ORGANIZZAZIONE DEL TERRITORIO E … e gestione delle aree eco-industriali - Francesca Palombi La...

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ORGANIZZAZIONE DEL TERRITORIO E GOVERNANCE MULTILIVELLO a cura di Lidia Scarpelli Pàtron Editore Bologna 2008

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ORGANIZZAZIONE DEL TERRITORIO E

GOVERNANCE MULTILIVELLO

a cura di

Lidia Scarpelli

Pàtron Editore

Bologna 2008

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Indice

Prefazione - Lidia Scarpelli

Governo, governance, sussidiarietà e territorio – Roberta Gemmiti, Adriana Conti Puorger

La governance nella pianificazione spaziale europea – Roberta Gemmiti

La cooperazione transfrontaliera in Europa come strumento di governance multilivello delle aree di frontiera – Raffaella Coletti

Partizioni del territorio, sviluppo locale e governance multilivello – Filippo Celata, Davide Fardelli

Il ruolo dell’impresa sociale nella governance del territorio – Marco Brogna

La responsabilità sociale d’impresa: una prospettiva di governance nel rapporto impresa-territorio – Fabio Filacchione

La governance multilivello e le politiche migratorie: il livello locale – Francesco Maria Olivieri

Approcci multilivello nella riduzione degli squilibri socio-economici. Il caso del microcredito – Domenico De Vincenzo

Categorie giuridiche e categorie geografiche nella governance ambientale - Giuseppe Muti

Governance e gestione delle aree eco-industriali - Francesca Palombi

La nuova geografia delle attività aerospaziali. Dal dibattito tra PVS e potenze spaziali alla nascita di nuovi attori locali - Silvia Ciccarelli

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Categorie giuridiche e categorie geografiche nella governance ambientale

Giuseppe Muti

“Il problema ecologico necessita di soluzioni etiche globali (…) e di interventi operativi regionali” (M. Tinacci Mossello, 1995, p. 43).

1. INTRODUZIONE

La nozione di governance e la questione ambientale sono concetti attuali che attendono ancora una definizione fondante. Le discipline geografiche e quelle giuridiche promuovono alcune categorie concettuali, come la nozione di scala e quella di sistema giuridico, particolarmente adeguate all’analisi ma in profonda trasformazione. La globalizzazione, infatti, complica sostanzialmente le categorie geografiche, a partire dal concetto di prossimità, e moltiplica i sistemi giuridici nelle forme e nei contenuti.

La prossimità fisica è stata uno dei cardini degli studi geografici fin a quando le tecnologie della globalizzazione non hanno permesso, fra due località opportunamente dotate, scambi di materia alla velocità del suono e telecomunicazioni alla velocità della luce. Un po’ spaesata di fronte alle logiche delle reti, la nozione geografica di scala si rivela invece indispensabile per un approccio olistico all’ambiente. La transcalarità esprime la dinamica del reciproco imbricamento delle scale geografiche: i macro sistemi ambientali, fino all’intero pianeta terra, risultano dalla compenetrazione e dall’influenza reciproca e incrociata dei sistemi ambientali di scala inferiore, fino alle nicchie ecologiche.

Ma la globalizzazione si caratterizza anche per la crescita numerica e la diversificazione delle prerogative, anche territoriali, degli attori coinvolti: non più quasi esclusivamente Stati nazionali ma anche, e sempre più, organizzazioni internazionali, organizzazioni non-governative (ONG), imprese multinazionali, società, associazioni, anche singoli individui. Tali attori sono organizzati e dotati di

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risorse, capaci di fissare obiettivi e di pianificare strategie per raggiungerli. Essi, soprattutto, si rivelano in grado di incidere sull’emanazione e sul controllo di diverse tipologie di norme e regolamenti a diverse scale geografiche (De Montbrial, 2000). Il che sembra rimettere sostanzialmente in gioco due cardini tradizionali dell’agire politico moderno sul territorio: la legittimità e la sovranità.

La proliferazione degli attori e la logica delle reti comportano una “complessificazione delle deferenze” (Badie e Smouth, 1999) ovvero dei livelli di regolazione politica e dei rapporti di potere e di autorità. Le fonti di legittimità si diversificano. Nelle interazioni l’orientamento al risultato si sostituisce alla forma, e la confidenza alla formalità. Alle norme codificate, che strutturano il sistema regolandolo, subentrano accordi informali per favorire il buon esito delle interazioni e il minor costo delle transazioni. La rappresentazione istituzionale dei rapporti di potere lascia spazio alla “microgeopolitica” (Moreau Defarges, 2002).

La nozione di sistema giuridico si rivela, in tal senso, uno strumento interpretativo particolarmente duttile ed efficace. Prestando contemporanea attenzione alla low in book (sovrastruttura giuridica) e alla low in action (esercizio effettivo della giurisdizione), la comparazione giuridica (Gambaro e Sacco, 1996) intendere il diritto come risposta all’esigenza d’ordine propria di ogni società umana. Uscendo dal normalis angulus rappresentato dal diritto positivo (emanato dell’istituzione statale), il sistema giuridico prende in considerazione molteplici impianti normativi, espressione di diverse tipologie di rapporto di potere a diverse scale geografiche, e li rapporta alle strutture socioculturali di cui sono espressione. Uno stesso sistema di norme può essere in vigore in più Stati e insiemi diversi possono essere in vigore in un solo Stato, a diversi livelli di governo del territorio.

2. LA QUESTIONE AMBIENTALE Uno dei primi problemi nell’approccio alla questione ambientale è l’accesso a

fonti informative corrette e fondate scientificamente. Il che riporta alla conoscenza dei sistemi ambientali e alla ricerca scientifica, costretta fra la crisi finanziaria di quella pubblica e lo smaccato orientamento all’economa di quella privata; esiste infatti una vasta produzione divulgativa generalmente scettica nei confronti delle problematiche ambientali ma sensibile agli interessi del capitale finanziante la ricerca stessa (Nebbia, 1999).

Delle scale di intervento politico ambientale (Vallega, 1994), è solo all’interno dei sistemi a bassa e media complessità (gestione degli elementi abiotici e delle comunità biotiche) che la società umana dispone di buone conoscenze e della capacità di metterle a frutto, riuscendo in parte a controllare i feedback delle trasformazioni indotte. L’alta complessità che caratterizza il funzionamento degli ecosistemi e l’altissima complessità dei cicli biogeochimici, invece, sfugge non

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solo alle politiche di pianificazione e gestione, ma anche alle conoscenze minime indispensabili.

Di rilevanza paragonabile solo alla rivoluzione agricolo-pastorale del periodo neolitico, la rivoluzione industriale ha fatto dell’uomo una “forza geologica planetaria” (Vernadsky, 1926) in grado di intervenire sensibilmente sulle quattro sfere (atmosfera, idrosfera, litosfera e biosfera) che compongono l’ambiente terrestre.

Molteplici e autorevoli studi spiegano che porzioni di atmosfera sono inquinate da emissioni prodotte dall’uomo e le principali proprietà (temperatura e composizione) dell’involucro gassoso sono modificate dall’azione antropica e dai gas serra in particolare (CO2). Vaste aree della litosfera soffrono di generali processi di desertificazione e impauperimento, mentre suoli e territori sono contaminati nella loro fertilità da processi d’inquinamento o deturpati nel loro paesaggio. In alcuni bacini idrografici l’avvelenamento delle acque riguarda l’intero ciclo idrologico, dalle precipitazioni (piogge acide) alle acque superficiali (inquinamento marino, costiero, fluviale, lacustre, eutrofizzazione), fino ai deflussi sotterranei (falde acquifere). Anche la biosfera è sottoposta a fortissime pressioni, nella sua componente naturale, animale e vegetale (riduzione biodiversità), e nella sua componente antropica. La società umana, infatti, attraversa una situazione di grave crisi nella quale le profonde disuguaglianze lasciano intendere che le attese della maggioranza non possano essere soddisfatte dalla logica di funzionamento del sistema, neanche qualora, in taluni casi, siano orientate alla mera sopravvivenza.

Proprio a partire dall’esame della questione ambientale (saggiando contemporaneamente l’ipotesi dell’autodistruzione termonucleare) la società umana acquisisce, nella seconda metà del Novecento, una nuova coscienza collettiva L’attenzione posta sulle cause di tale degradazione e sulle sue possibili soluzioni rappresenta un’importante fattore trainante lo sviluppo della cosiddetta società civile internazionale. Ragionando sulla questione ambientale, elevata oramai a valore universale, la società umana individua alcune contraddizioni alla propria evoluzione e propone alcuni correttivi teoricamente efficaci, come il concetto di sviluppo sostenibile e il principio di precauzione, analizzati di seguito.

L’individuazione di regole per preservare le condizioni naturali (le migliori o le minime indispensabili?) che rendono possibile la vita umana sul pianeta, e la volontà di consolidarne il consenso e di guidarne l’applicazione, contribuisce ad aumentare il numero degli attori della globalizzazione e ad ampliare le loro prerogative. Il principio di sussidiarietà offre nuova legittimità operativa sia a livello internazionale, ad organizzazioni di scala mondiale e macroregionale, sia a livello sub-nazionale, ad attori regionali e locali. Proprio dalla sua messa a punto acquista interesse il dibattito sulla nozione di governance, estrapolata dal contesto aziendale in cui nasce.

In controtendenza rispetto ai processi di globalizzazione, l’ambiente e tutto ciò che vi è connesso conosce, negli ultimi decenni, non una deregolamentazione,

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bensì una vera e propria super-regolamentazione sociale, politica e giuridica alle diverse scale e ai diversi livelli di gestione del potere, sia sotto forma di governo che sotto forma di governance, mondiale e locale.

3. ECOPOLITICA E SVILUPPO SOSTENIBILE Studiando l’irruzione della questione ambientale sulla scena politica mondiale,

il politologo canadese Philippe LePrestre (2005) individua tre fasi principali. Nella prima i protagonisti sono quasi esclusivamente gli Stati. Le azioni intraprese e le interazioni sono molteplici, disparate nei contenuti e talvolta anche incisive (come i parchi creati negli Stati Uniti a cominciare da Yosemite, nel 1864, o come il Fondo mondiale per la natura, Wwf, istituito nel 1961). Esse, tuttavia, restano circoscritte spazialmente, contingenti e fra loro scollegate. Soggetto di attenzione è la ‘natura’, non ancora espressamente l’ ‘ambiente’ e un ruolo fondamentale è giocato da eventi particolari che colpiscono e influenzano profondamente l’opinione pubblica. Come la pubblicazione di “Primavera silenziosa” di Rachel Carson (1962); il naufragio della petroliera Torrey Canyon (1967) affondata al largo delle coste britanniche provocando un inquinamento da idrocarburi fino ad allora sconosciuto; l’inquinamento della Baia di Minamata (Giappone, 1956-1968) dove, risalendo le catene trofiche locali, il mercurio scaricato in mare da un’industria chimica causa oltre duemila vittime e malformazioni che ancora vessano le discendenze.

Nella seconda fase l’evoluzione lessicale da ‘natura’ ad ‘ambiente’ sottolinea l’ampliamento delle prospettive (Le Prestre, 2005). La questione ambientale si delinea come uno degli argomenti principali delle relazioni internazionali e gli attori impegnati si moltiplicano nel numero e nella tipologia. A scala internazionale, e da qui a cascata verso gli ordinamenti giuridici nazionali, si sviluppano i primi strumenti giuridici finalizzati a proteggere l’ambiente. Il 1972 sancisce la nascita dell’ecopolitica mondiale: viene pubblicato il rapporto del Club di Roma (1) e si svolge la Conferenza ONU di Stoccolma dalla quale muove il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

A livello internazionale si moltiplicano le Convenzioni aperte alla firma secondo un’organizzazione tematica (2), o geografica (3), secondo criteri di regionalizzazione estremamente variabili. Altrettanto numerose si susseguono le conferenze inaugurate per argomento (4) o su base macroregionale, alcune delle quali danno vita ad iniziative originali e ad ulteriori accordi internazionali. Sull’onda di una crescente e ambigua mediatizzazione, aumenta la risonanza di iniziative sociali e politiche ma anche di eventi catastrofici: la fondazione di Greenpeace (Canada) nel 1971; la fuga di diossina dall’industria Icmesa di Severo (Italia) nel 1976; il naufragio della petroliera Amoco Cadiz sulle coste bretoni e l’incidente alla centrale nucleare di Three Miles Island (Usa) nel 1978; i primi

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partiti verdi in Svizzera, 1979, e Germania, 1980; la fuga di gas dall’industria chimica Union Carbide a Bhopal (India) nel 1984; la fuga radioattiva dalla centrale nucleare di Chernobyl del 1986.

Fig. 1. La moltiplicazione degli attori dell’ecopolitica

Fonte: Le Prestre, 2005

La terza fase dell’ecopolitica è quella attualmente in corso. Essa si svolge dalla messa a punto teorica (Our common future, Rapporto Bruntland, 1987) e dall’istituzionalizzazione politica (Conferenza ONU su ambiente e sviluppo, Rio de Janeiro, 1992) del concetto di sviluppo sostenibile. Tre fattori incidono profondamente su questo cambiamento. La presa di coscienza verso un gran numero di rischi, antropici e naturali di estensione mondiale (biodiversità, cambiamento climatico, assottigliamento della coltre d’ozono, ecc.) o continentale (effetti degli incidenti industriali, diminuzione del pescato, siccità e inondazioni) ma con devastanti effetti locali. Il consolidamento di ONG ambientaliste e la moltiplicazione degli attori sociali sensibili alle tematiche ambientali. La modificazione dell’ordine politico internazionale, dopo l’implosione del sistema sovietico, verso schemi multipolari ancora in divenire, sotto la protezione statunitense dell’egemonia occidentale.

Alla fine del percorso risulta possibile individuare nove priorità normative dalle proprietà transcalari alle quali le politiche ambientali, ma non solo, dovranno fare riferimento per il futuro: 1) il rispetto di tutte le forme di vita; 2) l’ambiente come preoccupazione e patrimonio comune dell’umanità; 3) l’interdipendenza dei valori ideali (pace, ambiente, salute, diritti dell’uomo e libertà fondamentali) che si legittimano e rinforzano reciprocamente; 4) l’equità intergenerazionale; 5) il

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principio di prevenzione; 6) il principio di precauzione; 7) il diritto allo sviluppo; 8) la lotta alla povertà; 9) la promozione di consumi sostenibili e di politiche demografiche appropriate (Le Prestre, 2005).

3.1 Sviluppo sostenibile e innovazione politica

Fin dal 1994 il geografo italiano Adalberto Vallega individua lo sviluppo

sostenibile come il fattore centrale, non solo in campo ambientale, delle politiche che definisce ‘innovative’, rispetto a quelle ‘convenzionali’. La sostituzione del concetto di crescita (solo quantitativa) con il concetto di sviluppo (anche qualitativo) “non esclude ovviamente la crescita economica, ma la ingloba in un quadro più ampio, nel quale si tiene conto dell’esigenza di soddisfare sia le potenzialità umane e le aspettative delle comunità nel loro complesso, sia le potenzialità individuali. (…) Il rispetto dei diritti naturali della persona si traduce nella garanzia di un coacervo di libertà e di facoltà che, nel loro insieme, vengono usualmente qualificate di libertà politiche. A questa variabile si conferisce crescente rilevanza, poiché si rafforza e diffonde la percezione che non sia possibile un soddisfacente sviluppo se non in presenza di un elevato livello di democrazia sostanziale” (Vallega, 1994, p. 59). Si sviluppa da allora una convergenza di opinioni nel riconoscere al concetto di sviluppo sostenibile un forte orientamento all’azione politica a tutte le diverse scale di gestione del potere. Il rapporto tra sviluppo e ambiente si erge a nodo paradigmatico della geografia (Spinelli, 2000).

Analizzando il rapporto fra economia e potere, la Revue francese di geoeconomia pone il tema dello sviluppo sostenibile come campo di indagine privilegiato della “geoeconomia”, intesa come programma scientifico di ricerca finalizzato a re-introdurre pragmaticamente le relazioni di potere nel dibattito economico (Maréchal, 2002). È, così, nel perseguimento dello sviluppo sostenibile e delle sue intrinseche prerogative etiche e normative, che la sfera politica stimolata da quella sociale per il tramite della società civile internazionale può cercare efficacemente di recuperare incisività (Bourg e Maréchal, 2002) costringendo la sfera economica ad una gestione regolata e sotto controllo (Passet, 2002), e diventa capace di inquadrare il libero funzionamento del mercato entro limiti ecologici e morali, qualitativi e quantitativi.

Ne consegue un’inevitabile politicizzazione della questione ambientale. La definizione dei problemi ambientali e le soluzioni prescelte, infatti, comportano sempre e comunque una distribuzione degli oneri e dei benefici per la quale certi attori guadagnano e altri perdono. Ciò genera conflittualità alle diverse scale e fra le diverse scale di regolazione politico giuridica, dove vengono rimessi in gioco gli equilibri di potere. Per gli Stati nazionali, comunque, l’ambiente non può che continuare a restare una preoccupazione secondaria rispetto alla sicurezza nazionale, alla salute pubblica, la crescita economica, l’impiego, la redistribuzione

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e lo sviluppo locale. L’ambiente viene dopo, se non riesce ad intrecciarsi con una delle altre priorità (Le Prestre, 2005).

Le implicazioni ecologiche, sociali ed economiche delle politiche ambientali, inoltre, sono in gran parte ignote, il che pone la ricerca scientifica in una posizione fondamentale ma delicata e ambigua. La ricerca del consenso sulle questioni ambientali implica l’adozione di prospettive idealistiche, ma la ricerca scientifica non può dettare le scelte della politica, almeno non senza modificare le dinamiche di ricerca del consenso e quelle di finanziamento della ricerca. Contestualmente allo sviluppo sostenibile si introduce il principio di precauzione che, a fronte di danni potenziali gravi e in un contesto ad alta indeterminatezza scientifica, invita a prevenire in ogni modo il pericolo supposto nell’attesa di diminuire il livello di incertezza.

Utilizzata come soggetto elettorale e propagandistico, la questione ambientale offre alcuni vantaggi politici di rilievo. In quanto problema complesso e interessato da dinamiche di lungo periodo, i tempi di verifica dei provvedimenti sono superiori alle scadenze elettorali e l’attività politica non è di fatto sottoposta a verifica. La drammatizzazione ‘emergenziale’ dei singoli problemi, inoltre, consente di distogliere l’attenzione dalle soggiacenti dinamiche o da altri problemi sociali più o meno connessi; il carattere di emergenzialità permette interventi in deroga alle normative, che possono mascherare o essere funzionali ad altri interessi particolaristici.

La questione ambientale e la protezione dell’ambiente si dimostrano comunque vettori fondamentali di innovazione politica. Da un lato il richiamo al principio di sussidiarietà legittima di fatto determinate forme di governance e non si ferma certo alla materia ambientale. Dall’altro, il riferimento allo sviluppo sostenibile rinnova e amplia le possibilità di scelta dei decisori politici, conduce a criticare l’opacità della presa di decisioni, ridimensiona le ideologie incentrate sull’acritica fiducia nel progresso tecnico, rinnova interessi, valori e attori attorno alle prospettive ecologiche, e contribuisce fattivamente al rinnovamento del rapporto fra governanti e governati verso forme di governance e di democrazia deliberativa alle diverse scale (Lascousmes, 2005). 4. SFERA ECONOMICA E QUESTIONE AMBIENTALE

Economia e ambiente sono strettamente intrecciati. Non solo perché la prima

ha grandi responsabilità nel deterioramento del secondo, ma anche perché i suoi strumenti sembrano costituire, all’oggi, la via obbligata al contenimento, se non alla risoluzione dei problemi ambientali.

Dal punto di vista ecologico il sistema economico alimenta una circolazione di materia, energia e informazione, che tende a modificare il resto dell’ecosistema

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secondo modalità diverse da quelle dell’agire naturale dell’ecosistema stesso. L’attuale funzionamento del sistema economico sembra inconciliabile con la preservazione di un ambiente adeguato alla sopravvivenza della specie umana nei quadri ecologici del pianeta terra. Due principali frizioni, una di carattere temporale e una spaziale, individuano il rapporto fra ambiente ed economia. Orientata al massimo profitto nel più breve periodo, l’economia capitalista produce trasformazioni geo-ecologiche a velocità non compatibili con quelle dei processi di riequilibrio naturale (Conti et al., 1999).

Le applicazioni economiche delle tecnologie, inoltre, vanno più veloci della possibilità di verifica dei rischi implicati dalle tecnologie stesse. In ottica spaziale, non diversamente, le caratteristiche meccaniche, chimiche e fisiche delle sfere componenti l’ecosistema terrestre fanno si che una distanza, anche grande e comunque difficilmente prevedibile, possa intercorrere fra il luogo in cui una trasformazione avviene e il luogo in cui i suoi effetti si manifestano. Tanto più in un contesto globalizzato.

Le invenzioni della tecnica moderna hanno riguardato quasi esclusivamente risorse non rinnovabili; le innovazioni relative alle risorse rinnovabili, invece, si sono concentrate sul loro sfruttamento senza prendere in considerazione le esigenze di conservazione degli stock (Tinacci Mossello, 1990). Il ciclo umano della produzione e del consumo si chiude ogni volta con la distruzione di una quota di risorse non rinnovabili e con l’immissione di scorie nell’aria, nell’acqua e nel terreno (Conti et al., 1999). Legati a doppio filo, il modello economico capitalista e il modello energetico a consumo estensivo di combustibili fossili non sembrano poter essere modificati se non contemporaneamente e nei loro stessi presupposti (Durand et al., 2007).

Di contro, proprio sul degrado ambientale la sfera dell’economia ha fondato nuove attività e ha dato vita ad un nuovo mercato che spazia dall’alimentazione all’abbigliamento, agli spazi residenziali, alle vacanze. Nei paesi industrializzati si è sviluppato un mercato dell’industria ecologica che si occupa di recuperare situazioni ambientali danneggiate e di vendere il marchio ‘ambiente’ accostandolo a prodotti, attori e situazioni (Nebbia, 1999). Nuove tecnologie ecologiche attivano nuove produzioni e nuove industrie per la decontaminazione e per la protezione dell’ambiente. Con un effetto auto-poietico in termini di mantenimento della domanda di ripristino ambientale e di sviluppo dell’industria ecologica (Conti et al., 1999). 4.1. Valore e proprietà dell’ambiente

Fino a tempi recenti il libero accesso alle risorse ambientali è stata la migliore

esternalità positiva dell’economia e, forse, il più grande contributo allo sviluppo economico dell’occidente.

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L’ambiente è un esempio di ‘bene pubblico’, un bene, cioè, che viene goduto simultaneamente, senza rivalità e in modo non esclusivo da tutti i componenti di una certa comunità. Non essendo raggiungibile l’ottimo collettivo, il bene pubblico genera la necessità di un controllo esterno finalizzato ad una costante e sufficiente produzione (o riproduzione) del bene pubblico stesso. È in questo campo che lo Stato moderno si è progressivamente ritagliato il suo ruolo, ed è precisamente questo suo ruolo ad essere rimesso in discussione con più veemenza dalla globalizzazione. Per questo motivo e per l’estensione planetaria della sua portata, la questione ambientale ha riaperto il dibattito portando all’individuazione della nuova categoria dei ‘beni pubblici globali’, la cui ricerca di un auspicabile ottimo collettivo universale, tuttavia, si scontra con i caratteri strutturali della società internazionale.

Da qualunque angolatura ed a qualunque scala geografica, fulcro del rapporto fra ambiente ed economia sembrano essere i diritti di proprietà. Almeno nella misura in cui il mercato è un’istituzione che sovrintende allo scambio dei diritti di proprietà e senza definizione e assegnazione dei diritti di proprietà esso non può funzionare (Musu, 2000). In assenza di una chiara definizione di titolarità, quindi, i beni ambientali sono inevitabilmente destinati a una gestione inefficiente (Pozzo, 2002) ben rappresentata dalla tesi tragedy of commons preentata in un’articolo del 1968 dal biologo Garret Harding su Science (5).

Lo strumento teorico dei beni pubblici globali pone le condizioni per l’ingresso del soggetto ‘ambiente’ nella scala universale dei valori e per la sua conseguente e progressiva protezione giuridica in qualità di bene supremo, come la pace o la vita umana.

La protezione politica dell’ambiente, tuttavia, sembra non potersi che fondare sulla valutazione economica concreta di una determinata funzione dell’ecosistema, per consentire la calibratura degli interventi politici di controllo, tutela, arbitraggio e compensazione. Ma quanto vale l’ambiente? E quanto i “servizi ambientali” (6)? Uno studio del 1997 quantifica in un minimo di 33 mila miliardi di dollari l’anno il valore complessivo dei servizi ambientali (Costanza et al., 1997). Secondo più recenti calcoli dell’Unep (2006), invece, l’apporto economico delle mangrovie e delle barriere coralline oscilla fra i 200 e i 900 mila dollari per chilometro quadrato.

Simili esercizi non sono poi così rari, ma la valutazione economica del bene ambiente si presenta critica e contraddittoria sotto molteplici punti di vista. Il prezzo di un bene ‘senza prezzo’ è difficoltoso da determinare e delicato da consolidare come precedente. I costi e i benefici sono generalmente calcolati a partire da una situazione di riferimento, che non è detto sia la migliore possibile. Le modalità di calcolo presuppongono un’uniformità di valori e di obiettivi difficile da porre in essere, alle diverse scale, facendo calibrare responsabilità teorica ed controllo del territorio pratico. La monetizzazione delle conseguenze e delle risposte presuppone una delicatissima scelta politica per la gerarchizzazione degli

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obiettivi e per la messa a punto della nozione di “rischio accettabili” (Sagoff, 1988).

Allorquando l’ambiente si trasforma da esternalità positiva a servizio compensato e retribuito, attorno alla questione ambientale si vengono a creare innovazione politica ed effervescenza socioeconomica. Anche perché l’incontro\scontro fra la proprietà dell’ambiente, confusa per definizione, e il suo valore economico, contestabile per definizione, produce squilibri e differenziali che a loro volta ingenerano movimenti di aggiustamento e dinamiche alle e fra le diverse scale geografiche.

Seguendo un percorso primigenio (originale), le preoccupazioni ambientali nascono dall’operato della società civile transnazionale, trovano istanza presso le istituzioni politiche internazionali e vengono riconosciuti e proclamati ideali supremi, stabilendosi in una ipotetica scala universale dei valori. Da qui si ridispiegano, a cascata dal macro al micro, legittimando e influenzando l’operato di attori internazionali, mondiali e macroregionali, nazionali e locali (sub-nazionali).

Alla crescente regolazione politico giuridica in materia ambientale si associa una vera e propria proliferazione dei livelli di governo dell’ambiente, in senso orizzontale, tra autorità appartenenti allo stesso ordinamento giuridico, e in senso verticale, fra organi appartenenti a ordinamenti giuridici distinti (Caravita, 2003).

5. PROTEZIONE DELL’AMBIENTE A LIVELLO INTERNAZIONALE Inflazione normativa, sovrabbondanza di regole, ipertrofia giuridica. È

opinione comune, non solo fra i giuristi, che le leggi in materia ambientale siano troppe e troppo sconnesse fra loro. Il tessuto normativo internazionale mondiale in materia ambientale, tuttavia, si compone di due consuetudini, alcune dichiarazione di principio e un migliaio di trattati bi- o multi-laterali nei quali, spesso, le problematiche ambientali sono trainate o velano altre questioni politiche ed economiche.

Le consuetudini consolidate riguardano: 1) il divieto di inquinamento transfrontaliero, orientato ad impedire l’esercizio di attività in uno Stato che possano originare guasti ambientali in un altro Stato. 2) L’obbligo di cooperazione, che impone agli Stati di comunicare tempestivamente i rischi, potenziali o attuali, ai quali altri paesi sono esposti.

Le dichiarazioni di principio sono quelle di Stoccolma, che concretizza le prime preoccupazioni ambientali, e di Rio de Janeiro, che da vita al documento programmatico Agenda XXI e apre alla firma le Convenzioni quadro sulla Biodiversità e sul Cambiamento climatico. Tali dichiarazioni, è bene sottolinarlo, non costituiscono una fonte autonoma di norme internazionali generali ma si configurano come mere raccomandazioni alle quali gli Stati sono liberi o meno di

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conformarsi. Ciò nonostante, esse possono svolgere un ruolo rilevante nello sviluppo del diritto internazionale. La Convenzione sul cambiamento climatico, ad esempio, ha istituzionalizzato la Conferenza delle parti, qualificandola come organo supremo della Convenzione stessa e affidandole il compito di monitorare l’applicazione della Convenzione e di assumere tutte le decisioni necessarie per promuoverne gli obiettivi.

Nel corso della terza Conferenza (delle parti) tenutasi a Kyoto nel 1997, è stato adottato l’omonimo Protocollo che fissa tempi e limiti quantitativi per la progressiva riduzione di sei gas aventi effetto serra e dunque considerati fra i responsabili del cambiamento climatico. Per i paesi industrializzati l’accordo prevede una riduzione delle emissioni inquinanti del 5,2 per cento rispetto a quelle del 1990 nell’arco temporale 2008-2012, mentre sono invece esclusi dal negoziato i paesi in via di sviluppo, per evitare di ostacolare la loro crescita economica. Per l’entrata vigore del Protocollo è occorsa la ratifica di almeno 55 nazioni produttrici di almeno il 55 per cento delle emissioni di gas serra, condizione raggiunta nel 2004 con la ratifica della Russia, responsabile del 17,4 per cento delle emissioni. Tra i paesi non aderenti figurano gli Stati Uniti (36,1 per cento del totale delle emissioni) che dal 2001 hanno abbandonato la Conferenza.

Per quanto riguarda i trattati si può risalire fino all’Ottocento trovando questioni ambientali comprese in accordi internazionali (1885, Tutela del Reno), ma la maggior parte di quelli fin ora firmati è posteriore al 1972 ed ha carattere macroregionale o bilaterale. Fra i principali settori d’interesse ambientale nei quali sono stati raggiunti accordi internazionali ci sono: 1) i mari e gli oceani, 2) i corsi d’acqua e i laghi, 3) l’atmosfera, 4) il patrimonio naturale e culturale, 5) le specie e le aree protette, 6) il settore dell’energia nucleare, 7) le attività ultrapericolose.

Riguardo agli attori, infine, nel quadro delle Istituzioni internazionali mondiali che si occupano di ambiente spiccano (7) la Commissione per lo sviluppo sostenibile creata nel 1992, la Divisione per lo sviluppo sostenibile in seno all’Ecosoc e il Programma sull’ambiente, l’UNEP, che figura come organo sussidiario delle Nazioni unite. Numerose agenzie dell’ONU specializzate in altri settori, inoltre, mantengono e svolgono diverse competenze in materia ambientale pur essendo specializzate in altri settori: la FAO, l’Unesco, la WMO (meteorologia), il WCP (clima), l’IMO, l’UNDP, il CTE (Comitato commercio e ambiente), l’AIEA (agenzia internazionale energia atomica). 5.1. La scala macroregionale: l’esempio dell’Unione Europea

Sempre nell’ambito dei rapporti internazionali, ad una scala di estensione

inferiore a quella mondiale, esistono diverse tipologie di ‘integrazioni regionali sopranazionali’. Architetture di associazione fra Stati sovrani che, volontariamente, devolvono una porzione delle proprie prerogative coordinandosi in organizzazioni

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di vario genere (militare, politico, economico). Dagli anni Novanta queste forme di aggregazione internazionale si sono diversificate nei contenuti e moltiplicate nel numero, soprattutto quelle di matrice economica.

Nata nel 1995, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) sta assumendo dimensioni mondiali: oltre 150 Stati hanno riconosciuto la sua competenza in materia di commercio internazionale (materie prime, beni e servizi) e la sua autorità a dirimere determinate controversie con la possibilità di infliggere sanzioni di carattere economico. Ad essa si affiancano diverse tipologie di integrazione articolate su molteplici scale, in un fiorire di soluzioni che fanno parlare di nuovo regionalismo (Durand et al. 2007, Vanolo, 2006) e individuano un nuovo livello di regolazione macroregionale, su scala continentale o sub continentale, in rapida evoluzione.

Accordi multilaterali di libero scambio (senza barriere commerciali interne), accordi doganali (con barriere doganali esterne), mercati comuni (libera circolazione dei fattori di produzione), e unioni economiche (armonizzazione delle politiche economiche) sono alcune fra le modalità più diffuse di un fenomeno in forte espansione. L’Unione europea ne è il laboratorio più avanzato. Essa, infatti, propone una simultanea, seppur embrionale e controversa, integrazione politica e socioculturale oltre che economica, ed un originale metodo di governo o governance basato su successive deleghe di sovranità.

La tematica ambientale non è prevista fra le competenze istitutive della Comunità europea. Fino all’Atto unico europeo è costante il riferimento all’articolo sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri e a quello sui poteri impliciti della Comunità. Essa ha il compito di promuovere uno sviluppo armonioso delle attività economiche e una espansione continua ed equilibrata: “e ciò non si può concepire senza una lotta efficace contro gli inquinamenti e gli altri fattori nocivi, né senza il miglioramento qualitativo delle condizioni di vita e la protezione dell’ambiente” (primo Programma d’azione comunitaria in materia ambientale, 1971; citato in Caravita, 2003, p. 89).

La materia ambientale si afferma come area d’interesse del Consiglio d’Europa in seno al quale, nel 1962, è creato un Comitato d’esperti incaricato di organizzare conferenze ad hoc. Si concretizzano così trattati come quello sulla Protezione della vita selvaggia e dell’ambiente naturale in Europa (Berna, 1979), quello sulla Responsabilità civile per danni risultanti da attività pericolose (Lugano, 1993) e quello sulla Protezione e valorizzazione del paesaggio (Firenze, 2000).

Firmato nel 1986 ed entrato in vigore nel 1997, l’Atto unico europeo si da come obbiettivo la preservazione, la protezione e il miglioramento della qualità dell’ambiente nonché la protezione della salute umana e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali (ex art. 130R) e afferma che le esigenze in materia di protezione ambientale sono una componente principale delle Politiche comunitarie. Una strada proseguita dai Trattati istitutivi dell’Unione Europea che sanciscono l’integrazione delle esigenze di tutela ambientale e di promozione dello

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sviluppo sostenibile nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle azioni comunitarie. L’integrazione delle esigenze ambientali nella definizione e nella messa in opera di tutte le politiche dell’Unione diventa una vera e propria conditio sine qua non, “passando dal niente al tutto” (Morand Devillier, 2002).

Aperta e dibattuta resta la chiave di lettura dell’impetuosa integrazione dell’ambiente nelle politiche comunitarie. È l’Europa comunitaria che investe nell’ambiente dimostrando la propria vocazione sociale? O è l’Europa dei mercanti che intravede nella materia ambientale la possibilità di rappresentarsi verso l’esterno come vera e propria Europa comunitaria incorporando, per di più, i vantaggi ricavabili dall’ecobusiness e dall’indiretta introduzione di forme di protezionismo di fatto nei confronti delle imprese extra-comunitarie non conformi ai nuovi standard introdotti?

Alla progressiva istituzionalizzazione della questione ambientale nelle carte comunitarie corrisponde una successione di sei Piani d’azione finalizzati all’attuazione pratica delle politiche ambientali, l’ultimo dei quali, denominato “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta”, copre il periodo 2001–2010. Il sesto Piano d’azione prende in considerazione quattro aree prioritarie (i cambiamenti climatici, la natura e la biodiversità, l’ambiente e la salute, le risorse naturali) e riassume i principi generali della politica ambientale europea. Nel 2003 è stata adottata la Convenzione europea per la protezione dell’ambiente tramite il diritto penale.

Scheda 1. I principi generali della politica ambientale europea Il principio di sussidiarietà, secondo il quale le decisioni politiche e quelle riguardanti le loro attuazioni pratiche devono avere luogo alla scala politico-territoriale più appropriata. Ad esso corrispondono il principio di prossimità, enunciato specificatamente alla normativa sui rifiuti (che devono essere raccolti, trattati e smaltiti a livello preferenzialmente locale, così da evitarne la movimentazione), il principio di autosufficienza e quello di partecipazione, legato alla cittadinanza. Il principio di integrazione delle questioni ambientali nelle politiche comunitarie. I principi di precauzione e di azione preventiva, che invitano, a fronte di danni potenziali gravi e in un contesto ad alta indeterminatezza scientifica, a prevenire in ogni modo il pericolo supposto nell’attesa di diminuire il livello di incertezza. Il principio della necessità dell’informazione. Il principio di correzione alla fonte dei danni all’ambiente, collegato nella sua attuazione a quelli di prossimità e autosufficienza. Il critico e variamente contestato principio “chi inquina paga”, la cui ambiguità si ripercuote evidentemente sull’applicabilità. Ad esso è collegato il principio di economicità, per il quale ai fattori ecologici deve essere attribuito un valore economico, al fine di indurre gli attori del mercato a tenere conto dell’impatto ambientale nelle scelte di investimento e di consumo. Il principio della cooperazione e della corresponsabilità, infine, è centrale per gli

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strumenti di “comand and control”, per la fissazione di normative disciplinari o di standard (EMAS, ISO, Ecolabel, ecc.) ma anche per la responsabilizzazione e il coinvolgimento alla partecipazione diretta dei cittadini e delle imprese, (eco-audit, autodichiarazioni) e per i meccanismi di sostegno finanziario (Life).

Fonte: elaborazione da Caravita, 2003

6. PROTEZIONE DELL’AMBIENTE A LIVELLO NAZIONALE Tutela e protezione dell’ambiente non sono omogenee fra gli Stati, né per

intensità né per applicazione. Nemmeno all’interno dell’Unione Europea e delle altre integrazioni statali sopranazionali. E le differenze sono notevoli anche a livello regionale, secondo l’organizzazione centralizzata, federale o decentrata dell’ordinamento giuridico nazionale. L’ambiente è tutelato con maggior intensità ed efficacia nei paesi ricchi, dove esistono le risorse per emanare e far applicare normative, in genere anche condivise. Le eccezioni sono tuttavia importanti. La Russia e altri paesi altamente industrializzati specie nel sud est asiatico, hanno una scarsa dotazione di regole ambientali e\o le applicano blandamente (Nespor, 2002a).

La tutela ambientale si diversifica secondo alcuni fattori, a cominciare dal sistema e dalla tradizione giuridica. Fra gli altri, inoltre, incidono in maniera consistente il quadro socio economico e culturale, il grado di attenzione e sensibilità all’ambiente e alla salute pubblica del governo e della collettività, le scelte politiche e di politica economica di carattere generale o collegate a specifici settori (agricoltura, industria, turismo), circostanze contingenti e specificità locali (Nespor, 2002b).

Nell’ambito del diritto pubblico, solo le Costituzioni proclamate successivamente agli anni Settanta menzionano esplicitamente l’ambiente come soggetto di interesse (Grecia ’75, Portogallo ’76, Spagna ’78, Brasile ’88, Colombia ’91, Perù ’93). A livello di sistema giuridico, invece, la materia ambientale si inserisce nella mondializzazione della tradizione giuridica occidentale in uno dei suoi modelli organizzativi: il civil law di ispirazione romano-germanica e il common law di matrice anglosassone.

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Fig. 2. La mondializzazione della tradizione giuridica occidentale

Fonte: Galgano, 2006

Il common e il civil law partecipano diversamente all’evoluzione della disciplina giuridica ambientale e lasciano intendere evoluzioni possibili anche molto differenti al modificarsi delle geometrie reciproche (Dron, 2003). La materia ambientale, tuttavia, è proprio una di quelle che più contribuisce al riavvicinamento dei due sistemi. Funzionalmente all’esigenza di proteggere il bene supremo ambiente, infatti, si assiste da un lato a un inteso sforzo di codifica e dall’altro ad un’attenzione sempre maggiore ai precedenti giuridici.

La pratica giurisprudenziale di matrice anglosassone presta maggiore fiducia al mercato, permettendo di gestire con flessibilità i rapporti fra attori e risorse. In quest’ottica, l’affidamento in proprietà del bene pubblico ambiente permette la sua miglior gestione responsabilizzando di fatto il proprietario\gestore. Alle istituzioni pubbliche spetta vegliare sulla lealtà degli scambi e sul rispetto delle poche regole, contribuendo all’internalizzazione dei costi collettivi nel prezzo del prodotto e facendo coincidere interessi generali e particolari.

La pratica giuridica romano germanico, di contro, è caratterizzata dalla definizione più chiara possibile di ciò che è possibile e di ciò che non è possibile fare. Fondata su una maggior cautela verso il mercato, l’ottica romano-germanica tende a organizzare la protezione delle risorse scarse, a moderare le disuguaglianze tramite politiche di redistribuzione e a imporre politiche di regolazione e conciliazione tramite codici, controlli e sanzioni.

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I paesi del common non conoscono, come si potrebbe pensare, una deregolamentazione in materia ambientale. Al contrario, il codice delle leggi e dei regolamenti attualmente in vigore negli Stati Uniti consta di circa 130 mila pagine; ad esso si aggiungono le norme emanate da ciascuno Stato federato nelle materie di sua sovranità o espressamente in campo ambientale. A queste si affiancano le agenzie autonome federali, circa sessanta fra le quali l’Environmental Protection Agency, e quelle statali (Nespor, 2001).

Di particolare interesse nell’ambito del common law è l’istituto del National trust britannico. Un’organizzazione privata creata fin dall’800 al fine di preservare i siti di interesse storico e le bellezze naturali, divenuta oggi così potente da essere spesso confusa con un’emanazione statale. In estrema sintesi, essa ha fondato il proprio successo sull’acquisto della proprietà delle terre da preservare e sull’efficace gestione della responsabilità territoriale. Attualmente una Legge permette al National Trust il potere esclusivo di dichiarare tali terre inalienabili anche al governo, che per esercitare la propria sovranità riprendendosi un terreno senza l’assenso del trust dovrebbe votare una Legge specifica. L’istituto della proprietà permette di adottare politiche di lungo periodo restando indipendente dalle mutazioni di governo. Ispirati dalla stessa ideologia sono stati creati negli Stati Uniti più di mille Land Trust, associazioni pubbliche o private che hanno acquistato terre per milioni di ettari (Pozzo, 2002)

6.1. La protezione dell’ambiente in Italia: attori, scale e dinamiche

La Costituzione italiana non prevede un richiamo diretto all’ambiente. Le

normative nazionali in campo ambientale sono numerose e diversificate, talvolta contraddittorie, slegate e frammentate in molteplici discipline specifiche alcune delle quali organizzate in Testi Unici a cercare di ricomporre la disciplina. Il progetto di Testo Unico sull’ambiente, di cui si parla da oltre un decennio, non sembra mai essere seriamente entrato nell’agenda politica.

I principali campi di intervento politico giuridico sono oltre una decina. L’urbanistica, disciplinata dal testo Unico del 2001, finalizzata ad una corretta pianificazione, gestione e manutenzione del territorio, dal punto di vista degli insediamenti e delle infrastrutture, attraverso piani territoriali di coordinamento regionale e provinciale, piani regolatori generali intercomunali e comunali, programmi di fabbricazione e programmi pluriennali di attuazione. La tutela del paesaggio e delle aree protette nonché delle bellezze naturali, disciplinata dal Testo Unico del 1999 che comprende anche i beni culturali. Gli incendi boschivi. Rifiuti e sostanze pericolose, disciplinati dal Testo Unico del 1997 noto come Decreto Ronchi. L’inquinamento idrico regolato dal Testo Unico del 1999. La normativa sui grandi stabilimenti industriali, che detta alcune regole sulla loro localizzazione e prende in considerazioni le valutazioni di impatto ambientale (VIA). Quella sul rischio di incidenti rilevanti, rivista nel 1999 e nota come Normativa Seveso.

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L’inquinamento atmosferico. L’inquinamento acustico. L’inquinamento elettromagnetico. La caccia, la pesca e la tutela degli animali (Ramacci, 2002).

Dopo l’istituzione del Ministero dell’Ambiente nel 1986, la riforma costituzionale del 2001 ha inciso profondamente sui modelli organizzativi della pubblica amministrazione e sulle formule organizzative ed esecutive dell’amministrazione centrale e locale, anche e soprattutto in campo ambientale. La nozione di ambiente, comunque, permane ambigua, dinamica e trasversale spaziando da materie contigue tradizionali (salute, territorio, attività produttive ecc.) a materie di recente messa a punto (energia, protezione civile, risorse alimentari, ecc.) a tematiche inesplorate o non ancora codificate (campi elettromagnetici, organismi geneticamente modificati, inquinamento luminoso, mutamenti climatici, ecc.) (dell’Anno, 2005).

Come illustra il giurista dell’ambiente Paolo dell’Anno (2005), un sistema amministrativo statale centralizzato e un sistema regionale locale (che registra notevoli diversità nell’allocazione delle competenze e delle funzioni) si articolano in un complesso di interazioni che spaziano da forme istituzionali di cooperazione, organica o intersoggettiva, a diverse forme di governance.

A livello di amministrazione centrale oltre al Ministero dell’ambiente la materia ambientale resta di grande interesse per i Ministeri: dei Lavori pubblici, dell’Agricoltura, della Marina mercantile, dei Beni culturali, degli Interni, dell’Industria, della Sanità, dei Trasporti. Sotto la vigilanza del Ministero operano organizzazioni dotate di competenze territoriali, autonomia e soggettività giuridica, come le ARPA (Agenzia regionale di protezione ambientale) e l’ICRAM (Istituto per la ricerca marittima). All’interno del Ministero dell’ambiente trovano spazio, con funzioni di indagine e regolazione, l’Albo nazionale delle imprese di gestione dei rifiuti e l’Osservatorio nazionale sui rifiuti, entrambi privi di soggettività giuridica.

A partire dal livello dell’amministrazione centrale esistono diverse formule di organizzazione dei rapporti: 1) la concentrazione delle funzioni in un unico organismo ministeriale. 2) Il coordinamento degli interessi ambientali di rilevanza nazionale mediante raccordi amministrativi fra Ministeri (8) e fra Ministeri e Regioni (concerti, intese, pareri). 3) Integrazione degli interessi ambientali con altri interessi comprimari (conferenze di servizi). 4) Forme di sussidiarietà orizzontale e governance locale (associazioni ambientaliste, consorzi volontari, strumenti di command and control, incentivi e istituti di autoregolazione e autodichiarazione).

A scala regionale e locale non sono disponibili studi e ricerche di sintesi sulla legislazione ambientale. Anzi, sono rari e superficiali persino gli studi sulle singole normative regionali, generali o settoriali (dell’Anno, 2005). In teoria allo Stato spetta la normativa tecnica e generale. Alle Regioni l’alta amministrazione e la programmazione. Ai comuni la gestione pratica e puntuale dei servizi. Alle province un mero ruolo di controllo. Nella pratica, non esiste una visione d’insieme sullo stato della regolamentazione e gestione della materia ambientale in Italia, e le

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province restano al centro delle attribuzioni amministrative in quasi tutte le filiere ambientali, anche se i comuni gestiscono compiti rilevanti e incisivi.

Alcune sentenze costituzionali hanno sancito il ri-accentramento delle funzioni ambientali locali rilevando contraddizioni fra le necessità di protezione dell’ambiente e le formalità dell’organizzazione del territorio. In certi casi le regioni non sono adeguate all’attività di alta amministrazione e programmazione (Caravita, 2003). In altri, numerosi, i comuni non hanno le capacità pratiche e le possibilità economiche per gestire rilevanti servizi ambientali. Gli endemici conflitti di interesse e attribuzione sono rimessi a forme di accordo procedimentale incentrate sulle Conferenze di servizi ma la scarsa chiarezza nell’attribuzione di competenze e responsabilità genera evidenti inefficienze e diseconomie.

Per quanto concerne i modelli organizzativi territoriali, rispetto al modello ‘a rete’ e a quello ‘consortile’, l’adozione di un modello organizzativo ‘entificato’, espressamente finalizzato alla cura dei profili materiali delle diverse funzioni ambientali, è stata quasi imposta dalla rilevanza e dalla portata spaziale degli interessi da tutelare (dell’Anno, 2005). Ne sono esempio gli Enti parco nazionali e regionali. Le Zone di controllo dell’inquinamento atmosferico. Le Autorità di bacino per la difesa del suolo. Il Servizio idrico integrato per la gestione delle acque. Le Autorità di ambito territoriale ottimale per lo smaltimento o il recupero dei rifiuti. Le Aree a rischio di grave crisi ambientale.

La struttura reticolare caratterizza comunque numerosi attori territoriali e diversi servizi ambientali: acqua, rifiuti, energia, frequenze elettromagnetiche, allocazione delle emissioni di CO2. Il modello consortile, infine, è finalizzato alla gestione coordinata e paritaria dei servizi pubblici di rilevanza ambientale fra i comuni, ma non esclude le province, e prevede la possibilità di costituire società per azioni mediante accordi di programma per lo svolgimento di servizi pubblici e la realizzazione di infrastrutture

Fattore ricorrente ad influenzare gli interventi nazionali in materia ambientale alle diverse scale è l’emergenzialità. La necessità di affrontare emergenze di fatto, catastrofi e situazioni di grave impatto ambientale, ma anche urgenze politico-giuridiche per adeguare l’ordinamento alle normative comunitarie. Talvolta l’emergenza è ricercata e procurata per agire in deroga ad altre normative o a legittimi percorsi di valutazione politica, in funzione particolaristica. Ne derivano, così, strumenti pianificatori e legislativi o troppo generici o eccessivamente autoritari, che in giusta prospettiva contribuiscono a spiegare alcuni squilibri giuridici e ambientali del paese.

Come afferma l’ex Ministro dell’Ambiente Edo Ronchi nella Relazione sullo stato dell’ambiente del 1996 il grave deficit ambientale italiano è riconducibile a 5 cause prevalenti: a) l’inefficienza dei controlli delle pubbliche amministrazioni, b) la corruzione e criminalità organizzata che hanno sperperato sullo scempio, c) l’arretratezza tecnica e scientifica che hanno portato a progettazioni e realizzazioni ad alto impatto ambientale, d) le difficoltà economiche e finanziarie che hanno

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limitato gli investimenti ambientali pubblici e privati, e) la crisi dell’occupazione che ha spinto a una strenua difesa dei posti di lavoro anche in attività ambientalmente non sostenibili. Dieci anni dopo il panorama non sembra essere cambiato in positivo. 7. ECOPOLITICA E DINAMICHE GEOECONOMICHE

Ambiente e globalizzazione sono collegati a due dinamiche basate sullo sviluppo di una straordinaria produzione normativa il primo e sulla deregolamentazione la seconda. Esse sono quindi contrapposte, almeno in apparenza. Dalla scala mondiale a quella locale, quali sono le dinamiche geoeconomiche dell’ecopolitica? E quali gli effetti sull’ambiente? Anche in questo caso le fonti informative e i dati non sono molto numerosi e si prestano a letture divergenti, ma la questione è da anni al centro dell’attenzione della Rivista giuridica dell’ambiente, ai cui lavori ci rifaremo ampiamente.

Due i punti di partenza fondamentali: 1) Il livello di benessere economico raggiunto influisce in maniera incisiva sulle condizioni dell’ambiente, sull’efficacia delle norme che ne impediscono il deterioramento e sui mezzi e le strutture che ne garantiscono il rispetto. Già il rapporto Bruntland, in effetti, sottolineava come la povertà deteriori l’ambiente e l’ambiente deteriorato produca povertà. 2) In materia ambientale l’oggetto resta spesso indeterminato, gli interessi pubblici e privati si accavallano e spesso configgono, le regole rischiano di essere inutili se non controproducenti. Fondamentali sono, quindi, le reali intenzioni e il potere concreto dei soggetti emananti le norme, l’applicazione della normative stessa, gli obiettivi e gli interessi degli attori ai quali l’applicazione è demandata.

Studi pionieri condotti negli anni Settanta e Ottanta indicavano nello sviluppo impetuoso di normative nazionali in materia ambientale e negli squilibri in materia di regolamentazione e controllo fra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo la causa di una delocalizzazione (detta race to the bottom) verso i pollution havens, cioè verso Stati che mostrano una minore regolamentazione ed una minore sensibilità nei confronti dell’inquinamento industriale o per la discarica di rifiuti. Si stabiliva così una polarizzazione ambientale: virtuosa nei paesi ricchi, dove prosperano paradisi ambientali sempre più tutelati, viziosa nei paesi in via di sviluppo, dove il deterioramento dell’ambiente cresce e si concentra (Nespor, 2002a).

La mancanza di analisi diacroniche impedisce un quadro chiaro e scientificamente significativo a riguardo. Gli studi condotti dalla seconda metà degli anni novanta, tuttavia, sembrano evidenziare nuove tendenze e non rilevano correlazioni così dirette e immediate fra maggior regolamentazione ambientale, minor competitività nazionale e delocalizzazione delle attività verso i Pvs. La

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maggior parte delle ricerche, anzi, sottolinea il ruolo dell’innovazione tecnologica ambientale, indotta dalla regolamentazione, per generare circolarmente competitività e crescita. L’incremento della quantità e della rigorosità della regolamentazione ambientale stimola l’adozione di processi innovativi e istaura un circolo positivo per la protezione dell’ambiente e per l’aumento della competitività (Nespor, 2002a).

Un’interpretazione così ottimistica suscita diverse perplessità collegate da un lato alla già citata delicatezza del ruolo della ricerca scientifica in materia ambientale; e inoltre alla constatazione empirica che, se la globalizzazione non determina veri e propri race to bottom, tanto meno è in grado di innescare un race to the top e quindi un miglioramento delle condizioni ambientali. Altri studi, in effetti, individuano maggiori investimenti diretti esteri di imprese altamente inquinanti (principalmente del settore chimico) verso Stati dotati di regolamentazioni ambientali meno restrittive. Questa causa però, si riscontra generalmente assieme ad altri fattori locali tipici della globalizzazione, come il minor costo della mano d’opera o i vantaggi fiscali dichiarati o occulti (Nespor, 2002b).

Negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, le notevoli differenze di regolamentazione ambientale fra i vari Stati hanno originato e originano situazioni differenziate, pur senza aver mai causato spostamenti eclatanti delle attività produttive inquinanti all’interno delle aree rispettive. In certi casi la presenza di regole ambientali rigorose provoca vantaggi competitivi per le imprese sottoposte alle regole stesse, consente e stimola la costituzione di nicchie produttive ad alto valore aggiunto per imprese impegnate in produzioni ambientalmente compatibili e quindi più care. Ma la regolamentazione ambientale costituisce anche una barriera efficace a protezione delle imprese, impedendo l’importazione di tecnologie o prodotti non compatibili con la normativa. La fissazione di standard ambientali si rivela così un lecito strumento per escludere imprese concorrenti che operano dove le regole sono meno rigorose.

L’“effetto California” è il meccanismo indotto, tipico delle federazioni e delle unioni statali, per il quale lo Stato che per primo introduce regole ambientali più restrittive costringe gli altri Stati ad adeguarsi. Tale dinamica ha effetti molteplici, collegati al contesto politico giuridico generale e può interrelarsi con altre normative assumendo contorni inattesi. Nell’Unione Europea, ad esempio, vige il principio per cui è da ritenersi comunitaria ogni merce che incorpori almeno il 50 per cento di componenti realizzate in uno Stato dell’Unione. In Italia, tale principio ha innescato un decentramento segmentato delle fasi produttive più inquinanti (sempre inferiori al 50 per cento del prodotto finito) verso i paesi caratterizzati da una regolamentazione meno rigorosa o applicata blandamente, come nel caso della concia delle pelli verso la Romania e la Bulgaria, e la lavorazione delle tomaie verso l’Albania (Nespor, 2002b).

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I settori industriali più stabili e competitivi sui mercati internazionali sono, costantemente, quelli a maggior tasso di inquinamento. Secondo le teorie economiche, tuttavia, tre tappe fondamentali dovrebbero garantire un progressivo svolgimento positivo: 1) l’aumento dell’attività economica e produttiva determina un iniziale aumento dell’inquinamento e un deterioramento dell’ambiente; 2) l’aumento del reddito accresce la richiesta di ambiente sano. Ulteriori attività inquinanti sono permesse solo se i costi di inquinamento sono internalizzati e le imprese sono spinte ad adottare processi produttivi meno inquinanti; 3) un ulteriore aumento del benessere porta ad una crescente richiesta di prodotti ambientalmente compatibili riducendo utilizzazione e quindi produzione di beni inquinati.

Come dimostrano le analisi degli effetti dei Programmi di aggiustamento strutturale imposti dagli istituti finanziari internazionali (Banca Mondiale, FMI), i paesi che decidono o sono costretti ad intraprendere la via dell’industrializzazione non arrivano ad uscire dalla prima fase e a godere degli effetti circolari e positivi per l’ambiente previsti per le fasi successive. Le ragioni sono molteplici e vanno dalla necessità di pagare i pregressi debiti con l’estero all’inefficienza e alla corruzione delle classi politiche locali (Nespor, 2002b).

La rassegna eseguita dal giurista Stefano Nespor (2002b) dagli anni Ottanta, su studi scientifici istituzionali e non, giunge alla conclusione che gli interventi imposti dai centri decisionali economico-finanziari di livello internazionale ai Pvs gravati da un debito non più sostenibile hanno effetti sia positivi che negativi sulle condizioni ambientali degli stessi Pvs. Tali effetti variano grandemente in ragione di altri fattori locali fondamentali fra i quali: le condizioni politiche e sociali, il quadro storico e le condizioni preesistenti, i sistemi giuridici e culturali che fungono da contesto all’intervento.

L’adozione di sistemi proprietari moderni, basati su un sistema formalizzato e giuridicamente tutelato in sostituzione a consuetudini e sistemi tradizionali ha avuto effetti contrapposti, come dimostra il caso del Brasile. Talora ha stimolato pianificazioni territoriali di lungo periodo con l’introduzione di colture perenni e, parallelamente al microcredito, ha permesso l’adozione di pratiche di coltivazione intensiva ma razionale e conservativa delle risorse ambientali. Altre volte ha permesso l’introduzione di pratiche di sfruttamento del territorio e incoraggiato deforestazioni nel nome dei diritti di proprietà (Nerspor, 2002b). Ma anche l’introduzione di coltivazioni commerciali al posto di colture tradizionali ha, sia introdotto shock in termini di biodiversità, sia introdotto destinazioni più efficienti dell’impiego del territorio.

Le dinamiche geoeconomiche innescate dal diritto dell’ambiente possono anche avere effetti positivi sull’ambiente. Esse, tuttavia, sono spesso vanificate o rese negative dalle carenze degli aspetti giuridici e istituzionali a livello internazionale e nazionale, sia dalle incontrollate modalità con le quali i governanti gestiscono l’integrazione economica, soprattutto per quanto attiene alle politiche di redistribuzione (Nespor, 2002a). Nei paesi sviluppati, in particolare, sul mercato

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interno riescono ad avvantaggiarsi quelle imprese che illecitamente si sottraggono in tutto o in parte al rispetto delle regole, poiché possono offrire i medesimi prodotti o servizi a costi notevolmente inferiori.

Pur mancando documentazioni comparative, sembra dimostrata una forte correlazione fra assenza di democrazia, di strutture partecipative, di libertà civili ed economiche, di clima normativo ed economico prevedibile e di deterioramento dell’ambiente (Nespor, 2002b).

La globalizzazione crea vaste aree nelle quali, senza alcun controllo, si sviluppo tutto ciò che non è accettato o tollerato in altre (Nespor, 2002b). Ha dunque favorito, anche in campo ambientale (Muti, 2005a), il “mercato della legge” e cioè la possibilità per molteplici attori di investire nei traffici transnazionali riguardanti ciò che è vietato dagli Stati nazione, senza che questi siano in grado di far rispettare le loro proibizioni (De Maillard, 2001).

Come nel caso italiano, dove la iper regolamentazione nasconde in effetti una reale e crescente depenalizzazione e disapplicazione. Le caratteristiche strutturali della normativa, la confusione e l’approssimazione (Amendola, 2003), consentono il prevalere delle eccezioni particolari (deroghe, proroghe, emergenze) sulle regole generali, in un quadro di illegalità istituzionale per quanto riguarda attribuzioni ed esercizio di poteri, competenze e responsabilità. In Italia, dove almeno tre regioni sfuggono al controllo della legalità statale, le leggi facilitano legalmente il riciclo di capitali frutto di azioni illegali e più del 25 per cento del Pil sfugge al controllo delle istituzioni legittime (Muti, 2005b), nel campo ambientale sono presenti oltre 150 ecomafie impegnate in tutti i principali capitoli della criminalità ambientale (Si vedano in proposito i siti internet di Legambiente e della Commissione parlamentare sul Cilco dei rifiuti).

9. CONCLUSIONI Di diretta derivazione economica e aziendale il neologismo governance

esprime “l’insieme dei processi di interazione tramite i quali delle regole collettive sono elaborate, decise, legittimate, messe in opera e controllate” (Jacquet et al., 2002). Esprimendo una connotazione multipolare ed orientata all’efficacia essa rivela la propria pertinenza laddove l’idea di governo come unica struttura incaricata della direzione della cosa pubblica sembra sempre meno esaustiva, anche perché l’idea stessa di direzione è parzialmente svuotata di significato in fronte alla logica delle reti, all’accrescimento e alla complessificazione degli attori e delle interazioni.

Il filo diretto con la protezione dell’ambientale e con l’ecopolitica, assicurato dal principio di sussidiarietà, contribuisce fattivamente a dare alla governance un’accezione sempre estremamente positiva, anche se non necessariamente

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rispondente alla realtà. Tanto che le numerose definizioni proposte ne sottolineano invariabilmente la profonda valenza morale, soprattutto nell’ottica della cittadinanza, ma si limitano a definire una ‘buona governance’ (ibidem) rispetto ad una governance astratta e neutrale. In tal senso, tanto a scala globale quanto locale, la governance dovrebbe mirare a risolvere tre esigenze prioritarie: l’efficacia, l’equità e la responsabilità democratica; per mezzo di sei principi guida quali: la specializzazione, la responsabilità politica, l’equilibrio, la trasparenza, la competenza e la solidarietà.

Lo sviluppo della coscienza ecologica scardina i tradizionali canoni percettivi e comportamentali legati alla cultura, rendendo imperativa una nuova morale incardinata sulla responsabilità e sull’etica della responsabilità (Lanternari, 2008). Ciò rinnova l’articolazione delle competenze e la dialettica politica e regolativa fra: 1) le integrazioni regionali sopranazionali, 2) le tradizionali partizioni amministrative regionali sub nazionali, 3) le nuove partizioni territoriali locali, sempre a scala sub-nazionale. Nell’ottica della governance, inoltre, tale dialettica dimostra una concreta e crescente capacità di legittimare gli interlocutori, circolarmente e reciprocamente, istituzionalizzandoli.

Soprattutto in campo ambientale, l’analisi delle forme di governance rende trasparente l’unicità del momento e la portata del cambiamento in atto attraverso la turbolenta transizione dalla società industriale verso l’età dell’informazione descritta da Manuel Castells (1998, 1999, 2001). In progressiva e inarrestabile affermazione, la logica delle reti rappresenta un cambiamento qualitativo nell’esperienza umana; un cambiamento così radicale da indurre il suo più fine analista ad avanzare l’ipotesi che la società in rete sia caratterizzata dall’interruzione dei ritmi, sia biologici sia sociali, associati alla nozione di ciclo di vita. Ed è proprio sulla base dell’evoluzione delle relazioni fra uomo e natura che Castells giunge all’individuazione dell’ingresso dell’umanità in una nuova era..

L’esistenza umana è stata caratterizzata per millenni dal dominio della natura sulla cultura. L’instauratasi dell’età moderna si associa alla rivoluzione industriale e al trionfo della ragione, vedendo la dominazione della cultura sulla natura. Nella nuova fase che si sta aprendo la cultura rimanda alla cultura e la natura è stata soppiantata al punto da dover essere salvaguardata e fatta rivivere artificialmente come forma culturale. Varcata la soglia di una dimensione puramente culturale dell’interazione e dell’organizzazione sociali, l’umanità è entrata nell’età dell’informazione, contrassegnata dall’autonomia della cultura in rapporto alla natura, ovvero alle basi materiali dell’esistenza. Ma ciò, sottolinea Castells, non è necessariamente motivo di celebrazione.

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(1) “The limits of growth” (i limiti della crescita). Studio generalmente noto come “I limiti dello sviluppo” in una fuorviante traduzione e divulgazione che sembra contraddire obiettivi e contenuti del lavoro.

(2) Fra le quali: Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, Parigi ’72; Convenzione quadro sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero, ’79; Convenzione diritto del mare, Montego Bay, ’82; Convenzione protezione coltre ozono, ’83.

(3) Fra le quali: Convenzione di Barcellona per la protezione del Mar Mediterraneo, 1976; Convenzione San Salvador a difesa del patrimonio culturale delle Nazioni americane, 1976; Convenzione flora e fauna marine nell’Antartico, 1980; Convenzione di Cartagena per l’ambiente marino della regione caraibica, 1983; Convenzione di Nairobi per le zone costiere dell’Africa orientale, 1985; Convenzione di Nomea per la regione pacifica meridionale.

(4) Fra le quali: Alimentazione, Roma ’74; Habitat umano, Vancouver, ’76; Acqua, Mar de la Plata; Desertificazione, Nairobi, 1977; Clima, Ginevra, 1979; Energia rinnovabile, 1981; Sessione speciale del PNUE e creazione della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo; 1982.

(5) In un villaggio dedito solo all’allevamento tutti gli allevatori portano le loro bestie a pascolare in un alpeggio comune. Per aumentare il profitto ogni allevatore tende a far pascolare più capi possibile poiché: a) in mancanza di politiche comuni il valore marginale di ogni capo di bestiame corrisponde ad un ritorno economico pressoché intero; b) il costo derivante dai problemi di sovra-pascolo è condiviso da tutti gli allevatori ed è una frazione dei benefici procurati. Con razionalità economica ogni allevatore aumenta costantemente la propria mandria sia per i benefici che ne trae sia per le perdite altrimenti prevedibili, poiché gli altri allevatori agirebbero comunque di tal sorta, facendo gravare su di lui costi ambientali aggiuntivi non compensati dai corrispondenti vantaggi marginali. Il pascolo, e con lui il villaggio, è inesorabilmente destinato a scomparire.

(6) La depurazione dell’acqua e la purificazione dell’aria, la regolazione del clima, i processi di impollinamento, la rigenerazione dalla fertilità del suolo e qualunque altro genere di bene primario necessario all’agricoltura o all’industria, ai quali si aggiungono molteplici servizi alle scale inferiori e in campi particolari, come quello che le alghe salate della baia di Mont St. Michel offrono all’ostricoltura francese (Smouth, 2005).

(7) Gran mole di dati e informazioni su questi attori, e sulla maggior parte di quelli citati nel presente lavoro, è facilmente reperibile sugli omonimi siti internet e su Wikipedia.

(8) In estrema sintesi si evidenziano: 1) competenze esclusive del Ministero, 2) competenze che il Ministero esercita come soggetto titolare del potere di ‘concerto’, 3) competenze nelle quali il Ministero è ‘concertato’ da altri Ministeri, 4) competenze che necessitano del parere di altri Ministeri, 5) competenze esercitabili con Decreto governativo d’intesa o a seguito di Conferenza unificata, 6) competenze da svolgere d’intesa con le Regioni, 7) competenze da esercitare d’intesa con altri Ministeri (dell’Anno, 2005).

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