistema scolastico questo concetto è stato sviluppato

nell’ambito della “istruzione permanente”.

E’ necessario tracciare una distinzione fra il concetto di “istruzione” e quello

di “apprendimento”. Se apprendere è una dimensione che appartiene a tutti

e riguarda tutto il corso della vita, il concetto di istruzione fa riferimento a

un sistema in cui l’apprendimento è il fattore centrale, sebbene non l’unico,

che si attua all’interno di un processo che ha regole proprie, dimensioni,

struttura, strumenti e contenuti che vengono stabiliti dal sistema sociale

perché ritenuti fondativi e fondamentali per le giovani generazioni.

Nel sistema dell’istruzione è centrale il discorso della formazione, dato

che il processo dell’istruzione è considerato uno strumento funzionale al

processo educativo.

Non può quindi esistere educazione senza istruzione, così come non può

esistere un’idea di istruzione che non abbia una ricaduta anche in termini

educativi, concetto da anni ormai affermato nella scuola.

Altra premessa importante da esplicitare riguarda la dualità, spesso

richiamata, fra scuola e territorio. La distinzione tende a sottolineare come

la scuola abbia una sua dimensione istituzionale, che cambia nel tempo e

viene definita in termini generali dal sistema sociale, mentre il territorio ha

invece una composizione più flessibile e sfaccettata in quanto interventi,

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organizzazioni, soggetti sociali …, mostrano un maggior grado di fluidità

rispetto al sistema della scuola. La coniugazione fra questi due sistemi

interrelati e interdipendenti è ancor oggi di difficile costruzione: non

sempre la scuola è considerata parte integrante del territorio, perpetuando

un rapporto di dualità e di separatezza che ha limitato negli anni anche

molte proposte legislative a favore dei minori.

Alla scuola d’altro canto viene richiesto di affrontare problemi che

hanno connotazioni di carattere sociale con una forte ricaduta sul lavoro

della scuola stessa, il cui specifico rimane tuttavia l’impegno ad attivare

e realizzare dei processi di istruzione all’interno di una dimensione

formativa. In effetti, come riportato nel documento del Laboratorio

provinciale, apprendere competenze e conoscenze a scuola, non avrebbe

nessun senso se non fosse collegato ad una serie di valori che rendono

queste conoscenze e competenze utili all’individuo e alla comunità.

Per rispondere alla domanda “quando e come la scuola cura l’apprendimento

individuale e gruppale”, dobbiamo partire dalla comprensione di cosa

significa “istruire” dentro la scuola, dentro un organizzazione che è

nata e continua a vivere per questa funzione, che ha delle regole e nello

stesso tempo dichiara l’intenzione di voler rispondere alle esigenze di

apprendimento degli individui e del gruppo.

Il gruppo è una dimensione importante perché rappresenta una scelta

di fondo del sistema scolastico nazionale, non solo per una questione di

economia, ma proprio per la funzione pedagogica importantissima che

la dimensione relazionale interna alla classe può svolgere nel favorire

l’apprendimento.

E’ vero che la classe è chiamata da subito “gruppo”, ma nella realtà essa

nasce come insieme casuale di alunni che devono diventare “gruppo”

attraverso una costruzione progressiva di relazioni interne alla classe

stessa, in quanto “gruppo che impara”.

La classe deve diventare anche un gruppo in cui l’insegnante è

legittimamente e autorevolmente riconosciuto come adulto cui spetta il

diritto dovere di insegnare in quanto portatore di competenza e di capacità

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educativa, deve costruire relazioni positive ed efficaci con i singoli e con

il gruppo.

E’ spesso faticoso riuscire a collegare questi aspetti con le attese e le

problematiche portate dal territorio.

Il lavoro educativo della scuola obbliga a confrontarsi con le famiglie,

con le aspettative, le intenzioni educative e i progetti educativi che ogni

famiglia porta con sé, che ogni famiglia ha elaborato nella propria storia e

che trovano all’interno della classe e della scuola un normale e quotidiano

contenitore di confronto.

Pur mantenendo famiglia e scuola la propria individualità, esse sono

chiamate a coniugare esigenze e aspettative in proposte educative

trasversali rispetto ai bambini, nella consapevolezza che la trasversalità

non cancella l’individualità.

Operare questa coniugazione è particolarmente difficile oggi, poiché la

frammentazione sociale è molto presente.

La coniugazione fra scuola ed extrascuola può essere attuata in modo

proficuo sviluppando iniziative sia rispetto agli ambiti disciplinari, sia

in rapporto alla possibilità di apprendere per scoperta negli ambiti non

canonici della scuola, sia avvantaggiandosi della possibilità di disporre

di un luogo che può operare a prescindere dalla funzione di valutazione,

fondamentale e obbligatoria invece all’interno del sistema scolastico.

I progetti dell’extrascuola possono quindi rappresentare interessanti

opportunità, soprattutto quando, all’interno della scuola, i ragazzi scontano,

per ragioni diverse, delle fatiche. Non a caso molti progetti sono nati per

sostenere le difficoltà dei bambini o per integrare chi incontra difficoltà

con chi non ha problemi, in una dimensione serena e il più possibile

svincolata dai processi valutativi.

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GLI ORATORI PER L’EXTRASCUOLA

di Astrid Zenarola, don Alessandro Beghini e Marta Locatelli

Quando abbiamo iniziato a parlare di attivazione di “spazi non solo compiti”

in oratorio (servizi segno: segno della cura e dell’attenzione della comunità

adulta nei confronti delle nuove generazioni) ci siamo subito interrogati

sul senso e sul significato educativo di un servizio di questo tipo.

L’esigenza più concreta alla quale si tentava di dare una risposta proveniva

da alcuni genitori e da alcuni insegnanti. Quindi la necessità di rispondere

ad un bisogno che sempre più le famiglie portavano in oratorio.

In secondo luogo però ci siamo chiesti come questo servizio potesse

diventare occasione per stimolare la comunità adulta nell’assunzione di

un ruolo educativo nei confronti di tutti i ragazzi visti nel loro specifico

contesto sociale e territoriale.

Da allora gli oratori ne hanno fatta di strada, le cose sono cambiate in

modo molto interessante e rilevante. Sono accadute cose significative: ad

oggi sono tante le parrocchie che offrono questo servizio, sono nati corsi di

formazione specifici, seminari e convegni. Recentemente ad un seminario

di lavoro proposto dall’Odl (oratori diocesi lombarde) si è messo a tema

proprio questo.

Lo spazio compiti nasce come strumento che permette di:

- prestare attenzione alle esigenze extrascolastiche dei ragazzi

- stimolare la presenza di volontari in oratorio e di promuovere

competenze

- promuovere collaborazioni tra gli oratori

- promuovere collaborazioni con le altre agenzie.

Nonostante oggi possiamo affermare che questi anni di lavoro degli

oratori hanno portato buoni frutti, va segnalato anche che restano alcuni

interrogativi sui quali è necessario compiere alcune riflessioni.

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Innanzitutto lo Spazio compiti nasce da una sollecitazione che è espressa

soprattutto dagli adulti: come far sì che venga riconosciuto come bisogno

anche dai ragazzi? Come evitare che i nostri metodi ricalchino quelli

scolastici? La scelta di attivare uno spazio compiti in oratorio nasce, il più

delle volte, da un bisogno espresso da genitori ed insegnanti e presunto

dagli educatori. In particolare:

- in alcuni casi gli insegnanti chiedono che lo spazio compiti diventi luogo

dove i ragazzi possano essere seguiti da adulti in grado di far svolgere i

compiti, di colmare alcune lacune e in particolare di sostenere i bambini

stranieri in un percorso di alfabetizzazione

- i genitori chiedono agli educatori che i ragazzi svolgano tutti i compiti

previsti per evitare che tornando a casa siano ancora impegnati

- i bambini e i ragazzi chiedono un luogo dove potersi esprimere, divertire

e socializzare.

I ragazzi spesso ti chiedono uno spazio dove poter sbagliare con tranquillità

in quanto lo sbaglio non si traduce in voto negativo e in bocciatura.

Gli educatori si trovano in questa situazione di mezzo cercando di mediare

tra le diverse richieste con la consapevolezza che:

- due o tre pomeriggi a settimana non sono sufficienti per colmare le

lacune dei ragazzi;

- il tempo a disposizione non può essere sempre sufficiente per lo

svolgimento di tutti i compiti assegnati;

- per colmare le lacune dei ragazzi e per sostenere i ragazzi stranieri in

percorsi di alfabetizzazione sono necessarie specifiche competenze.

Il tentativo degli educatori dello spazio compiti è quello di promuovere

anche modalità alternative a quelle scolastiche nello svolgimento dei

compiti per non cadere in una sorta di “ripetizione”. Questo tentativo può

essere facilitato solo da una condivisione con la scuola di obiettivi educativi,

di strumenti e di metodi alternativi. Oggi gli oratori hanno compreso che

le proprie competenze possono essere giocate non solo e non tanto sugli

apprendimenti didattici, quanto su quelli relazionali, affettivi, esperienziali.

Compito degli educatori dell’oratorio è quello di far vivere, e vivere insieme

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ai ragazzi, esperienze significative per poi rielaborarle e costruire insieme

nuovi significati educativi condivisi.

E in prospettiva? Oggi non è più possibile credere che sia fattibile un’azione

educativa a scompartimenti: è necessario non solo che le energie siano

messe in rete, ma che alcuni luoghi fondamentali per la crescita siano

valorizzati e sostenuti.

È importante promuovere uno sguardo pastorale più ampio della propria

parrocchia e individuare possibilità concrete di collaborazione, non solo

per lo spazio compiti. Non dobbiamo essere gelosi dei nostri spazi e non

dobbiamo temere che questo riduca la nostra specificità. Ogni soggetto

partecipa alla realizzazione di obiettivi condivisi con il proprio stile e con i

propri metodi. Lo spazio compiti, quindi, non solo come luogo fisico, come

struttura, ma come équipe esperta di animatori volontari e professionisti

che mettono le proprie competenze al servizio di un sistema educativo

per far crescere una comunità educante, non accontentandosi di gestire la

propria “clientela”, ma facendo crescere tutto ciò che in un paese opera a

favore dei ragazzi. Questo permetterebbe di superare una preoccupazione

che ultimamente si è manifestata in molti oratori: corriamo il rischio di

concentrarci sull’attività, attenti a creare un servizio efficace ed efficiente

per rispondere alle diverse richieste, lasciando in secondo piano la

relazione educativa con i ragazzi.

Intuizione forte dello spazio compiti in oratorio è quella di privilegiare

la relazione, perché i ragazzi vengono allo spazio compiti non solo per i

compiti, ma perché lo stare insieme è significativo. La qualità delle relazioni

affettive che si creano è significativa.

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LA COOPERAZIONE SOCIALE PER L’EXTRASCUOLA

di Marica Preda

La Prima Direttiva. In Star Trek il primo comandamento a cui tutti dovevano

attenersi, chiamato appunto La Prima Direttiva diceva: “Non interferire

con le culture aliene se non in caso di pericolo di vita per qualche membro

dell’equipaggio”. Questo per dire: a ognuno il suo compito.

La cooperazione sociale si porta dietro il peccato originale di essere nata

come strumento oltre che soluzione alla mancanza di risorse disponibili

per rispondere a richieste e bisogni che la comunità esprime e a cui le

istituzioni non hanno potuto, saputo, voluto rispondere. E’ storia.

Da qui nasce anche una certa attitudine a prestarsi, in presenza di relazioni

fiduciarie, a coprire mancanze: di personale, istituzionali, economiche, per

permettere di esistere a progetti pensati e organizzati dagli enti preposti,

altrimenti destinati all’estinzione o alla non possibilità di realizzazione.

Non siamo degli eroi. Tanti altri soggetti interessati ai ragazzi e preoccupati

si comportano così. Non sempre, nel tempo, questa attitudine si è

rivelata essere risorsa positiva, perché quelle mancanze coperte da altri

non permettono il processo di assunzione di responsabilità da parte di

tutti i soggetti coinvolti. E non permettono agli altri soggetti di sentire la

mancanza, giocandosi quindi l’opportunità di rivestire ruoli e identità

precise, non confusive. Nel campo educativo questo è molto importante

perché tanti soggetti hanno compiti educativi, ma non è vero che tutti

possono fare tutto. Per la cooperazione sociale, essere disponibile a questo

gioco, a volte proporlo addirittura, per poter fare andare avanti qualche

cosa che si era intoppato su questioni che sembrano a volte meramente

“pratiche” o per desiderio di sentirsi necessaria, è stato un prezzo molto

alto.

Non ha facilitato il rafforzamento di una identità che necessita di affrancarsi

dalla dipendenza dal Pubblico pur “essendo al servizio”, “promotrice di

bene pubblico”, che lavora nella consapevolezza di un ruolo riconosciuto

da un articolo della Costituzione e dalla legge 328 che disegnano con

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chiarezza la sua funzione pubblica in autonomia.

Per questo motivo sarebbe bene che a volte la cooperazione sociale avesse

il coraggio di dire “no” a quelle richieste che la nostra competenza ci dice

che non hanno gambe per andare avanti, che non rispondono a letture

di bisogni reali, che non sono sostenute da un lavoro di progettazione

partecipata tra i diversi “portatori di interessi” e che non rispondono ad

alcuni requisiti che oggi qui insieme dovremo trovare.

Dovremmo avere il coraggio di dire no, anche se perdiamo qualche

contratto, non per snobismo ma per senso di responsabilità, oltre che

verso la comunità, anche verso noi stessi che facciamo fatica a coniugare

e a tenere allo stesso tempo la funzione (che la cooperazione sociale

ha) politica e sociale con quella tecnica, specializzata, perché altrimenti

perseguiamo una mission “in vece” e non “con”.

Le cooperative sociali di tipo A sono per la maggior parte composte da

educatori, pedagogisti, psicologi, maestri d’arte che si sono ritrovati

a gestire oltre al proprio lavoro, anche il piano politico ed economico

della propria organizzazione. Questo probabilmente ci porta ad essere

imprenditivi anche dove non ci tocca…

E questo è il nostro mea culpa.

Progettazione partecipata quindi perché, citando Don Ciotti, “l’azione

dell’educare deve nascere dal lavoro comune di una pluralità di soggetti,

ma questo elemento deve essere interiorizzato da tutti i soggetti con forza,

senza dubbi e titubanze, perché non esistono leggi o decreti che obbligano

ad un’azione corale: questa coscienza deve invece nascere dall’impegno

e dalla responsabilità di ognuno”. Le nostre preoccupazioni sono che la

cultura di disinteresse verso le aree dell’affettività e dell’amicizia, del

dialogo, della comunicazione e dell’ascolto, del confronto, del bisogno

di poter esprimere le proprie risorse e capacità - il bisogno di significati

profondi, la cui cura è necessaria per prevenire disagi - in tempi di tagli

delle risorse prenda il sopravvento e provochi, non tanto la rinuncia alle

progettualità, ma il ritiro delle risorse per il loro coordinamento, la loro

promozione nella comunità, la raccolta di nuove risorse, la messa in rete,

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in una ottica, come dicevo prima di progettazione partecipata.

E non intendo una suddivisione organizzata dei compiti, dove ognuno fa la

sua parte ma non ci si tocca dentro, ma un lavoro comune, dove non ci si

mescola nell’agito, ma ci si mescola nella fase progettuale, dell’esplorazione

del bisogno, della elaborazione delle strategie a partire certo da ruoli ben

distinti.

Dove partecipare è prendere parte, nel senso di essere parte, in un processo

che implica responsabilità, autonomia, vincoli, conflitti, cooperazione,

confronto, scambio, condivisione di preoccupazioni, decisioni e i cui attori

sono la scuola, l’ente locale, i genitori, le associazioni e la cooperazione

sociale.

Lavorare nell’extrascuola non è certo una fonte di guadagni che aiuterà

a sostenere i nostri bilanci, per altro molto in crisi, in quanto si tratta

per la verità di un’ area piuttosto residuale, impegna gli educatori poche

ore, in modo molto flessibile con richieste ed aspettative piuttosto alte, di

professionalità e specializzazione per quei servizi che hanno caratteristiche

di sostegno scolastico, aspettative che si abbassano notevolmente quando

gli apprendimenti si collocano nell’area creativa, ludica, sociale. Quando si

parla di “gioco“ non si comprende la necessità né della programmazione,

né della progettazione. Nel taglio dei costi, sono le prime voci che vengono

messe in discussione. Noi riteniamo che l’importanza del gioco anche

nell’ambito di una proposta educativa non sia da trascurare. Basti pensare

che attraverso il gioco e il divertimento il ragazzo si esprime, conosce, si

relaziona. Anche da grandi questa componente continua ad essere una

parte importante della vita della persona, la quale continua a giocare

essendo così coinvolta in nuove combinazioni di idee e di ipotetici risultati

di situazioni e di eventi e ricevendone un grande stimolo, poiché il gioco é

una forma di esplorazione mentale che sollecita la creatività, la riflessione

e il pensiero.

Anche il gioco va appreso, non con una lezione, ma facendone esperienza

e parlandone, in una situazione di gruppalità dove ha il valore aggiunto di

apprendimento di socialità.

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Per questo siamo qui, a discutere dell’extrascuola, perché riteniamo sia

un’ area importante, da presidiare, da migliorare e alla quale garantire qualità. Non una qualità standard, ma commisurata alle risorse che ci sono in campo. Qualità fornita dalla continuità progettuale: non sapere mai se l’anno dopo un servizio extrascolastico proseguirà, non lo fa essere significativo. Non viene considerato dalla comunità e non sarà frequentato, rischiando di diventare un ghetto per chi è obbligato alla frequenza dalle necessità familiari. Destinato alla scomparsa.Deve essere risorsa per la scuola, che deve sentire di anno in anno che si raffina, che risponde sempre più ai suoi bisogni condivisi, che i ragazzi e le ragazze che lo frequentano lo fanno volentieri, perché non è luogo di valutazione, ma luogo dove si impara a valutare se stessi e le proprie capacità. Non può che arricchire la loro esperienza. Può diventare progetto inserito nell’offerta formativa.Non devono esserci “padroni del progetto” che ne tutelano la proprietà impedendo interazioni costruttive, partecipazione e cambiamento. Potrebbe esserci un patto formalizzato tra i diversi soggetti, nel quale vengano riportati i risultati della progettazione comune, che può includere anche tutte le altre iniziative stabili sul territorio che si riconoscono come iniziative educative rivolte ai bambini, ai ragazzi. Sarebbe anche auspicabile che ogni anno o ogni biennio si organizzi un momento pubblico durante il quale tutte le realtà che hanno sottoscritto il documento istitutivo possano presentare in una pubblica sede le iniziative di loro competenza, che contribuiscono concretamente al consolidamento e allo sviluppo del concetto di comunità educante. Occorre far leva, non sulla competizione, ma sulla cooperazione: solo così si educa alla convivenza democratica ed alla solidarietà, perché in questo modo mostriamo ai nostri ragazzi che gli adulti sono capaci di imparare a coordinare i bisogni di ognuno, a utilizzare le risorse in una ottica di cooperazione e a verificare insieme il lavoro fatto, sulla base di un progetto concordato. Per poi andare avanti perché quando si impara a fare qualcosa è bello

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continuare a farlo.

Per essere forti nel promuovere nelle nostre comunità sensibilità e

attenzioni alle necessità dei ragazzi, al disagio che stanno vivendo nella

fatica verso la scolarità.

Noi ci aspettiamo che l’ente locale, nelle sue componenti politiche e

tecniche, sia promotore di questo progetto comune, che porti il suo bisogno

e apra tavoli di concertazione e progettazione, dove la cooperazione possa

portare la sua esperienza nella gestione e il suo interesse culturale, le famiglie

esprimano il proprio bisogno di sostegno e di partecipazione, la propria

competenza educativa, la scuola porti la sua elaborazione del bisogno che

legge, la sua competenza tecnica e disponibilità al dialogo, dove gli oratori

portino la propria ricchezza di soggetti storicamente riconosciuti nella

comunità, dove le associazioni portino le proprie differenze, la loro visione

e aiutino a mettere in rete altre esperienze e altri soggetti che rischiano di

rimanere fuori da una progettualità di comunità.

Per applicare non modelli ma un modo originale di affrontare le questioni

dell’apprendere, delle difficoltà scolastiche e della necessità di guardare a

ragazzi e ragazze che vivono complessivamente in tutti questi luoghi, per

costruire buone abitudini, verificabili durante e dopo l’esperienza, anche

attraverso la soddisfazione dei ragazzi che vi partecipano.

Per noi l’extrascuola è permettere ai ragazzi e alle ragazze di vivere

un’esperienza diversa, in un gruppo diverso che rappresenta la possibilità

di giocarsi in un modo alternativo. Sperimentarsi e riportare questa

sperimentazione di sé nel gruppo classe è importante come importante è

che essa venga accolta e valorizzata. E viceversa, perché l’extrascuola non

è solo oltre l’orario scolastico ma è con la scuola e le famiglie strumento

di apprendimenti.

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L’ASSOCIAZIONISMO PER L’EXTRASCUOLA

di Max Archetti

La rete sociale che si interseca intorno ai servizi extrascuola è molto

ricca e varia e in essa ciascun soggetto è chiamato a svolgere un compito

definito.

Molti richiedono questi servizi nei territori, ma pochi attori sociali

ambiscono ad assumerne la responsabilità e la gestione, perché la loro

attuazione presenta numerosi e talvolta complessi problemi da affrontare

a vari livelli: dal punto di vista del reperimento degli spazi, dell’ingaggio e

dell’organizzazione delle risorse umane (professionisti, volontari, giovani,

adulti, ecc.).

Un altro aspetto che rende impegnativa l’impresa di costituire un servizio

extrascuola è la necessità di attivare degli ambiti e dei processi per arrivare

ad individuare un obiettivo comune fra i vari attori coinvolti che sia in

grado di dare un senso educativo al servizio e di orientare l’agire dei diversi

soggetti impegnati a diverso titolo.

Va inoltre evidenziato che spesso è possibile programmare le attività

nell’extrascuola soltanto in una logica di breve termine, senza che si possa

progettare in un’ottica di continuità da un anno all’altro.

A fronte di queste difficoltà si registra comunque una presenza numerosa

e capillare di esperienze, di piccoli laboratori ricchi di elementi di

originalità.

Gli operatori impegnati in questi servizi sono chiamati a esprimere

un investimento che in molti casi va oltre la tempistica contrattuale

(in particolare per le attività di programmazione e di coinvolgimento

delle risorse della comunità) perché sono animati dalla passione e dal

riconoscimento che la comunità accorda a questo tipo di servizio. D’altro

canto, una efficace azione di coinvolgimento dei diversi attori sociali, nella

progettazione e attuazione dei servizi extrascuola, rappresenta la migliore

garanzia del fatto che un’esperienza, anche se dovesse interrompersi per

difficoltà economiche o logistiche, possa comunque lasciare un segno

importante nella comunità locale, o magari depositare dei semi che

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potranno dare vita in futuro ad altre esperienze nella stessa direzione.

Se le cooperative e le associazioni perseguono finalità analoghe, diverse

sono invece le modalità nel farlo: per la cooperativa si tratta di dare vita

ad una operazione attenta anche al versante della gestione economica.

Per l’associazione, è molto meno rilevante il vincolo economico,

mentre è maggiore l’elemento motivazionale. Questa differenza può

favorire una complementarietà fra l’apporto della cooperazione e quello

dell’associazionismo e produrre proprio per questo esiti interessanti ed

esperienze assai originali.

Inoltre si può rilevare che le associazioni impegnate nei servizi

dell’extrascuola evidenziano spesso un carattere marcatamente locale, in

quanto espressione dell’impegno diretto di cittadini che abitano uno stesso

paese o uno stesso quartiere e che intendono offrire opportunità in più ai

ragazzi di quello stesso contesto.

La cooperativa sociale invece aggrega persone accomunate da una stessa

professione, che vogliono esprimere il loro ruolo di cittadinanza attiva

attraverso l’impegno professionale a favore di un territorio. In questo

senso gli operatori delle cooperative sociali possono essere visti come

“cittadini con una doppia appartenenza alla comunità”: dal punto di vista

del lavoro e dal punto di vista dell’abitare la comunità. Questa condizione

facilita la creazione di relazioni e collaborazioni proficue fra i diversi attori

territoriali producendo interessanti ricadute sui ragazzi.

Con una battuta si potrebbe dire che ciò che differenzia cooperative sociali

e associazioni nel compito comune di dare vita a esperienze di extrascuola

è il diverso “registro” che connota la loro azione: una gestione territoriale

per le prime e una associativa per le seconde.

Ciò che è essenziale affinché i progetti possano operare in modo efficace

e sostenibile è che fra associazionismo e cooperazione vi siano una

collaborazione e una valorizzazione reciproca e continua all’interno delle

reti sociali dei diversi territori.

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102

I GENITORI FRA SCUOLA ED EXTRASCUOLA

di Silvio Petteni

Si registra spesso un’assenza nelle discussioni svolte intorno alla scuola

e all’extrascuola; mancano una figura e un ruolo: dove sono i termini

genitori e famiglia?

C’è la necessità di recuperare questa figura e questo ruolo, e lo vorrei fare

recuperando il concetto: dalla partecipazione … alla cooperazione … alla

corresponsabilità educativa.

E’ un percorso reale, possibile, non un’utopia; si tratta di impegnarsi, è un

qualcosa che si costruisce nel tempo.

I docenti educano i giovinetti attraverso il sapere: insegnando storia,

geografia, italiano, anche matematica, si può fare educazione. Parlando

delle popolazioni africane, patrizi e plebei, dividendo una torta in sette

parti uguali si creano occasioni di educazione.

I genitori educano tutta la persona con la testimonianza e l’esempio: nel

leggere e commentare un libro, il giornale, portare la famiglia ad uno

spettacolo teatrale, cinematografico, visitare un museo, una mostra, fargli

gustare le bellezze del creato.

Genitori, dirigenti, docenti, personale dei servizi, educatori del mondo

esterno alla scuola stanno giocando insieme nel territorio l’intero processo

di formazione del ragazzo avendo a cura la centralità dell’allievo.

C’è la necessità di una alleanza e di un ruolo attivo dei genitori con

gli educatori, non di una semplice consultazione, ma di una vera

cooperazione.

Un pericolo da evitare

Purtroppo oggi quando si parla di extrascuola si pensa immediatamente al

doposcuola per assolvere all’impegno scolastico.

D’altra parte quale è la domanda che più spesso facciamo ai nostri figli

quando ritornano a casa da scuola? “Come è andata oggi, che voto hai

preso?” E non chiediamo: “Cosa hai imparato oggi? Chi e cosa hai

conosciuto oggi?”.

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Che il tutto si riduca a una misera prestazione di servizio, o di rapporto

domanda offerta: mando mio figlio al doposcuola organizzato dalla scuola

o dall’oratorio, alla polisportiva, ai corsi di nuoto organizzati dalla scuola,

così per un paio di ore è sotto controllo.

Siamo al concetto di delega: io sto alla porta e lascio decidere gli altri

…non decido.

Una necessità

Bisogna favorire i rapporti relazionali, carichi di comunicazione: creare

momenti comuni, collaborare, promuovere incontri con l’associazionismo,

autoformazione da tutte le parti, orientamento, migliorare le relazioni con

gli insegnanti, fare il punto della situazione, non ultimo anche i momenti

di festa. E’ necessario favorire i colloqui tra genitori, operatori della scuola

e anche educatori esterni alla scuola! La scuola purtroppo non offre tempi

adeguati per l’ascolto e valorizza poco i genitori come risorsa (c’è da fare il

rappresentante di classe, sì … ma tanto sono solo tre incontri in un anno!

Allora che ruolo è? Diciamo la verità, cosa vuol dire fare veramente il

rappresentante di classe! E’ necessario non sminuire il lavoro e l’impegno

richiesti). La scuola deve rendere conto ai genitori del proprio lavoro per

renderli coscienti e responsabili, per rendere efficace il progetto educativo

e per farlo aderire alla realtà del ragazzo/a.

La scuola stessa deve riconoscere di non poter svolgere al suo interno tutte

le funzioni educative e quindi non deve ammettere la delega dei genitori.

Si fa fatica a pensare la scuola come parte integrante del territorio e …

invece la scuola può offrire:

- una rete di infrastrutture (aule, palestre, attrezzature, biblioteche,

laboratori) alla quale i giovani potrebbero fare riferimento per le loro

attività culturali, educative e sportive, ludiche e per la loro socializzazione

anche in orari extra-scolastici;

- le proprie risorse umane, personale docente e non, che possono

allargare il proprio ruolo, da quello strettamente educativo ad un più

ampio ruolo di alto valore sociale. E’ importante che la scuola sia

pronta ad accogliere chi è disponibile ad offrire il proprio tempo e le

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proprie capacità per partecipare a questo grande progetto per le nuove

generazioni.

E’ necessario inoltre ampliare la riflessione concettuale sui percorsi di

educazione alla convivenza civile (fare l’educazione stradale ai ragazzi è

importante, ma poi … al volante c’è il genitore, l’educazione alimentare è

importante, ma poi il pranzo e la cena la preparano i genitori…).

L’apprendimento si svolge all’interno di un cammino di crescita, la

formazione è un processo continuo, che prosegue per tutto l’arco della

vita, per cui non esiste un punto di inizio e uno di fine.

Risulta quindi importante fare scuola con i genitori, per dare valore culturale

alla genitorialità. Bisogna fare in modo che gli alunni riconoscano il valore

culturale della trasmissione educativa dei genitori. Servono stile, filosofia e

metodo, ma l’educazione è anche fatta di molte esperienze. L’educazione è

pratica e richiede comportamenti, non solo teoria.

Si tratta allora di coniugare le ricchezze di Famiglia e Scuola affinché

entrambe si possano arricchire. I genitori portano la domanda educativa

e la scuola ha l’offerta, che dal punto di vista dei contenuti è fatta da

professionisti; ma per fare l’offerta bisogna conoscere anche la domanda,

quindi è assolutamente necessario il colloquio tra genitori ed educatori.

Si tratta di passare dalla platea al palcoscenico, dove tutti sono attori e

nessuno è spettatore, ma senza scambiarsi gli spartiti o i copioni. In ogni

caso sul palcoscenico serve anche un buon regista, un buon direttore

d’orchestra. Serve quindi un cambio di mentalità tra tutti; promozione e

veicolazione della partnership tra genitori e scuola.

Come genitori siamo continuamente provocati. Quando mio figlio con i

suoi occhi pieni mi guarda, come posso da genitore far passare la mia

posizione educativa? Che coraggio ho a parlare di incontro educativo?

Il discorso è tra adulti con responsabilità diverse. Nelle scuole si incontrano

persone con mentalità diverse e di generazioni diverse, i volti delle persone

che incontriamo a scuola sono volti diversi che ti guardano, ti osservano,

ti chiedono ragione di come stai dentro la scuola e chiedono possibilità di

incontro. Si educa educandosi assieme.

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IL TERRITORIO: L’EXTRASCUOLA COME STRUMENTO PER

LE POLITICHE SOCIALI PER I MINORI

Gli Ambiti Territoriali e i servizi extrascuola

di Giusi Caio

Riferire dell’impegno dei 14 Ambiti Territoriali in provincia di Bergamo

nei confronti dei servizi extrascuola richiede di operare una sintesi che

rischia di annullare le notevoli e significative differenze riscontrabili nel

lavoro svolto dagli Uffici di Piano, che, necessariamente, devono muoversi

in modo molto diversificato nella programmazione delle politiche per i

minori per dare risposte a territori che presentano caratteristiche, risorse

e presenze assai differenti.

Assumendo quindi il limite di questa situazione si può dire innanzitutto che

gli Uffici di Piano, avendo uno sguardo privilegiato sui percorsi dei minori

in difficoltà e delle loro famiglie, colgono nelle esperienze dell’extrascuola

un interessante luogo in cui si mette in moto tutta una serie di meccanismi

di attenzione educativa e di solidarietà che rappresentano delle risorse

importanti per concretizzare nei territori i principi della giustizia sociale,

del rispetto e della cura di chi soffre situazioni di fragilità.

Gli Uffici di Piano sono anche nella condizione favorevole per avere

un’immagine articolata dei bisogni delle famiglie di oggi, che rimandano

non solo a necessità di supporto integrativo della funzione genitoriale da

parte degli ambiti educativi istituzionali, ma anche a un’esigenza diffusa

di qualificazione del tempo dei figli, al di fuori del tempo della scuola, ma

comunque dentro una logica educativa. Per cogliere il senso del lavoro

svolto dagli Uffici di Piano per dare risposte a questi bisogni all’interno

della programmazione sociale dei territori è necessario ricordare che molti

servizi extrascuola operano da diversi anni, pertanto gli Uffici di Piano,

organismi di recente istituzione, si sono trovati a interagire con realtà già

strutturate e dotate di competenze educative e progettuali maturate anche

grazie al contributo offerto dalla L. 285/97 negli anni precedenti.

Diversi Uffici di Piano, dopo aver rilevato la presenza di iniziative

extrascuola già consolidate nel territorio, hanno quindi operato per

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svolgere un’azione di supporto, non solo attraverso contribuzioni

economiche, ma anche attraverso la collaborazione nei momenti della

progettazione, della gestione organizzativa e della verifica dei risultati,

oltre che la predisposizione di opportunità di formazione. L’incontro fra

gli operatori degli Ambiti Territoriali e i diversi soggetti che promuovono

i servizi extrascuola ha permesso di collegare risorse e progettualità

differenti, quali quelle impegnate nei servizi di Assistenza Domiciliare per

Minori e nei servizi di Tutela dei Minori, ma anche nei progetti educativi

per i disabili e nei progetti di integrazione per i minori stranieri, dando vita

a nuove esperienze capaci di generare ulteriore solidarietà, attenzione e

sostegno.

Alcuni Ambiti Territoriali si sono preoccupati di svolgere azioni specifiche

volte a favorire il dialogo e la collaborazione fra il Pubblico (Enti Locali,

Scuola) e il Privato Sociale che comprende i diversi attori sociali impegnati

a vario titolo nelle esperienze dell’extrascuola: gli oratori innanzitutto, ma

anche la cooperazione, le associazioni di volontariato o dei genitori.

Lo sforzo degli Ambiti Territoriali, soprattutto nella stesura dei Piani di Zona,

è stato dunque quello, da un lato, di rilevare e valorizzare le esperienze

già in atto e, attraverso una azione di verifica, di favorire l’introduzione di

elementi di cambiamento e innovazione, avvalendosi in questo dei diversi

gruppi di lavoro e ambiti di raccordo istituiti per l’attuazione della L. 328/00

(Tavoli tematici, ecc.), dall’altro, di tentare di svolgere, in un contesto

caratterizzato da una difficoltà diffusa (difficoltà delle famiglie, dei territori,

delle istituzioni, della politica), un paziente lavoro di composizione di

nuove coalizioni fra i diversi attori delle comunità locali.

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L’approccio comunitario

come necessità per le politiche per i minori

di Benvenuto Gamba

Un deciso investimento nella concretizzazione di un approccio comunitario

ai problemi sociali ed educativi dei nostri territori non rappresenta per

gli operatori e per la programmazione sociale una possibilità, ma è una

necessità: o si costruiscono delle progettualità che dicono “comunità”,

oppure si propongono delle progettualità che già in partenza dicono

del loro fallimento. In altri termini, non si può che partire da una logica

comunitaria per costruire i progetti che riguardano le politiche sociali per

l’infanzia e l’adolescenza. Qualcuno direbbe che c’è bisogno di comunità

perchè senza questa dimensione all’uomo risulta impossibile giungere

al proprio compimento: l’uomo non si può compiere e completare da

solo, però si deve necessariamente completare e per poterlo fare si deve

aprire agli altri, a una dimensione comunitaria. La necessità dell’assenza,

della dimensione del bisogno è strutturale, è ontologica alla condizione

umana e richiama necessariamente quella che viene definita l’etica

della corresponsabilità. Per questo la comunità non è una possibilità, ma

una necessità: se non costruiamo comunità, non possiamo costruirci in

quanto uomini. Nell’etimologia della parola “comunità” è richiamato il

termine “munus”. E’ contenuto però anche il termine “cum” che richiama

la dimensione dell’impegno e rimanda a una logica della gratuità, parte

integrante anch’essa dell’uomo. E’ chiaro che l’uomo non è essenzialmente

gratuito, ma può sviluppare in tal senso una consapevolezza e una scelta da

mettere in gioco. Costruire comunità richiama quindi anche la dimensione

della generatività, della generosità, del costruire luoghi progettuali che

rimandano a una dimensione di progettualità di vita.

Da dove si può partire per costruire una progettualità di comunità?

Innanzitutto dalla constatazione molto semplice che il territorio non è più

un luogo da occupare o da spartire fra varie realtà: una parte per la scuola,

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una per il comune, una per la parrocchia, una per la cooperativa sociale.

Non bisogna dare per scontata questa constatazione, perché la nostra

cultura proviene da una storia dove le progettualità ubbidivano ad una logica

preoccupata principalmente di presidiare il proprio pezzetto, pensando

che se si faceva bene la propria parte, si contribuiva automaticamente alla

costruzione della comunità. Il territorio oggi appare come un terreno da

coltivare e far crescere, ma che richiede necessariamente un luogo in cui le

diverse realtà possano incontrarsi e dirsi quale uomo intendono far crescere

in quel territorio. Va ricordato che nel costruire le progettualità comunitarie

si è spesso partiti dall’attenzione ai più deboli, da quelli che fanno fatica,

che sono socialmente fragili, ma questo è avvenuto non in virtù di una

logica meramente assistenzialistica, ma sulla base della consapevolezza

che se si costruiscono politiche adatte alle persone in condizione di fragilità

sociale, si rende al tempo stesso più vivibile la comunità anche per quelli

che fragili non sono. Se si predispongono strade in modo che i bambini

imparino ad andare a scuola da soli, non solo si costruiscono capacità di

abitare la città in maniera diversa, ma si sviluppano autonomia, fiducia nella

comunità, capacità da parte delle famiglie di affidarsi reciprocamente, di

dare un’ occhiata ai propri figli, che sono figli di una comunità e non solo

figli anagrafici che fanno riferimento soltanto al proprio stato di famiglia.

E’ questa una dimensione di comunità.

E’ necessario che le istituzioni si spendano per recuperare una dimensione

di adultità, nel senso di rispondere all’esigenza di disporre di un luogo

dove ci si possa incontrare fra adulti per dirsi quale comunità si intenda

realizzare sul proprio territorio. Ogni realtà infatti è diversa: per questo

è importante che le persone che possiedono la storia di quel territorio si

incontrino per dirsi, alla luce di una analisi dell’esistente e di quella storia,

quale sviluppo vogliono dare al loro territorio.

In questo senso si può anche ricordare un altro concetto chiave: il termine

“comunità” rimanda anche la dimensione del Comune come luogo al

servizio della comunità. Se si fa riferimento all’articolo 13 del Testo Unico

267/2000, che declina i compiti dei Comuni, si rileva che il Comune è il

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luogo che cura lo sviluppo dei propri cittadini, precipuamente nei settori

organici dei servizi alla persona, del territorio e della gestione delle risorse

economiche.

Se si pone attenzione a questa definizione si coglie come ci sia già il nucleo

essenziale di cosa significhi fare comunità: promuovere lo sviluppo dei

cittadini, partendo dalla logica dei servizi alla persona, non esclusivamente

attraverso le prestazioni assistenziali, ma attraverso i diversi modi esperiti

per far crescere i cittadini, mettendo loro a disposizione strumenti per

realizzarsi in quanto persone di questo territorio. Questo per quel che

riguarda i servizi alla persona, ma la normativa cita successivamente

anche la dimensione urbanistica, così come la gestione del territorio e

la gestione economico finanziaria, perché anche il costruire strade, così

come la gestione delle risorse economiche, deve essere orientata rispetto

all’idea di uomo che si intende salvaguardare in quel dato territorio.

Questo dice che oggi disponiamo di una visione legislativa chiara in

merito alla direzione verso cui ci si deve incamminare; il problema è

che è necessario riscoprire la voglia di rimettersi in gioco per costruire

una comunità che parta dal confronto dei diversi pensieri sull’uomo cui

ciascuno fa riferimento. Si tratta inoltre di prendere atto che la nostra

cultura proviene da una storia in cui si è verificato un vuoto di opportunità

aggregative e socializzanti. Nei nostri territori c’è ricchezza di attività, di

“tempi pieni”, ma non di tempo libero, di un tempo che faciliti le relazioni

autentiche fra le persone. Questo tipo di problema sollecita un impegno da

parte delle istituzioni ad avviare un confronto su come costruire contesti

che aiutino a liberare il tempo, a promuovere relazioni autentiche, a

partire dal fatto che si diano dei luoghi in cui i soggetti che promuovono

le diverse attività possano interrogarsi sul senso complessivo che guida il

loro operare e su come queste iniziative contribuiscano alla costruzione

della comunità.

Si coglie inoltre la necessità di diversificare l’offerta, calibrandola

sull’evoluzione dei bisogni che avanzano. Oggi, ad esempio, i ritmi di lavoro

dei genitori sono tali che inducono il rischio di lasciare sempre più soli i

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figli. Costruire contesti di relazione nella scuola, negli oratori, ecc., non

deve rispondere alla richiesta dei genitori di delega della gestione dei figli,

ma può rappresentare un aiuto a questi genitori, se ci si pone la domanda

di come fare a ricoinvolgerli sui problemi dei figli.

Si rileva anche il venire meno delle risorse parentali, una situazione in cui,

ad esempio, i nonni sempre di meno possono prendersi cura dei figli dei

figli. È quindi necessario pensare a rispose nuove e aggiornate per aiutare

le famiglie a conciliare i tempi del lavoro con i tempi della famiglia.

Finora l’analisi e le riflessioni esposte hanno indicato le ragioni per cui

si sono sviluppate le progettualità territoriali che hanno interessato gli

ambiti aggregativi. Si tratta ora di riflettere: quale è la direzione verso cui si

sta puntando per il futuro? Verso un superamento dell’autoreferenzialità a

favore di una sinergia progettuale. Occorre innanzitutto uscire dalla logica

del chiedere collaborazioni reciproche, per promuovere maggiori capacità

di interazione fra i diversi soggetti, di interdipendenza delle progettualità e

di abitarsi reciprocamente tra le diverse progettualità. E’ finito il tempo di

costruire progetti, occorre invece sedersi per pensare ai modi per rendere

possibile che ciascun soggetto possa realizzare le sue finalità operando

anche negli spazi e nei tempi di competenza degli altri: ad esempio facendo

in modo che la scuola possa portare avanti i propri obiettivi didattici

operando nell’oratorio e viceversa.

Se non si costruiscono capacità di abitarsi reciprocamente, il rischio che

ne deriva è che si continuerà a portare avanti progettualità parcellizzate,

senza riuscire a restituire il senso della comunità.

Costruire capacità di abitarsi reciprocamente richiede di non negare

l’autonomia di ciascuno, ma di riconoscere che ciascuna progettualità

è inscritta in un progetto complessivo che esprime la comunità, che

promuove la cultura della contaminazione reciproca, dove tutti sono visti

come valore, tutti sono risorse e non ci sono motivi per innalzare barricate

e sottolineare divisioni e autoreferenzialità.

E’ un lavoro estremamente faticoso. Per fare cosa?

- per promuovere occasioni di crescita e sviluppo;

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- per facilitare integrazione dei minori in condizione di fragilità sociale e

dei minori stranieri;

- per costruire percorsi di prevenzione e di superamento delle forme di

disagio;

- per promuovere esperienze nuove, non limitandosi però ad inventare

formule inedite di intervento che non contribuiscono a promuovere

una cultura nuova della programmazione e della gestione partecipata,

capace di tenere presente i bisogni di tutti e non solo i propri, perché è

questo che significa amministrare e governare una città;

- per sostenere le competenze educative di coloro che operano nei servizi

aggregativi attraverso la formazione e il coordinamento;

- per facilitare l’accesso agli spazi aggregativi anche nei periodi in cui

non è attivo il servizio stesso, per sperimentare l’aggregazione anche in

autonomia nei tempi di non servizio.

Promuovere cittadinanza attiva per una comunità solidale, investendo

sugli educatori e sulla solidarietà, significa costruire le condizioni per il

superamento della logica del professionismo, per cui un educatore lo è solo

nel tempo lavoro; ciascuno operatore è uomo, è parte di una comunità, e

se ha la fortuna di lavorare come educatore, ha anche un impegno e un

dovere di contribuire come cittadino al bene di quella comunità, mettendo

in gioco le proprie risorse per costruire la dimensione della città solidale.

Un’ immagine può aiutare a comprendere il senso delle suggestioni portate

ed è quella che rappresenta l’uomo come un angelo con una sola ala, il

quale, per poter volare, deve necessariamente abbracciare una altro uomo.

Questa immagine è suggestiva perché dice dell’incompletezza della persona,

dice della necessità dell’altro per realizzarsi, dice anche dell’importanza

delle relazioni che rimettono in gioco gli affetti e dice infine che, per essere

uomini, bisogna volare alto, che non c’è una quotidianità umana se non

c’è una prospettiva di senso.

L’augurio a chi opera per le politiche per i minori è quello di poter volare

alto e di trovare qualcuno da abbracciare per poterlo fare insieme.

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3EXTRASCUOLA:

‘IMPRESE DI COMUNITA’ INTORNO AL DIRITTO

DEI RAGAZZI ALL’APPRENDIMENTO

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PROGETTARE NELL’EXTRASCUOLA

di Piergiorgio Reggio

L’esperienza del cosiddetto “extrascuola” viene da lontano, attraverso

un percorso che ha visto susseguirsi modalità differenti di rapporto

con l’istituzione scolastica, che si sono sviluppate da un’iniziale

contrapposizione a forme di azione integrata.

Il progetto del percorso formativo sull’extrascuola ruota intorno a tre

parole chiave essenziali che costituiscono snodi fondamentali intorno ai

quali si sono sviluppate le esperienze anche dei progetti dell’extrascuola:

- Progettazione, assunta non semplicemente come tecnica o come

metodologia, ma come modalità di affrontare questioni educative e

sociali

- Apprendimento, come funzione sociale che impegna sempre più

numerosi soggetti: genitori, insegnanti, educatori, ecc.

- Comunità, come modo di stare insieme, di sentirsi parte, di sviluppare

senso di appartenenza.

Questo primo contributo di inquadramento teorico è dedicato alla

progettazione e l’ipotesi di partenza qui proposta è che la progettazione, nei

diversi ambiti in cui si esplica (formazione, didattica, educazione, urbanistica,

ecc.), prima che una tecnica o una metodologia, è una logica, un modo di

affrontare situazioni problematiche di tipo sociale, educativo, ecc.

Cosa è un problema?

Si può definire “problema” qualsiasi situazione dove si registri uno

scostamento fra una condizione reale e una condizione attesa:

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A = situazione di partenza

B = situazione attesa

C = situazione reale

P = scostamento tra reale e attesa (problema)

Tante sono le strategie per affrontare le situazioni problematiche:

- rassegnarsi alla condizione reale

- ridefinire la condizione attesa

- rivalutare la condizione reale

- ………

Quando si è in presenza di una situazione problematica (relativa a una

condizione di deficit o difficoltà oppure a una esigenza di sfruttare e

valorizzare opportunità) fra le strategie che si possono adottare per ridurre

lo scarto fra realtà e attese (ad es. riproduzione di routines o procedere per

tentativi ed errori) c’è anche la possibilità di utilizzare la progettazione.

L’assunzione di una logica progettuale implica la necessità di porre

attenzione a tre funzioni di base della progettazione:

- funzione dichiarativa, che attiene l’esplicitazione dei fini ultimi, degli

scopi e dei valori di riferimento; si è chiamati a proiettarsi nel futuro

per immaginare qualcosa che non c’è, a dichiarare le ragioni per cui si

intende operare in una certa direzione;

- funzione procedurale, che riguarda la definizione delle procedure

progettuali: obiettivi, risorse, tempi, azioni; si tratta di definire il “come”,

AB

C

P

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con quali mezzi, attraverso quali processi si intende intraprendere

l’azione progettata;

- funzione produttiva, che si riferisce alla definizione dei prodotti e dei

materiali simbolici che ci si propone di realizzare; si tratta di prefigurare

la natura e le caratteristiche del prodotto che si intende concretizzare.

La progettazione è una strategia per interagire con le situazioni

problematiche che implica diverse dimensioni (cognitiva, emotiva,

affettiva, ecc.) e che richiede di fare i conti in modo non sequenziale con

le tre funzioni citate.

La maggior parte dei problemi relativi alla progettazione trova spiegazione

in deficit relativi ad una di queste tre funzioni o incoerenze nel loro

raccordarsi: carenza di chiarezza sui fini del progetto, carenza a livello di

strutturazione organizzativa, incoerenza fra scopi, procedure e prodotti …

I diversi modi di progettare danno origine a differenti modelli di

progettazione:

• modelli di progettazione lineare, che procedono secondo una logica di

razionalità assoluta che non è interessata a considerare elementi di

varianza o di perturbazione della procedura standard definita:

E’ un approccio che, in ambito pedagogico, ha avuto il merito di far

uscire le pratiche educative dall’improvvisazione ed ha introdotto

istanze di verificabilità degli esiti.

Nel lavoro socio-educativo bisogna tuttavia considerare che la varianza

supera quasi sempre la regolarità e la routine.

E’ tuttavia un approccio fortemente interiorizzato sia dagli operatori

sociali, sia dai loro committenti;

• modelli problem solving, che, pur proponendo metodologie diversificate,

INPUT OUTPUTTRATTAMENTO

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dedicano attenzione agli elementi di scostamento rispetto ai processi

pianificati e prevedono meccanismi di rilevazione, controllo e gestione

delle varianze;

• modelli negoziali, partecipativi, concertativi che si concentrano su

processi di definizione condivisa dei problemi individuati, in quanto

considerati la premessa indispensabile per stimolare un investimento

attivo da parte di chi è interessato al problema nel mobilitare risorse

diversificate. Si tratta di norma di percorsi assai impegnativi e lunghi,

orientati alla costruzione di un campo di intervento comune in cui

coinvolgere soggetti portatori di interessi diversi, che non sempre

portano agli esiti prefigurati in partenza;

• modelli euristici o di ricerca, percorsi che cercano di definire in progress,

mano a mano che procede anche l’intervento, i problemi e le strategie

utili ad affrontarli. Sono modelli che si applicano in situazioni molto

complesse o inedite, dove non si dispone di esperienze di riferimento

o di saperi consolidati o dove non c’è un consenso preliminare nè

sulla natura dei problemi nè sulle strategie per affrontarli o dove sono

elevate le possibilità di insuccesso.

Nella pratica socio-educativa questi diversi modelli coesistono e la

realizzazione dei progetti prevede l’adozione e la coniugazione di approcci

anche differenti.

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QUALI PROGETTI

di Elena Righetti

Per chi progetta concretamente sul campo è importante uscire da un

approccio ideologico alla progettazione, acquisendo la capacità di coniugare

modelli diversi nei vari segmenti di realizzazione degli interventi, operando

la scelta dei modelli in una logica di tipo funzionale, cioè in funzione di ciò

che si intende realizzare.

L’efficacia e la coerenza dei progetti non sono date dalla scelta del “buon”

progetto, cioè dalla selezione di un modello ottimale in sè, ma sono date

dal rigore adottato per progettare con chiarezza e finalizzazione. Questo

non pone al riparo da errori o da difficoltà, ma aiuta a porre rimedio in

tempo utile agli scostamenti che in itinere emergono.

Tutti i modelli presentati presentano degli elementi comuni:

• il procedere tutti da una situazione A di partenza per giungere a una

situazione B di arrivo;

PROGETTOA B

le modalità di passaggio da A a B (processi, risorse, ecc.) dipendono

dal modello adottato e costituiscono il progetto, il cosa farò e il come

lo farò;

• la definizione del percorso ipotizzato per passare da A a B, che si

concretizza prima in una attività di previsione delle azioni da mettere

in campo, delle risorse da mobilitare, ecc., e poi, a livello operativo,

nell’operare delle scelte e prendere delle decisioni in coerenza con

tali scelte e con una analisi critica della complessità dei fattori che

caratterizzano la realtà. Tali fattori possono essere le risorse umane,

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finanziarie, la risorsa tempo, ma anche i contesti in cui si opera, ecc.

Le scelte e le decisioni dipendono da ciò di cui si dispone nella situazione

A e non, come spesso succede impropriamente in progettazione, in

base alle aspettative che si nutrono in riferimento alla situazione B. Per

questo è necessario porre molta attenzione all’analisi e alla descrizione

della situazione A.

Per questi motivi in progettazione è richiesto di ottemperare con cura

e coerenza alla funzione dichiarativa, esplicitando le motivazioni che

spingono a mobilitare risorse per cambiare la situazione A e a prefigurare

una situazione B, come nuova condizione di cui è importante motivare

le ragioni di desiderabilità, oggettivare le attese soggettive in risultati

attesi oggettivi e quindi misurabili. Nella funzione dichiarativa di

conseguenza rientrano anche i valori, le credenze, le letture professionali

dei problemi e dei contesti, le competenze, ecc.

Oltre che l’analisi e la descrizione della situazione A, è importante nello

svolgimento della funzione dichiarativa prefigurare con chiarezza e

realismo anche la situazione B, verso cui si intende procedere, non solo

in termini di obiettivi, ma anche di risultati;

• la prefigurazione dei risultati, ciò che dovrà accadere dopo l’intervento,

ciò che si intende produrre attraverso l’azione. A differenza degli

obiettivi che si collocano nella funzione dichiarativa, la prefigurazione

dei risultati è una operazione che riguarda la funzione produttiva, cioè

l’esplicitazione e la definizione del prodotto che si intende realizzare,

espresso in termini visibili, misurabili, tangibili;

• la definizione e la descrizione delle modalità, del come si intende

procedere assunta all’interno della funzione procedurale che enuncia

metodologie, azioni, risorse, tecnologie che verranno impiegate

L’analisi della situazione di partenza A è, in progettazione, un compito

difficile, perché è necessario tenere sotto controllo la tendenza a descrivere

la situazione A in funzione della situazione B desiderabile, tendenza indotta

dal senso di frustrazione, spesso inconscio, che deriva dal registrare lo

scarto fra A problematico e B desiderabile: si tende perciò a vedere in A

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solo le cose che servono per arrivare a B e a ignorare invece quei fattori

che ostacolano il passaggio a B.

Altrettanto difficile risulta l’operazione di prefigurazione della situazione di

arrivo B, cioè progettare in modo che le soluzioni previste per modificare

A non siano già predeterminate sulla base delle aspettative e dei desideri,

a prescindere da tutti gli elementi di incertezza e da ogni variabile

perturbante. Spesso infatti si progetta prefigurandosi B in modo che risulti

che esiste una sola soluzione possibile, quella di cui si dispone a priori.

Lo sforzo del progettista dovrebbe essere quello di prefigurare B in modo

distaccato, presupponendo che per arrivarci ci sono diversi percorsi

e molteplici soluzioni, che costituiscono delle alternative praticabili

e selezionabili come efficaci in base ad una analisi in progress dei

contesti e delle variabili intervenienti. In questo modo la progettazione

non è orientata a ridurre la percezione delle condizioni di successo (per

sedare l’ansia derivante dall’incertezza del risultato), ma rappresenta una

risorsa proprio in quanto consente di prospettare e di disporre di una

molteplicità di opzioni e soluzioni possibili cui attingere per affrontare

le diverse criticità che necessariamente si incontreranno sul percorso di

realizzazione. In questa prospettiva si coglie appieno il contributo che

possono offrire le pratiche della concertazione e le metodologie euristiche,

volte a individuare problemi e risorse inedite e a sviluppare creatività in

riferimento alle soluzioni adottabili.

Le tre funzioni progettuali presentate, che caratterizzano tutti i processi di

progettazione, costituiscono dei riferimenti che aiutano a lavorare su una

situazione di partenza e a prefigurare le soluzioni individuate come più

efficaci e coerenti:

- per efficacia si intende la capacità di ottenere il massimo risultato

raggiungibile con le risorse disponibili in A

- per coerenza si intende la capacità di usare le risorse in modo “ecologico”,

cioè compatibile e funzionale al contesto e ai soggetti che lo abitano, ma

anche in sintonia con i valori, le aspettative, i desideri di chi progetta.

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Coerenza ed efficacia sono maggiormente garantiti da un lavoro di

progettazione rigoroso dove vengono rispettate le tre funzioni richiamate

da Reggio nel precedente contributo.

Bisogna considerare anche che la progettazione è spesso un’azione

collettiva, espressione di un gruppo di lavoro che può essere eterogeneo

per appartenenze, culture, professionalità. In questi casi la progettazione

rappresenta un’utile occasione per favorire lo scambio di rappresentazioni

mentali, opinioni, convinzioni e arrivare ad assegnare significati comuni a

ciò che si sta facendo e a ciò che si intende realizzare.

In questo senso la progettazione è anche una interessantissima opportunità

di apprendimento reciproco e di condivisione di significati e orientamenti,

che aiuta a rendere meno rischioso il processo di attuazione dei progetti,

proprio perché contribuisce a mantenere buoni livelli di coerenza ed

efficacia.

Nella ricerca sui progetti dell’extrascuola promossa dalla Provincia di

Bergamo e dal Laboratorio Provinciale Extrascuola sono state individuate

diverse tipologie di progetti.

La tipologia “Solo compiti” ad es. rimanda ad una idea di specializzazione

di una delle funzioni da perseguire nell’extrascuola, ad esempio favorendo

i processi di apprendimento attraverso l’istituzione di un setting formativo

più adeguato rispetto a quello della stanzetta dove i ragazzi studiano da

soli, affiancando i ragazzi con figure di facilitazione che orientano la loro

funzione in ragione delle caratteristiche dei ragazzi e dei loro contesti di

provenienza (ad es. famiglie extracomunitarie).

Oltre ai progetti in cui si sviluppa maggiormente la dimensione della

specializzazione, vi sono altre tipologie di progetti che invece promuovono

forme di intervento caratterizzate dalla complementarietà, che rendono

possibile perseguire risultati più articolati e complessi, proprio

salvaguardando e valorizzando in modo consapevole e intenzionale la

specializzazione delle singole componenti in gioco, componendole poi

in una progettualità integrata, in modo da disporre di maggiori risorse e

soluzioni che possano essere mobilitate in modo coordinato.

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La complementarietà implica la capacità di uscire da un approccio

autoreferenziale per aprirsi ad altri contesti e scoprire nuove risorse e

nuove modalità di intervento.

Altra parola chiave di cui è opportuno trattare è la parola orientamento,

con riferimento alla necessità per chi progetta di fissare delle mete e di

sapere costantemente verso dove si sta effettivamente andando.

Questa parola chiave rimanda cioè alla esigenza di disporre di strumenti

che aiutano i progettisti a orientarsi durante l’ideazione e la realizzazione

dei progetti, cioè a mantenere la rotta fissata o a rendersi conto che si

è andati fuori rotta o, ancora, a decidere intenzionalmente di deviare da

questa rotta, perché si sono trovate nuove e più interessanti direzioni di

investimento.

In altri termini in progettazione è necessario avere strumenti per verificare

se le azioni messe in campo e le reazioni da queste generate, sono, restano

e devono restare indirizzate verso le mete prefigurate.

La progettazione costituisce una risorsa anche per quanto riguarda

l’esigenza di orientamento, in quanto, più le scelte sono consapevoli

e motivate, sono esplicitate in fase iniziale e riesplicitate anche nelle

successive fasi, più queste scelte assumono il significato di uno strumento

di lavoro e non di un vincolo subìto che impone di perseverare in una

direzione indipendentemente dagli esiti osservati.

L’ultima parola chiave è appunto la ricorsività, che rappresenta un

riferimento utile per mantenere sufficienti livelli di chiarezza e di rigore

metodologico nella rielaborazione e gestione dei progetti costantemente

esposti al confronto con la complessità delle variabili del reale. Il termine

ricorsività fa quindi riferimento alla disponibilità e alla capacità dei

progettisti di riprogettare continuamente, sapendo alternare ricorsivamente

fasi di progettazione, gestione, valutazione, progettazione …, continuando

a riapplicare le tre funzioni progettuali nelle diverse fasi di elaborazione e

attuazione dei progetti.

Due ultime “raccomandazioni” possono essere rivolte ai progettisti:

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• La definizione della situazione problematica: la situazione problematica

non è A, non è neppure B e neppure la soluzione che vogliamo

immettere. E’ piuttosto data dalla relazione tra A e B, perché è ciò che è

percepito mancante in A e che si intende concretizzare promuovendo il

movimento vero B. E’ ciò che vogliamo modificare.

Ad es. la dispersione scolastica non rappresenta una situazione

problematica, ma è piuttosto l’esito di questa situazione, un effetto

che si osserva e che si può dimostrare. La situazione problematica in

rapporto al fenomeno della dispersione scolastica è pertanto costituita

dalle cause che determinano il fatto che una percentuale significativa

di ragazzi non giunge alla fine prevista del percorso scolastico. La

comprensione degli elementi costitutivi della situazione problematica

è facilitata dalla descrizione della situazione di partenza A prevista dalla

funzione dichiarativa.

• Il rischio dell’idealizzazione nella elaborazione di progetti e la necessità

di porre attenzione non solo agli elementi che costituiscono una risorsa

per produrre la situazione desiderata di arrivo B, ma anche e soprattutto

agli elementi che possono ostacolare l’attuazione del progetto.

Per evitare questo rischio è bene considerare che le condizioni di

successo di un progetto (competenze, risorse, condizioni e opportunità)

devono essere presenti, quindi osservabili e descrivibili in modo

sufficientemente chiaro, già nella situazione A.

Altre annotazioni utili alla progettazione possono essere dedotte dall’analisi

dell’esperienza di rielaborazione e produzione svolta all’interno di gruppi

di lavoro impegnati ad analizzare alcuni progetti all’interno del percorso

di formazione.

In particolare si è potuto osservare che, al di là di quanto elaborato in

termini di contenuti vi è una “produzione” che ha determinato un risultato

tangibile, comunicabile, capace di suscitare reazioni negli altri.

La possibilità di disporre di un risultato concreto ha offerto maggiori

opportunità ai componenti del gruppo e ad altri soggetti di confrontarsi

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intorno alla produzione, ha suscitato giudizi di accordo o di disaccordo,

ha suggerito direzioni di miglioramento o decisioni di sospensione delle

azioni o di cambiamento di direzione degli investimenti.

L’assenza di un risultato concreto rende molto faticosi i processi di

produzione di pensiero e quindi di apprendimento.

In ogni situazione di lavoro collettivo, cioè in tutti i processi di produzione

di pensiero collettivo accade che, consapevolmente o meno, il gruppo

applichi delle procedure per accordarsi intorno ad alcune convenzioni

attraverso le quali si possano assegnare significati condivisi ai diversi

oggetti di lavoro.

Il grado di consapevolezza e di intenzionalità nella gestione di questi

processi determina accelerazioni o difficoltà nella messa in comune di

saperi, che costituiscono la base di partenza per consentire al gruppo di

continuare a lavorare efficacemente in funzione degli obiettivi condivisi.

Infatti l’elaborazione di pensiero all’interno di situazioni di gruppo implica

sempre una molteplicità di operazioni di attribuzione di senso, che ciascuno

di noi svolge in modo implicito e automatico in tempi infinitesimali tali da

farne perdere la consapevolezza. L’attività di produzione di senso a livello

collettivo procede attraverso l’applicazione, consapevole o meno, di azioni

di ascolto, decodifica, assegnazione di significato.

Per questo le modalità di lavoro di un gruppo costituiscono una variabile

importante nella determinazione dell’efficacia dei progetti e ci sono

delle tecniche specifiche per migliorare la messa in comune dei saperi e

delle esperienze. Trascurare questa fase comporta il rischio che i soggetti

assegnino significati diversi ai medesimi oggetti, elevando la probabilità di

incomprensioni, disturbi comunicativi e conflitti difficilmente risolvibili in

questa situazione confusiva.

Chi si occupa di progettazione deve procedere con un atteggiamento da

esploratore, cioè deve essere costantemente attento ad attribuire significato

alle situazioni che incontra e deve sollecitare gli altri a esplicitare e porre

a confronto i significati e le rappresentazioni che ciascuno attribuisce alle

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diverse situazioni.

Questo insieme di operazioni di confronto e di scambio di significati

produce ciò che con un termine di sintesi si definisce “apprendimento”:

apprendere qualcosa significa aver assegnato a una cosa un significato

valido per sè e/o per un gruppo, attraverso la costruzione di teorie, cioè

attraverso l’individuazione di spiegazioni sensate rispetto a un fenomeno

che consentano di sviluppare un migliore controllo della situazione.

Alcuni autori sostengono che il bisogno di apprendere va incluso fra i

bisogni primari, perché l’apprendimento costituisce uno degli strumenti

più efficaci per garantire ai soggetti la sopravvivenza.

L’apprendimento quindi non è una azione astratta di carattere prettamente

individuale, ma è un’azione concreta che implica operazioni complesse

di scambio sociale e chi non apprende ha maggiori probabilità di

soccombere.

In questo senso l’apprendimento non è una cosa che si produce soltanto a

scuola, ma si sviluppa in tutti i momenti della vita.

L’apprendimento inoltre è tanto più efficace, quanto più si utilizza in

modo intenzionale e consapevole il prodotto dell’apprendimento, cioè la

competenza, in quanto il prodotto dell’apprendimento è il saper fare, il

saper essere, ecc.

La conoscenza, quella codificata nei libri e convenzionata nelle diverse

discipline, non può quindi essere considerata solo una cosa astratta

che alcuni si possono permettere ed altri no, ma l’apprendimento e la

conoscenza che ne deriva rappresentano lo strumento dell’azione delle

persone nel mondo, per sopravvivere, per starci bene, per essere felici, ecc.

Da questo punto di vista vale dunque la pena ribadire che la conoscenza

non è la risultante di un processo di astrazione, ma si genera vivendo

esperienze di apprendimento.

Tendiamo a pensare che la conoscenza sia una cosa astratta perché

l’uomo ha via via immagazzinato nei libri i risultati delle sue esperienze

di apprendimento, utilizzando linguaggi e regole convenzionali che hanno

istituito le discipline. Di fatto l’apprendere è praticare, è elaborare la pratica

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e tornare alla pratica con degli strumenti più ricchi, più evoluti ed efficaci

attraverso un processo ricorsivo che si attua in molteplici situazioni.

La formazione e i processi educativi formalizzati rappresentano delle

situazioni strutturate di apprendimento per le nuove generazioni, ma di

fatto la conoscenza viene elaborata nei molteplici e diversificati ambiti

della vita degli individui, in quanto l’apprendimento è un “fare esperienza”

che si trasforma in conoscenza, comunicabile e utilizzabile dal soggetto

che ha appreso, tutte le volte che si verifica il passaggio della elaborazione,

della trasformazione dell’esperienza in qualcosa di intenzionalmente

applicabile. Se non si attuano i processi di elaborazione intorno alle

esperienze si genera quel che è stato definito con il termine di “mimetismo

cognitivo”, cioè una finzione di apprendimento (ad es. sapere esporre il

concetto di funzione di x, senza sapere cosa significhi e come e perché si

utilizzi).

In sintesi apprendimento è un processo finalizzato ad elaborare l’esperienza

per produrre conoscenza per me al fine di poterla applicare alle mie

situazioni di vita.

ELABORAZIONE DI ESPERIENZA

APPLICAZIONEDELLA CONOSCENZA

APPRENDIMENTO

ESPERIENZA CONOSCENZA

I processi di apprendimento possono essere facilitati da figure che

svolgono la funzione di “mediatori di apprendimento”, docenti, educatori,

animatori, formatori, ecc., tutte quelle figure che si assumono il compito

di accompagnare intenzionalmente lungo questo percorso dall’esperienza

all’apprendimento.

Mediatore o facilitatore di apprendimento non è colui che sa e trasferisce

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conoscenza in colui che non sa, ma è colui che fa in modo che l’altro

produca la sua conoscenza da sé, colui ad esempio che fa in modo che il

teorema di Pitagora venga scoperto da coloro ai quali lo propone, come

una scoperta di conoscenza per sé. Molti sono i tipi di conoscenza che

si possono apprendere in questi processi di elaborazione: saperi a livello

cognitivo, relazionale, emotivo, ecc., ma ciò può avvenire a patto che

si lavori in modo che siano i soggetti a produrre conoscenza e che essi

stessi possano percepire la consistenza e il valore del proprio prodotto.

In questa prospettiva le pratiche valutative dei processi di apprendimento

sono primariamente degli efficaci strumenti di apprendimento per chi è

impegnato direttamente in questi processi e perdono molto delle loro

potenzialità nel momento in cui vengono gestite in modo esclusivo da chi

li segue dall’esterno (insegnante, educatore, ecc.).

Laboratorio e apprendimento

“Laboratorio” è qualsiasi situazione che intenzionalmente consenta di

fare esperienza e di utilizzare tale esperienza come base per un percorso

di apprendimento di contenuti, di comportamenti, di stili di vita, ecc.,

attraverso la realizzazione di prodotti di gruppo.

Le figure che vengono inserite nelle situazioni di laboratorio, in qualità di

figure di mediazione e di facilitazione, devono esercitare intenzionalmente

il ruolo di chi predispone il setting formativo adeguato per produrre

apprendimento attraverso l’esperienza condivisa.

L’assenza di una precisa intenzionalità nella gestione del ruolo di mediazione

comporta una dispersione dell’apprendimento.

Possono essere evidenziati due elementi che caratterizzano la funzione di

mediatori di apprendimento:

- l’assunzione di un atteggiamento e di un’attitudine esplorativa orientati

a far emergere e scambiare i saperi posseduti dai diversi componenti

del laboratorio;

- la disposizione ad attraversare il rischio che il percorso di apprendimento

porti a esiti inattesi, a saperi non predeterminabili.

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I processi collettivi di esplorazione e di messa a confronto dei significati e

dei saperi sono generativi di apprendimento solo a condizione che siano

legittimati (appunto dalla presenza del mediatore) ogni posizione e punto di

vista, in modo tale che possano emergere numerose rappresentazioni della

realtà e si possano in tal modo generare nuovi prodotti di conoscenza.

Una obiezione che viene spesso avanzata alle proposte laboratoriali è che

questi percorsi implicano tempi più lunghi per dare modo ai processi di

apprendimento di svolgersi in tutta la loro articolazione.

Per regolare questa criticità si tratta di applicare strategie e strumenti

di lavoro adeguati rispetto alla situazione messa in luce attraverso una

realistica analisi del contesto, delle condizioni di lavoro, degli obiettivi

perseguiti.

Bisogna valutare se le obiezioni opposte alle proposte di apprendimento

laboratoriale non siano altro che forme di resistenza di fronte al disagio che

deriva dal sentirsi esposti alle incertezze implicate dalla necessità di porsi

in un atteggiamento euristico e di assumere il rischio di trovarsi di fronte

a risultati inediti, che richiedono un costante lavoro di rielaborazione,

e che, per una malintesa interpretazione del ruolo del mediatore di

apprendimento, sono assunti come indicatore di insuccesso, anziché

come preziosa opportunità per promuovere attitudini all’apprendimento

permanente.

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UN LABORATORIO DEGLI APPRENDIMENTI

di Piergiorgio Reggio

I processi educativi si collocano oggi in uno scenario completamente

diverso da quello in cui si sono formate le generazioni precedenti e

caratterizzato da:

• Esaurimento dei paradigmi educativi tradizionali. Ciò che caratterizza

oggi i processi di apprendimento e richiama la necessità di un impegno

condiviso fra scuola, famiglia e territorio, è il fatto che ci si trova di fronte

ad una evoluzione del sistema educativo connotata dall’esaurimento

dei paradigmi che per molti decenni sono stati in grado di spiegare cosa

era la società, come si doveva vivere, come ci si poteva educare e come

si diventava cittadini adulti.

Si trattava di un sistema di assunti coesi e totalizzanti che erano in grado

di dare risposta ad ogni domanda: ad es. la cultura cattolica offriva una

risposta globale alle domande educative che trovava rimandi coerenti

all’interno della società, dove famiglia, scuola, vita sociale e impresa

riflettevano gli stessi valori di riferimento; così come la cultura operaia

o la cultura della grande impresa (si pensi ad es. ai villaggi Falk o

all’insediamento di Crespi d’Adda).

Oggi rimangono validi i paradigmi educativi e i valori di fondo espressi

da tutte queste culture, ma ciò che è venuto meno è la possibilità di

educare gli individui in maniera totalizzante all’interno di un unico

paradigma di riferimento, poiché le incoerenze fra sistemi diversi

sono più delle conferme, le contaminazioni sono innumerevoli e la

frammentazione è massima.

• Crisi della centralità della scuola e diversificazione di tempi, luoghi e

soggetti educativi. Un altro fenomeno che ha accompagnato il processo

di esaurimento dei paradigmi educativi totalizzanti è il fatto che, benchè

la scuola abbia mantenuto la sua rilevanza nei processi educativi,

tuttavia si deve riconoscere che non si è più in presenza di un sistema

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educativo che è centrato unicamente sulla scuola. Numerose sono oggi

le fonti e le opportunità per l’apprendimento che inducono messaggi

contradditori, incoerenti, quando non di disconferma della proposta

scolastica. Il sistema educativo è diversificato in quanto a tempi e luoghi

e soggetti che hanno titolarità e specificità del tutto diverse.

• Necessità di contestualizzare l’educazione. Un tempo si riusciva a

rispondere in modo abbastanza univoco alla domanda: che cosa è

l’educazione?

Oggi se si riesce a dare risposta, è possibile farlo soltanto in una maniera

fortemente constestualizzata, adottando numerose specifiche: educare

chi? quando? dove? come?

È, infatti, molto differente educare un maschio invece che una femmina,

educare in un’ area metropolitana o in un’ area periferica o rurale,

educare bambini italiani o bambini stranieri, ragazzi provenienti da

famiglie svantaggiate o più favorite socialmente…

La necessità di contestualizzare quando si pensa all’educazione

costituisce una situazione inedita, che crea qualche difficoltà, ma

rappresenta anche una grande opportunità perché impone di andare

oltre risposte astratte e stereotipate, stimola ad assumere approcci

pragmatici, a misurarsi con persone e famiglie concrete.

• Rapporto problematico fra educazione e società. Oggi, come già si

diceva, sul piano dei riferimenti educativi non si è più in presenza di

visioni definite, che un tempo si potevano apprezzare o meno, ma che

comunque si presentavano in modo molto netto e chiaro. Ad esempio

negli anni ’20 si svilupparono approcci pedagogici che individuavano

nell’educazione uno strumento importante per costruire una società

pensata e desiderata come democratica. Nella società odierna questa

aspirazione permane, ma il nesso fra educazione e democrazia è colto

come molto più problematico. Che il crescere dell’istruzione produca

maggiore possibilità di accesso al potere da parte delle persone è un nesso

che non è lineare e che va assunto in modo necessariamente critico:

più scuola per tutti non significa automaticamente più democrazia, in

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alcune società alla scuola arrivano delle richieste orientate in termini

funzionali alla formazione di saperi molto selettivi.

Le questioni problematiche esposte possono essere assunte come

motivazioni fondate del fatto che non è più possibile occuparsi oggi di

apprendimento dei bambini e degli adulti unicamente in quanto soggetti

appartenenti ad una parte della società, ad es. in quanto genitori, in quanto

operatori sociali, in quanto educatori o insegnanti… Questo sforzo deve

essere assunto in modo condiviso per rispondere alle trasformazioni

descritte che hanno mutato radicalmente lo scenario. Questo non significa

che ciascuno non abbia più specifici compiti.

Apprendimento / apprendimenti

Passando a riflettere su cosa si intende quando si parla di apprendimenti si

possono offrire alcuni orientamenti:

• Apprendimenti come contenuti: in termini di ampliamento/riduzione di

saperi, codici, competenze.

Se si chiede a persone comuni il significato della parola “apprendimento”

le risposte faranno prevalentemente riferimento ad un contenuto:

saperne di …, discipline, competenze operative, ecc. Questa accezione

molto diffusa dell’apprendimento come “contenuto” ha posto in

secondo piano l’aspetto che fa riferimento all’apprendimento come

esperienza personale.

• Esperienze prima che contenuti. Certo che l’apprendimento è

anche contenuto, ma questo è il prodotto finale di un processo,

di un’esperienza. In quanto persona che fa un’esperienza, io sono

l’apprendimento di me stesso. L’apprendimento è al tempo stesso

risultato, ma è anche esperienza vissuta dalle persone e il contenuto, in

molte situazioni, incide relativamente, come si può desumere dal fatto

che in alcune esperienze il contenuto è comune a tutte le persone, ma

gli apprendimenti sono anche molto diversi.

Il tema dell’apprendimento come contenuto è oggi oggetto di un dibattito

lacerante (in particolare all’interno della scuola): da un lato si considera

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che i contenuti da trasferire siano sempre più numerosi, dall’altro si

afferma che i contenuti effettivamente necessari siano pochi (ad es.

inglese e informatica)

L’enfasi sulla dimensione esperienziale evidenzia come l’apprendimento

crea differenze: le persone si diversificano in base al fatto che facciano

più o meno esperienze di apprendimento, non sono cioè diverse per

il fatto che sappiano ripetere più o meno poesie, o contenuti specifici,

ma è certo che chi ha letto o studiato poesie, o ha interiorizzato culture

tecniche, è diverso da chi non lo ha fatto, senza che si possa dire se sia

migliore o peggiore.

• Dimensione individuale / rilevanza sociale. I processi di apprendimento

presentano una dimensione individuale e una sociale.

E’ vero che gli apprendimenti sono esperienze individuali, però la

dimensione sociale è irrinunciabile, perché ogni educazione non solo

avviene in una società, ma può servire o meno a una certa società e

quando gli apprendimenti non vengono riconosciuti come validi

socialmente, purtroppo non si riesce ad apprezzarli, non assumono una

rilevanza sociale. Se gli apprendimenti individuali vengono promossi,

sviluppati e riconosciuti socialmente, la persona ha maggiori chances

a livello sociale, nel lavoro, nelle relazioni, ma se questo non avviene,

la persona può fare un’esperienza di apprendimento molto forte e può

sviluppare un patrimonio culturale molto ricco, ma socialmente si trova

in grave difficoltà: ci sono tantissime persone che dispongono di saperi

consistenti, ma che socialmente non contano assolutamente nulla.

Certo questa concezione degli apprendimenti, più che definire il

concetto complica la questione, perché da un lato dice che in gioco ci

sono indubbiamente dei contenuti, ma dall’altro evidenzia che non si

tratta solo di processi, ma di esperienze che in quanto tali hanno una

valenza personale, ma anche collettiva e sociale, esperienze che hanno

bisogno di essere personalmente vissute e socialmente riconosciute.

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Le forme dell’educazione

In riferimento a come si producono oggi i processi di apprendimento si

può fare riferimento a due diverse coordinate: i luoghi dell’educazione e le

modalità in cui si attua.

Per quanto riguarda il primo versante, dove le persone apprendono,

proprio in riferimento alla diversificazione e moltiplicazione dei luoghi e

delle forme dell’apprendimento, si possono avere:

- esperienze di educazione formale, che ruotano attorno al sistema

scolastico ma che accomunano tutti i percorsi curricolari, certificabili,

dove il percorso è definito in maniera chiara e riconosciuta;

- esperienze di educazione non formale, che prevedono situazioni

organizzate, setting (laboratori, centri di aggregazione giovanile,

percorsi formativi), che non configurano però dei curricoli e delle

certificazioni;

- esperienze di educazione informale, che si svolgono nei luoghi quotidiani

di vita delle persone (l’oratorio, la strada, ecc.)

In tutti questi luoghi si attuano apprendimenti secondo modalità diverse:

talvolta in maniera spontanea, talvolta in maniera intenzionale.

Questi due aspetti si possono combinare e dall’incrocio degli apprendimenti

intenzionali o spontanei con le diverse situazioni educative si producono

esperienze di apprendimento diversificate. (vedi schema seguente).

Se si considera pari a cento il proprio sapere e si immagina di distribuirlo

nelle diverse caselle della tabella, certamente si avrà una distribuzione che,

seppure in quantità diverse, interesserà ognuna delle caselle previste.

Conclusione: le persone sono capaci di utilizzare e di fatto utilizzano

tutte le modalità di apprendimento e le situazioni educative e riescono a

comporre i risultati in un sapere organico.

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135

Tipi di apprendimento

Forme dell’Educazione

Apprendimento intenzionale

Apprendimento spontaneo

FORMALEObiettivi definiti, programmi espliciti e proposte pianificate

Apprendimento non previsto, asistematico, diffuso, profondo e duraturo

NON FORMALE

Incrocio tra interessi personali e opportunità offerte dai territori

Apprendimento non prevedibile, rilevante, capacità di apprendere ad apprendere

INFORMALE

Intraprendenza e attivazione del soggetto, disponibilità risorse

Situazioni potenzialmente educative, capacità di apprendere ad apprendere

La domanda che emerge è allora la seguente: se le persone, sia che abbiano 12 anni come 50, si muovono così agevolmente nei vari quadranti dell’apprendimento, come mai i sistemi formativi si concentrano, in termini di investimenti di risorse e di energie, sostanzialmente sul solo quadrante dell’educazione formale? Perchè a livello di attenzione sociale c’è riconoscimento quasi esclusivamente per l’apprendimento formale, senza considerare che invece esso è la risultante di un incrocio molto più complesso di variabili e situazioni? Queste domande evidenziano un problema importante, dove la questione della dimensione individuale e della rilevanza sociale dell’apprendimento assumono un significato particolare. Ad esempio molti documenti della Comunità Europea definiscono l’apprendimento come un “capitale personale individuale” e non un “bene comune”, mentre Don Milani diceva che studiare per sé era avarizia e, al contrario, affrontare i problemi con gli altri e sortirne insieme era democrazia. Un investimento sociale concentrato unicamente su quanto viene proposto in maniera formale e intenzionale privilegia chiaramente e inevitabilmente l’istruzione come

capitale personale individuale.

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Strategie per promuovere apprendimenti: le didattiche

Se si adotta una prospettiva più ad ampio spettro per promuovere il diritto

all’apprendimento, muovendosi nei diversi quadranti dei luoghi e delle

modalità educative e integrando vocazioni, competenze e specificità

diverse, si possono individuare diverse strategie di promozione del diritto

all’apprendimento:

- strategie sensibili all’individualizzazione, centrate fortemente

sull’individuo, non unicamente nei casi di difficoltà, ma anche nei

casi di eccellenza; queste strategie puntano infatti ad individuare in

ciascun soggetto difficoltà e potenzialità e a sviluppare interventi di

compensazione o di supporto alla maturazione di eccellenze;

- strategie di discriminazione positiva, orientate a “dare di più a chi ha

meno”, favorendo ad es. territori meno dotati di opportunità o gravati

da difficoltà attraverso l’attivazione di interventi suppletivi;

- strategie di mediazione, che propongono forme di sostegno sul piano

cognitivo e sociale, attraverso l’introduzione nel lavoro educativo

con minori di varie figure professionali e volontarie di mediazione,

che appunto si interpongono e mediano fra il soggetto e i processi di

apprendimento;

- Strategie di cooperazione e di gruppo, che vedono la socializzazione non

solo come un mezzo per facilitare l’apprendimento, ma un contenuto

di apprendimento in sé;

- Esperienze di apprendimento esperienziale, che possono essere proposte

a livello individuale o di gruppo, ponendo le persone a contatto diretto

con elementi di realtà e richiedendo loro non solo di affrontare tali

situazioni, ma di imparare dalle situazioni stesse;

- Il lavoro centrato sulla comunità e l’animazione, come strategie per

prendere in carico i bisogni formativi complessi di una comunità,

proponendo interventi rivolti a tutti i soggetti della comunità.

Nell’elenco di strategie proposte si rileva una certa gradazione

dall’individuale al sociale, che non si connota in termini negativo / positivo,

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ma che suggerisce l’esistenza di un repertorio di strategie diversificate

che producono esiti diversi e che richiedono l’impiego di competenze

progettuali e tecniche mature e specifiche per scegliere e comporre

intenzionalmente tali strategie in interventi integrati coerenti e adeguati

rispetto a situazioni, problemi e soggetti specifici.

Tali competenze possono essere sviluppate da ciascun attore sociale, ma

possono essere anche attribuite in maniera condivisa ai diversi soggetti,

in modo che non tutti debbano fare tutto, mentre tutti dovrebbero

comprendere la logica generale e ciascuno sviluppare competenze

specifiche.

La progettazione

Uno dei modi per implementare strategie finalizzate per promuovere gli

apprendimenti consiste nella progettazione che, prima che una tecnica

con cui si possono elaborare e predisporre interventi, è una logica, un

modo di muoversi, un modo di pensare.

Progettazione è anche un modo di sentire e sentire con gli altri, è quindi

un modo di mostrare “affetti”, perché la progettazione contiene una forte

dimensione socio-affettiva: progettare, e progettare con altri, può implicare

sentimenti di rabbia, delusione, frustrazione e entusiasmo, essendo in gioco

non solo elementi tecnici, ma le persone nella loro globalità. Progettazione

è infine fare delle cose concrete e non solo pensare astrattamente delle

ipotesi di lavoro.

Un filone della progettazione sociale, che viene qualificato con aggettivi

quali concertativo, partecipativo, negoziale, dialogico, indica la scelta di

non progettare autonomamente, secondo una logica di razionalità assoluta

e lineare che erige il “progettista” ad una posizione di “regista”, ma secondo

un approccio che presuppone l’attivazione di processi molto faticosi e a

volte confusi, nel corso dei quali ci si confronta, ci si contamina e ci si

misura anche con forme di conflitto esplicito.

Questi processi di progettazione partecipata sono fortemente influenzati

anche da una dimensione culturale, cioè da una modalità specifica di

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pensare e fare la progettazione.

Progettare significa “gettare lo sguardo avanti”, “immaginarsi la strada”

e anche “come fare a percorrerla”. Esistono però modi molto diversi di

declinare la progettazione secondo una propria cultura, che è una cultura

non solo personale, ma anche organizzativa, istituzionale, locale, sociale,

ecc.

La cultura che si adotta per progettare conferisce una connotazione diversa

alle parole che si utilizzano, per cui lo stesso temine “partecipativo” può

assumere significati diametralmente opposti.

In questa prospettiva si possono individuare nelle diverse esperienze di

lavoro sul campo tre diversi significati culturali attribuiti alla “progettazione”,

che evidenzino delle differenze significative nelle modalità che si possono

adottare per progettare con gli altri:

- progettazione come controllo, cioè come modalità per controllare le

situazioni: il progetto viene proposto come strumento illusorio per

poter controllare la molteplici e contraddittorie variabili della realtà (il

disagio, la devianza, il benessere, …). È una cultura del controllo che

induce questa richiesta di progettazione e che influenza fortemente gli

interventi che verranno messi in campo;

- progettazione come affermazione di sé: i progetti sono concepiti

come modalità per esprimere socialmente agli altri il “nostro”

modo di intendere una particolare problematica (che sia l’affido, la

tossicodipendenza, la dispersione scolastica o il disagio giovanile o

qualsiasi altra questione). Attraverso il progetto si intendono affermare

un approccio e una identità particolare. In altri termini il progetto

diviene uno strumento per capire meglio chi si è, per chiarire la propria

identità. Il rischio di questo approccio è che la progettazione, anziché

proporsi come strumento di facilitazione di dialogo, costituisca un

ostacolo all’incontro fra diverse identità e diverse rappresentazioni dei

problemi;

- progettazione come dialogo, sviluppata all’interno di culture

effettivamente aperte al confronto, che concepiscono la progettazione

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come un modo per capire meglio i problemi, attraverso il dialogo e il

confronto con gli altri, insegnando e imparando reciprocamente delle

cose, lasciandosi contaminare e influenzare, senza predefinire tutto a

priori (come avviene nella cultura del controllo), ma essendo aperti agli

esiti anche imprevedibili che il dialogo può produrre.

La questione critica che si pone nei confronti dei percorsi di progettazione

che si definiscono come partecipativi, condivisi e negoziali, ecc., è che

bisogna andare oltre le definizioni formali, per confrontarsi con le culture

che sono ad esse sottesi e che determinano nella pratica le finalità e le

modalità di lavoro che vengono effettivamente adottate.

Le difficoltà ricorrenti nei processi di progettazione partecipata spesso non

dipendono dalle tecniche di progettazione, ma dalle culture con le quali

gli individui e le organizzazioni entrano nel gioco progettuale. Quando

c’è coerenza tra modello di progettazione partecipata e cultura della

progettazione, i processi di progettazione risultano produttivi ed efficaci,

altrimenti è fortemente probabile che emergano in itinere difficoltà ed

ostacoli.

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ACCOMPAGNARE E SOSTENERE I PROCESSI DI

APPRENDIMENTO

di Elena Righetti

In riferimento al concetto di apprendimento si possono individuare almeno

tre diversi schemi interpretativi che possono aiutare a comprendere le

strategie di apprendimento adottate dai diversi soggetti che affrontano

compiti di conoscenza.

Il costruttivismo

Propone una chiave di lettura dei meccanismi di produzione della

conoscenza innovativa nel panorama dell’epistemologia moderna, poiché

consente di superare la dicotomia, dominante nella filosofia precedente,

fra soggetto che conosce e oggetto di conoscenza.

Il soggetto che conosce, con la sua individualità e personalità, produce

conoscenza intorno alla realtà impiegando molti strumenti di

conoscenza.

Secondo l’approccio costruttivista il soggetto conosce l’oggetto utilizzando

gli strumenti che ha a disposizione in un dato momento. C’è una stretta

relazione fra ciò che il soggetto può conoscere di un dato oggetto e gli

SOGGETTO CHE CONOSCE

OGGETTO DI CONOSCENZA

STRUMENTI DI CONOSCENZATesti, esperienze,

tecnologie, relazioni...

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strumenti che utilizza per comprendere quell’oggetto.

Questi strumenti infatti vengono di volta in volta adattati all’oggetto che

deve essere conosciuto e quindi si modificano costantemente. Questa

modificazione influisce a sua volta sul soggetto che, da questo momento,

disponendo di strumenti che gli offrono nuove possibilità di conoscenza, si

trova di fronte un oggetto che appare modificato a sua volta e che sollecita

un ulteriore cambiamento degli strumenti conoscitivi da adottare, in un

processo ricorsivo di conoscenza e innovazione.

Da questo punto di vista l’oggetto di conoscenza non è scindibile dal

soggetto che conosce. Non si conosce quindi qualche cosa completamente

esterno dal soggetto, ma un oggetto per poter essere conosciuto deve

entrare in interazione con gli elementi della triangolazione descritta:

soggetto, strumenti, oggetto.

In questo approccio epistemologico non si parla quindi di una “verità”

dell’oggetto, ma di una conoscenza interpretativa dell’oggetto: cioè

non esiste una realtà oggettiva assoluta che viene compresa attraverso

l’applicazione progressiva di competenze conoscitive univoche, ma si

possono avere diverse rappresentazioni della realtà che sono in stretta

relazione con il soggetto che conosce e gli strumenti che applica.

A corollario di questo schema interpretativo vi è un approccio alla

conoscenza improntato al relativismo: se ogni soggetto crea la propria

conoscenza, non esiste una verità, ma esistono tante verità (o meglio

rappresentazioni della realtà) quanti sono i soggetti che esercitano i

processi di conoscenza.

Lo schema di Kolb sul ciclo di produzione della conoscenza

Il processo di conoscenza si attua attraverso diverse tappe: quando si

conosce si parte da un fenomeno, da un dato empirico, da una esperienza,

si mette in moto innanzitutto un processo di osservazione, che implica

anche riflessione o elaborazione e che impegna tutti i sensi del soggetto

(spesso supportati da strumenti o protesi), che possono essere più o meno

sviluppati per ragioni interne al soggetto e possono essere più o meno

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stimolati da ragioni esterne.

Quindi già nel corso della fase di osservazione, il soggetto che conosce

influisce attivamente sui processi di conoscenza, mettendo in gioco nella

sua interazione con la realtà le proprie caratteristiche personali (utilizzando

ad es. i propri sensi o determinati strumenti di osservazione), culturali

ed etniche che contribuiscono a produrre una interpretazione del tutto

particolare di un fenomeno o di una esperienza.

Dopo la fase di osservazione e riflessione il soggetto è impegnato in una

fase di codificazione, in cui intervengono fattori sociali e culturali che

consentono di condividere, trasferire e riprodurre conoscenze. In questa

fase si costruiscono dei linguaggi, si definiscono delle regole e si attuano

delle convenzioni indispensabili per consentire il reciproco scambio delle

conoscenze.

Questo schema permette di evidenziare anche il fatto che fra esperienze e

simboli di codificazione vi è solo un rapporto indiretto, mediato da tutta una

serie di processi di osservazione, elaborazione e interpretazione che spesso

vengono trascurati e rimossi nell’analisi dei processi di apprendimento.

La costruzione di astrazioni, che rappresenta un processo conoscitivo

molto evoluto tipico dell’uomo, implica tutta una attività di selezione di

variabili e caratteristiche della realtà, finalizzata ad orientare la conoscenza

FENOMENO ESPERIENZE

OSSERVAZIONERIFLESSIONE

SPERIMENTAZIONE

CODIFICAZIONELINGUAGGI

SIMBOLI

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in funzione del suo efficace impiego in campi di applicazione specifici (la

fisica, la meccanica, ecc.) sulla base di precise regole e leggi convenzionali

che devono essere conosciute affinché la conoscenza possa essere

utilmente riapplicata alla realtà stessa.

Il processo di apprendimento non può quindi considerarsi completato ed

efficace se ci si limita a trasferire le conoscenze astratte (cioè descrizioni

parziali di fenomeni globali), senza permettere a chi desidera apprendere

di provare a riapplicare le conoscenze astratte alla realtà, attraverso una

fase di sperimentazione che consenta di cogliere le molteplici condizioni e

regole convenzionali che collegano le conoscenze astratte alla complessità

del reale e che permetta di ricomporre in un bagaglio culturale organico e

globale le conoscenze astratte derivanti dalle diverse discipline settoriali.

Anche in questo schema si può cogliere il carattere di ricorsività e

di innovazione costante che caratterizza i processi di conoscenza:

l’osservazione, la codificazione e la sperimentazione modificano il soggetto

che produce nuove interpretazioni della realtà che, a sua volta, induce

nuovi modi di essere e di percepire del soggetto e cosi via all’infinito.

Lo schema di Kolb può inoltre aiutare a cogliere alcuni inconvenienti

rilevabili nei processi di apprendimento, ad esempio quando il facilitatore

si lascia prendere dalla tentazione di passare troppo rapidamente dalla

realtà alle astrazioni intorno ad essa, senza dedicare sufficienti attenzioni

ed energie ai processi di osservazione e di sperimentazione, considerandoli

poco rilevanti, rimandandoli ad un futuro imprecisato (“oggi impara la regola

e un domani capirai a cosa serve”) o ad altri ambiti di apprendimento, non

a tutti accessibili. In questi casi si rischia di indurre gli alunni a confondere

o sostituire l’astrazione con la realtà o di sviluppare non una effettiva ed

efficace conoscenza, ma solo una forma di mimetismo cognitivo.

In questa prospettiva di analisi, prima dei contenuti dell’apprendimento,

sono le modalità di apprendimento e le modalità di facilitare l’apprendimento

ad assumere maggiore importanza, poiché sono fondamentali per

consentire un uso dei concetti astratti che dia effettivamente accesso alla

realtà concreta.

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Lo schema di Feuerstein

Lo schema di Feuerstein focalizza l’attenzione sulla funzione del mediatore

culturale o facilitatore e descrive i processi di apprendimento come una

successione di fasi attraverso cui un soggetto riceve degli input (stimoli

dall’esterno) ed elabora successivamente una reazione e delle risposte in

forma di output.

Nella fase di input il soggetto interpreta lo stimolo specifico (fenomeno,

domanda, ecc.) raccogliendo i dati e le informazioni per poi, in fase di

elaborazione, ordinarli e produrre interpretazioni, giudizi o spiegazioni

che, con l’impiego, in fase di output, di codici e linguaggi danno vita ad

una risposta o reazione in rapporto all’esterno.

Di tutta questa catena di processi di produzione di conoscenza, nella realtà,

si percepisce di solito esclusivamente l’ultimo anello, l’output.

Una tendenza che si osserva di frequente, ad es. in ambito scolastico, è

quella di focalizzare l’attenzione del facilitatore sulla verifica di congruenza

fra input e output, limitandosi a sanzionare l’output incoerente con il

risultato atteso, senza dedicare energie ad aiutare l’alunno a compensare

i deficit presenti nei diversi processi di apprendimento, inducendolo in tal

modo a sviluppare reazioni difensive di mimetismo cognitivo.

Funzione specifica del facilitatore dovrebbe invece essere quella di

aiutare gli allievi a ripercorrere tutte le fasi del processo di produzione di

conoscenza per individuare in quale di queste fasi si è prodotto il deficit

nella elaborazione dell’informazione che ha prodotto l’errore (che non è

quindi di per sé un deficit di intelligenza).

Secondo l’analisi teorica di Feuerstein, la mediazione tra un soggetto in

fase evolutiva e il reale costituisce un fattore fondamentale per aiutare

INPUT SOGGETTO OUTPUT

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il soggetto a costruire risposte efficaci. Quando questo non avviene,

per assenza di mediazione o per l’impiego di una funzione mediatrice

inefficace, è maggiormente probabile che il soggetto utilizzi nei processi

di apprendimento delle informazioni e delle conoscenze in modo non

efficace che lo portano a produrre degli output non utili.

In altri termini l’ipotesi proposta da Feuerstein è che i soggetti deprivati a

lungo di una funzione di mediazione culturale (genitori, insegnanti, ecc.)

fra sé e gli input proposti dalla realtà esterna abbiano maggiori difficoltà a

costruire delle risposte o tendano a produrre risposte non utili.

Secondo questa ipotesi interpretativa la funzione specifica del mediatore

è quella di andare a rilevare in quali aree si è verificato il deficit di

elaborazione degli input (per mancanza di dati o per utilizzo improprio

delle informazioni) e di introdurre dei programmi di mediazione mirata

e accelerata attraverso sistemi di addestramento cognitivo che possano

rinforzare i deficit di mediazione pregressi.

Il corollario allo schema interpretativo di Feuerstein è che è improduttivo

da parte del mediatore investire in strategie centrate sulla correzione degli

errori di output, perché questo tipo di correzione fa apprendere solo chi

corregge e non chi produce l’errore, mentre risulta più utile adottare delle

strategie basate su una relazione di mediazione tra il soggetto e gli input.

A livello astratto si possono individuare tre differenti stili di

apprendimento:

• stile globale-sistemico che caratterizza quei soggetti che per apprendere

necessitano di acquisire preliminarmente una conoscenza dell’ insieme

di un fenomeno: questo stile permette di elaborare intuizioni creative

e interessanti ma che possono rivelarsi dispendiose e a volte poco

funzionali in rapporto alla specifica situazione;

• stile analitico-sequenziale tipico dei soggetti che procedono nel percorso

conoscitivo passo dopo passo, scomponendo in modo sistematico i

fenomeni nei loro elementi essenziali: è uno stile che aiuta a svolgere

una analisi precisa della realtà, ma che spesso rende difficile la

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ricomposizione in soluzioni di sintesi;

• stile esperienziale-manipolativo, che si riscontra in chi predilige

costruire conoscenza a partire da un presa di contatto diretta della

realtà da indagare; è uno stile che consente di produrre conoscenza

contestualizzata, ma che sconta la difficoltà nell’estrapolare regole e

costanti interpretative.

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UN LABORATORIO DI COMUNITÀ

di Piergiorgio Reggio e Franco Floris

Piergiorgio Reggio Perché proporre un approccio critico alla comunità?

Sostanzialmente perché il termine “comunità”, assunto in certe accezioni,

costituisce proprio il primo ostacolo ad una piena comprensione e

valorizzazione di questa dimensione sociale.

Se si prova ad interrogare le persone, anche quelle impegnate nei processi

educativi (genitori, insegnanti educatori, ecc.), intorno al concetto di

comunità, si raccolgono solitamente molte definizioni diverse, ma tutte

in genere riferiscono qualità molto positive, individuano luoghi o vissuti

ricchi di significati, inerenti la coesione, la capacità di comprensione, di

aiuto e di solidarietà reciproca, tutti elementi messi in correlazione con il

termine comunità.

Le valutazioni più critiche e problematiche vengono riservate non tanto alla

dimensione comunitaria, ma alla sfera individuale o alla sfera politica.

In queste rappresentazioni la comunità emerge sempre come elemento di

positività assoluta che viene così contrapposta in modo spontaneo e diretto

al mondo delle istituzioni, della politica, ecc. connotati negativamente.

Questa polarizzazione trova una sua giustificazione storica e teorica nella

più classica trattazione sociologica sulla comunità svolta da F. Tonnies

(1887), il quale affermava che “comunità” è tutto quello che si oppone

a “società”, descritta come dimensione maligna e pericolosa in quanto

animata da relazioni concorrenziali, strumentali, conflittuali, mentre

la dimensione comunitaria (famiglie, associazioni, gruppi religiosi, reti

sociali, ecc.) costituisce una ambito protettivo, affettivamente caldo, dove

si sperimenta qualcosa di comune.

Questa concezione di importanza storica di Tonnies ha finito, nel tempo,

per rappresentare però un ostacolo alla comprensione del concetto di

comunità perché impedisce di vedere nella società quegli elementi che

sono essenziali per la costruzione di positive condizioni di convivenza e di

esperienze significative di cooperazione, così come impedisce di cogliere

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nei diversi ambiti che vengono connotati come comunitari gli elementi di

criticità e di negatività.

Se si resta imbrigliati in questa contrapposizione superficiale e ideologica,

non si riesce ad utilizzare i concetti di società e comunità in modo più

ricco e produttivo.

Si registra spesso, nelle analisi intorno alla comunità, una distanza tra

la comunità desiderata e la comunità reale. Si tende in altri termini ad

esplicitare prevalentemente le idee relative a come si desidera che sia

(luogo di buone relazioni, di coesione sociale, di solidarietà) lasciando

invece impliciti gli aspetti che evidenziano le criticità che si riscontrano

nella comunità reale.

Quando si vogliono sviluppare analisi in relazione ad ambiti comunitari,

come, ad esempio, la scuola, l’ospedale, la casa di riposo, ecc., luoghi che

i diversi filoni della sociologia delle organizzazioni e della psicologia di

comunità considerano come delle comunità organizzative, oltre a rilevare

gli elementi che rispondono alle attese ideali, bisogna considerare al tempo

stesso anche gli elementi di concretezza che riflettono le contraddizioni

che caratterizzano le esperienze reali.

Se non si supera la concezione ideologica che contrappone comunità

a società e se non si considerano le distanze fra una idea di comunità

desiderata e una visione critica della dimensione comunitaria reale, si

rischia di non riuscire a valorizzare pienamente quanto di ricco e positivo

si può riscontrare nei contesti comunitari e si fatica maggiormente

a rispondere al bisogno di comunità che le persone avvertono a livello

individuale e a livello sociale, cioè al bisogno irrinunciabile a stabilire

con gli altri situazioni di buona convivenza, di positiva comunicazione, di

coesione e di appartenenza.

E’ quindi indispensabile assumere criticamente il concetto di comunità

nelle diverse analisi, perché se il bisogno di comunità viene trascurato o mal

interpretato, si ingenera nelle persone un vissuto di disagio profondo.

Come può essere affrontato secondo un approccio critico il tema della

comunità, senza dover rinunciare a ricercare risposte al bisogno di

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comunità, magari proprio facendo finta che sia una dimensione solamente

positiva e rassicurante?

Si tratta di assumere una prospettiva un po’ diversa da quella tradizionalmente

più diffusa, che rappresenta la comunità come una presenza, un tutto, un

pieno che contiene significati, valori, ecc. che istituiscono l’identità di un

individuo.

R. Esposito (1998), un filosofo italiano che ha pubblicato studi molto

interessanti sulla comunità, afferma che la visione della comunità come

“pieno”, come senso di realizzazione della identità delle persone, è una

visione molto ingenua. Infatti secondo questo studioso, la comunità, anche

etimologicamente, è più facilmente riportabile al significato opposto,

all’idea di un “vuoto”, di un’assenza, di un bisogno di qualcosa che non

c’è.

La comunanza di ideali, di valori, di stili di vita …, così come sono ad

esempio ben descritti nel film “L’albero degli zoccoli” di E. Olmi, non è

più sperimentata dalle persone ai giorni nostri: oggi infatti si vive piuttosto

l’esperienza della solitudine, della distanza, dell’assenza di legami.

Esposito afferma che “communis” è opposto a “proprius”, proprio, di

esclusiva appartenenza: comune è dunque ciò che non è proprio. In altri

termini secondo questa lettura la dimensione comunitaria inizia dove il

proprio finisce.

Ciò che è “communis” quindi non è oggetto di proprietà o appartenenza

individuale, ma è ciò che appartiene a molti e che si richiede di condividere

con gli altri. Quella comunitaria è quindi una dimensione tutt’altro che

idilliaca, perché in essa non c’è più un qualcosa di proprio ed esclusivo,

perché si ha a che fare con qualcosa degli altri, a maggior ragione oggi che

“proprius” e “communis” non coincidono più.

Quando si supera la soglia di “ciò che è proprio” per entrare in “ciò che è

comune”, si opera un atto di rinuncia a qualche cosa - alla propria libertà,

alle proprie idee e alle proprie aspettative - per accettare di condividerle

con gli altri, sperimentando in tal modo una privazione, un’assenza e, di

conseguenza, sentendosi per questo meno tranquilli e sicuri.

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Esposito evidenza come al termine “comunità” è etimologicamente

correlato il termine “munus” che in latino significa “dono”, però in un

accezione particolare e diversa dal termine “donum”, che individua ciò

che si può reciprocamente offrire e ricevere. “Munus” è invece il dono

inteso univocamente come un dare, un dare un qualcosa di dovuto più che

di offerto o scambiato, nel significato che è stato conservato nel termine

italiano “munifico”.

Secondo questa accezione si entra in una comunità quando si offre qualche

cosa, senza che sia previsto che si possa ricevere necessariamente in

cambio qualche altra cosa. In altri termini le regole del gioco comunitario

prevedono che si dia e basta, senza che si riceva, anche se vi può essere

una aspettativa implicita di vantaggio reciproco.

Viene allora da chiedersi perché gli individui siano spinti ad accettare un

gioco in cui ci si priva gratuitamente del proprio?

Ciò avviene perché nelle persone è presente una spinta irrinunciabile

a legarsi agli altri e la soddisfazione di questo bisogno implica un costo

che le persone sono disposte a pagare aderendo ad ambiti comunitari,

cosa che comporta appunto un atto di privazione, di rinuncia a parte del

“proprius”. L’alternativa sarebbe rinunciare alla comunità per affermare

solo il “proprius”, entrando però in una deriva di totale solitudine.

Esposito non definisce la comunità come qualcosa che si basa su un ideale

comune da realizzare, ma piuttosto come “insieme di persone (gruppi,

istituzioni) unite non da una proprietà comune ma da un dovere o un debito.

Non da un più ma da un meno, una mancanza, un limite che si configura

come un onere” (Esposito, 1998).

La situazione paradossale di questa idea di comunità è che tutti al tempo

stesso hanno dato qualche cosa, istituendo in questo modo un patrimonio

comune, ma tutti hanno un debito nei confronti degli altri.

L’appartenenza alla comunità è quindi fondata su una mancanza, su un

bisogno che può essere soddisfatto solo donando unilateralmente qualche

cosa, senza che sia sancito a priori il diritto a pretendere qualche cosa in

cambio.

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Se si adotta questa prospettiva si entra nella logica che non c’è più

un’identità da affermare (la nostra comunità è …), ma c’è un bisogno

irrinunciabile di stare insieme che richiede di stare al gioco comune,

offrendo unilateralmente le proprie risorse. Ma questo gioco comunitario,

che prende avvio da una rinuncia e da un’assenza, permette di produrre

un patrimonio nuovo, una nuova e più potente creatività, che dà vita a

qualcosa che non esiste ancora, e non si limita a perpetuare e a ripetere

l’esistente.

Un altro autore, Bagnasco (1999), ritiene che oggi si possano individuare al

massimo delle “tracce di comunità”, perché non esiste più una dimensione

comunitaria in senso complessivo. Si generano “tracce di comunità”

quando gli individui riescono a creare dei legami significativi nei diversi

contesti di vita.

I servizi dell’extrascuola in questa prospettiva possono essere considerati

delle interessanti “tracce di comunità” istituiti in rapporto al bisogno/diritto

di apprendere.

Questi approcci alla comunità consentono di operare un passaggio da

una visione della comunità intesa come identità già costituita che si deve

affermare, a quella di una comunità fondata su una “assenza” di qualche

cosa (ad es. le possibilità di pieno apprendimento, le opportunità di crescita,

il riprodursi di una cultura) di cui gli individui hanno bisogno e per cui

sono disposti a investire per costruire qualcosa di nuovo e inedito.

Franco Floris L’esperienza della “mancanza” è alla base del bisogno di

comunità. La comunità si genera quando si esprime la capacità di fare

impresa, di promuovere intraprese locali per provare a convergere intorno

a quella mancanza che manifesta un disagio diffuso e sollecita delle

risposte concrete.

La comunità è quindi la risultante delle diverse intraprese sociali che si

generano all’interno di un dato contesto sociale, è il depositato di queste

imprese in termini di legami tessuti, di patrimoni comuni istituiti (come lo

possono essere una fabbrica, una scuola, un oratorio, un’associazione).

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La comunità non implica tanto un totale accordo fra i diversi componenti,

ma piuttosto la capacità di interagire fra diversi a partire dalla percezione di

una mancanza e dallo sperimentare la possibilità di far convergere risorse

per costruire risposte adeguate ai problemi.

In altri termini la comunità procede non da una sorta di utopia del fare

insieme, ma dall’urgenza di affrontare dei problemi avvalendosi di risorse

collettive e pubbliche.

Le comunità quindi sono legate a un desiderio collettivo che si genera

in reazione a una mancanza e stimola ad avviare la ricerca di nuove

soluzioni.

Ancora, la comunità può essere considerata il minimo comun denominatore

tra le diversità, è cioè quel minimo che tiene insieme le diversità e che

permette agli uni e agli altri di sovrapporre parte della loro avventura,

mantenendosi nella diversità, in maniera tale che la convivenza e la comunità

siano legate non tanto ad un’idea astratta di solidarietà, ma alla capacità di

creare il minimo di condizioni, di legami, di riconoscimenti, di diritti che

permette di comunicare tra mondi diversi e di far convergere questi mondi

per costruire imprese comuni. Senza dover essere d’accordo su tutto, ma

disponibili almeno a sovrapporsi parzialmente e a contaminarsi. Quella

piccola area di intersezione individuata da queste imprese costituisce la

comunità o, se si vuole, le cosiddette “tracce di comunità”.

In questa prospettiva anche le istituzioni sono forme di comunità, in quanto

sono il frutto di pratiche consolidate e socialmente riconosciute come

efficaci per governare e affrontare i problemi da parte di una comunità.

All’interno dei contesti sociali è importante che si sviluppi una capacità di

interazione e di partnership efficace fra le reti primarie e le reti politiche

e istituzionali, proprio perché non è più sostenibile una contrapposizione

fra sfera comunitaria e sfera sociale.

Piergiorgio Reggio Se si assume la logica interpretativa dell’assenza per

comprendere il concetto di comunità, il “problema”, così come viene

definito in una prospettiva pedagogica e sociale qualsiasi situazione di

mancanza o di disagio, assume un carattere di centralità. Il problema inteso

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non necessariamente come grave situazione minacciosa e drammatica,

ma più spesso come situazione di insoddisfazione o di inquietudine o

comunque come situazione che stimola un investimento collettivo di

risorse.

I problemi possono essere affondati in tanti modi e uno di questi è

l’assunzione di una logica di progetto (proiectus, gettato avanti, dal latino

proicere), cioè gettare lo sguardo avanti e pensare delle soluzioni possibili

per dare vita a interventi che tentano di affrontare i problemi.

Quindi quando l’educazione tenta di costruire comunità, non lo fa a partire

da iniziative routinarie da riproporre, ma più spesso dal tentativo di dare

una nuova risposta ad un determinato problema.

Se la comunità non è qualcosa di definito a priori, già scritto e quindi

rassicurante e nel quale tutti si riconoscono e di cui tutti riconoscono

l’identità, non c’è nulla da affermare, non c’è niente da ribadire ogni volta,

ma c’è ogni volta qualcosa da costruire attraverso un progetto in relazione

a ciascun problema avvertito comunemente.

Il bisogno di identità trova perciò risposta, non tanto attraverso

l’appartenenza ad una data comunità, ma attraverso le risposte che si è

capaci di produrre di fronte ai problemi.

E’ necessario superare l’equivoco che l’identità comunitaria sia una

risposta data una volta per tutte (come una carta di identità che si può

esibire per sentirsi comunità), essa è piuttosto qualcosa che richiede di

essere costruito ogni volta nell’interazione con i diversi problemi.

E’ molto pertinente in questo senso la definizione data da Floris della

comunità come “comun denominatore delle differenze”.

Come si costruiscono allora la comunità e l’identità?

Accettando il fatto che non c’è uno di noi uguale agli altri.

Da questo punto di vista il fenomeno dell’immigrazione ha rappresentato

un’interessante opportunità per prendere atto e coscienza della portata

delle differenze che da sempre caratterizzano i gruppi sociali (che sia la

classe, la squadra sportiva o altro), coscienza rispetto alla quale ormai non

si può più tornare indietro e che invita a discutere anche di tutte le altre

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differenze. Il fenomeno dell’immigrazione in altre parole ha imposto di

trovare nuove soluzione per tenere assieme le diversità culturali introdottesi

nei nostri contesti.

Il filosofo Esposito, a questo proposito, afferma, in modo più estremo, che

il minimo comun denominatore che istituisce una comunità è il nulla,

che cioè il solo fatto di condividere uno spazio, un tempo o un’esperienza

costituisca di per se stesso l’atto di adesione implicito ad una dimensione

comunitaria.

Per quanto riguarda la possibilità di fare educazione a livello locale è

necessario partire dalla premessa che oggi la dimensione locale rappresenta

una situazione molto rara di fronte ai processi di delocalizzazione e

globalizzazione che hanno caratterizzato la realtà contemporanea.

Parlare di “comunità locali” quindi significa parlare di qualcosa di

“delocalizzato” che non corrisponde necessariamente ad un territorio fisico

precisamente definito come in passato (il quartiere, il comune, ecc.).

In questo senso il concetto di “locale” non può essere dato per scontato e va

ogni volta ridefinito. Inoltre il locale implica tutto un insieme di diversità,

la più macroscopica oggi è quella delle etnie, ma non bisogna trascurare

anche le altre: maschio/femmina, istruiti/non istruiti, occupati/disoccupati,

occupati stabilmente/occupati precari, ecc.

Non è più neppure possibile ragionare affidandosi a macrocategorie

sintetiche (bambino, giovane, ecc.); si tratta invece di far emergere in ogni

situazione e contesto gli elementi di eterogeneità e di omogeneità.

Non ci si può aspettare che tutti questi elementi di differenziazione possano

ricomporsi magicamente in una dimensione comunitaria ideale, perché

spesso gli elementi di differenziazione entrano in conflitto o generano

diffidenza o presa di distanza reciproca.

Per costruire un minimo comun denominatore fra questo frammentato

insieme di differenze è necessario assumere gli aspetti culturali (come le

convinzioni sul mondo e sul modo di vivere, gli stili di vita, i valori guida,

ecc.) che caratterizzano le persone e i gruppi per trovare dei codici che

possano attraversare le culture e permettere di avviare delle elementari

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forme di dialogo.

Il lavoro orientato all’individuazione di un codice culturale comune

è fondamentale per consentire forme di comprensione reciproca e di

condivisione su problemi comuni.

E’ nella dimensione sociale, intesa come spazio intermedio tra privato e

pubblico, che si possono radicare le “tracce di comunità” che, di volta in

volta, possono ripercorrere itinerari aperti da altri soggetti ed esperienze o

possono aprire nuovi sentieri. Nel documento del Laboratorio provinciale si

definiscono i progetti extrascuola, in modo molto opportuno e suggestivo,

come dei “reticoli comunitari” nel sociale.

Quanto più questi reticoli comunitari si sviluppano, crescono e si radicano

in un contesto territoriale, tanto più è ricca una comunità, tanto più

i codici culturali di reciproca comprensione sono efficaci e tanto più è

facile intendersi a livello culturale, interprofessionale e interpersonale,

ad esempio fra insegnanti e animatori dell’extrascuola, fra genitori e

educatori, fra autoctoni e stranieri, ecc.

Che significato può assumere l’educazione in questa prospettiva

comunitaria?

La realtà attuale è fatta di tante e diversificate azioni educative proposte

all’interno di una comunità. Si tratta di osservare queste azioni, nella loro

dinamicità e nel loro intrecciarsi in un’ offerta complessiva e articolata.

Questa offerta attraversa gli innumerevoli percorsi dei ragazzi fra loro

diversi, che passano da un ambito ad un altro e che, da un lato disseminano

e diffondono nei diversi luoghi educativi i vari saperi mano a mano acquisiti

e, dall’altro, sono chiamati a produrre una sintesi personale dell’intreccio

delle esperienze di apprendimento sviluppate nei diversi ambiti di vita.

Bisogna però considerare che non sempre e non tutti i ragazzi sono in

grado di produrre questa sintesi e di dare una forma adeguata all’intreccio

dei diversi saperi. In questo caso si rileva un deficit di apprendimento,

questi ragazzi cioè non riescono ad imparare ed hanno bisogno di un

sostegno e di una mediazione.

In questo senso tutti i soggetti della comunità locale, dalla scuola,

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all’amministrazione comunale, ecc. sono chiamati a contribuire alla

realizzazione di una educazione comunitaria, tenendo conto che già il

modo di rapportarsi proposto da ciascun soggetto sociale ai cittadini

genera educazione, in quanto propone un modello educativo, veicola dei

valori, ecc.

Oggi l’educazione non è più parcellizzabile, come un tempo, quando

ogni soggetto operava per settori differenziati (istruzione, educazione,

formazione, ecc.), ma si produce globalmente, in maniera indistinta,

cosicché a scuola non si istruisce e basta, ma si educa, si propongono

valori, così come in famiglia ci si può istruire, ecc.

Si può dire dunque che oggi nell’esperienza delle persone l’educazione

è globale perché si genera attraverso le innumerevoli esperienze che le

persone vivono e attraverso il lavoro di composizione e sintesi che esse

riescono ad operare.

Tutto ciò ha cambiato completamente la forma dell’educazione che oggi

non può più essere unicamente basata sulla trasmissione per via formale

delle conoscenze acquisibili, ma che si sviluppa ormai prevalentemente

per via esperienziale.

L’ipotesi di lavoro proposta punta sulla possibilità di partire da ciò che

esiste, perché oggi c’è poco che richieda di essere inventato ex novo. Si

tratta piuttosto di valorizzare l’esistente e riconoscerlo, individuare tutti

i diversi fili che si annodano e trovare delle modalità “interculturali”,

cioè che attraversano le culture dei vari ambiti e gruppi, per far sì che

le persone possano imparare. Si tratta quindi di creare l’opportunità, per

ragazzi e adulti, di acquisire, attraverso una costante interazione, l’insieme

dei codici che consentono di capirsi nel passaggio fra i vari luoghi di vita

e di capire la complessa variabilità della realtà.

Se i ragazzi e le ragazze imparano in modo interculturale, sapranno

decodificare quanto dice la maestra, ciò che dice l’animatrice del

pomeriggio, ciò che dice il genitore, ciò che dice il vicino, ciò che dice il

vigile, ecc.

Se invece essi/e non riescono a possedere e utilizzare in modo appropriato

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questi codici interculturali, allora è necessario che qualcuno li aiuti

ad acquisirli, perché altrimenti non saranno in grado di continuare ad

apprendere, non per un problema linguistico o di deficit intellettivo.

In che cosa si traduce operativamente questa ipotesi di lavoro?

In una serie di azioni, la maggior parte delle quali già in campo, che

tuttavia devono essere intenzionalmente proposte in modo coordinato, che

riguardano gli aspetti educativi legati alle diverse discipline scolastiche, ma

includono anche le altre forme di educazione: l’educazione alla cittadinanza

(comprendere le modalità di essere cittadini in un dato paese, capire le

regole ma anche i modi di interpretarle), lo sviluppo delle competenze

sociali (comunicare con altri, risolvere problemi e conflitti, cercare lavoro,

negoziare, comprare, vendere, ecc.), l’educazione ambientale, al consumo,

alla pace, l’educazione degli adulti, ecc.

Questi percorsi costituiscono l’educazione comunitaria, se divengono

l’espressione e la risultante dell’impegno consapevole di una comunità

che si occupa concretamente delle proprie questioni e propone ai cittadini,

che siano giovani, adulti o anziani, di farsene carico.

Mentre una comunità si occupa in questo modo delle diverse questioni

che è chiamata ad affrontare produce anche educazione e al tempo stesso

sviluppa delle tracce di comunità, produce cioè concrete azioni sociali di

costruzione della comunità.

In questo senso realizzare un progetto extrascuola è un’azione educativa

e al tempo stesso è un’azione sociale molto forte, in quanto esemplifica

davanti alla intera comunità che esiste un problema e che è possibile

affrontarlo: in questo caso si riconosce che ci sono dei ragazzi che, per

motivi diversi, ma di solito non legati a fattori di inadeguatezza personale,

non ce la fanno da soli, e si dimostra anche che, se essi vengono posti in un

contesto ambientale e relazionale adeguato, sanno cavarsela anche loro.

L’extrascuola costituisce una forma di educazione indiretta, non solo per

i ragazzi che vengono a fruire delle attività proposte, ma anche per coloro

che, giovani, adulti, professionisti e volontari, progettano e propongono

queste esperienze, oltre che per gli altri, non fisicamente ma “socialmente

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presenti” (amministratori, insegnanti, tecnici, gruppi sociali, comitati

genitori, ecc.).

Un progetto extrascuola è infatti educativo nei confronti della comunità

stessa, perché dimostra alla cittadinanza che i problemi vanno riconosciuti

e sono affrontabili.

Quindi, come si diceva, oggi non si tratta tanto di inventare forme di

risposta inedite, quanto piuttosto di rileggere l’esistente e di spiegarlo agli

altri, per comprenderlo in una maniera diversa, ad esempio facendo capire

che le comunità stesse possono educare.

Franco Floris Il concetto di codici culturali evocato in precedenza da Reggio

richiede alcuni approfondimenti.

L’idea di lavorare sui codici culturali fa riferimento alla capacità di

dare significato alle esperienze che ognuno sta facendo nell’ottica

dell’apprendere a fare comunità, cioè a quella tensione ad affrontare

i problemi non rinchiudendosi nell’area settoriale di diretta e stretta

pertinenza, ma provando a costruire reticoli sociali che permettano di

“sortire insieme dai problemi”, per dirla con le parole di Don Milani.

Quello che si sta riscontrando è che il deficit culturale va di pari passo alla

fatica di fare comunità, come se le persone e i gruppi sociali, non riuscendo

a interpretare e a dare significato alle esperienze e alle regole con cui si

sta giocando, si rifugiassero nel tribalismo, nelle chiusure, condannandosi

alla incapacità di rigenerarsi come comunità dentro i territori.

Questa situazione pone un problema in più: tutti i luoghi prima elencati

da Reggio (scuola, oratorio, centro di aggregazione, famiglia, ecc.) stanno

faticando a “fare laboratorio”, cioè a proporsi come luoghi privilegiati

di interazione con la pluralità delle esperienze e di sintesi dei saperi

acquisiti.

Questo significa che la scuola non riesce ad essere sufficientemente

generativa, non lo è lo sport, stanno faticando ad esserlo l’oratorio,

l’associazionismo.

L’idea che è maturata all’interno del Laboratorio provinciale extrascuola è

che tutti questi luoghi devono sforzarsi di reinventarsi come “laboratorio”,

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cioè luoghi dove, mentre si fanno le lezioni, le attività, le esperienze…, si

prova a esplorare il significato delle regole con cui si sta giocando e il senso

delle cose che si stanno facendo.

Ciò implica che il modo di fare sport, di fare oratorio, ecc. ha da farsi

laboratorio, cioè ambito che sa dare parola ai ragazzi per esprimersi

sull’esperienza che stanno vivendo dal punto di vista emotivo, affettivo,

relazionale, che sa dare loro la possibilità di vivere azioni collettive

significative per tutta la comunità, che li stimola e aiuta a cogliere il senso

delle proprie esperienze in contesti sempre più complessi.

Se c’è un deficit a livello culturale e di istruzione è necessario chiedersi

come i problemi relativi a queste due dimensioni (che coinvolgono tempo

scuola e tempo libero, esperienza scolastica e aggregazione nel territorio)

possono essere assunti a livello comunitario. E’ in questa prospettiva che

l’idea di fare laboratorio deve pervadere un certo modo di lavorare in

rapporto alle nuove generazioni.

Anche la famiglia è sollecitata a farsi laboratorio, a farsi luogo di interazioni

e di risignificazione e dunque di apprendimento dei codici e delle regole

con cui, come famiglia e come singoli componenti, si sta giocando.

L’impresa Extra.Lab, come è stata definita nel Laboratorio provinciale

extrascuola, ha proprio a che fare con questo tipo di problemi ed è un tipo

di impresa che non può essere delegata ad alcun soggetto sociale singolo,

perché è propriamente un’impresa di comunità.

Due sono i motivi che stimolano a investire su imprese Extr.Lab.

Innanzitutto chiunque in questo periodo storico si impegna a sviluppare

imprese culturali ed educative risulta vincente, perché permette di uscire

dall’assistenzialismo, ma soprattutto consente di produrre cultura per

comunità che in tal modo potranno rigenerarsi, avere prospettive di

sviluppo.

In secondo luogo bisogna considerare che la comunità spesso si è

sviluppata intorno all’aver cura delle sue parti più deboli: gli anziani,

i malati, i bambini, i portatori di handicap... Ogni impresa di comunità

promossa in questi ambiti assume una forte capacità formativa rispetto

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alla comunità. Di conseguenza, investire su queste problematiche appare

oggi fondamentale.

Quali sono invece le questioni che emergono in relazione alla necessità di

fare fronte ai problemi di natura culturale e che attengono l’istruzione?

Una comunità non riesce a far propri questi problemi se al suo interno non

nasce un gruppo promotore.

Da sempre la comunità, nella sua ricerca che oscilla fra mancanza e

desiderio, esprime aggregazioni che possono nascere nell’ambito del

volontariato, della scuola, della pubblica amministrazione o di una

qualche cooperativa. Diventa interessante allora andare a vedere quali

sono i soggetti che nelle diverse comunità stanno promuovendo imprese

di comunità, esplorare come hanno potuto costituirsi e svilupparsi.

Quando i soggetti promotori assumono una delega esclusiva su un

problema, e sono tentati di ricavarsi una propria nicchia, hanno già fallito,

perché anziché restituire alla comunità il problema, se lo tengono, magari

per procurarsi un lavoro, per reperire risorse o per altri motivi.

I gruppi promotori, trasformati in enti gestori, rischiano sempre la morte.

Le questioni di cui stiamo trattando sono così complesse che devono essere

costantemente “restituite” alla comunità affinché le possa affrontare da

più punti di vista, a più livelli, attraverso molteplici esperimenti.

Per dar vita a “reticoli comunitari”, reti leggere e trasversali ai vari mondi,

per smuovere mondi diversi a convergere intorno a un problema della

comunità, è necessario che si sviluppino gruppi promotori che si pongono

al servizio di una rete, che, prima di raccogliere fondi o gestire interventi, si

impegnino a far fermentare e connettere nei territori piccole reti interessate

a riflettere sulle modalità di uscire dai problemi.

Diversamente, non si esce dalla logica della gestione dei servizi, proprio

quando si stanno affrontando problematiche che non possono essere prese

in carico attraverso un approccio centrato su servizi settoriali, in quanto

necessitano di attenzioni plurime e articolate che è possibile attivare solo

attraverso patti locali capaci di mobilitare risorse diversificate.

Inoltre è necessario disporre di uno spazio pubblico dove il problema,

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finora preso in carico dalle reti della comunità portando a fermentare

disponibilità a livello istituzionale, motivazioni e energie collettive, possa

essere riconosciuto, per poi ricercare le condizioni idonee affinché reti

sociali e reti istituzionali possano individuare ipotesi di lavoro condivise

che diano senso all’azione di ognuno.

Una risposta efficace a questi problemi non può essere data autonomamente

dalle reti informali, ma può essere prodotta solo nell’ambito di una politica

locale sviluppata attraverso tavoli aperti a un’ampia partecipazione. La

soluzione di problemi come quelli su cui stiamo riflettendo non può

dipendere dalla singola microiniziativa, ma da un insieme di scelte politiche

di una comunità.

Ulteriore passaggio è quello della coprogettazione.

Non è possibile decidere su temi di natura educativa, culturale e sociale in

modo unilaterale. Bisogna evitare la tentazione della delega a qualcuno del

problema (cooperativa, associazione o gruppo volontario) per avviare in

tempi brevi una qualsivoglia azione concreta. E’ necessario saper sostare

per pensare, affinché la rete attivata possa comprendere da vicino quali

siano la natura e la consistenza delle sfide che si stanno affrontando, fino a

delineare una conoscenza locale del problema e gradualmente formulare

ipotesi di lavoro coerenti con i diversi punti di vista emersi nell’ambito del

laboratorio di progettazione.

Infine, quando si parla di coprogettazione intorno a questi problemi,

non si parla di un’unica azione, né di un’unica istituzione. Si sviluppa

coprogettazione dove i diversi soggetti si trovano insieme, discutono,

rielaborano, ma poi ad ognuno è richiesto di ripresentarsi al tavolo con

alcune assunzioni di responsabilità e con alcune ipotesi di attivazione in

prima persona in rapporto al problema. C’è coprogettazione quando diversi

organismi sociali si contaminano sul piano delle idee, delle scelte di fondo,

dei valori e delle ipotesi di lavoro e poi ci si sollecitano reciprocamente

a produrre progettualità diverse e specifiche, in riferimento al proprio

carisma. E si mettono in discussione, accettando che gli uni insegnino agli

altri e che ognuno possa orientare e consigliare gli altri.

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In questo modo si giunge a definire reciprocamente i rispettivi mandati

e i propri progetti specifici, sviluppando fantasia e creatività progettuale,

perché non esiste mai un’unica soluzione a un problema.

In rapporto alle problematiche affrontate dai progetti extrascuola le

soluzioni possibili possono riguardare ad esempio:

- la necessità di ripensare i poli aggregativi, interrogandosi ad esempio su

come sia possibile attivarsi come oratorio, come società sportiva, come

associazione culturale in rapporto ai problemi dell’apprendimento;

- la possibilità di reinteressarsi e di reinteressare i ragazzi rispetto al

significato che hanno la scuola, la cultura, l’apprendere, la creatività, il

senso di appartenenza, proprio a partire dal punto di vista di adulti che

supportano i ragazzi nella realizzazione dei compiti scolastici e nello

studio;

- la necessità di momenti e spazi dove alcuni problemi di caduta di

motivazione nei confronti della scuola possano essere affrontati

attraverso risposte di tipo intensivo e a termine: ad es. ripetizioni

ripensate e proposte da giovani volontari, più vicini alla sensibilità dei

ragazzi, esperienze di auto-mutuo aiuto e di peer education, ecc.;

- la necessità di una presa in carico anche comunitaria (oltre che scolastica)

dei disturbi gravi dell’apprendimento;

- la possibilità di trasformare i pomeriggi a scuola in opportunità per i

ragazzi di aggregazione, di promozione culturale, di sviluppo di creatività

e di partecipazione;

- la necessità di attivare (anche su impulso della scuola) reti di adulti e

di famiglie interessate a produrre cultura, a interrogarsi su problemi

educativi e sociali; se si aiutano anche gli adulti a elaborare e condividere

contenuti culturali e sociali oltre l’orizzonte della sfera privata, sarà più

facile che essi sappiano rapportarsi educativamente e culturalmente con

i propri figli.

E’ infine interessante che vi siano spazi in cui poter parlare delle esperienze

di extrascuola che si stanno portando avanti per capire da che parte si sta

andando. Il rischio è moltiplicare le esperienze, senza però appropriarsi

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del senso dei singoli percorsi e, di conseguenza, senza che si sviluppi

l’apprendimento di quei codici culturali attraverso cui è possibile avviare e

animare questo tipo di imprese.

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EXTRASCUOLA COME IMPRESA DI COMUNITÀ

di Andrea Sammali

Questo contributo intende centrare la sua attenzione sul tema del rapporto

fra i diversi soggetti che concorrono in una comunità all’apprendimento

dei ragazzi andando ad analizzare quali sono le modalità e le condizioni che

possono favorire lo sviluppo di interazioni cooperative tra organizzazioni

del territorio.

L’importanza di questa analisi deriva dalla constatazione che nei territori

ci si trova spesso a operare in gruppi di gruppi e che non è sempre facile e

neppure sempre utile operare in rete.

Un primo concetto che necessita di essere approfondito in questa analisi è

quello di “coalizione”, cioè quelle situazioni in cui più soggetti o gruppi si

mettono insieme per un obiettivo comune, una mission, una intenzionalità

e un desiderio comune.

Le coalizioni, i gruppi di gruppi, spesso insistono in un ambiente che ha

carattere di comunità.

Nonostante il forte dibattito intorno al concetto in crisi di comunità, essa

possiamo definirla come un aggregato di persone e cose (elementi naturali

del territorio, artefatti, servizi e prodotti, …) che interagiscono tra di loro.

È importante considerare che la qualità degli scambi tra persone e cose

e persone e persone determina il benessere, l’agio, la qualità della vita di

quella comunità. La sua cifra.

Analogamente si può dire che in una comunità la qualità dei processi di

apprendimento dei ragazzi dipende dalla natura, dalla frequenza e dalla

qualità degli scambi fra i diversi elementi della comunità stessa, in particolare

fra i soggetti che concorrono in varie forme all’accompagnamento, alla

crescita e allo sviluppo dei ragazzi.

E’quindi interessante ragionare sul tema delle coalizioni e dei rapporti tra

organizzazioni, non soltanto per verificare in quale modo un gruppo di

gruppi possa esprimere maggiore efficacia ed efficienza nel perseguire

determinati obiettivi, ma soprattutto perché riflettendo, discutendo e

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interagendo intorno alla complessità degli scambi che si attuano fra i diversi

soggetti (formali, informali, organizzati e non organizzati, istituzionali

e sociali, ecc.) si migliorano le potenzialità e i gli esiti dei giochi di una

comunità.

Territori sottoposti a rapide trasformazioni possono mantenere buoni

livelli di integrazione e di identità sociale se vengono assistiti da politiche

sociali e territoriali gestite consapevolmente in direzione della promozione

di positive interazioni in rete fra le diverse componenti. Territori lasciati

a se stessi possono con maggior probabilità andare incontro a rischi di

chiusura, frammentazione, esclusione, ecc.

In altri termini si può affermare che il modo in cui le agenzie educative si

pongono dentro la comunità e i rapporti di scambio che la caratterizzano

determinano la natura e la qualità della vita di una comunità e dei suoi

processi di apprendimento, formali e informali.

In questo senso le “coalizioni”, che possono essere definite come azioni

gruppali intenzionali orientate a un risultato, o, in altri termini, spazi-

tempi organizzativi che danno vita a relazioni comunitarie, creano pensiero

condiviso, integrano pensiero e prassi, alimentando le azioni sociali e, in

ultima analisi, possono sviluppare apprendimento sociale.

Tre sono in particolare gli elementi significativi che devono essere tenuti

presenti in una coalizione:

- senso: è necessario che all’interno di una coalizione siano sempre

aperte una riflessione e una discussione in merito al significato della

coalizione stessa (come si definisce, a cosa serve, che risultati persegue,

ecc.); attraverso questa riflessione si produce pensiero, si costruiscono

nuove rappresentazioni della realtà, nuovi apprendimenti sui problemi,

in altri termini una nuova cultura e la possibilità di esplorare nuovi ordini

simbolici, costruendoli nella circolarità azione-pensiero;

- desiderio: per affrontare le problematiche sociali non esiste solo l’approccio

del problem solving; il rischio che emerge dal partire sempre dai problemi

è quello di avvicinarsi a capire la realtà e tentare di trasformarla a partire

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da un versante depressivo. Un’azione sociale che prende avvio dalla

realizzazione di una volontà collettiva positiva, può invece presentare

una maggior probabilità di successo perché dà vita a coalizioni aggregate

intorno alla pienezza di un desiderio, anziché dal peso di un problema

o di una rabbia. In altri termini il desiderio può rappresentare un buon

antidoto alla fatica che caratterizza l’azione delle coalizioni; propongo di

integrare l’approccio razionalista della soluzione di problemi con quello

estetico di pensare il desiderio (o costruire la bellezza; cfr. a tal proposito

i contributi di Bruno De Maria);

- utilità: è necessario valutare costantemente se l’investimento che si

sta erogando insieme agli altri nella coalizione sta producendo dei

cambiamenti commisurati allo sforzo e alle risorse che vengono immesse

dalla coalizione; si tratta di riflettere in termini di “valutazione di impatto”,

cioè di una valutazione centrata, anzichè sul buon funzionamento della

coalizione o sul buon clima presente in essa, sulle ricadute e i benefici che

si producono nei confronti dei destinatari della mission della coalizione.

L’attenzione alla effettiva capacità delle coalizioni di influire sulle biografie

delle persone per le quali ci si coalizza (i beneficiari, i destinatari, le

popolazioni target,…) consente di vivere come un’esperienza dotata di

senso la fatica di stare insieme ad altri nella coalizione.

In effetti, spesso in relazione ai vissuti relativi alle esperienze di coalizioni,

emergono sentimenti di fatica, di improduttività, la consapevolezza della

necessità di avere pazienza nel rispettare i tempi lunghi che servono per

vedere i risultati, la presenza di varie difficoltà legate alla comprensione di

linguaggi e codici diversi.

La domanda che emerge è: “perché, nonostante le fatiche e le difficoltà, ci

si coalizza?”

Ci si coalizza per attivare persone, gruppi e organizzazioni, aumentando la

responsabilità e l’ingaggio civico intorno a problemi e desideri condivisi:

chiamare o sentirsi chiamati a far parte di una coalizione sviluppa

immediatamente e automaticamente legami di corresponsabilità.

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Ci si coalizza per fare “massa critica” rispetto a problemi di cui si colgono

la complessità e la necessità di una mobilitazione diffusa.

Ci si coalizza per acquisire maggiore visibilità e capacità di impatto,

rendendo più agevole l’accesso a risorse aggiuntive.

Ci si coalizza perché facendolo si istituisce un luogo dove si può sperimentare

concretamente il senso di una comunità che elabora esperienze diverse e

apprende, con tutti gli aspetti positivi e negativi di piacere e di dispiacere,

di conflitto e di solidarietà, di fatica e di soddisfazione che in genere sono

connessi alle esperienze di comunità.

In sintesi il mettersi insieme è un modo per costruire “comunità sane”.

Passando ad analizzare gli aspetti di natura metodologica che caratterizzano

le coalizioni, bisogna sottolineare che vi sono diversi tipi di coalizioni, che

possono altresì (ma non necessariamente) essere anche considerate fasi

progressive del percorso di costruzione delle coalizioni efficaci:

- network: reti finalizzate allo scambio di informazioni per migliorare

l’offerta globale di iniziative, rendendo più efficiente ciascuna

organizzazione;

- coordinamento: concertazione di azioni separate attraverso la distinzione

delle competenze e la divisione dei compiti su un problema comune;

- cooperazione: reti finalizzati alla concertazione di azioni comuni fra

soggetti distinti (es. scambio di risorse e di competenze);

- partnership: compenetrazione temporanea di mission e di strutturazione

organizzativa fra soggetti diversi.

Un problema che si riscontra spesso analizzando le esperienze di alcune

coalizioni in difficoltà è rintracciabile nella scarsa consapevolezza dei

soggetti promotori circa il fatto che per accedere a livelli di cooperazione

più impegnativi bisogna maturare esperienza, passando da forme di

interazioni meno impegnative ad altre che richiedono maggiori competenze

e maggiore strutturazione organizzativa.

Vi sono alcune premesse di base delle quali è bene avere consapevolezza

per impegnarsi produttivamente in coalizioni:

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- approccio sistemico ai problemi, analizzati in un’ottica multifattoriale;

- orientamento al cambiamento sociale, centrando il proprio pensiero e

la propria azione in riferimento ai destinatari concreti degli interventi

promossi;

- approccio multiculturale, consapevole delle differenze culturali che

caratterizzano i soggetti che compongono la coalizione;

- centratura sulle competenze, su quello che si sa fare, anziché

direttamente sui problemi; adozione di una focalizzazione prevalente

sulla consapevolezza delle capacità e delle risorse possedute, che si

genera attraverso il riconoscimento e la valorizzazione degli altri e

che conferisce fiducia nelle proprie chances nell’affrontare problemi

complessi e raggiungere obiettivi ambiziosi.

Bisogna inoltre considerare alcune attenzioni strategiche per dare vita a

coalizioni efficaci:

- coalizioni con una mission chiara perché espressa in modo esplicito,

coerente, condiviso e negoziato a priori con i componenti. Bisogna

infatti considerare che vi sono anche finte coalizioni, cioè quelle in

cui traguardi definiti sono fuori dalle competenze o dalla portata della

coalizione (si decidono cose la cui realizzazione compete a soggetti

esterni che non riconoscono le prerogative della coalizione);

- coalizioni inclusive, orientate ad accogliere e integrare i potenziali

componenti e a favorire la loro effettiva partecipazione, valorizzandone

le competenze e le risorse;

- coalizioni dotate di competenze organizzative, cioè di una funzione di

coordinamento, di segreteria, di un sistema decisionale e un sistema

informativo, ecc.

Nell’itinerario di costruzione di una coalizione efficace, Ennio Ripamonti

individua alcuni passaggi evolutivi nella promozione dei processi di

partecipazione:

- membership (fase di costituzione) in cui si deve sviluppare il senso di

appartenenza

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- envolvement (fase di ingaggio) coinvolgimento e partecipazione

- commitment impegno attivo e alleanza nell’azione.

Nella fase di membership è importante porre attenzione soprattutto su sei

aspetti:

- individuare i soggetti sociali cui proporre la coalizione (sulla base di

una sorta di sociogramma di comunità)

- creare il disegno rappresentativo della coalizione (promuovere la

partecipazione sulla base di un mandato esplicito delle organizzazioni

invianti);

- evitare la dimensione personale della rappresentanza (il rischio di

presenze che non rappresentano le organizzazioni rappresentate);

- evidenziare le comunanze e non enfatizzare gli elementi di potenziale

disaccordo;

- valutare le risorse per supportare l’impresa e comprendere la portata

dei problemi e delle azioni affrontabili;

- aiutare i gruppi a decidere consapevolmente se impegnarsi nella

coalizione o limitarsi ad una collaborazione esterna e occasionale.

Nella fase di envolvement si evidenzia in particolare la necessità di porre

attenzione a diversi fattori che contribuiscono ad assicurare un ingaggio

positivo e funzionale dei diversi componenti della coalizione, fattori che

possono essere sintetizzati nelle cosiddette 6 “R” della partecipazione:

- riconoscimento: le persone apprezzano il riconoscimento del loro

impegno, per cui è importante che le coalizioni trovino il modo di

legittimare la partecipazione;

- rispetto: tutte le persone vogliono rispetto; è fondamentale garantire

e presidiare il rispetto dei molti elementi di diversità: valori, bisogni,

ideologie, culture;

- ruolo: per garantire una partecipazione attiva e duratura nel tempo è

necessario tenere conto dei ruoli nella coalizione. Avere un ruolo chiaro

significa poter fare “gioco di squadra” in modo organizzato;

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- relazioni: possiamo vedere le coalizioni come “reti organizzate di

relazioni” e spesso quello che convince alcuni ad aderire è la presenza di

qualcuno che si apprezza o di cui ci si fida; d’altra parte la partecipazione

si mantiene nel tempo se le relazioni continuano ad essere positive e

gratificanti;

- ricompense: per le persone che partecipano a una coalizione è

importante lo “scambio positivo” fra “dare” e “avere”. La partecipazione

si mantiene nel tempo se è gratificante. E’ quindi importante prestare

attenzione, prevedere e tutelare che la partecipazione (soprattutto dei

più attivi) non “sprema” le persone o i gruppi esaurendoli;

- risultati: il raggiungimento degli obiettivi previsti è uno dei migliori

nutrimenti per la partecipazione ad una coalizione. Per questa ragione

è importante fissare obiettivi raggiungibili e valorizzare i risultati

ottenuti.

Nella fase di commitment, cioè dell’impegno attivo e dell’alleanza, si

individuano alcuni fattori che influiscono sui risultati:

- caratteristiche organizzative della coalizione

- caratteristiche personali dei membri della coalizione

- caratteristiche specifiche del problema da affrontare

- caratteristiche della leadership.

Se tutti questi fattori concorrono a fare della coalizione un buon gruppo,

capace di promuovere un clima che trasmette benessere e capace di

raggiungere gli obiettivi definiti, si sviluppa un investimento affettivo,

continuativo, normativo (che porta ad aderire spontaneamente alla cultura

e alle regole della coalizione) generando una più alta adesione alla mission,

buone prestazioni, una crescita di forme di cittadinanza attiva, e si genera

soddisfazione rispetto all’impegno profuso.

Vi sono infine dei fattori che contribuiscono a sviluppare interazioni

cooperative:

- fiducia: nelle capacità e nella coesione della coalizione;

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- correttezza: in base a regole esplicite e implicite che favoriscono un

adeguato e corretto scambio fra persone e organizzazioni; il senso di

correttezza deriva dalla chiarezza e dalla condivisone della mission che

producono un senso di identità di gruppo;

- abilità: le capacità possedute dai componenti della coalizione o

comunque reperibili da essi al momento della necessità. In particolare

è importante promuovere e sviluppare la capacità di effettiva

rappresentanza dei rappresentanti delle diverse realtà che siedono nelle

riunioni.

Due fattori contribuiscono invece al buon funzionamento della rete:

- efficienza: mantenimento delle relazioni, vantaggi per i membri

- efficacia: capacità della rete di raggiungere gli scopi.

La cultura della rete si alimenta attraverso

- il contratto psicologico (attese, motivazioni, obiettivi, vantaggi)

- la conoscenza dell’accordo formale

- la conoscenza delle persone delle varie organizzazioni

- la conoscenza delle caratteristiche delle organizzazioni

- la conoscenza delle caratteristiche della rete (nodi, connessioni,

struttura, proprietà operative)

- la metodologia e le competenze per facilitare il buon funzionamento

della rete.

In ogni caso, la ricerca dialogica del senso e la chiarezza di ciò che c’è al

centro dello sforzo delle reti interorganizzative è resa più difficile dalla

profonda diversità degli attori sociali sulla scena. Propongo quindi ai

navigatori di reti e coalizioni di porsi costantemente all’ascolto del proprio

desiderio e del desiderio altrui, perché credo che solamente desiderandosi

e comunicando sulla tensione desiderante si può riuscire a dare senso

pieno alla fatica del vincolo relazionale che la coalizione ci propone.

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4BUONE PRASSI

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UN PATTO EDUCATIVO

PER L’EXTRASCUOLA IN VAL SERIANA

di Vanda Gibellini

- Denominazione del progetto: Insieme è meglio

- Enti titolari: Comuni di Gorno, Oneta, Parre, Ponte Nossa e Premolo

- Enti partner: Parrocchie, Istituti comprensivi, Associazioni e Cooperativa Sottosopra

- Territorio interessato: Comuni di Gorno, Oneta, Parre, Ponte Nossa e Premolo

- Anno di avvio dell’esperienza: 1998

Il progetto “Insieme è meglio” è stato promosso da alcuni piccoli ma vivaci

paesi dell’Alta Valle Seriana e in particolare dai Comuni di Grono, Oneta,

Parre, Ponte Nossa e Premolo. Il logo del progetto, cinque perle di diverso

colore infilate su un medesimo filo, traduce in un’ immagine emblematica

l’idea del raccordo fra i cinque comuni.

“Insieme è meglio” è quindi iniziativa intercomunale e interparrocchiale

che a partire del 1998 vede collaborare le diverse agenzie educative del

territorio intorno a molteplici progetti educativi promossi in condivisione

di risorse ed energie, culture e tradizioni, uomini ed idee. La configurazione

odierna è la risultante della messa in convergenza di queste diverse iniziative

ed in particolare dei “Laboratori ragazzi” che si ponevano l’obiettivo di

offrire opportunità di aggregazione per i ragazzi della scuola elementare nel

tempo libero, data la povertà di occasioni di socializzazione che caratterizza

i territori montani, e di offrire un supporto nello svolgimento dei compiti

pomeridiani con particolare attenzione per i ragazzi con difficoltà di

apprendimento e per gli alunni stranieri. La gestione dei Laboratori ragazzi

è sempre stata affidata a risorse del volontariato, in particolare a genitori e

a giovani studenti.

L’opportunità di far convergere l’esperienza dei Laboratori ragazzi in

un progetto organico più ampio è stata offerta dall’introduzione delle

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leggi di settore che stimolavano a sperimentare forme di partnership e

di coprogettazione per gestire interventi a favore dei minori (L. 285/97),

iniziative di prevenzione (L. 45/99) o interventi nell’ambito della famiglia

(L.R. 23/99).

Si è costituito un Tavolo zonale per le politiche giovanili “Insieme è meglio”,

che riuniva gli amministratori degli Enti locali interessati, i referenti delle

scuole, i Parroci e i rappresentanti delle associazioni di volontariato e dei

gruppi con finalità educative impegnati nel territorio, con il compito di

svolgere un’analisi dell’offerta esistente per valorizzare le risorse già in

campo e individuare direzioni di sviluppo per ampliare la risposta ai

bisogni ancora scoperti.

Da questa prima fase di raccordo delle risorse e di ricognizione sui contesti

di vita dei ragazzi hanno preso avvio nuove iniziative che a tutt’oggi

continuano a operare in una logica di collaborazione educativa tra adulti

in vista di una comunità educante, a partire da una programmazione che,

annualmente, individua alcuni obiettivi educativi condivisi che vengono

fatti propri e concretizzati da tutte le organizzazioni territoriali riunite

intorno al Tavolo.

Per quanto riguarda lo sviluppo dell’esperienza dei Laboratori ragazzi si

è operato innanzitutto per valorizzare la presenza attiva del volontariato

aiutandolo a passare da una logica immediatamente operativa ad un

approccio progettuale supportato da una riflessione ed elaborazione delle

esperienze, avvalendosi del supporto degli operatori della cooperativa

Sottosopra.

Attraverso il lavoro di programmazione del Tavolo “Insieme è meglio”

hanno potuto prendere avvio altre iniziative, come:

- l’offerta dei laboratori pomeridiani anche ai ragazzi della Scuola

Media

- gli Spazi gioco per i bambini da 0 a 6 anni

- il sostegno ad attività e laboratori per adolescenti e giovani

- le iniziative formative ricorrenti ogni anno rivolte a genitori, insegnanti

ed educatori e centrate sull’obiettivo educativo condiviso.

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La struttura organizzativa che porta avanti il progetto “Insieme è meglio”

prevede:

- il Tavolo zonale per le politiche giovanili, che è un luogo di pensiero

e di elaborazione, intorno alle risorse esistenti e ai bisogni, e di

individuazione di obiettivi condivisi;

- un Tavolo di raccordo comunale in ogni paese che riunisce le

rappresentanze delle risorse educative locali e che ha il compito di

coordinare l’implementazione dei progetti nei singoli Comuni;

- Tavoli trasversali impegnati a riflettere e programmare in rapporto alle

singole fasce d’età (Tavolo 0-6, Tavolo 6-14, Tavolo 14-18 e il Tavolo che

si occupa della formazione).

Nell’esperienza di “Insieme è meglio” si evidenziano anche elementi

di difficoltà legati soprattutto alla fatica di operare in condivisione, in

particolare in relazione al cambiamento fisiologico dei rappresentanti

delle diverse realtà territoriali che richiede un lavoro costante di messa in

comune di premesse e linguaggi.

Un’altra fatica riguarda il lavoro continuo di ricucitura per mantenere alta

la motivazione all’alleanza ed efficiente il raccordo fra i soggetti da tempo

coinvolti e i nuovi attori che intervengono nel territorio.

Il punto di forza espresso invece in questi anni dal progetto “Insieme è

meglio” è forse la capacità, che ha sempre manifestato, di sapersi fermare

a riflettere insieme, perché se l’impegno operativo dà l’impressione

di essere produttivi, tuttavia accade spesso che alcuni interventi, che si

ripetono uguali nel tempo, perdano via via aderenza rispetto ai bisogni

reali delle persone e efficacia nell’affrontare i diversi problemi.

Un altro aspetto che merita attenzione è quello della visibilità di quanto

viene prodotto a livello territoriale.

Ad esempio l’esperienza attivata sulle problematiche della televisione

in rapporto ai ragazzi ha avuto un evento di visibilità, la “Settimana non

solo TV” all’interno della quale i cinque Comuni hanno potuto vedere e

apprezzare in piazza e negli oratori i prodotti del lavoro dei ragazzi e gli

esiti delle iniziative rivolte agli adolescenti, ai genitori, agli insegnanti e

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agli educatori.

Sempre in rapporto alla necessità di dare un’ evidenza pubblica al lavoro

svolto si è pubblicato un opuscolo che descrive in sintesi il percorso e

i contenuti del progetto ed è stato prodotto un DVD che raccoglie tutti i

materiali (video, spot, ecc.) prodotti dai diversi laboratori sul tema della

televisione (video, ecc.).

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LA SOVRACOMUNALITÀ COME RISORSA:

L’ESPERIENZA DELLA VAL CAVALLINA

di Corrado Brignoli

- Denominazione del progetto: Spazio Minori Val Cavallina

- Ente titolare: Comunità Montana Val Cavallina

- Enti partner: Cooperative, Oratori e volontariato

- Territorio interessato: Ambito Territoriale n. 5 - Valle Cavallina

- Anno di avvio dell’esperienza: 2000

A partire dall’anno 2000 la realtà della Val Cavallina ha investito ingenti

risorse nell’ambito dell’aggregazione giovanile e fino al 2005 molte delle

energie profuse dai diversi soggetti impegnati nella gestione degli spazi

aggregativi sono state concentrate sul “fare” e sul “fare tante cose”.

Se prima del 2000 erano presenti in Val Cavallina soltanto 2 spazi

aggregativi, una ricognizione svolta nel 2004 ha rilevato la presenza di ben

24 servizi che sono fruibili dai ragazzi di quasi tutti i comuni della valle

e che si rivolgono, con metodologie e con proposte differenziate, a varie

fasce d’età.

All’interno dei questi servizi 15 possono essere compresi nelle tipologie

individuate dalla ricognizione della Provincia come progetti/interventi

extrascuola e coinvolgono nelle loro attività circa 500 bambini che vengono

seguiti con varie modalità lungo tutto l’anno scolastico.

L’accesso ai servizi è volontario e in alcuni Comuni riesce a raggiungere

una percentuale vicina al 40% della popolazione minorile interessata.

E’ utile evidenziare inoltre che questi servizi vedono impegnate numerose

figure educative adulte in un rapporto con i bambini di 4 o 5 bambini per

educatore, per una media di 6-7 ore settimanali.

In questi servizi i bambini possono sperimentare relazioni significative

dove c’è spazio per l’ascolto e dove, attraverso la mediazione dei compiti e

dei laboratori, è possibile perseguire obiettivi educativi di rilievo.

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Le relazioni che si strutturano negli spazi aggregativi presentano pertanto

interessanti potenzialità sia sul piano della prevenzione che del sostegno

e della presa in carico di fronte a situazioni di difficoltà o disagio. A livello

di Ambito Territoriale si sta quindi pensando di trovare le modalità più

adeguate per intersecare le attività a valenza preventiva con gli sforzi che

si stanno facendo sul piano della Tutela dei Minori.

Gli spazi aggregativi, come si sono venuti configurando in questi anni,

rappresentano anche dei preziosi sensori per il territorio e dei punti di

riferimento tramite i quali risulta più agevole attivare dei progetti integrati

di aiuto per le situazioni di disagio anche conclamato, sfruttando le

interazioni già attive con la scuola e con il territorio.

A livello di Ambito Territoriale si è quindi investito per fornire a tutti gli

spazi aggregativi, più che un coordinamento, che rimanda una idea di

standardizzazione, un punto di riferimento e di incontro riconosciuto

finalizzato a favorire il confronto e l’elaborazione condivisa intorno alle

criticità e alle difficoltà incontrate e a individuare buone prassi che possano

essere condivise.

Operativamente questi intenti si sono tradotti nella costituzione di un

gruppo di operatori degli spazi aggregativi della valle che periodicamente

si incontrano per discutere dei problemi, promuovere iniziative comuni di

formazione o aggiornamento o per discutere di buone prassi che possono

essere implementate nei servizi. Nel corso dell’ultimo anno, ad esempio, si

è riflettuto sul tema dell’aggressività nei ragazzi, si è approfondito il tema

del rapporto fra il servizio e le famiglie in prospettiva di un loro migliore

coinvolgimento e di una più efficace collaborazione in un rapporto di

corresponsabilità.

Un altro tema attualmente all’ordine del giorno del raccordo dei servizi

aggregativi è quello della verifica e della valutazione degli interventi,

proprio per aiutare gli educatori a passare da una logica del “fare” e della

misurazione meramente quantitativa dei risultati (quanti bambini, quante

ore di servizio erogato) a una approccio più attento ai processi, agli aspetti

qualitativi dell’intervento, agli elementi di progettazione pedagogica e agli

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esiti di tipo preventivo e educativo.

Siamo infatti convinti che una sfida importante che si pone di fronte

ai servizi dell’extrascuola nel prossimo futuro sia proprio quella della

valutazione: cominciare ad apprezzare e a dare pubblica evidenza al senso

e al risultato che assumono le attività e le relazioni, passando da una logica

del “fare” ad una maggiore attenzione agli aspetti inerenti il “come si fa”, a

discapito dell’enfasi posta sul “cosa si produce” ricollocando così al centro

dell’interesse e della verifica dei progetti la natura delle relazioni al di là

delle iniziative attivate, dei prodotti realizzati.

Crediamo infine che la capacità di svolgere una seria valutazione dei progetti

rappresenti il presupposto necessario per cominciare a pensare ai progetti

dell’extrascuola come interlocutori privilegiati di tutti i servizi a sostegno

della famiglia che si occupano di prevenzione, di sostegno o di cura vera

e propria, svolgendo, di volta in volta ed in sinergia con gli stessi, funzioni

diversificate di grande importanza come ad esempio la segnalazione di

situazioni di bisogno oppure il monitoraggio o l’osservazione in contesti

ludici di minori in difficoltà oppure ancora il supporto vero e proprio a

situazioni in carico ai servizi di tutela dei minori.

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PARTNERSHIP POSSIBILI:

L’ESPERIENZA NELL’ISOLA BERGAMASCA

di Marco Zanchi

- Denominazione del progetto: Isolandia

- Ente titolare: Azienda Speciale Consortile Isola Bergamasca e Bassa Val San Martino

- Enti partner: Istituti Comprensivi, Cooperative Sociali, Parrocchie, Associazioni e Biblioteche

- Territorio interessato: Ambito Territoriale n. 12 Isola Bergamasca e Bassa Valle San Martino

- Anno di avvio dell’esperienza: 2003

Il titolo di questa testimonianza sarebbe più appropriato se avesse un punto

di domanda alla fine. E’ opportuno infatti chiedersi innanzitutto: sono

possibili partnership efficaci fra ente pubblico e privato sociale intorno ai

progetti extrascuola?

In risposta a questo interrogativo inizierei a evidenziare il fatto che questo

intervento sulla partnership territoriale viene svolto da un operatore del

privato sociale, e questo già ci fornisce parte della risposta al precedente

interrogativo.

Un ulteriore elemento di conferma della possibilità di partnership è

rappresentato dal fatto che il progetto oggetto delle diverse azioni attivate

sotto il titolo “Isolandia” è il frutto di un percorso di progettazione partecipata

che ha visto impegnati vari enti: gli Enti locali, le Scuole, le Cooperative

sociali, gli Oratori dell’Ambito Territoriale n. 12 - Isola Bergamasca e Bassa

Valle San Martino.

“Isolandia” nasce come azione attivata all’interno di un progetto

denominato “L’isola del futuro” compreso nell’accordo di programma

per il secondo triennio di attuazione della L. 285/97 con capofila, allora,

il Comune di Ponte S. Pietro, ed oggi, l’Azienda Speciale Consortile. Tale

azione si è concretizzata su tre distinti livelli:

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- una mappatura dei progetti extrascuola nell’Isola Bergamasca, che

operando in parallelo con il Laboratorio provinciale ha rilevato nel

2005 la presenza nel territorio di 37 interventi;

- l’emissione di bandi annuali per l’assegnazione di contributi economici

agli enti locali per la realizzazione di centri ricreativi educativi e servizi

extrascolastici al fine di sostenerli, assicurarne la stabilità e continuità

nel tempo e promuoverne la qualità e l’innovazione;

- assegnazione di contributi economici per la realizzazione di attività ludico

aggregative a livello sovracomunale finalizzati a sviluppare partnership

locali (prevedendo come criteri di assegnazione la compartecipazione

di almeno cinque Enti locali e due soggetti dell’associazionismo o del

volontariato) con l’obiettivo di attivare reti sovra comunali intorno

all’obiettivo di promuovere la cultura del gioco e del tempo libero nei

diversi contesti territoriali.

Laddove si sono sperimentate le varie forme di partnership si è potuto

verificare che il concorso di più attori ha prodotto opportunità interessanti

e a volte uniche per arricchire il territorio di nuove iniziative, per sviluppare

nuove capacità di mobilitazione, per avere una più approfondita conoscenza

del territorio e, non ultimo, per avere accesso a nuove risorse finanziarie e

utilizzarle in modo più razionale ed efficace. Inoltre la possibilità di operare

insieme fra soggetti diversi ha in vari casi svolto una funzione di volano

per diffondere e sviluppare una cultura dell’operare in partnership e del

lavorare in rete.

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INTERVENTI DI TUTELA E PREVENZIONE:

PROGETTI TERRITORIALI NELLA CITTÀ DI BERGAMO

di Elena Lazzari e Stefano Rota

- Denominazione del progetto: Progetti territoriali

- Ente titolare: Comune di Bergamo

- Enti partner: Consorzio Solco Città Aperta e agenzie educative dei quartieri della città di Bergamo

- Territorio interessato: Città di Bergamo

- Anno di avvio dell’esperienza: 2001

I Progetti territoriali attivi nei diversi quartieri della città di Bergamo si

pongono al confine tra interventi di tutela, intesa nell’accezione più ampia

del termine, e interventi a valenza preventiva. Questi progetti nascono

nel 2001 come sviluppo del servizio di ADM – Assistenza Domiciliare per

Minori per configurarsi come interventi di assistenza educativa di gruppo

attuati in collaborazione con gli istituti scolastici, le parrocchie e gli oratori,

le agenzie educative, ricreative, sportive e culturali.

La prima esperienza, attuata nel quartiere della Malpensata, è stata seguita

da altri otto progetti in vari quartieri della città allargando l’utenza dai 20

ragazzi seguiti dal primo progetto agli attuali 200 ragazzi, coinvolgendo un

notevole insieme di risorse in termini di figure professionali e in termini

di apporti da parte di volontari e adulti mobilitati dalle diverse agenzie

territoriali.

Il primo elemento di innovazione proposto dai Progetti territoriali è

rappresentato dalla condivisione fra tutti gli attori territoriali dell’idea che

la Tutela dei Minori non può essere delegata solo a professionisti preposti,

ma è una responsabilità collettiva di tutti gli attori del territorio.

Un elemento qualificante derivato da questo particolare approccio è il fatto

che, partendo dall’analisi e dalla gestione dei casi di minori in situazioni

di disagio, si è posta da subito l’attenzione, oltre che sulle famiglie di

provenienza, anche sui contesti di vita dei ragazzi e si è operato nella

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direzione di sviluppare alleanze e raccordi organici con le realtà educative

e con i diversi attori del territorio.

Grazie allo stretto e collaudato rapporto di partnership fra Ente Locale e

Consorzio Solco Città Aperta è stato possibile affrontare queste questioni

arrivando a progettare e a implementare interventi di nuova concezione

che andavano oltre l’assistenza domiciliare tradizionale da cui questi

progetti avevano preso le mosse: è stato possibile in particolare rileggere

continuamente le esperienze in atto e arrivare a identificare nel territorio

altre forme di domiciliarità, intesa come contesto di vita dei ragazzi, come

domicilio allargato che integra, supporta alcune funzioni educative dei

nuclei familiari.

Si è quindi passati da una attenzione centrata sul singolo minore a

progetti mirati sui gruppi, da un’attenzione centrata sul nucleo familiare

di appartenenza a un coinvolgimento della rete territoriale delle agenzie

educative, da forme di intervento basate su competenze specialistiche

interne al sistema erogatore di prestazioni a un insieme di progetti radicati

nei diversi territori, capaci di mobilitare molteplici soggetti sociali e di far

incontrare e interagire competenze e saperi diversificati, indispensabili

per mettere in campo azioni incisive di educativa territoriale e dare vita

a reti di protezione sociale che si attivano a partire dalla comunità e non

necessariamente e soltanto dai servizi istituzionali.

Gli operatori dei Progetti territoriali non si limitano quindi a lavorare con

gruppi di minori in stato di disagio, ma operano per favorire lo sviluppo di

competenze relazionali ed educative nelle figure adulte che si rapportano

con i minori stessi: genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, curati, animatori

di oratorio, baristi.

Nel contempo, l’azione si rivolge anche a gruppi di minori in situazione di

agio, al fine di rendere evidenti e modificare dinamiche comportamentali

di esclusione ed isolamento, cui i ragazzi più problematici vanno incontro

a causa del proprio comportamento.

La finalità principale degli interventi territoriali di A.D.M. è diventata

pertanto il potenziamento dei rapporti di partnership tra le agenzie

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educative del territorio per migliorare l’osservazione dei minori nei propri

contesti di vita, la promozione di condizioni di agio per i minori stessi,

segnalando ai servizi di competenza le situazioni di rischio e consegnando

alla comunità strumenti in grado di accrescere l’efficienza e l’efficacia per

una presa in carico dei ragazzi.

Sul piano operativo, l’impegno attivo dei numerosi soggetti coinvolti

ha permesso di dare vita a molteplici iniziative di natura socializzante,

ricreativa, espressiva, sportiva e di sostegno scolastico, capaci di esprimere

valenze di tipo promozionale e preventivo e nel contempo anche riparativo

e di cura. E’ opportuno in questa sede limitarci a ricordare gli interventi

attivati ai confini tra scuola ed extrascuola.

E’ innanzitutto utile precisare che si è intervenuti non solo nell’extrascuola,

ma anche in attività dentro il tempo scuola, immettendo, in alcuni casi,

nuove attenzioni educative negli intervalli fra le diverse proposte didattiche

(intervalli, intermensa, ecc.) e, in altri, proponendo una presenza nel corso

di attività curriculari.

In alcuni Istituti Comprensivi si è operato ad esempio per rendere possibile

l’incontro tra l’approccio didattico e quello educativo, dando vita nel tempo

a delle equipe miste, composte da insegnanti, operatori sociali e alcuni

attori del territorio, una cosa che sembrava inizialmente impossibile e che

nel tempo ha dato invece interessanti risultati. Si è ad esempio dato vita ad

una riflessione approfondita sul rapporto tra agio e disagio all’interno della

scuola che in alcune situazioni ha portato a rilevare la tendenza, spesso

per problemi puramente organizzativi, ad aggregare i ragazzi svantaggiati

e quindi a individuare strategie alternative per dare vita a gruppi integrati

capaci di accogliere positivamente anche questi ragazzi, grazie anche al

supporto di risorse educative aggiuntive.

Un’altra area che è stata oggetto di attenzione ed intervento è quella

della riqualificazione del ruolo dei genitori nella vita scolastica. In alcune

esperienze c’è stato lo sforzo di coinvolgere i genitori a partire dalla

considerazione che, da un lato, a volte la scuola lamenta l’assenza dei

genitori e dall’altro induce delle dinamiche espulsive attraverso l’uso di

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linguaggi troppo diversi da quelli dei genitori.

Si sta anche ragionando sul rapporto fra scuola e territorio di appartenenza,

a partire dall’idea condivisa che la scuola è parte integrante del territorio

ed è chiamata ad esprimere attivamente e concretamente questo legame.

In questa direzione si è pensato di iniziare a mettere in rete la scuola con

gli altri attori attraverso l’utilizzo degli edifici, un aspetto banale ma che

assume un’importante valenza al tempo stesso simbolica e concreta.

Si è anche operato per ampliare il coinvolgimento nella vita scolastica

dei soggetti che animano i diversi quartieri invitando ad intervenire

maestri d’arte, genitori con competenze specifiche, giovani dell’anno di

volontariato civile che poi i ragazzi hanno l’opportunità di incrociare nei

diversi contesti della vita del quartiere.

Un altro tema affrontato è quello dell’integrazione fra ragazzi stranieri

e ragazzi italiani, fra difficoltà di comunicazione e apprendimento e il

bisogno di integrazione per cui si sono ricercate modalità, oltre che per

affrontare i problemi indotti dall’incontro fra diversi, per valorizzare la

ricchezza dei contributi che queste diversità possono apportare ai percorsi

di apprendimento dei ragazzi e degli adulti, in particolare genitori.

Un’altra problematica affrontata è stata quella dell’incontro e della

collaborazione fra Scuola e Servizio Sociale. Si è rilevato infatti che spesso,

per problemi di scarsità di tempo o di emergenza, l’incontro si attua in

rapporto al singolo caso “problematico” e quando diventa ingestibile. A

partire da questa analisi, attraverso l’introduzione di momenti di incontro

formale programmati sull’arco dell’anno, è stato possibile condividere

alcune piste di lavoro orientate a sviluppare strategie a valenza preventiva

capaci di coinvolgere nel suo insieme il sistema scuola e le sue diverse

componenti.

Sul versante degli Oratori si è svolta una funzione di sostegno ai Direttori,

che rappresentano figure cardine di riferimento per molti ragazzi e per le

loro famiglie. Con i cinque oratori con i quali è stata sviluppata una alleanza

educativa si sono programmati dei momenti di confronto nelle equipe

miste in cui si sono approfonditi i temi dell’incontro fra approccio pastorale

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animativo e approccio socio educativo, fra educazione professionale e

educazione vocazionale e i differenti valori di riferimento che le animano

e si è cercato di definire progetti condivisi di accompagnamento nei

confronti di ragazzi, gruppi e famiglie.

La collaborazione con gli Oratori ha portato a sviluppare anche una

riflessione sui modelli organizzativi, in particolare tracciando un

confronto fra Oratorio erogatore di attività ed eventi formativi e Oratorio

cortile, cioè come ambito di accoglienza dei ragazzi a prescindere dalle

loro partecipazione a proposte formative strutturate e orientate, un tema

di particolare attualità per la presenza nei ragazzi di culture e sensibilità

religiose estremamente diversificate. Questa riflessione ha portato in alcune

realtà a pensare all’introduzione di figure professionali in affiancamento e

a supporto degli animatori volontari, risorsa irrinunciabile per l’attuazione

della proposta formativa degli Oratori.

Obiettivo trasversale alla molteplicità degli interventi attivati è il desiderio

di creare una cultura condivisa nei diversi contesti educativi attenta alla

funzione della Tutela dei Minori, intesa come corresponsabilità condivisa

di un intero territorio.

L’assunzione di un punto di vista diverso nell’affrontare i problemi ha

indotto a ripensare anche il ruolo dell’Ente locale.

L’Ente locale in questo tipo di progettualità è chiamato in particolare a

svolgere un ruolo promozionale e di coordinamento generale dei processi

di rete, che operativamente è attuato attraverso il personale del servizio

sociale e del consorzio convenzionato.

In questa sua funzione di attore del welfare comunitario, il Comune ha

orientato la sua azione a promuovere lo sviluppo di reti di protezione

sociale nei diversi quartieri della città, a essere garante nel fare incontrare le

differenze (di culture, linguaggi e risorse) al fine di accrescere, nella ricerca

dei reciproci interessi, il risultato di ognuno e quello dell’azione comune,

a promuovere, in altri termini, una sussidiarietà responsabilizzante per

tutti.

In questa particolare prospettiva di lavoro la programmazione sociale si

configura, quindi, come un processo a più attori, a più livelli, che apportano

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competenze, idee e risorse diversificate a una progettazione che, esigenze

tanto ideali quanto di efficacia, vogliono partecipata.

Fondamentale in questo percorso è l’impiego di metodologie di lavoro

partecipative, lo scambio costante intorno alle “buone prassi”, sia

per quanto attiene la progettazione e gestione degli interventi, che il

monitoraggio e la verifica dei risultati. Da questo punto di vista l’esperienza

dei progetti territoriali rappresenta anche un interessante esempio di

come l’integrazione di differenti competenze e risorse favorisca lo sviluppo

operativo dei servizi e l’individuazione di risposte sociali innovative e

fortemente contestualizzate.

Un accenno infine anche al dato economico. Da questo punto di vista si

può evidenziare come gli interventi di educativa di gruppo e di educativa

territoriale abbiano dei costi economici sensibilmente più contenuti rispetto

agli interventi di ADM tradizionale, soprattutto se si considera che questo

nuovo approccio consente di attivare iniziative rivolte oltre che ai ragazzi

e alle famiglie che vivono situazioni di difficoltà, anche a ragazzi e adulti

in condizione di agio che, oltre a fruire di iniziative di socializzazione e di

formazione e supporto, sono chiamati a svolgere una preziosa funzione di

aiuto e di integrazione a favore di compagni e concittadini in difficoltà.

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Collana “ITINERARI FORMATIVI”

Emarginazione grave:come intervenire, risultati e fatiche.Atti del Corso di formazione, maggio 2002 2002

Affido familiare tra legge ed operatività.Atti del Convegno, Bergamo 23 novembre 2001 2002

Alzheimer. La ricerca di nuove letture.Atti del Convegno, Bergamo 12 aprile 2002 2002

A.I.D.S. Il punto della situazione.Atti del Convegno Nazionale, Bergamo 19 giugno 2002 2002

Laboratori di solidarietà giovanile.Materiali sul rapporto tra handicap e volontariato giovanile in provincia di Bergamo.Atti del Convegno, Bergamo 12 ottobre 2002 2003

I Servizi Formativi all’Autonomiain provincia di Bergamo.Atti del Convegno, Bergamo 7 dicembre 2002 2003

I processi di lavoro quotidiano con le famiglie.Atti del Corso di formazione, 2001-2003 2004

La qualità dei servizi integrativi per l’infanzia e la famiglia.Atti del Corso di formazione, 2000-2003 2004

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Droga: come parlare e intervenire con i nostri giovani.Atti del Convegno, Bergamo 15 aprile 2003 2004

Pena Carcere Lavoro.La giustizia in-divenire.Atti del Convegno, Bergamo 9 giugno 2003 2004

Conoscere per ascoltare.Indagine sulla Genitorialità Sociale.Ricerca Azione Multifocale e Multilocale 2004

Fare posto alle relazioni di cura:le famiglie accoglienti interrogano la comunità.Atti del Convegno, Bergamo 26 marzo 2004 2005

Comunità Alloggio: un’indagine sui minori accoltiRicerca Azione a cura dell’Osservatorio Disagio Minorile 2005

Lavoro di cura: aspetti critici, significati e vissutiAtti delle giornate seminariali, aprile – maggio 2003 2005

Costruire la qualità: i nidi famiglia in provincia di BergamoReport 2003- 2006 2006

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Marzo 2007

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PROVINCIADI BERGAMO

Settore Politiche SocialiVia Camozzi, Passaggio Canonici Lateranensi 10

20121 Bergamoe-mail: [email protected]

www.provincia.bergamo.it