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magazine Orchestra europea Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna n.13 maggio 2017

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Orchestra europea

Filarmonicadel Teatro Comunaledi Bologna

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Nella società odierna, la dissociazione tra unnome - o un aggettivo - e il suo significatoappare, talvolta, stupefacente, in tutta la suaevidenza.

Pensiamo al caso dei cosiddetti social: c’èqualcosa di più antisociale che pensare di“chiedere un’amicizia” su facebook a qualcunoche nemmeno si conosce o di più deprimentedel vedere gruppi di persone, atomizzate, alleprese col proprio telefonino, convinte di farequalcosa di “sociale”, appunto, quandopotrebbero certo meglio parlare col propriovicino?

Oppure, pensiamo all’uso del nome di grandiartisti del passato per dare dignità a luoghi epaesaggi devastati dalle più becere logichecommerciali e di “modernizzazione”: se sipercorre qualche statale veneta andando versocittà come Padova, Castelfranco Veneto, Treviso,balza agli occhi una lunga teoria di orrendicapannoni - spesso vecchiotti e un po’ malmessi- che si adornano dei nomi di Tiziano, Cima daConegliano, Tintoretto, Vivaldi, e così via, perabbellire centri commerciali, pizzerie, fabbrichedi arredamenti, outlet di abbigliamento,chiassosi e a buon mercato.

Allo stesso modo, alcune categoriemerceologiche, dai profumi agli oggetti diarredo, alla telefonia, alle automobili, sifregiano di aggettivi che cercano di evocare nelpotenziale compratore un senso diappartenenza a un club esclusivo, a un’élite. E

allora, ecco le auto più popolari chiamarsi“deluxe”, ecco le offerte “solo per te” dacompagnie telefoniche con milioni di clienti,ecco gli occhiali da sole “esclusivi” in regalocon la rivista che si trova in edicola.

Anche i prodotti dell’intelletto sembrano,talvolta, incappare in questo equivoco: pletoredi giornalisti che scrivono per giornali e rivistedi grande tiratura, che pubblicano libri incontinuazione e che sono in televisione ungiorno sì e uno anche, sono definiti e siautoproclamano “fuori dal coro” o “scomodi”.

Arrivati al nostro mondo, quello dei teatri, visono due termini che ne funestano le cronache:“provocatorio” e “contemporaneo”. Dell’usodella parola “provocatorio” si realizza ormai unabuso, perpetrato per movimentare l’ambienteda parte di registi che calcano da anni la scenacon produzioni che spesso stravolgonoaddirittura il senso stesso del testo teatrale, peril puro piacere di far parlare un po’ di sé einvece, generalmente, annoiano più che mai. Lacosa interessante è che molto spesso questeopere “scomode” e/o “rivoluzionarie” sonoapplaudite da un pubblico perlopiù della buonaborghesia che, teoricamente, dovrebbe sentirvacillare il proprio mondo e le proprie sicurezzenell’affrontare queste messe in scena e, invece,se ne torna a casa soddisfatto e, semmai,lusingato di aver colto la provocazione. Invecedi preoccuparsi se lo spettacolo erasemplicemente bello o meno.

Stesso discorso per l’aggettivo“contemporaneo”: la guerra per bande chespesso vivacizza i dopo concerti tra fautori dellamusica contemporanea e i suoi detrattori, vertespesso su opere che risalgono ormai acinquanta, sessanta anni fa e che dicontemporaneo non hanno più nulla. Sonostoricizzate, digerite dal flusso delle mode e,talvolta, sono ormai dei classici. Ancora, sembradi fare un’operazione di avanguardia a metterein programma opere di Stavinskij o Bartok.D’altro canto, alcuni compositori d’oggi restanotuttora legati a stilemi, tecniche e visioni dellamusica - se non della cultura in genere -risalenti a diversi lustri fa; questo permette loro,forse, di vivere nell’illusione che il tempo nonpassi né per loro, né per la loro musica,credendo così di essere sempre coevi a se stessi.

Per fortuna nostra, invece, il tempo passaeccome, e svolge il suo ruolo di grande scultore,come diceva Marguerite Yourcenar,permettendo di vivificare, anche quando non cene accorgiamo, il mondo dell’arte e dellacultura, in un alternarsi di fama e dimenticanza,senza posa.

EDITORIALE

Guido GiannuzziDirettore Responsabile

“Filarmonica Magazine”[email protected]

Filarmonica Magazinen. 13 mese maggio anno 2017Aut. Tribunale di Bologna N. 7937 del 5 marzo 2009

EditoreAssociazione Filarmonica del Teatro Comunale di BolognaVia Bertoloni, 11 – Bologna

RedazioneSede operativa c/o Teatro Auditorium Manzoni via De'Monari 1/2, 40121 Bologna

Direttore responsabileGuido [email protected]

RedazioneCaterina [email protected]

Orchestra europea

Filarmonicadel Teatro Comunaledi Bologna

Sede legale: Via A.Bertoloni, 1140126 BolognaSede operativa c/o Teatro Auditorium Manzoni via De' Monari 1/2, 40121 Bolognae-mail: [email protected]

www.filarmonicabologna.it

Hanno collaboratoPasquale FameliCecilia MatteucciPiero MioliDaniele Muleri

Foto di copertina© Stefano Cenerini

Progetto graficoPunto e Virgola, Bologna

Pubblicità [email protected]

SOMMARIOEditoriale | 03Rubriche | 05Duetti al telefono e oggetti parlanti... | 07Alfredo Casella e il linguaggio musicale... | 10Shakespeare musicografo | 13Wagner e Jung | 15Melos vs Scaenam? | 18

UN RINGRAZIAMENTO PARTICOLARE A

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LE MIE DOMANDEdi Cecilia Matteucci

A Giorgio Valdrè. Giunto a Bologna a metà degli anni '70 per l'università, vi è rimasto, con tentativi difuga. Ha lavorato in una grande casa editrice cittadina occupandosi, perlopiù, di testi scolastici per lematerie umanistiche. Non ha fatto studi musicali regolari ma ha frequentato, nella Faenza dell’infanzia,due grandi musicisti, il maestro Ino Savini e padre Albino Varotti.

La musica preferita?L'Ouverture 1812 di Čajkovskij, quella con icolpi di cannone, gli squilli di tromba e il corodei cosacchi. La mettevo sul giradischi quandogiocavo con i soldatini delle battaglienapoleoniche.

L’opera?Il ballo in maschera, con il nobile sdegno diRenato che si crede tradito dai suoi due amori:“Eri tu che macchiavi quell'anima!”

La canzone della sua adolescenza?La mente torna di Mina.

La band preferita?Per qualche motivo non sono riuscito a farmipiacere la musica della mia generazione.Preferivo le vecchie canzoni degli anni '40 checantava la mia dada, l'orchestra Rabagliati, iltrio Lescano, “adios muchachos companerosde mi vida”... Adesso che ho una certa età mipiace Vasco Rossi.

Il suo teatro preferito?Il Liceu di Barcellona. Proprio di fronte c'è unbar fantastico!

I cavalli, la sua grande passione: cosaci dice a riguardo?Cominciò più di cinquant'anni fa algaloppatoio di Villa Borghese a Roma, dovevivevo con mia madre, e prosegue ancora oggi:tutti i giorni che il Signore manda in terra,monto a cavallo. A un certo punto volevodedicarmi all'importazione e al commercio deicavalli irlandesi, poi mi è tornato in mentequello che dice il suonatore Jones al mercantedi liquori: “Tu che li vendi cosa ci compri dimigliore?”

Una domanda che non le ho fatto eche invece avrebbe voluto?Se mi avesse chiesto: “Cosa farebbe stamparesui biglietti del Teatro Comunale?” avreirisposto “Dress code: abito scuro”.

LE VIE DEI CANTI a cura di Guido Giannuzzi

Meglio suonare Chiquita Banana e avere la piscina che suonare Bach e morire di fame.

Xavier Cugat “

Cecilia Matteucci e Giorgio Valdrè

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DUETTI AL TELEFONO E OGGETTI PARLANTI.IL MONDO SONORO DI LAURIE ANDERSONdi Pasquale Fameli

Nel corso del Novecento i rapporti tra artivisive e musica si fanno sempre più strettie proficui, dando vita a stimolanti earticolate esperienze estetiche. Dallenicchie delle avanguardie artistiche emusicali, questa contaminazione tra ilinguaggi arriva a toccare anche le puntepiù intelligenti della cultura artistica emusicale di massa, capaci di assimilare e“normalizzare” ardite sperimentazionimediandole in fruttuosi compromessiespressivi. Una delle rappresentanti piùemblematiche di quest’avventura è lastatunitense Laurie Anderson (1947),divenuta nota al grande pubblico nel corsodegli anni Ottanta e Novanta per branicome O Superman (1981), incluso nelnoto spettacolo Big Science del 1982, eIn Our Sleep (1995), cantato insieme almarito Lou Reed, storica voce dei VelvetUnderground. Per quanto consacrata comestella del firmamento musicalecontemporaneo, il percorso della cantantestatunitense ha le sue radici nelle artivisive, nella scuola del grande artista eteorico minimalista Sol LeWitt, cui LaurieAnderson avrebbe presto dedicato unomaggio musicale, utilizzando un suodisegno come partitura per archi, Quartetfor Sol LeWitt (1977), dove i valori dellenote sono stati stabiliti secondo leposizioni dei numeri del disegno stesso.La ricezione e la rielaborazione dellalezione di Fluxus, network internazionaledi artisti e musicisti d’avanguardia dediti apratiche intermediali derivate dalgestualismo cageano, entra presto nellesue performance, come si evince dai suoiprimi events quale Car Horn Concert,concerto per automobili da lei realizzato aRochester (nel Vermont) nel 1972 e cheprevede un’orchestrazione di clacsonbasata su una grande partitura in cui aogni colore corrisponde un autoveicolo,operazione che si rifà chiaramente a MotorVehicle Sundown (1959) di GeorgeBrecht. Una ricerca che indaga le relazionitra il suono e lo spazio al di fuori di contestideputati caratterizza anche altreoperazioni come Chord For A Room(1972), in cui un ambiente viene

trasformato in una gigante coda dipianoforte, con corde metalliche tese tra lepareti da percuotere con un martello,oppure Duet For Violin And DoorJamb (1976), dove la musicista americanasfrutta la larghezza del vano di una portaper determinare la lunghezza dei colpid’archetto da dare sul violino; microfonifissati agli stipiti della medesima portaprovvedono ad amplificare i colpidell’archetto, che si mescolano alle notedel violino e ai rumori provocati dai calciche, di tanto in tanto, lei stessa tira allaporta.Riconducibili a uno spirito Fluxus sonoanche i duetti New York Social Life

(1977), realizzato al telefono, e StereoDecoy (1977), realizzato sul Niagara: sullariva canadese del noto fiume che divide gliStati Uniti e il Canada viene riprodotta laregistrazione di un brano per violino epiano, mentre sulla riva opposta, dall’altodi una roccia nell’Art Park Lewiston, lostesso brano viene suonato dal vivo,provocando un suggestivo effettostereofonico, un rimbalzo delle stessesonorità sul confine tra i due Paesi. Adifferenza di quelle Fluxus, le performancepiù mature e originali di Laurie Andersonhanno un carattere decisamente menoeversivo, oltre che una durata temporalemolto più estesa e un impianto narrativo

William Burroughs, John Giorno e Laurie Anderson, 1979

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che caratterizzeranno sempre più la loroautrice come storyteller fortementeautobiografica. Già in Duets On Ice(1975), brano la cui durata è determinatadal lento scioglimento di un blocco dighiaccio che fa da palchetto alla musicista,incastrata in esso con le lame dei pattini,l’azione musicale è inframezzata da brevianeddoti raccontati dalla performer stessae dà una prima prova di quell’interesse perl’oralità, la narratività e il confrontoconversazionale che caratterizzerà via viatutti i suoi spettacoli musicali successivi. InUnited States 1-4 (1983), live della duratadi sette ore e diviso in quattro parti, lastessa Anderson narra storie incentrate sumolti aspetti della cultura americana eaccompagnate da immagini e musica,oppure in Stories From The Nerve Bible(1995), complesso live multimediale doveteatro, danza, narrazione, rocksperimentale, video e improvvisazionesonora elettronica si fondono in un’unicadimensione performativa, con risultati resipossibili grazie all’uso di sofisticati supportitecnologici attraverso cui manipolare lapropria voce, così da attribuirla ai suoi varialter-ego (marionette, cloni), oppure farparlare oggetti di scena quali candele,bastoni, cuscini, o ancora trasformare ilproprio corpo in un ensemble dipercussioni elettroniche.L’aspetto più interessante e innovativodell’attività di Laurie Anderson consiste,infatti, nella pratica (mutuata da JohnCage) di “preparazione”, cioè dimodificazione degli strumenti musicalitradizionali, da svolgersi ora in direzionetecnologica. Se lo strumento prediletto daCage per la pratica “preparatoria” era ilpianoforte, per la Anderson è il violino,reinventato in diversi modi: il Self-PlayingViolin (1974), utilizzato per la prima voltain Duets On Ice, è un violino con unaltoparlante interno che riproduce a ciclocontinuo un brano pre-registrato. Lapratica di modificazione del violino trovadi volta in volta esiti nuovi e diversi, masempre orientati a una significativacollisione tra tradizione colta e tecnologiadi massa: il Tape-Bow Violin (1977),progettato da Bob Bielecki e utilizzato inuna serie di concerti di fine anni Settantaintitolata Like a Stream, è un violino conuna testina di riproduzione Revox al postodel tradizionale ponticello, da suonarsi conappositi archetti con frammenti di nastro

magnetico pre-registrato al posto dei crini,mentre il Viophonograph (1977), usatoper la prima volta nel dicembre del 1978alla Nova Convention tenutasiall’Entermedia Theater di New York, è unviolino modificato per funzionare come ungiradischi. Altri due importanti esempi diviolino “preparato” sono il Neon Violin(1980), violino trasparente con all’internodella luce al neon e il Digital Violin(1984), progettato da Max Matthews deilaboratori Bell e personalizzato da BobBielecki, che riproduce differenti suoniscaricati da disco rigido.Parallelamente alla modificazionetecnologica degli strumenti musicali, LaurieAnderson inizia a dedicarsi alla

realizzazione di installazioni sonore cherichiedono un’attiva partecipazione delfruitore. Jukebox, presentata alla HollySolomon Gallery di New York nel 1977, èun vero e proprio juke-box contenentecirca una ventina di brani della stessaAnderson incisi su vinile, mentre TheHandphone Table (1978) è un tavolo inlegno su cui i fruitori vengono invitati apoggiare i gomiti coprendosi le orecchiecon le proprie mani a fungere da cuffie: lebraccia fungono da canali di trasmissioneche veicolano una registrazione, in unasorta di ripetizione frasale dal carattereintimo e confidenziale. NumbersRunners (1978), invece, è una cabinatelefonica interattiva che registra eriproduce in differita le risposte del fruitorealle domande che una voce registrata glipone al telefono, mente Dark Dogs(1980) consiste in un enorme ambientebuio in cui sono appesi dieci enormi ritrattileggermente sfocati collegati a una consoledalla quale il fruitore può selezionarne unoa piacere e far partire così una voce pre-registrata che racconta un sogno. Riprendeinfine il concetto di “duetto” la piccolainstallazione Tilt (1994), una scatola che,se inclinata da un lato riproduce il canto diuna voce femminile, se inclinata dal latoopposto riproduce il canto di una vocemaschile, e se tenuta in orizzontaleriproduce simultaneamente il canto dientrambi.

Laurie Anderson in Songs and Stories from Moby Dick, 2000

La copertina di Big Science, il primo albumdi Laurie Anderson, 1982

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ALFREDO CASELLA E IL LINGUAGGIO MUSICALE DI GIAN FRANCESCO MALIPIEROa cura di Guido Giannuzzi

Il 5 marzo del 1947, settant’anni fa, moriva a Roma Alfredo Casella, una delle più grandi personalità del Novecentomusicale, trascurato in patria per un presunto “classicismo” che, in anni di foga contemporaneista, non gli rendevacerto buon servizio. Eppure, nel 1923, insieme a Malipiero e con il patrocinio di D'Annunzio, Casella fondò laCorporazione delle nuove musiche - che divenne la sezione italiana della Società internazionale per la musicacontemporanea, di recentissima istituzione. Casella - sensibilissimo al clima culturale dell’epoca - organizzòimportanti prime italiane, come, nel 1924 quella del “Pierrot Lunaire” di Schönberg in diverse città e nello stessoanno diresse personalmente, sempre per la prima volta in Italia, “L'Histoire du Soldat” di Stravinskij e, a Siena, nelsettembre del 1928, “Les Noces” dello stesso autore: più in generale, fu merito della Corporazione delle nuove musichel'aver invitato in Italia compositori come Bartók e Hindemith e aver fatto conoscere le opere di Honegger, Milhaud,Kodaly, Poulenc. Durante gi studi musicali, compiuti a Parigi, maturò una stretta amicizia con altri alunni delConservatorio come Enescu e Ravel e fece la conoscenza con Zola, Gide, Proust, Daudet, Degas. Compositore, direttored’orchestra, organizzatore, saggista, in questa sede s’intende rendergli piccolo omaggio, pubblicando un suo scrittosull’opera di Gian Francesco Malipiero, altro grande musicista appartenente a quella stessa generazione, purtroppooggigiorno ingiustamente poco considerata.

I primi sintomi della crisi che attualmenteinteressa l’armonia propriamente detta,l’armonia cioè che si chiama strumentale-classica e che ebbe inizio coi primi alboridel Cinquecento, coincidono col nasceredel presente secolo. L’armonia classica,basata sulle tre “funzioni” di tonica,dominante e sottodominante, era stata,infatti, oggetto, sin da G. S. Bach, di unaprogressiva penetrazione cromatica chepoco a poco ne aveva alterato lafisionomia, e quel processo cromaticogiungeva, già alla metà dello scorso secolo,al formidabile sviluppo del Tristano. Madopo Wagner il processo di alterazionecromatica si era ancora accentuato, sino aporre un serio interrogativo dinanzi alproblema totale dell’armonia. Negli anni1910-1915, varie erano le posizioniassunte dalle maggiori scuole europee difronte alla situazione determinata dai

Russi, da Strauss e da Debussy, musicistitutti che avevano - chi più chi meno -sentito la necessità di uscire dal vecchiobinomio “maggiore-minore” e di allargarei limiti del senso tonale. Questosuperamento della antica concezionemodale - già presagito da Bach e da altriminori musicisti - “bussa già alle porte” colTristano, nel quale Wagner stesso confessadi avere dimenticato ogni teoria e dimuoversi colla più grande libertà (larivoluzione era però prematura, e Wagnerper primo doveva rinunciare - nei lavorisuccessivi al Tristano - ad esplorare piùprofondamente le nuove terreintravvedute).

Ravel aveva continuato lo sfruttamentodegli armonici, superando l’accordo dinona dominante maggiore per usarecorrentemente l’undicesimo armonico, il

Articolo per i 90 anni di Gian Francesco Malipiero - Oggi illustrato 1972

quale, assieme ad un uso estremamentesottile e raffi nato delle cosiddette“appoggiature non risolte” costituisce labase della sua armonia (sono del resto oggiancora numerosissimi i compositori chebasano tutto il loro giuoco armonico susettime oppure none dominanti più o menosapientemente “mimetizzate” mediantesovrastrutture che vorrebbero crearel’illusione di un nuovo linguaggiomusicale). Mentre Ravel sviluppava così “inaltezza” l’armonia classica e soprattuttoromantica basata sugli armonici, ilviennese Arnold Schönberg, partito dalcromaticismo wagneriano, riusciva sin dal1909 (nei tre Klavierstúcke op. 11) asostituire alle antiche scale diatoniche diqualsiasi tipo la scala cromatica, stabilendol’eguaglianza assoluta dei suoi dodici suonied abolendo i vecchi “privilegi” dellatonica, della dominante e dellasottodominante. Più tardi (nel 1921-26circa) egli sviluppava la sua conquista ecreava il “Zwölftonsystem”, vale a dire lacomposizione “dodecafonica”, sia sottoforma di “serie” melodiche, sia sotto quelladi regola determinante dell’armonia.

Nel 1913, poi, scoppiava come una bombala Sagra della primavera, nella qualeStravinskij riaffermava potentemente lavitalità delle antiche scale, ma ìn paritempo dimostrava, colla politonalità cosìprepotentemente usata in questocapolavoro, la possibilità di dare un nuovosignificato alla modulazione, dapprimalimitata alla successione ed invece ormairaddrizzata nella “verticalità” dellasovrapposizione armonica. Riassumiamodunque le varie posizioni della musicaeuropea intorno al 1910-15: sfruttamentoestremo raveliano degli armonici naturali,

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italiano della sua generazione puòcondividere con lui) di non aver maiadoperato la poverissima e sciatta scalaper toni interi, per quanto quella costituisseun vero pericolo universale al principio diquesto secolo. È l’armonia che occorrevaper l’arte di Malipiero e che sola potevapermettere alla sua musica di realizzarequella fermezza di linee, quel pathosdoloroso e così umano, quella totaleassenza infine di ogni decorativismo epersino di ogni virtuosità strumentale.Carattere quest’ultimo che è essenzialedella musica malipieriana, e che è unadelle ragioni maggiori della grandedifficoltà di esecuzione di quella musica.

Ma soprattutto è un’armonia di profonda,inconfondibile originalità. Sotto apparenzeche ai loro tempi scandalizzarono icosiddetti “benpensanti” della nostraterra, e che fecero persino accusareMalipiero di mancare di “italianità”, èinvece quella un’armonia tipicamentenostra, per le sue qualità di indipendenzae di meraviglioso equilibrio. In essa,eliminato quanto vi è ormai di caduco e disuperato del linguaggio romantico,rimangono vivi e possenti gli echi dellamaggiore coralità nostra e della scuolaveneziana cinquecentesca, perchéMalipiero non rinuncia al culto dellaconsonanza e dell’accordo perfetto quandola sua arte lo richiede. Ma accanto a questielementi di secolare nobiltà, egli oppone -fondendole in una medesima eloquenza -

le conquiste più legittimedell’attualità. In quest’epoca ovequattro secoli di armonia sembranooggi dissolversi in una specie di“dissociazione atomica”, auroraprobabilmente di un nuovo mondosonoro che però non sarà concesso anessuno di noi di conoscere enemmeno di immaginare, in questaepoca oscura ed inquietante, ogniparola che valga - come èprecisamente l’arte di Malipiero - atener presente quanto rimane tuttoravivo e fecondo della tradizionepassata ed a difendere l’ordineartistico di fronte all’anarchia, èparola altamente benefica e, nel casospecifico dell’autore delle Settecanzoni, risponde ancora una volta alcompito che la storia ha sempreassegnato all’arte italiana.

(Da La Rassegna musicale, febbraio-marzo 1942)

base dell’armonia dal Medio Evo al 1900;dodecafonia (impropriamente chiamataatonalità) schönberghiana che doveva poidare origine ad un nuovo sistemacostruttivo-componistico; politonalitàinfine strawinskiana, colle sue largheconseguenze di liberazione - sia pur non dirado empirica - dalle antiche regole cheavevano diretto per secoli il movimentodelle parti nella polifonia vocale estrumentale.

Nel 1910 Gian Francesco Malipiero avevaventotto anni. Egli uscivadall’insegnamento di M. E. Bossi e di MaxBruch, didatti i quali debbono certamenteaver non poco influito - per reazione - sullaformazione della sua potente espregiudicata personalità. Come tutti quellidella nostra generazione, egli poco potevaimparare in una Italia dove a mala pena sicominciava a pronunciare il nome diDebussy (Stravinskij e Ravel vennerointrodotti da me nel 1915 all’”Augusteo”,ed erano le loro prime esecuzioniorchestrali in Italia) e dove i musicisti più“aggiornati” scoprivano con sbigottimentola scala per toni interi, che da vent’annicorreva il mondo. Ma al giovane venezianoerano bastati pochi mesi di viaggiall’estero per aver una rapida e definitivaconferma della legittimità di quanto la suasensibilità gli aveva già suggerito. Nel1913, Malìpiero aveva già pienamenteconosciuto le esperienze di Ravel, diStravinskij (egli udì in quel medesimo annoa Parigi la prima della Sagra) edi Schönberg. Egli sapevaormai che cosa fosse la musicaeuropea e quali, per unitaliano, i problemi darisolvere. L’armonia diMalipiero rappresenta unaposizione di totaleindipendenza paragonata allevarie espressioni europeesopracitate. Se anche egli haconosciuto ed approfonditoSchönberg, nulla è penetratonella sua arte delladodecafonia propriamentedetta. Nei riguardi di Debussye di Ravel, la sua armonia èaltrettanto indipendente, nonbasandosi essa mai sulle nonedominanti maggiori enemmeno sull’undicesimoarmonico. E se anche questamusica pratica correntementela compenetrazione di varietonalità, rimane peròsostanzialmente diversa daqualsiasi Stravinskij.

L’allargamento nel senso tonale è ottenutoda Malipiero dapprima col largo uso dimodi antichi: dorico, ipodorico, frigio emisolidio. Artificio che egli adopera incomune con altri molti musicisti: Russi,Debussy, Ravel ed infine Pizzetti, senzaperò che mai si possa confondereMalipiero con uno di quelli. Ma il maestroveneziano riesce soprattutto a creare unanuova atmosfera tonale con continuicontrasti ed urti fra modalità e gravitazionitonali divergenti, determinando così unaincertezza tonale, una instabilità modale,che costituisce uno dei lati piùpotentemente originali di quell’arte.

Quest’armonia è essenzialmenteantiromantica, nel senso che è pura di ogniresiduo cromatico ottocentesco. Da essasono eliminate non solamente, come giàabbiamo veduto, le none maggioridominanti, ma persino le settimedominanti in funzione cadenzale. Nullarimane dell’armonia impressionisticafrancese (se eccettuiamo alcuniparallelismi di accordi perfetti, di lontanosapore debussiano), e nemmeno si trovano(come abbiamo pure constatato aproposito di Ravel) accordi di undicesimadominante maggiore. Viceversa Malipierousa frequentemente accordi di quartesovrapposte, riuscendo a dare loro unaintensità espressiva come forse non hasaputo raggiungere nessun altro maestrocol medesimo artificio. Un altro merito diMalipiero è quello (che solo un altro

Felice Casorati - Ritratto di Alfredo Casella, 1926

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SHAKESPEARE MUSICOGRAFOdi Piero Mioli

“Con Eschilo, Sofocle, Euripide, Lope deVega, Racine, Goethe e Alfieri senza dubbioWilliam Shakespeare è il massimodrammaturgo della civiltà occidentale (inuna selezione ulteriore forse pari solo alsecondo). Ed è un artista di teatro e dipenna fra l’altro frequentemente efelicemente compromesso con la musica,su tutti i versanti possibili. Personaggiopiuttosto oscuro, nacque nel 1564 aStratford-on-Avon (Warwickshire), nonlontano da Birmingham, da famigliamodesta; nel 1592 andò a Londra epartecipò alla fondazione di unacompagnia teatrale detta prima LordChamberlain’s Men e poi, grazie al nuovore Giacomo I Stuart, King’s Men, con laquale collaborò intensamente come autoree come attore lavorando a fianco dei variteatranti e quindi anche dei musicisti; e nel1616 morì, nel paese natale. La sua operacomprende 36 drammi (tragedie ecommedie) e ha tre tipi di rapporto con lamusica: la quale è citata direttamente nellascrittura; fu un tipico elemento sonorodelle rappresentazioni d’epoca; e dovevadivenire un aspetto speciale della fortuna.

Alcuni riferimenti: secondo il Mercantedi Venezia l’uomo che non abbia musicain sé è un malvagio, un falso, un traditore;nell’Amleto si insegna a suonare il flauto;nella Bisbetica domata il bravo Ortensio dàlezioni di musica all’amata Bianca; inPericle, principe di Tiro tal Thaisaritorna in vita al solo suono della viola; quae là, inoltre, si cita il liuto, la musica èinvocata come mezzo di distensione, laviola viene elogiata (a scorno del fiddleovvero violino e a volte anche della musicasacra), le didascalie chiedono di suonare aicorni e alle trombe. Ma i testi diShakespeare a volte abbandonano la prosadella recitazione e propongono dei versiper il canto, con indicazioni lampanti come“He/She sings” (egli/ella canta): cantano inAmleto Ofelia e il primo becchino (costuizappando), in Otello Desdemona (lacanzone del salice, dopo aver detto “quellacanzone non mi esce di mente”), nellaTempesta Ariele (“Where the bee sucks”,cioè “Dove l’ape succhia”). E si sa cheallora le rappresentazioni prevedevanopreludi, minuetti, hornpipes (danzeallegre come le omonime cornamuse),

slow airs (arie lente), gighe finali, musichescritte appositamente o disinvoltamenteparafrasate da melodie precedenti, ancheanonime e popolari, per mano dicompositori come Morley, Johnson, Jones,Lauder, Wilson, Nicholson.

Quanto alla fortuna del teatro e delladrammaturgia di Shakespeare presso imusicisti dei secoli futuri, i contributi sonosterminati: alcune costanti di quattro secolidi felicissima sopravvivenza sono i generiparticolari della musica di scena e dellacolonna sonora, destinati ad agevolare lamessinscena o il film almeno là dove iltesto lo richiede; la notevole e certo ovviaprevalenza dei musicisti inglesi; eun’attenzione costante nel tempo conl’eccezione del periodo classico(dall’estetica un po’ troppo formalistica perla prepotente irregolarità di William), fortenell’800 e non di meno nel '900. Fra i nomipiù ricorrenti, ecco Walton, Humperdinck eCastelnuovo Tedesco. Alcuni esempi ingenere possono essere Antony andCleopatra di Barber, Henry VIII di Saint-Saëns, Re Lear di Frazzi, DasLiebesverbot di Wagner (da Misura permisura), Béatrice et Benedict di Berlioz

(da Molto rumore per nulla), RiccardoIII di Canepa. E finalmente i casi specialidi Hamlet, Macbeth, The merchant ofVenise, The merry wives of Windsor, Amidsummer night’s dream, Othello,The tempest, Romeo and Juliet.

Amleto è diventato poema sinfonico conLiszt, ouverture con Čajkovskij, ballettocon Blacher, e opera fra gli altri conMercadante e Thomas. Da parte suaMacbeth è diventato opera una decina divolte con l’ovvio capolavoro di Verdi,poema sinfonico con Strauss e altro conSmetana e Malipiero. Il mercante diVenezia ha avuto minor fortuna, ma illibretto che Giorgio Tommaso Ciminoscrisse per la musica di Ciro Pinsuti (1873)fa cantare a Porzia un’aria dal sensochiarissimo, “Di sua carne aver puoi tu /una libbra, e nulla più! / [..] Ancor ponmente / che il contratto non consente / conle fibre il sangue aver!!” (alla fine “l’empiatribù” degli ebrei s’allontana mentre icristiani implorano loro pietà). Commediateatralissima, Le allegre comari diWindsor sono diventate opera comicacon Salieri, Balfe, Adam, Verdi e spesso conil titolo del personaggio più originale

Charles-Antoine Cambon (1802-1875) bozzetto per Macbeth, 1865

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ovvero Falstaff. Estraneo alla sensibilitàitaliana, il magico Sogno di una notte dimezz’estate ha allettato presto Purcell,più tardi Weber, ancora dopo Britten.Notevole la fortuna di Otello, se non peraltro per il melodramma di Rossini(mediato da una versione francese) e ildramma lirico di Verdi che sono capolavorientrambi. Quindi la Tempesta, che nonagli italiani ma agli stranieri è semprepiaciuta molto, con i casi novecenteschi diHonegger e Sibelius e l’ennesimocontributo di Čajkovskij, una vibrante“fantasia” per orchestra.

Ed ecco alcune notizie speciali sullafortuna sonora del mito di Romeo eGiulietta. A dire il vero, il Seicento e ilprimo Settecento passaronodisinteressandosi alquanto al lavoro, forsetroppo sincero e intimistico per piacere aun’epoca così incline allo spettacolare eallo stravagante come il Barocco (o forseanche troppo poco conosciuto). Dopo ilsilenzio dei Sei e l'approccio delSettecento, sarà l'Ottocento romantico aimpossessarsi cupidamente di un plot cosìappassionato.

Il melodramma italiano avvicina i duepersonaggi con Giulietta e Romeo diZingarelli, alla Scala di Milano nel 1796,sopra un libretto scritto da un poeta poisempre associato alla farsa rossinianacome Foppa: la “tragedia per musica” delfecondo musicista napoletano nel giro diqualche stagione visitò anche Firenze,Bologna e Napoli, e ancora Milano, segnodi particolare fortuna in un periodo ancorapoco avvezzo alla prassi del repertorio. Lostesso Shakespeare non era ancora tornato

in auge, sebbene l’età romanticas’apprestasse a farne un suovessillo per esempio in Franciacontro l’idolo più recente diRacine; e difatti l’opera di Vaccajche si chiamava Giulietta eRomeo e andò in scena allaCanobbiana di Milano nel 1825con grande successo più chedirettamente da Shakespearederivava dal libretto di Foppa e daqualche altro testo drammatico ocronachistico.

Fresco trionfatore scaligero conIl pirata e La straniera, Bellinifece fiasco a Parma con la Zairadi Voltaire, e quando fu richiesto

di un’opera nuova e veloce da Venezia nonvide l’ora di riciclare quella musica. Romaniaggiustò e accorciò il libretto scritto perVaccaj, lui trascrisse e variò certe melodiedi Zaira, i fiammanti Capuleti eMontecchi colsero un grande successo,nel 1830, e non si fermarono lì. Giulietta fusoprano, ovviamente; e Romeomezzosoprano, perché un amorosopressoché adolescente non era ancoraadatto all’adulta voce del tenore e perchétenore era già Tebaldo stesso. Quando poia cantare l’opera fu la somma MariaMalibran, nei panni vocalmente a lei piùacconci di Romeo, capitò che la scenafinale recuperasse il vecchio testo diRomani e la musica di Vaccaj:semplicemente, alla divina cantatricepiaceva così.

Ma non solo teatro, per tanto soggetto.Nel 1839 Berlioz ne fece eseguire unaversione concertistica: con lui Roméo etJuliette fu una lunga sinfonia drammaticaper tre solisti, 98 coristi e 160 orchestrali,plastica e commossa, traboccante disentimento nel momento dell’amore evispissima con lo “scherzo” della ReineMab. E quanto al teatro, il generosoOttocento musicale diede due beicontributi lo stesso anno: nel ’65 nacqueroil dramma lirico di Marchetti e l’opéra incinque atti di Gounod (con pezziindimenticabili come l’aria virtuosistica diJuliette e il duetto d’amore dell’allodola edell’usignolo). Appena quattro anni, edecco Čajkovskij comporre una stupendaouverture-fantasia per sola orchestra,grondante di spasimo amoroso e irta dicontrasti drammatici: la prima esecuzioneebbe luogo a Mosca nel 1870 (la terzaversione doveva aspettare l’80), e la

partitura non ha mai smesso di incontrareil favore dei pubblici (e dei grandi direttorid’orchestra). Di seguito, musicarono lafunesta istoria nomi di varia bravura enotorietà come Mihalovich, Gui, Delius,Zandonai, Milhaud, Blacher, Dusapin.

Nel frattempo, due versioni di particolarelustro sono sorte dal balletto e dal musical.Il balletto è Romeo i Džuljetta diProkofiev, eseguito a Brno nel 1938:piccolo miracolo da parte di un autore ingenere classicheggiante, incisivo, ironico, illungo balletto è una pietra miliare nella viaodierna della danza, splendido crogiuolo dimusiche ora nobili e ora popolari, dicerimonie cortigiane e di approcci amorosi,di personificazioni strumentali (il flauto perlei, la viola d’amore per lei e lui, di tuttoper il paesaggio, la notte, la fontana) e distrumentali assurdità. Quanto al musical,si tratta di un’opera di Bernstein che risaleal 1957: West Side Story, la “Storia delquartiere Ovest” che quattro anni doposarebbe approdata al cinema grazie aRobert Wise ha il coraggio di mutare ancheil finale del vecchio ma imperituroargomento. Infatti Tony viene ucciso daisuoi nemici amici di lei, Maria crolla edispera sul corpo dell’amato, una buonavolta le due bande rivali rinunciano alleostilità e danno sepoltura al giovane. Ungiovane di origine europea, questo Tony, euna giovane di origine portoricana, invece,la sua Maria: come dire, quasi quasi, unragazzo ghibellino e una fanciulla guelfanella Verona medievale. Verona come NewYork, dunque, e grazie sia al genio diShakespeare che alla geniale disponibilitàdell’arte dei suoni.

West Side Story'LP con autografo di Leonard Bernstein

Johann Heinrich Fussli Lady Macbeth, 1812

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Lo psichiatra e psicoanalista svizzero CarlGustav Jung (1875-1961), padre della“psicologia analitica”, inizialmenteseguace delle teorie freudiane, se nedistaccò definitivamente nel 1913, aseguito della pubblicazione, avvenuta nel1912, dell’opera Wandlungen undSymbole der Libido (Trasformazioni esimboli della libido). Fra le altre cose, ilprincipale punto di divergenza eracostituito dal concetto di “libido”, che, perJung, non rappresenterebbe solo l’energiasessuale ma l’energia vitale in toto.Secondo la tesi junghiana, l’inconsciorappresenterebbe una fonte di creatività,funzionale allo sviluppo psichico dellapersonalità (processod’individuazione), non sarebbe più illuogo del “rimosso”. Il testo fu tacciato dieresia dalla scuola psicoanaliticafreudiana, poiché oltre a questo, Jungriteneva che il desiderio incestuoso, basedella vicenda edipica, non andasse intesoletteralmente, quindi sessualmente, masolo simbolicamente.

Per Jung, il desiderio di congiungersi allamadre sarebbe il desiderio dell'individuo diritornare alle proprie radici, per rinascererigenerato: rappresenterebbe un desideriodi trasformazione. L’incesto, da questopunto di vista, acquisirebbe il significato diun'iniziazione alla vita spirituale eandrebbe oltre l’interpretazionemeramente sessuale (la stessa spiegazionepansessualista sarebbe addirittura ilsintomo patologico dell’interpretazionestessa). Sebbene Jung non abbia maiesplicitamente usato il termine androginia,la psicologia analitica si fonda su concettiduali, fra loro speculari, che si rifannoall’enantiodromia (passaggio dialetticodegli opposti).

Il filosofo francese Gaston Bachelard(1884-1962) sosteneva che “fra tutte lescuole contemporanee di psicanalisi, èquella di Jung ad avere dimostrato nelmodo più limpido che la psiche umana, nelsuo stato primordiale, è androgina”. Temicentrali della psicologia del profondo sono:l’inconscio individuale, l’inconsciocollettivo, l’“ombra” (intesa come la parteistintiva e irrazionale inconscia

contrapposta all’Io razionale), per nonparlare degli archetipi anima e animusche rappresentano gli aspetti psichiciprincipali della personalità. L’anima,nell’accezione junghiana, rappresental’idea inconscia presente nell’uomo dellapersonalità femminile e l’animus,specularmente, l’idea inconscia che ha ladonna della personalità maschile.

In ambito drammaturgico-musicale, Jungfu molto affascinato dalle opere di Wagnere se ne occupò in prima persona in Tipipsicologici, in cui vengono esaminatealcune parti del Parsifal e inTrasformazioni e simboli della libidoin cui analizzò l’Anello del nibelungo,offrendo una rilettura della Tetralogiaattraverso il binomio Anima/Animus.Secondo queste immagini archetipiche,Wotan rappresenterebbe sia l’autoritàpaterna sia l’immagine del Sé; egli è inrealtà non solo il re degli dei ma anche ilcustode dei patti e delle leggi, il sommogarante del diritto positivo. Due donneincarnano il suo anima, Fricka e Brunilde:entrambe rappresentano, in momentidiversi, la parte inconscia (causa dei fortiturbamenti portati alla parte conscia edecisionale di Wotan). Fricka ha unaconnotazione molto marcata, rappresentaindubbiamente l’eterno femminino, conaspetti negativi, legati alla severità e alrigore ereditati dal maschile. Jung èaffascinato dalla figura di Brunilde e, nelvolume Simboli della trasformazione -da cui sono tratte anche le successivecitazioni - ne parla in questo modo:

È una delle molte figure-animaattribuite a divinità maschili,che rappresentano tuttesenza eccezione unadissociazione nella psichemaschile, una dissociazionein cui è insita la tendenza amenare un’esistenzaautonoma ossessionante. Latendenza all’autonomia fa sìche l'Anima anticipi pensierie decisioni della coscienzamaschile, con il risultato chequest’ultima vienecontinuamente messa di

fronte a situazioni inaspettate e cheapparentemente non ha provocato.Wotan si trova in questa situazione alpari di ogni eroe maschile che èinconsapevole degli intrighi intessutidal suo proprio lato femminile.

Brunilde, disobbedendo al padre, in realtà,accoglie la volontà inconscia di Wotan,quella di salvare il figlio Siegmund dallemani di Hunding:

Brunilde è una sorte di dissociazione diWotan, una parte della sua personalità,come nel caso di Pallade Atena e diZeus. Essa è per così dire unamessaggera o un'emissaria di Wotan[...]. Il fatto che Wagner abbia affidatol’esecuzione dei disegni di un diobellicoso come Wotan nelle mani d’unessere femminile è alquanto singolare,nonostante il precedente greco diPallade Atena.

È interessante notare come il destino diBrunilde, legato a scelte di grandeimportanza emotiva, sembri collegato alfatto di essere una Valchiria. Il nome derivadal tedesco medievale antico Walkür chesi compone di Wal e di Kür, laddoveWalstatt significa “campo di battaglia” ekür vuol dire “scelta”. Compito delleValchirie è, infatti, quello di scegliere glieletti tra gli eroi caduti in guerra eaccompagnarli nel Walhalla. Le Valchirierappresentano l’eterno femminino cosìcome le Norne, le figlie del Reno, Freia edErda (madre della terra e anima delmondo). Fafner e Fasolt, ancorché maschi,rappresentano la più fosca e tetra

WAGNER E JUNGdi Daniele Muleri

Wagner a La Spezia, 1883

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personificazione del femminile, Loge,secondo le Edde e le leggendegermaniche, è addirittura un Dioermafrodito. Sieglinde e Siegmund, uniti daun’unione incestuosa, sono l’immagine piùemblematica di anima e animus, datoche la relazione incestuosa rappresental’immagine più prossima all’ermafrodito,che a sua volta è immagine della naturaindifferenziata. La nascita di Sigfrido,rappresenta la nascita del dio solare, Mimeche sostituisce la madre e cresce Sigfrido,in realtà vuole che venga ucciso da Fafner:

Egli è il rappresentante maschile dellamadre terribile che mette il vermevelenoso sulla strada del figlio, l’anelitodi Sigfrido all’imago materna lo traelontano da Mime.

Nei seguenti versi, tratti dal Sigfrido,possiamo vedere l’aberrazione che Sigfridoprova nei confronti di Mime e allo stessotempo il forte desiderio dell’imagomaterna:

“Alla malora quell’elfe! Non lo posso piùvedere! Ma, come mai sarà stato l'aspettodi mia madre? Questo nome lo posso oraproprio pensare! Simile a cerbiatta,brillavan di certo a lei chiarolucenti gliocchi; sono molto più belli ancora! Da poiche in ansia mi dette alla luce,perché in quel punto mai venne amorire? Via se ne muoiono le madriumane, per i loro figli tutte? Sarebbequesto triste, in fede mia! Ah potessi,io figlio, mia madre vedere! Miamadre, una donna umana”.

Jung precisa in nota:

Il drago della caverna è la madreterrificante. Spesso nellaleggenda tedesca, la giovanevergine da liberare appare sottoforma di serpente o di drago chebisogna baciare mentre rivestequesto aspetto e che allora sitrasforma in una bella donna.

Considerando quindi Fafner comel’immagine della madre terribilecreata da Mime, Jung aggiunge:

Il suo anelito (di Sigfrido)all’imago materna l’ha espostoinavvertitamente al pericolo di

figlia-anima di Wotan ma anche l’animadi Sigfrido; lei è allo stesso tempo, madre,sorella e sposa.Fra Brunilde e Sigfrido, avviene nelCrepuscolo degli dei uno scambio dianimus e anima sotto forma di anello ecavallo. L’anima di Sigfrido subirà unascissione nel momento in cui saràpersonificato da Gutrune che cercherà difargli dimenticare Brunilde. L’effettonegativo di Gutrune non gli permetterà diriconoscere l’archetipo della figura madre,rappresentato dalle figlie del Reno.Ritroverà il suo anima solo nel momentoin cui, morendo sotto i colpi di Hagen,recupererà la memoria offesa dal filtro ericorderà Brunilde. ContemporaneamenteBrunilde aveva perso il suo animuscredendo, e cedendo, alla macchinazionedi Hagen; si avrà la riconciliazione delmaschile col femminile, attraverso il suosacrificio, consacrato dalle fiamme. Aquesto proposito, la psicologa franceseAnne Marie Matter integra l’analisi diJung, rilevando la forte presenza del“materno” nei personaggi maschili esostenendo che nei drammi wagneriani,articolati attorno alla coppia animus-anima, la parte femminile sia quella piùforte:

È Isotta a prendere l’iniziativa dellarichiesta d’amore, mentre Tristano sinega e si confonde. È ancora lei apredisporre il doppio suicidio, mentreTristano si rassegna alla sua sorte. ÈSieglinde che versa al detestato sposola bevanda che l’addormenta, è lei adecidere il loro comune destino, amostrare al Wälsung la spada infissanel frassino rivelandone il valore; è leiinfine che trascina l’amato in fuga.

Individua inoltre altre coppie cherappresentano il binomio animus-anima, come ad esempio Tristano eIsotta, Siegmund e Sieglinde,Lohengrin ed Elsa e perfino Wotan eAlberich (vedendo nel nibelungo laparte “ombra” di Wotan); Wagnerstesso li aveva definiti Licht-Alberiche Nacht-Alberich per indicarel’oscurità, il funesto, l’ombraarchetipica.

Fritz Feinhals (1869-1940) come Wotan

svolgere lo sguardo al passato,all’infanzia e alla madre umana, cheper tal motivo si trasformaimmediatamente nel drago foriero dimorte. In tal modo egli ha evocatol’aspetto maligno dell’inconscio, cioè lasua natura divoratrice impersonatadall’abitatore dell’antro, terrore dellaforesta. Fafner è il guardiano deltesoro; nel suo antro sta il tesoro, fontedi vita e di potenza. Apparentementela madre possiede la libido del figlio (iltesoro ch’essa custodisce cosìgelosamente) e in realtà è così fin tantoche il figlio rimane inconsapevole di sestesso. Tradotto in linguaggiopsicologico questo significa: nell’imagomaterna, cioè nell’inconscio, sta celatoil "tesoro difficile da raggiungere".

Sigfrido intraprende dunque un viaggioverso la nuova madre (Brunilde),abbandonando allo stesso tempo Mime,l’incarnazione dell’immagine angosciantedella madre del passato. In questo viaggio,sarà accompagnato dall’uccello dellaforesta, associato alla grande madre.Sigfrido, uccide il drago bevendone, senzavolerlo, il sangue: così il drago Fafnerassume l’aspetto delle Buona Madre che lomette in contatto con la natura. Dall’altrolato, Brunilde non rappresenta solo la

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MELOS VS SCAENAM?a cura di Piero Mioli

Il canto contro il teatro? O il teatro controil canto? Quanto spesso capita che cantoe teatro, melodramma e dramma, musicae messinscena siano nemici o anche solopoco amici, in quella famosa convergenzadelle arti che presiede al teatro d’opera epuò sembrare piuttosto un coacervo diesperienze centrifughe. Spesso, ma non poisempre: inevitabile casus belli è il tuttomoderno e pure non indiscutibilefenomeno della regia.

Circa la sua bibliografia, ecco qualchemomento generale e i momenti inverospeciali di Visconti, Strehler e Pizzi. Ingenere: Philippe Beaussant, La malscène,Paris, Fayard, 2005; Paolo Fabbri, “Divedere e non vedere”. Lo spettatoreall’opera, in «Il saggiatore musicale», XIV,2007, n. 2, pp. 359-376; Gerardo Guccini-Luca Zoppelli-Lorenzo Bianconi, Ancorasulla regia nell’opera lirica, in «Ilsaggiatore musicale», XVII, 2010, n. 1, pp.83-118 trattano del fenomeno di grande ea volte triste attualità. Più in particolare,Album Visconti, a cura di Caterinad’Amico de Carvalho, “la vita e le opere in221 fotografie” (Milano, Sonzogno, 1978),mantiene la ghiotta promessa iconograficasacrificando parecchio il melodramma,

pubblica un’intervista di Lietta Tornabuonia Michelangelo Antonioni (che suona comeun inno all’istintività di Visconti), terminacon un catalogo delle opere dirette.Giorgio Strehler e il suo teatro, a curadi Federica Mazzocchi e Alberto Bentoglio(Roma, Bulzoni, 1997), rinuncia del tuttoall’iconografia e purtroppo anche aragguagliare sull’attività operistica diStrehler, nel corso di 17 saggi dedicati allaprosa: alla fine, almeno, propone una seriedi testimonianze di attori e allievi e lacronologia degli spettacoli, dove nemmenovolendolo si potrebbe espungere ilcontributo dato allo spettacolo musicale.Integra lo spessore dell’artista MatteoPaoletti, che scrive Strehler e la musica.Il «direttore d’orchestra mancato»attraverso le sue partiture e pubblica ilsaggio nella «Nuova Rivista musicaleitaliana» (XLV, 2011, n. 4, pp. 509-528).

Da parte sua non ha dubbi Pier LuigiPizzi inventore di teatro, testo diLorenzo Arruga (Torino, Allemandi & C.,2006). Da una Leocadia di Jean Anouilhandata in scena a Genova nel 1951 (tostoseguita da un Don Giovanni ancoragenovese) ai ben sette spettacoli inscenatiallo Sferisterio di Macerata nel 2006 (fra

l’altro Aida e Turandot), l’indefessaattività dell'“inesauribile, genialescenografo e regista” di oltre 500spettacoli di teatro e di lirica in tutto ilmondo è tutta precisamente documentata.E mentre gli autori, i titoli, i teatri, leoccasioni, le colleganze sono giustamateria di riflessione, l’iconografia èmagnifica materia di contemplazione eammirazione. È chiaramente neoclassical’arte spettacolare di Pizzi: neoclassica nelsenso pienamente stravinskiano dellacapacità di plasmarsi e riplasmarsicontinuamente al contatto con tutte leopere di tutti gli autori possibilinell’universo melodrammatico.

Casi eccellenti, senza dubbio. Dalla regiaalla scenografia, alla costumistica, allospettacolo in genere virano i numerosi ivolumetti che gli Amici della Scala hannodedicato agli Artisti dello spettacolo allaScala dal 2002 in poi e da Edel in avanti,tutti studiati in saggi, apparati, biografie,cataloghi, cronologie: Galliari, Picasso,Cocteau, Fiume, Aulenti, Chagall,Gontcharova, Sciltian; nel solo 2011Bussotti, Bilinsky, Sironi e Appia; nel solo2016 Berman, Cagli, Casorati e Pericoli.Esemplare ne sia Pier Luigi Samaritani

Bozzetto di Pier Luigi Samaritani per Manfred - Opera di Roma, 1966-67

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alla Scala di Vittoria Crespi Morbio(Milano, Amici della Scala – UmbertoAllemandi & C., 2009): scenografo eregista formato a Brera e perfezionato aParigi, Samaritani (Novara, 1942 – Milano,1994) ha lavorato dal 1963 al 1994: nellastagione ’67-68 ha avvicinato con passioneil genere dell’opera, dove si è distinto comeartista della scena e del costumeverosimile, diafano, raffinato; ma dopoaver firmato così una cinquantina diproduzioni, nel ’78 ha assunto anchel’onere della regia curando il Werther diMassenet a Firenze; in seguito, dividendosifra il Metropolitan di New York, diversi altrigrandi teatri e alcuni piccoli festival diricerca, ha continuato a dar prova di ungusto sobrio, squisito, difficilmentecatalogabile e felicemente eclettico.Obbedendo al progetto generale, il librocomprende saggio, immagini e cronologie.Accortamente, le cronologie nonriguardano solo la Scala: circa lacollaborazione con il tempio milanese sidanno tutte le notizie possibili, dai cantantiimpiegati gli estremi tecnici dei bozzetticonservati (misure, inventario ecc.); circa lealtre soltanto gli elementi principali,bastevoli però a illustrare appieno la foltacarriera. Ecco dunque la celeberrimaSemiramide di Rossini programma dalMaggio Musicale Fiorentino nel 1968,protagonista Joan Sutherland, e poi gliallestimenti di Lucia di Lammermoor,Evgenij Onegin, Traviata, MadamaButterfly e Manon che negli anni hannofatto il giro dei teatri, dopo le primeevidentemente baciate dal successo.Fondamentale la piazza di Firenze, perSamaritani, e decisivi i sodalizi conGianandrea Gavazzeni e GiancarloMenotti.

Se la regia è fenomeno d’oggi,scenografia è di tutti i tempi dell’opera.Così risplendono di immagini GiuseppeBorsato, scenografo alla Fenice 1809-1823 e L’immagine e la scena.Francesco Bagnara, scenografo allaFenice 1820-1839 a competente cura diMaria Ida Biggi (Venezia, Marsilio, 1995 e1996, grazie agli Amici della Fenice), che aldi là dei meriti intrinseci di cultura, discrittura, di stampa, potrebbero esseredelle miniere inesauribili per la scenografiaoperistica d’oggi (ma il condizionale non èil presente, si sa). La realizzazionescenica dello spettacolo verdiano, acura di Pierluigi Petrobelli e Fabrizio DellaSeta, atti del congresso internazionale di

studi tenuto a Parma nel 1994 pubblicatidall'Istituto nazionale di studi verdiani(Parma, 1996), accoglie le relazioni diMecedes Viale Ferrero, Peter Ross, MarkusEngelhardt, Natalia Metelitsa e HeleneFedosova, Maria Teresa Muraro, MarinellaPigozzi, Olga Jesurum, Nicole Wild, Gillesde Van, Emilio Sala, Giacomo Agosti-Perluigi Ciapparelli, Marco Capra, MarcelloConati, Marian Smith, Horst-JosephLederer, Roger Parker, Knud ArneJürgensen. Più che curioso, davverosconvolgente è David J. Levin, UnsettlingOpera. Staging Mozart, Verdi,Wagner, and Zemlinsky, volume editoda Chicago University Press nel 2007.

Freschi di stampa, infine, sono due volumiche, seguaci di altri dello stesso genere,autore ed editore, altri ne presuppongonocertamente in futuro: Il Seicento e IlSettecento di Elvio Giudici (Milano, ilSaggiatore, 2016, pp. 501 il primo, 823 ilsecondo), entrambi forniti del sottotitolo“L'Opera. Storia, teatro, regia”. Non sitratta di una storia del teatro d'opera,mancando la trattazione di un ordinecronologico e di troppi nomi e titoli (inoltreil primo comprende Galuppi, pienamentesettecentesco, e il secondo comincia conFidelio, opera del 1805-14), ma dellavasta raccolta di recensioni che l'autore,specialista della prassi, ha effettuato dispettacoli d'opera poi resi disponibili invideo. Insomma, è l'allargamento eaggiornamento del già corposo volume

dedicato all'Opera in CD e video cheGiudici pubblicò nel lontano 1995esibendo preparazione, chiarezza di idee,personalità, gusto, finezza di scrittura.Quasi 190 pagine spettano all'amatoHändel, quasi 580 all'altrettanto amato mapiù saggiato Mozart, mentre su posizioniminoritarie stanno Cavalli, Paisiello,Cimarosa, Spontini e così via. Nessunpregiudizio alligna nei giudizi dell'autore,che li esprime di volta in volta, davanti aquesto o a quell'allestimento, con moltaconvizione e altrettanta ironia, spessoconfortandoli con la necessaria descrizionedelle scene. Certe durezze, contro Zeffirelli,Ronconi e De Simone, non sonoregolamentari, così come certi entusiasmiverso messinscene stravaganti, almenoapparentemente estranee al dettatodell'opera (quale, poi?), sannocapovolgersi davanti a spettacoli ritenutifallimentari. A dare un'idea del percorsoseguito, ecco i nomi dei registi impeganticon la monteverdiana Incoronazione diPoppea: Jean-Pierre Ponnelle, Peter Hall,Michael Hampe, Pierre Audi, Klaus MichaelGrüber, Robert Carsen, Xavi Bovè. Nessunitaliano, come si vede, né alcun italiano visi legge che prenda in mano la bacchettao dia volto ai personaggi scolpiti daGianfrancesco Busenello per il divinoClaudio. Ma anche questo è un angolinodel grande poligono di rassegnazione cuideve sottostare il giudice per antonomasia.

Bozzetto di Giuseppe Borsato per Semiramide di Rossini

Teatro La Fenice, 1832

Page 20: Orchestra europea · 2019. 5. 14. · via De'Monari 1/2, 40121 Bologna Direttore responsabile Guido Giannuzzi guido.giannuzzi@filarmonicabologna.it Redazione Caterina Coretti caterina.coretti@filarmonicabologna.it

Tessuti InglesiSartoria Interna

Giacche Sportive • AbitiPantaloni • ImpermeabiliPaleto • Loden Originali

Maglieria • CamicieCravatte • Sciarpe

Calze • Cappelli Ombrelli • Scarpe

Kilts • Tartans ScozzesiPlaids • Guanti

Era l’anno 1932, i De Paz iniziarono a importare i tessuti dalla Gran Bretagna; i famosi Shetland, il cashmere, i preziosi pettinati, l’Irish donegal, il Thornproof.

Pensarono i De Paz di trasformare la stoffa in prodotto, quel prodotto ben caratterizzato e necessariamentemodellato in uno stile classico-sportivo fuori dai canoni della moda.

Questo prodotto del tessuto, così naturalmente filtrato, con quei disegni di vecchia simpatia ed elevata tradizione, ha chiamato con sé la maglia, la cravatta, la camicia e tutto quell’insieme del vestire che classicamente si lega senza abbinarsi.

Questo è uno stile, una maniera propria di vestire, non vincolante né dettata, ma libera, classica, disinvolta.De Paz continua oggi, in maniera ortodossa questo stile, anche se forti sono gli stimoli delle mode e dellevendite veloci.

DE PAZ VI ATTENDE IN VIA UGO BASSI 4/D, IN VIA CALZOLERIE 2/D (DONNA) E IN VIA TAGLIAPIETRE 12/A (PROMOTIONAL) PER DARVI IL MEGLIO.