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Opuscolo informativo sulla storia che ha ruotato intorno al Fanale dei Pisani dal Medioevo ad oggi. (Tratto dai testi di Lilla Mariotti scrittrice e Presidente dell’Associazione culturale IL MONDO DEI FARI ed altri scrittori e storici raccolti sul WEB) A cura del Dott. Stefano Gilli

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Opuscolo informativo

sulla storia che ha ruotato intorno al Fanale dei Pisani dal Medioevo ad oggi.

(Tratto dai testi di Lilla Mariotti scrittrice e Presidente dell’Associazione culturale IL MONDO DEI FARI

ed altri scrittori e storici raccolti sul WEB)

A cura del Dott. Stefano Gilli

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La storia che ha ruotato intorno al Fanale dei Pisani dal Medioevo ad oggi. (Tratto dai testi di Lilla Mariotti scrittrice e Presidente dell’Associazione culturale IL MONDO DEI FARI ed

altri scrittori e storici raccolti sul WEB)

Cap. 1 - La Storia antica della Repubblica Marinara di Pisa.

Nel V secolo, quando i barbari invasero l’Italia, Pisa come tutte le altre città italiane venne saccheggiata e

distrutta. Solo con l’avvento di Teodorico re degli Ostrogoti, la città riuscì a risollevarsi e a imporsi tra le città

di mare. Nel frattempo un grande pericolo minacciava le coste italiane: le flotte islamiche, con continue

incursioni, saccheggiavano e distruggevano le città costiere della penisola. Dopo la caduta dell’Impero

Carolingio e il sorgere di conflitti tra le città stato, si assistette ad un’intensificazione di questa minaccia. Pisa

reagì a queste incursioni con spirito combattivo, volto a salvaguardare i propri diritti e difendere i commerci,

inizialmente con azioni a breve raggio a difesa della sua zona costiera, ed in seguito con azioni sempre più

audaci di contrattacco. Nell’828, il Marchese Bonifacio I di Toscana capostipite degli Estensi, mise insieme

una piccola flotta e partendo dal porto di Pisa sbarcò a Ustica e Cartagine impegnando seriamente i Saraceni

sul proprio terreno.

Verso l’anno 1000, i musulmani del califfo arabo Mujāhid al- Amirī, detto, nelle fonti pisane, Re Musetto o

Museto o ancora Mugetto, riuscirono a costituire le proprie basi in Corsica e in Sardegna, e di lì iniziarono i

loro attacchi allo Stato Romano attaccando anche molte città da Luni (che venne conquistata) a Civitavecchia.

Il Papa fu costretto a fuggire, ma i pisani giunsero in suo aiuto ed una flotta comandata

dall’ammiraglio Orlandi, si diresse su Civitavecchia dove impegnò in uno scontro la flotta saracena,

catturando 18 navi avversarie e molti prigionieri; successivamente i pisani riuscirono anche a riconquistare la

Sardegna e Luni che fu praticamente rasa al suolo negli scontri.

La testa in marmo nero che raffigura Re Musetto è posta sulla facciata del palazzo del Comune, Pistoia

A seguito di queste vittorie nell'XI secolo nasce la fama e la fortuna della Repubblica pisana. In questo periodo

storico Pisa intensifica i propri commerci nel mar Mediterraneo e continua la sua lotta con le

navi saracene risultando vittoriosa nel 1005 a Reggio Calabria, nel 1034 a Bona nell'Africa settentrionale.

Altri scontri vittoriosi consentirono alle truppe della Repubblica di riconquistare Amaltea, Nicotera e Tropea.

Mentre le forze pisane erano impegnate in questi scontri, Re Musetto attaccò Pisa credendo di poterla

conquistare facilmente; ma la città venne difesa strenuamente e con successo dai suoi abitanti, che costrinsero

i saraceni a ritirarsi.

Pisa, che tra il 1006 e il 1012 consolida la propria posizione nei commerci via mare e arriva a disporre di una

flotta di “centoventi legni d’ogni grandezza, galere, dromoni, barche da trasporto, e macchine da guerra nelle

quali erasi fatto industre.” In questa prima espansione Pisa si ritrovò spesso alleata con la crescente

Repubblica Marinara di Genova per riprendere la Sardegna riconquistata dai Saraceni.

In particolare durante questa campagna contro i mori in Sardegna le navi Pisane e Genovesi, sospinte da venti

non favorevoli, giunsero in Corsica, dove vennero ben accolte e nell’isola issarono per la prima volta le

insegne del proprio dominio.

Nel 1052 i saraceni furono nuovamente cacciati dalla Sardegna e dalla Corsica, che furono occupate dalle

truppe pisane, ma proprio questa ultima vittoria fu la causa scatenante dei primi dissidi tra le due potenze

marinare, con rivalità e rivendicazioni nella spartizione delle due isole e dei bottini.

Tra il 1040 e il 1054 la diocesi di Luni perse definitivamente la giurisdizione sulle isole della Gorgona, della

Capraia, del Tino, del Tinetto e della Palmaria, che vennero spartite tra le diocesi di Pisa e Genova.

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Nel 1063 la flotta di Pisa al comando del Conte Giovanni Orlandi e con l’aiuto della potente esercito

dei Normanni del Regno di Sicilia conquistò la bellissima città araba di Palermo (una delle città più belle e

ricche del tempo), dove mise le mani su di un ricco bottino iniziando un fortunato commercio con la Sicilia e

una solida alleanza con la nobiltà Normanna.

Nel 1016 Pisa e Genova, tra loro alleate, sconfissero i saraceni e acquisirono il controllo pressoché totale

del mar Tirreno. Le due repubbliche marinare intrapresero inoltre la loro penetrazione prima commerciale e

poi politica in Corsica e in Sardegna. Un secolo dopo liberarono le Baleari e questa spedizione fu celebrata

nel Gesta Triumphalia per Pisanos e in un poema epico, il Liber Maiolichinus, composti negli anni 1113-

1115.

Nel periodo di grande espansione politica ed economica la repubblica aveva propri consoli con fattorie

commerciali e fondachi in molte località marittime (Gaeta, Napoli, Salerno, Messina, Palermo, Trapani,

Mazzara, fino a Tunisi) con significative presenze nel Levante, nell'impero bizantino e negli Stati

crociati della Palestina. Pisa commerciava anche attivamente con tutte le isole maggiori del Tirreno ma fu con

le crociate che Pisa iniziò ad estendere la sua influenza anche in molte aree dell’Oriente dove ottenne privilegi

e concessioni economiche.

Cap.2 – La guerra con La Repubblica Marinara di Genova

Furono le crescenti conquiste territoriali ottenute dai pisani a creare sempre maggiori timori a Genova che nel

1066 decise di iniziare una guerra navale contro Pisa. A placare gli animi ci pensò papa Vittore III che propose

alle due Repubbliche di combattere insieme le flotte corsare che infestavano le coste tirreniche; unendo

nuovamente le proprie forze, Pisa e Genova riuscirono facilmente a sgominare i pirati. Nel 1089 papa Urbano

II concesse ai Pisani la Corsica, ed innalzò il vescovado pisano ad arcivescovado. Nel 1099 Pisa partecipò con

una propria flotta di 120 navi alla Seconda Crociata distinguendosi per l’eroismo dei suoi combattenti. A capo

della flotta il Papa mise lo stesso Arcivescovo della città, Daiberto Lanfranchi, e le truppe pisane furono tra

le prime nel conquistare Gerusalemme, Costantinopoli, Antiochia, Laodicea, Tiro, San Giovanni

d'Acri, Giaffa, Tripoli di Siria, Alessandria e il Cairo.

La presa di Costantinopoli (Tintoretto)

L’Arcivescovo di Pisa Lanfranchi divenne il primo patriarca della chiesa latina di Gerusalemme e a Tiro fu

costituita, da armatori e banchieri pisani, la "Società dei Vermigli" che si rese famosa nella difesa della città

contro l'attacco delSaladino nel 1187.

Successivamente alla vittoriosa spedizione delle Baleari del 1115, a cui seguì la concessione della primazia

sulla Sardegna, l'ostilità tra Pisa e Genova si ritrasformò in guerra. Questo a causa del crescente contrasto tra

i reciproci interessi in tutto il Tirreno che, negli anni immediatamente precedenti la guerra, si era esteso ad

occidente spingendosi anche alla Linguadoca e alla Provenza La città toscana aveva infatti intrecciato proficui

rapporti commerciali con Noli, Savona e Montpellier mentre Genova con Hyerés, Fos, Antibes e Marsiglia.

Le ostilità ebbero inizio nel 1119, con l'attacco genovese ad alcune galee che si dirigevano a Pisa, e si

protrassero fino al 1133. Il conflitto fu combattuto per mare e per terra ma non vide battaglie cruciali quanto

un susseguirsi di scorrerie piratesche sulle coste sarde, corse e tirreniche. L'accordo successivo, favorito

dall'intercessione di papa Innocenzo II previde la spartizione dei vescovati della Corsica: a Genova Mariana,

Nebbio ed Acca; a Pisa, che mantenne la legazìa sulla Sardegna, Aleria, Aiaccio e Sagona.

Altre conquiste segnarono il percorso dell’espandersi di Pisa, facendo acquisire alle Repubblica Toscana

potenza e ricchezze sempre maggiori. Vennero così riconquistate le coste della Siria e nel 1135 Pisa si

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impadronì di Amalfi, e successivamente formò una lega che la unì a Genova, garantendo la pace tra le due

potenze per circa venti anni. In questa fase di relativa tranquillità Pisa si legò ancor di più agli imperatori

tedeschi ottenendo importanti concessioni nei due diplomi del 1162 e 1165. Con essi l’Imperatore Federico I

detto il “Barbarossa” riconosceva alla città, oltre alla giurisdizione sul contado pisano e la libertà di

commercio nei territori dell'Impero, anche il lido del mare da Civitavecchia a Lerici (da sempre contesa con i

genovesi), la metà di Palermo, Messina, Salerno e Napoli, Gaeta, Mazzarri e Trapani e per i mercanti pisani

una “strada con case” in ogni città del Regno di Sicilia. Alcuni di questi riconoscimenti vennero

successivamente riconfermati da Enrico VI, Ottone IV e Federico II.

Questo potere ebbe però due conseguenze: inimicò Pisa con le altre città toscane di Massa Volterra, Lucca e

Firenze, che aspiravano ad un autonomo sbocco al mare e contribuì, unitamente ai patti stretti tra Pisa e i

giudicati sardi, allo scoppio di una nuova guerra con Genova.

La lotta tra pisani e genovesi riprese pertanto furiosa al punto che il Barbarossa pensò di dividere la Sardegna

tra le due città, ma ciò non fece altro che accrescere le tensioni tra le due Repubbliche. Nel 1217 il papa Onorio

III riuscì a convincere Genova, Venezia e Pisa a riappacificarsi con il trattato di pace di Lerici e a contribuire

alla Crociata da lui indetta.

In quel periodo le città italiane si divisero in due fazioni, in base al proprio orientamento politico: i Guelfi,

che parteggiavano per il papa, e i Ghibellini, fedeli all’Imperatore; Pisa era di parte Ghibellina, mentre la sua

acerrima nemica Genova era della fazione Guelfa. Il Papa, grazie al favore delle città sarde, fedeli alla chiesa,

appoggiò e incoraggiò sull’isola durissimi scontri tra genovesi e pisani e ritenendosi tradito dalla scelta politica

di Pisa “vituperio delle genti”, scomunicò i pisani privandoli del dominio sulla Sardegna e della dignità

Arcivescovile. Le lotte tra i Guelfi ed i Ghibellini proseguirono ancora per un lungo periodo, e anche le lotte

tra Pisa e Genova si fecero sempre più frequenti.

Nel 1241, L’Imperatore Federico II detto lo “Svevo” controllava tutte le vie di terra attraverso l'Italia centrale

tagliando quindi la strada per Roma al Nord Italia. Allo stesso tempo due legati papali Giacomo di Palestrina

e Otto di San Nicola negoziarono con i genovesi per avere una flotta di 32 galee armate sotto la guida di Iacopo

Malocello come scorta per lasciare Nizza e arrivare a Roma. Giunto a Nizza, Malocello imbarcò prelati

francesi e spagnoli; fatta poi tappa a Genova, ne attese altri provenienti dalla Lombardia, e, non appena le

ambasciate delle città lombarde furono imbarcate, il viaggio ebbe inizio.

Nel marzo del 1241, l'imperatore che disponeva di 27 galee armate sotto il comando di suo figlio Enzo e

dell'ammiraglio Ansaldo de Mari (di nascita genovese), saputo del progetto messo in atto dai genovesi, ordinò

alle sue navi di unirsi alla flotta pisana, composta da 40 galee sotto il comando di Ugolino Buzaccherini, e

alle truppe affidate ai suoi vicari nel Nord Italia, Marino di Ebulo e Oberto Pallavicini di attaccare Genova da

terra.

Il 25 aprile, la flotta genovese fece vela da Genova diretta prima a Portofino, dove rimase ancorata per uno o

due giorni. Quando gli equipaggi appresero dell'attacco da parte di Oberto Pallavicino mostrarono l'intenzione

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di tornare indietro, ma i due legati spinsero, con successo, per mantenere la rotta verso Roma. In un altro scalo

a Porto Venere appresero anche dell'unione tra la flotta siciliana e quella pisana. Riuscirono a navigare oltre

Pisa, non passando però inosservati. Il 3 maggio, nonostante un disperato tentativo di fuga, l'imponente flotta

imperiale raggiunse, tra le isole di Montecristo e del Giglio, il contingente genovese e in poco tempo lo

sbaragliò: ventidue galee furono catturate e tre affondate, provocando la morte di oltre duemila uomini tra

soldati e prelati, tra cui l'arcivescovo di Besançon. Tra questi ultimi, oltre agli ambasciatori delle città

lombarde e ad alcuni dei maggiori esponenti del partito guelfo di Genova, figuravano numerosi dignitari della

Chiesa: il Legato Papale Gregorio da Montelongo, il Cardinale Vescovo Giacomo di Palestrina, Ottone da

Tonengo Cardinale di S. Nicola, gli Arcivescovi di Bordeaux e di Rouen, gli Abati di Cîteaux, Clairvaux e

Prémontré.

Battaglia navale tra pisani e genovesi

Matteo Paris monaco Benedettino e storico riguardo alla battaglia riportò:

«Una lotta più sanguinosa poi seguì in mare tra i Pisani. . . e Genovesi. In cui i Genovesi furono sconfitti, ed

i prelati e legati furono fatti prigionieri, con l'eccezione di alcuni che furono uccisi o annegati.»

La battaglia del Giglio, fu salutata da Federico II come un giudizio di Dio, i vincitori sbarcarono trionfalmente

a Pisa portandosi dietro un carico di quasi quattromila prigionieri. Questa vittoria procurò all’ammiraglio

Ansaldo de Mari il titolo di Ammiraglio dell'Impero Romano (con tanto di stendardo imperiale), carica creata

espressamente per lui dallo “Svevo” e segnò il punto di massimo successo della forza navale Pisana che iniziò

a fortificare il suo confine con Genova cingendo Lerici con mura e provando più volte, ma inutilmente, a

conquistare la rocca di Portovenere.

Cap. 3 – L’Arsenale Militare di Pisa.

Dopo la sconfitta del Giglio le scaramucce davanti alle coste sarde e lungo le rotte verso oriente diventarono

pressoché continue e le due Repubbliche misero in campo ogni espediente per poter avere la meglio sui rivali.

I genovesi implementarono l’uso di carte nautiche creandone di molto precise che permettevano di evitare la

navigazione sotto costa (cabotaggio) utilizzata invece dai pisani che da parte loro si dedicarono con maestria

alla costruzione di navi da guerra e da trasporto.

Cartografia medievale

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La nave da guerra principale era la galera sottile, con uno o due alberi con vela latina e rematori (in principio

liberi cittadini che servivano ai remi al posto dell’uso delle armi in battaglia e in seguito rematori stipendiati

solo molto più tardi vennero usati galeotti e schiavi). Le galere evolvono assai rispetto alle loro antenate dirette

delle prime imprese delle Repubbliche marinare e delle prime tre Crociate: se queste erano grandi, robusti

barconi con i remi inscalmati direttamente sulle fiancate diventano più grandi, sino a 40/50 metri di lunghezza

fuori tutto, la loro chiglia venne costituita da assi accostate, anzichè “gradinate”, con evidente vantaggio

idrodinamico. I remi vengono costruiti di lunghezza diversa, dai 6 ai 10 metri e di circa 60 kg di peso. Dopo

il 1248 ci sarà l’innovazione del “rematore terzo”, sempre sullo stesso banco, che può essere uno dei soldati

imbarcati, convocato quando ce n’è urgente necessità: al massimo della potenza quindi, lo scafo può essere

spinto anche da 150 remi e piu. L’equipaggio della galera pisana era di circa 300 uomini.

Il nome "galera", diffusosi solo nel XII secolo, è una ipercorrezione toscana del

veneziano galea, genovese garea, dal greco γαλέoς (galeos), cioè "pesce spada", perché la forma assunta in

quest'epoca dalla principale esponente di questo tipo di navi, la galea sottile, richiamava la forma di tale pesce:

essa infatti era lunga e sottile, con uno sperone emerso fissato a prua, che serviva a speronare e agganciare le

navi avversarie per l'arrembaggio. La propulsione a remi la rendeva veloce e manovrabile;

le vele quadre o latine permettevano di sfruttare il vento.

La galera pisana

La forma lunga e stretta della galera sottile pisana, veloce in battaglia, le rendeva però poco stabile, e le

tempeste e il mare grosso la potevano facilmente affondare: perciò il loro utilizzo era limitato alla stagione

estiva, al massimo autunnale. Era obbligata a seguire una navigazione di cabotaggio in quanto la sua stiva,

poco capiente, imponeva diverse tappe per il rifornimento di viveri e di acqua, che i rematori, per il continuo

sforzo fisico, consumavano molto. Per queste ragioni la galea era inadatta alla navigazione d’altura.

I combattimenti tra galee si risolvevano di solito in abbordaggi, nei quali gli equipaggi si affrontavano corpo

a corpo e in genere si univano alla lotta anche i rematori.

Intorno al 1270, le galere cambiano la loro struttura e presentano tutt’intorno una gran cornice rettangolare, il

“posticcio” ed è li che ora si imperniano i remi allontanando lo scalmo dal punto di presa (dando maggiore

spinta e minor fatica ai i vogatori. Ovviamente, a seconda degli scopi di uso, la galera varia anche di

dimensioni e forma: ha sorelle minori che sono le saettie, velocissime, sorelle maggiori chiamate

teride, “tritæ” o taride, piu larghe di fianchi e adatte al commercio (con queste unità i pisani navigarono

persino oltre Gibilterra fino alle Fiandre), e gli Uscieri detti anche “galere con la poppa aperta” perche

caratterizzati da un uscio, un portellone ribaltabile come quello delle moderne navi da sbarco, dal quale si

imbarcano o sbarcano fino a 30 cavalli con i loro cavalieri.

Vengono anche costruiti i primi velieri puri, navi grandi, talvolta grandissime, come quel Leone della Foresta,

nave pisana descritta da Ottobono Scriba come “maximam, cum castellis mirificis et instrumentis bellicosis et

ingeniis et armatorum multitudine copiosa” unità dotata di sorprendenti incastellature, strumenti e macchine

da guerra, e con circa 500 armati a bordo, che nel 1195 si arenò, forse volontariamente, nello stagno di Santa

Gilla (tra Cagliari ed il suo attuale aeroporto di Elmas), e resistette per una giornata agli assalti dei Genovesi,

che poterono raggiungerla, in quei bassi fondali, solo con le scialuppe delle galee e tentarne la scalata come

ad una fortezza costiera, riuscendovi solo dopo ripetuti e sanguinosi tentativi.

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Ovvie le differenze tra i due tipi di unità: la nave è strettamente dipendente dal vento per la sua locomozione,

ed è piu lenta della galera, ma ha maggior capacità di carico (che, in guerra significa anche possibilità di

imbarcare piu combattenti, ed armi pesanti), e con la sua ampia opera viva, regge meglio il mare, in tutte le

stagioni. Come la galera, anche la nave si modificherà in un nuovo tipo di unità che tenderà a sostituirla: la

cocca. La cocca ha un solo albero, a vela quadra, che, con nuovi sistemi di attacco, può essere ridotta o estesa

nella sua superficie quasi istantaneamente, cosa che permette di dimezzare la necessità di uomini, per le

manovre, ma soprattutto, le cocche recano un’invenzione: il timone unico, incernierato a poppa, al posto dei

due “remi-timone” laterali, faticosissimi da manovrare e poco precisi.

Le navi pisane

Il guerriero del mare nelle Repubbliche Marinare era armato con spade, pugnali, daghe corte, coltellacci,

mentre per colpire a distanza utilizzava frombole e mazzafionde, dardi a mano, archi e balestre. Nei manuali

dell’epoca si ricorda a chi combatte per mare il lancio di vasi pieni di pece, zolfo, resina ed olio, da incendiare

tramite uno stoppaccino (una sorta di fuoco greco). Le tecniche prevedevano di speronare la nave o di

accostare le fiancate e abbordare. In altri casi si cercava di spezzare i remi, per immobilizzare lo scafo, oppure

disalberare la nave nemica. Non dovevano mancare frecce a punta larga per squarciare le vele, falci dal lungo

manico per tagliare il cordame e le vele, grappini legati a catene e vasi di calce in polvere per accecare i nemici

e otri di sapone liquido per rendere scivoloso il ponte. Sulle navi erano caricate ingenti scorte di pietre da

lanciare a mano. I soldati pisani imbarcati erano pesantemente corazzati mentre quelli genovesi avevano

armature ridotte e più leggere.

Ricostruzione delle armature pisane

Cap. 4 – Il Porto Pisano e i suoi Fari.

Il Portus Pisanus con ogni probabilità era stato anche base della flotta romana in azione nel Mar Ligure;

verosimilmente, il bacino portuale fu teatro dell'imbarco di quattro legioni con venticinquemila uomini che al

comando del console G. Bebius furono condotte nella guerra contro i Liguri Apuani. Qui si verificarono anche

numerosi episodi di rilievo della storia longobarda come lo sbarco delle reliquie di Santa Giulia che, richieste

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dal re Desiderio e sua moglie Ansa, sbarcate dalla Corsica (663), furono portate nel monastero di Brescia, o

la fuga verso Costantinopoli dell'ultimo sovrano Adelchi, di fronte all'avanzata dei Franchi (774).

Pisa non si trova sul mare, essa fu costruita sul fiume Arno e per proteggere la sua flotta aveva attrezzato e

fortificato il Porto Pisano, posto alla foce del fiume, che allora era adiacente a un piccolo borgo

prevalentemente di pescatori, chiamato nel tempo “Labro”, poi “Liburnus” e alla fine “Livorno. il Porto Pisano

divenne quindi il maggior porto della Repubblica marinara di Pisa, dove attraccavano e partivano navi che

instauravano commerci con tutto il mar Mediterraneo, oltre che fungere da rifugio alla potente flotta da guerra.

La cura che la repubblica marinara dedicava al suo porto è anche documentata da importanti opere pubbliche

al servizio delle attività portuali. Tutta la zona circostante assunse importanza militare ed economica e tra le

tante attività remunerative vi era anche quella della caccia alle lontre, negli stagni adiacenti il porto.

Dal 1156 con l'intensificarsi degli assalti genovesi al porto per ostacolare l'egemonia pisana nel Mediterraneo

occidentale, venne avviata una sua fase di fortificazione, cominciata con la costruzione di una prima torre, e

proseguita l'anno successivo, nel 1157, con l'erezione di altre due torri nel Portus Magnalis, come si chiamava

la parte meridionale del Porto Pisano. Infatti, il console di Pisa Cocco Griffi fece fortificare Pisa ed il porto

con alcune torri per difenderne il suo ingresso. La Torre Magnale e la Torre Formice più a sud, furono erette

tra il 1157 ed il 1163 alle due estremità dell'allora ingresso al porto.

Le torri di difesa del Porto Pisano

Nel 1156-57, nell’ambito della fortificazione del Porto Pisano, venne costruita anche una torre imponente ad

uso di faro sulle secche della Meloria. Tale torre aveva presumibilmente anche funzione di fortilizio presidiato

da soldati, mentre il faro fu affidato dapprima ai frati Benedettini di Pisa e successivamente agli Agostiniani

dell'antica chiesa di San Jacopo in Acquaviva, a Livorno.

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Il cronista Bernardo Maragone scrisse:

«Anno Domini MCLVII, XII Kalendas madii. Incepta est turris Melorie, et totus girus est expletus in

consulatu Cocci, et ipse complevit et fecit; in sequenti anno completa est turris eius».

(Il 20 aprile 1156 fu iniziata la torre della Meloria e tutto il primo giro fu completo durante il consolato di

Cocco, egli stesso lo completò e fece; l'anno seguente la torre fu terminata).

Bassorilievo del Faro della Meloria presente sulla torre di pisa

La seconda menzione certa di un faro sul mare nei pressi di Livorno risale al marzo 1282. In quell'anno i

consoli del mare di Pisa stipularono un contratto con i frati del romitorio di San Iacopo in Acquaviva per la

custodia e il funzionamento del faro, che è così definito: «Turrim de lanterna que est in mari prope Portum

Pisanum». I consoli del mare si impegnarono a fornire al priore di San Iacopo ogni tre mesi 6 staia di olio,

34 soldi per i lucignoli, 18 soldi per il trasporto dell'olio, 6 soldi per una libbra e mezza di candele, 5 soldi per

le spugne per lavare la lanterna e 15 lire di salario per i frati. Questi, dal canto loro, si impegnavano a custodire

il faro, ad abitarvi, senza precisare in quanti, e a farlo funzionare. Il contratto aveva valore per cinque anni a

partire dal primo aprile successivo. I frati accettarono questo incarico, che era consono alla loro vocazione di

eremitaggio, perché il loro monastero era in gran povertà, ma soltanto dopo aver ottenuto il permesso del

priore provinciale di Pisa, il 9 marzo 1282. Nel corso del capitolo celebrato in San Iacopo in Acquaviva il 10

marzo, in cui i frati eremiti accettarono il contratto di custodia del faro, si precisava che essi accettavano il

compito con le stesse regole e condizioni con cui fino a quel momento lo avevano i frati Benedettini di San

Donnino.

Ricostruzione del 1° Faro della Meloria eseguito da Luciano Sanguinetti

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Dopo la notizia della sua costruzione, sia i cronisti che gli altri documenti pisani tacciono su tale torre. Essa è

ricordata nel Lo Compasso de navegare, un portolano della metà XIII secolo, scritto in volgare:

«….da garbino ha una secca enna quale è una torre che se appella la Melior, et è lontana dal porto

entorno X milia …..». e un suo bassorilievo è presente sulla torre pendente.

Nel 1162 sulle banchine del porto venne aperto un vasto alloggio per gli equipaggi che vi sbarcavano, detto

"Domus Magna", complesso fortificato e difeso da un fossato, mentre nelle vicinanze, nel 1174, fu costruito

il "Fondacum Magnum", vasto magazzino fortificato e difeso da una torre. L'ingresso portuale venne chiuso

per maggiore sicurezza con una grossa catena tesa tra le due torri, vennero inoltre scavati alcuni nuovi canali

nel tentativo di irreggimentare e deviare i corsi d'acqua che gettandosi nel golfo ne favorivano l'insabbiamento:

il canale della Vettola per deviare il ramo meridionale dell'Arno, la "fossa antiqua o Catafratta" che deviava

le acque dei torrenti Ugione, Cigna, Riseccoli e Mulinaccio verso San Jacopo in Acquaviva.

Vi erano infine importanti eremi e conventi: San Jacopo di Acquaviva, Santa Maria di Caprolecchio alla

Leccia, Santa Maria della Sambuca, San Leonardo e Ognissanti di Stagno, La Poggia e Montenero.

Nel 1245 sull'odierno colle del Castellaccio, vicino all'antico castello di Loreta, fu decisa da Pisa l'erezione di

una torre da usarsi come faro, che doveva avere in cima una terrazza su cui accendere il fuoco. L’onere della

costruzione fu affidato ai consoli dei comuni esistenti nelle pievanie di Ardenza, Limone, San Lorenzo in

Piazza e Camaiano, cioè a tutti i borghi che erano nella Capitania di Porto Pisano. In realtà la costruzione di

un tale faro non fu mai eseguita.

Cap. 5 – Riprende la guerra tra Genova e Pisa – La battaglia della Meloria.

Un nuovo “casus belli” che fece riprendere le ostilità tra le due Repubbliche Marinare si presentò quando un

signorotto della Corsica, Simoncello di Cinarca, volendosi sottrarre al controllo di Genova, si rifugiò a Pisa,

chiedendo protezione e divenendo vassallo della repubblica toscana. Un episodio insignificante che però

venne scelto dalla Superba per scatenare nuove ostilità. Per due anni le flotte delle due Repubbliche che si

inseguirono per tutto il Tirreno ma senza mai scontrarsi apertamente, ciascuna città poteva mettere in mare

una trentina di galee, molte delle quali appartenevano a privati cittadini, obbligati a metterle a disposizione

per le necessità belliche. Naturalmente gli armatori si preoccupavano prima di tutto dell’integrità dei loro

navigli e ciò spesso interferiva con la strategia perché impediva ai comandanti di sfruttare eventuali situazioni

favorevoli. Genova, però, potendo contare sulle risorse di buona parte della Liguria che le era sottomessa,

aveva cominciato anche lei a costruire nuove navi: già nel 1283 poteva mettere in mare 88 navi con cui

inseguire, tra il giugno e il luglio di quell’anno, le 54 navi pisane reduci da un colpo di mano contro la

piazzaforte genovese di Alghero. Non ne seguì nulla: i pisani si arroccarono a Piombino e aspettarono che il

cattivo tempo costringesse i genovesi a ritirarsi. Se i pisani avessero continuato a giocare a rimpiattino con i

nemici, sarebbero riusciti a tenerli in scacco a tempo indeterminato: ma nell’aprile 1284 uno scontro quasi

casuale presso l’isola di Tavolara terminò con una netta sconfitta pisana: il genovese Arrigo De Mari al

comando di undici galee, due galeoni e di quattro navi minori, aveva conseguito una prima importante vittoria:

tredici galee pisane catturate, una affondata e 10 in fuga; era inoltre caduto prigioniero anche l'ammiraglio

pisano Bonifazio Della Gherardesca (successo che procurò al De Mari, prossimo a prendere parte anche

all'impresa della Meloria, fama e onori pure nel regno angioino).

Questa bruciante sconfitta spinse Pisa a cercare la rivincita. La strategia concordata era semplice ed efficace:

raccogliere il maggior numero possibile di navi (ne misero insieme 72) e tentare di cogliere di sorpresa i

genovesi quando avessero diviso la loro flotta.

La ricerca del momento propizio per attaccare le forze Genovesi divise fu sul punto di riuscire nel luglio del

1284: 30 galee genovesi al comando di Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova, erano state inviate in

Sardegna a Porto Torres per portare supporto alle truppe Genovesi che assediavano Sassari e in porto non ne

erano rimaste che 58. Il piano dei Pisani per vendicare la sconfitta di Tavolara era di colpire in netta superiorità

(settantadue galee) la flotta ligure a Genova per poi affrontare le rimanenti unità in Sardegna e chiudere per

sempre il conto con la Superba.

Il 22 luglio I Pisani partirono per cogliere di sorpresa la flotta Genovese ma a causa di un fortunale che rallentò

gli spostamenti quando arrivarono vicino a Genova fu avvistata in lontananza la flotta di Zaccaria di ritorno

da Porto Torres. I Pisani, valutando di aver perso la superiorità numerica, decisero di non attaccare e

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rientrarono in porto, non senza lanciare una ultima provocazione ai Genovesi, sotto forma di una pioggia di

frecce d'argento.

La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida, e alle prime luci dell’alba del 6 agosto 1284, salpò

verso Porto Pisano. La scelta del giorno di San Sisto sulla carta era propizio ai pisani in quanto foriero di

vittorie e celebrato ogni anno. Si narra che quel giorno, durante la tradizionale benedizione delle navi prima

della battaglia, la croce d'argento del pastorale dell'Arcivescovo di Pisa si staccò, i Pisani non si curarono di

questa premonizione negativa, dopotutto era il giorno del loro patrono, e irriverenti urlarono che a loro bastava

il vento propizio per vincere anche senza l’aiuto Divino.

La battaglia della Meloria

L'ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima

linea di 63 galee da guerra composta da otto "Compagne" (antico raggruppamento dei quartieri

di Genova): Castello, Macagnana, Piazzalunga e San Lorenzo, schierate sulla sinistra (più alcune galee al

comando di Oberto Spinola), e Porta, Borgo, Porta Nuova e Soziglia posizionate sulla destra.

Benedetto Zaccaria comandava invece una squadra di trenta galee che vennero tenute in retroguardia e

“mascherate” facendo abbattere gli alberi che sostenevano le grandi vele latine, in modo da essere scambiate

per navi disarmate (non esistevano ancora i cannocchiali).

La flotta pisana era in parte ormeggiata dentro Porto Pisano, mentre un'altra parte sostava poco fuori dal porto.

Al comando della flotta, secondo le consuetudini del Governo Potestale, i Pisani avevano scelto, Albertino

Morosini da Venezia. I Veneziani, com'è noto, erano da sempre in rivalità con Genova, ma in questo frangente

avevano rifiutato l'appoggio della loro flotta alla repubblica pisana. Assistevano il Morosini: il conte Ugolino

della Gherardesca (celebre perché cantato da Dante nel XXXIII canto dell'Inferno nella Divina Commedia)

e Andreotto Saraceno. I pisani videro avanzare questa flotta verso di loro nelle primissime ore del pomeriggio

del 6 agosto e, contando solo 63 legni genovesi valutando di essere superiori di 9 navi in più, decisero di uscire

dal porto e dare battaglia.

L’affresco della battaglia della Meloria a Diano Castello

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In agosto nel Tirreno il tempo è quasi sempre buono, il mare calmo, il vento debole. Le fonti dicono che la

flotta genovese fu avvistata all’altezza delle secche della Meloria, ossia ad appena 6 km dalla costa, il che

lascia immaginare che la giornata non fosse limpida. Forse anche per questo le navi rimaste indietro non

vennero avvistate o riconosciute.

I pisani presero il mare rapidamente, schierandosi in una linea di fronte molto lunga (almeno 2,5 km), anche

le navi di Doria si disposero in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I

famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi

tentavano, secondo le tattiche dell'epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora

l'abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano a distanza ravvicinata con ogni sorta di munizioni

scagliate da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e calce in polvere.

Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni di Benedetto Zaccaria, che piombarono sul

fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle

galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. I pisani resistettero con la forza della disperazione fin quando

Zaccaria non si avvicinò alla capitana pisana con due galee, stese tra di esse una catena legata agli alberi (che

nel frattempo aveva fatto rialzare), prese in mezzo la nemica, tranciandole l’asta che reggeva lo stendardo di

Pisa. A quella vista, i pisani cercarono scampo in una fuga disordinata: solo le navi agli ordini di Ugolino si

salvarono. Più di 30 galee furono catturate, 7 affondarono, altrettante si incagliarono.

Una ulteriore ragione della sconfitta pisana deve essere individuata come già detto nell'ormai obsoleto

armamento navale e individuale; le navi pisane, più pesanti, imbarcavano anche truppe armate con armature

complete, nonostante la calura estiva, e durante la lunghissima battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte

e più leggere ne furono chiaramente avvantaggiati.

Balestriere pisano

La gloria della marina della Repubblica Pisana s'inabissò in quel giorno nelle acque della Meloria perdendo

tra colate a fondo o cadute in mano nemica oltre 49 unità navali e tra i cinque e i seimila furono i morti, e

quasi undicimila furono i prigionieri (alcune fonti citano fino a venticinquemila perdite tra morti e prigionieri)

tra cui proprio il podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere che da allora si sarebbe

chiamato “ Campopisano” Tra i prigionieri pisani era anche quel Rustichello che scrisse per conto di Marco

Polo il cosiddetto Milione nelle prigioni genovesi.

Solo un migliaio di prigionieri pisani tornò a casa dopo tredici anni di prigionia. Gli altri morirono tutti e sono

sepolti sotto il quartiere genovese che tristemente porta ancora il loro nome.

La deportazione forzata di tante migliaia di prigionieri, depauperò spaventosamente la repubblica pisana non

solo della sua popolazione maschile, ma anche di gran parte del proprio esercito, lasciandola così indebolita e

spopolata da causarne la progressiva decadenza. In tale occasione, proprio in riferimento all'ingente numero

di prigionieri pisani a Genova, nacque il detto "se vuoi veder Pisa vai a Genova".

L'accusa di vigliaccheria, se non di tradimento, successiva alla battaglia per alcune manovre poco chiare fatte

dalle sue navi non impedirà al conte Ugolino di conquistare la signoria de facto e di restare al vertice del

governo della città di Pisa fino alla sua deposizione (1288) e alla celebre morte per inedia nella torre della

Muda, dove venne chiuso con i figli e i nipoti (1289).

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Nel 1285 anche il faro della Meloria fu distrutto nel corso di una spedizione dei Genovesi contro Pisa. Il 28

giugno di quell'anno una flotta al comando dell'ammiraglio Oberto Spinola, composta da 75 galee e altre

imbarcazioni, si diresse verso Porto Pisano ove si pose all'assedio delle torri in attesa che gli alleati Lucchesi

e Fiorentini venissero a dare manforte da terra, secondo il trattato stipulato l'anno precedente. Ma i Fiorentini

non si mossero per nulla e i Lucchesi si accontentarono di attaccare alcuni castelli della Val di Serchio. Nel

corso dell'assedio del porto, una galea genovese si portò sotto il faro della Meloria e procedette alla sua

demolizione. Dopo quaranta giorni di battaglie e di assedio i Genovesi si ritirarono senza aver ottenuto altri

successi.

Riporto il racconto della distruzione del faro tratto dagli Annali genovesi:

«Igitur Benedictus Iacharia habebat in dicto exercitu unam suam galeam que Divitia vocabatur; erat

quidem longa …, alta plus …, apparebat habens arbores III et remos CXL, mirabiliter impernata e

fortis, eamque cohoperuit de restis, atque ad demollitionem turris fanarii accessit, atque homines

taliter ipsi supposuit quod intus murum diruentes intraverant; cumque existentes in ea hoc defendere

non valerent, se reddiderunt salvatis personis, et hoc fuit die … Ipsa quidem turris erat per quadrum

quodlibet plus … alta … et plena tota lapidibus et cemento usque in … posita in una sicca prope

Ligurnum modico spatio. Erantque in ea homines bellatores munitos omnibus necessariis».[9]

(Benedetto Zaccaria aveva nell'esercito una sua galea, chiamata Divitia [Ricchezza], che era lunga … e alta

piu di …, fornita di tre alberi e 140 remi, mirabilmente imperniata e forte. Egli la ricopri di ripari di vimini e

si avvicinò per demolire la torre del fanale. Gli uomini posti sotto i ripari distruggendo il muro riuscirono a

entrarvi dentro. I difensori che si trovavano sulla torre non furono più in grado di far nulla e si arresero col

patto di aver salva la vita. La torre era quadrata; il lato misurava … ; era alta piu di … e tutta piena di pietre e

cemento fino all’altezza di …, posta in una secca a breve distanza da Livorno e vi stavano dentro uomini atti

a combattere, forniti di tutto il necessario).

Tra i difensori del faro, ricordati nella cronaca genovese, vi erano forse anche i frati di San Iacopo, dato che

nel 1285 il loro contratto quinquennale, stipulato nel 1282, non era ancora scaduto.

Pisa firmò la pace con Genova nel 1288, ma non rispettò i termini imposti e questo fatto costrinse Genova ad

un'ultima dimostrazione di forza.

Le difese del Porto Pisano

Nel 1290, Corrado Doria salpò con alcune galee verso Porto Pisano, trovando il suo accesso sbarrato da una

grossa catena tirata tra le torri Magnale e Formice. Fu il fabbro Noceto Ciarli (il cognome è spesso riportato

anche come Chiarli) ad avere l'idea di accendere un fuoco sotto di essa per renderla incandescente in modo da

spezzarla con il peso delle navi. Il porto fu raso al suolo, le 4 torri presenti abbattute e sulle sue rovine fu

sparso il sale, come accadde per Cartagine ai tempi di Scipione, la campagna circostante devastata e

saccheggiata. Infine fu fatta affondare una nave colma di materiale da costruzione con l'intenzione di interrare

l'ingresso del porto stesso. La grande catena del porto di Pisa fu portata a Genova, spezzata in varie parti che

furono appese come monito a Porta Soprana e in varie chiese e palazzi della città (chiese di Santa Maria delle

Vigne, San Salvatore di Sarzano, Santa Maria Maddalena, Sant'Ambrogio, San Donato, San Giovanni in

Borgo di Prè, San Torpete, Santa Maria di Castello, San Martino in Val Polcevera, Santa Croce di Riviera di

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Levante; ponte di Sant'Andrea, Porta di Vacca, Palazzo del Banco di San Giorgio, Piazza Ponticello); solo

dopo l'Unità d'Italia le catene furono restituite a Pisa, dove sono conservate nel Camposanto Monumentale.

Altri anelli sono ancora a Moneglia, Borgo Ligure, che partecipò con sue imbarcazioni alla battaglia, e nel

Borgo di Murta, sede della chiesa di San Martino in Val Polcevera.

Le catene del Porto Pisano nel Camposanto Monumentale

La sconfitta fu pesante e segno l’inizio del declino della Repubblica di Pisa con la rinuncia a ogni pretesa

sulla Corsica e con la cessione a Genova di una parte della Sardegna (1299). Nel 1300 per avere la pace, il

governo pisano fu costretto a cedere anche gran parte della Sardegna ai Genovesi.

Cap. 6 – La decadenza della Repubblica Marinara di Pisa e la nascita del Fanale dei Pisani.

Dopo la sconfitta della Meloria del 1284, progressivamente il territorio Pisano divenne più continentale,

limitandosi alla costa ed all'immediato entroterra che da Migliarino arrivava fino a Piombino, con le

isole Elba, Gorgona, Pianosa, Giglio e Giannutri e le exclaves di Castiglione della Pescaia e di Porto

Ercole nell'Argentario.

Verso l'interno, in lotta perenne con Lucca, Firenze e Volterra, i suoi confini erano molto fluttuanti avendo

come castelli contesi quelli di Buti, Palaia, Peccioli e la Val d'Era, Montopoli (fino al

1349), Laiatico, Chianni (fino al 1325), Santa Maria a Monte, Pontedera, Vecchiano. Le principali roccaforti

erano la rocca della Verruca, presso Calci, che faceva da caposaldo del sistema difensivo montano sul confine

lucchese che correva dall'antico lago di Bientina al Serchio con i castelli

di Caprona, Vicopisano, Asciano, Agnano, San Giuliano. Sulla via fiorentina a sbarrare l'accesso verso Pisa

c'era il castello di Cascina, teatro di importanti scontri con i fiorentini Castelnuovo in Val di Cecina fu conteso

a lungo da Volterra.

L'importante porto pisano, chiave di tutta l'economia statale, non era più difeso sul mare mentre dal lato terra

poteva contare ancora da un sistema fortificato di rocche sulle colline retrostanti (Lari come sede del

capitanato delle Colline superiori, Crespina, Fauglia, Castellina, Rosignano ed infine Livorno, mentre la zona

che intersecava l'Arno con la Valdera era difesa dai castelli di Appiano, Petriolo, Montecuccoli ed infine, per

ordine di fondazione, quello di Ponte di Sacco (1392). Il territorio maremmano a sud del porto di Vada era

amministrato in nome di Pisa dai conti pisani della Gherardesca con i castelli

di Guardistallo, Bibbona, Riparbella, Casale, Donoratico, Montescudaio, Castagneto, Campiglia e Suvereto.

Senza Flotta Militare, dopo la sconfitta della Meloria, per circa un ventennio il Porto Pisano rimase senza faro.

In questo intervallo le navi erano guidate da segnalazioni luminose fatte dalla cima del colle di Montenero

(dove ancora oggi esiste una torre chiamata faro) e dal campanile delle chiese rimaste in piedi dopo la

distruzione dell'abitato di Livorno da parte di Genovesi.

Nel 1287 negli statuti pisani si parla nuovamente di far costruire una torre vicino Montenero, ma questa volta

è una semplice torre e non più un faro. Comunque neanche questo progetto sembra sia stato attuato.

La costruzione del nuovo Faro fu decisa nel 1302 era un momento di pace tra Pisa, Genova e Firenze e quindi

un momento propizio per l’erezione di un monumento che richiedeva tempo e denaro e che dimostrasse con

la sua imponenza la forza del popolo pisano. Un geniale scultore e architetto, Giovanni di Nicola Pisano,

venne chiamato per disegnare i piani della torre, che fu in un primo tempo chiamato Fanale Maggiore, e ne

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seguì la costruzione passo a passo. Rimane un mistero il costo di tale costruzione ma dopo tanti secoli e tante

guerre, sia all’epoca che in tempi piu recenti, gli antichi documenti non sono piu rintracciabili.

L’edificio in pietra delle cave di S. Giuliano, constava, come oggi la torre ricostruita consta, di una larga base

conica sulla quale posano, apparentemente, due tronchi di cono, uno su l’altro, ciascuno dei quali terminanti

in una corona merlata; in realtà, sono sette cilindri sovrapposti con diametri progressivamente decrescenti.

Questo accorgimento fu adottato, come notò il prof. Lorenzo Cecchi, sia per motivi estetici, sia per una più

agevole costruzione potendosi così far uso di pietre a facce perpendicolari.

Per prima cosa fu costruita una base poligonale con tredici lati e sulla quale fu issata una prima torre che finiva

con una terrazza merlata, sopra questa una seconda torre, leggermente piu stretta, anch’essa con una terrazza

merlata sulla quale poggiava la lanterna. Al piano inferiore della torre più piccola era sistemato gli alloggi

per il guardiano e dei magazzini.

Visto dal basso il faro sembra composto di due sezioni coniche ma come si diceva è invece costituito da sette

cilindri equamente sovrapposti uno sull’altro, con un diametro leggermente decrescente fino alla cima. Questo

fa assumere a tutto l’insieme l’impressione di un andamento curvilineo di grande effetto. Le pietre Verruca

utilizzate per tutta la costruzione erano state estratte dalla vicina cava di San Giuliano. Alla base della torre

c’era solo una piccola porta d’ingresso sopra la quale era stata scolpita la croce, simbolo di Pisa, che fu in

seguito cancellata a rimpiazzata dal giglio fiorentino quando Pisa, nel 1406, fu annessa al dominio dei

Granduchi di Toscana, i de’ Medici. All’interno del faro si trovava una scala di legno, per accedere ai vari

piani muniti di finestre ad arco a tutto sesto, che in caso di pericolo poteva essere tolta, trasformando così il

faro in una fortezza. Solo in tempi più tardi una scala a chiocciola fu ricavata dallo spessore delle mura. Alla

base del faro furono accumulati grossi blocchi di pietra per proteggerlo dal mare in tempesta. Il faro compresa

la lanterna raggiungeva i 51 metri.

Il fanale dei Pisani

Nel 1304 la costruzione era ancora in corso: era "Fundacarius" del porto, ossia un "Operaio" responsabile

della sua manutenzione, Bonagiunta Ciabatto, il quale riscuoteva una paga giornaliera di 20 soldi per ogni

giorno passato a Livorno e di 20 denari per ogni giorno di lavoro passato a Pisa; quando invece trascorreva la

giornata di lavoro a Livorno e poi la sera tornava a Pisa a dormire, riscuoteva 18 soldi. Il Comune di Pisa

periodicamente gli forniva i fondi per le spese necessarie: nei due mesi di cui ci rimangono i registri, settembre

e ottobre 1304, l'Operaio ricevette quattro versamenti da parte del Comune, per un totale di 800 lire. Con

questa cifra egli doveva provvedere all'acquisto dei materiali e al pagamento dei salari dei capimastri. Ad

aiutare il Fundacarius nel lavoro amministrativo era assegnato un notaio e un Ufficiale per la difesa. La torre

del faro, anche se non terminata, nel 1304 era già presidiata, infatti negli statuti pisani dell'ottobre 1304 si

dispone che in essa risiedessero stabilmente dei custodi, i quali dovevano avere un'età compresa tra i 25 e i 50

anni, essere uomini di mare e non abitare a Livorno o Porto Pisano. Per essi valevano le stesse regole che per

i custodi delle altre torri del Porto Pisano. Nel 1310 al faro erano assegnati due sergenti, i quali dovevano

provvedere oltre che alla custodia anche al suo funzionamento. La stessa organizzazione è attestata nel 1316.

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Una volta terminata la torre fu considerata una tale grande espressione del genio umano che venne persino

ammirata dal grande poeta Dante Alighieri (1265 1321) che non poté fare a meno di descriverla nel V canto

del purgatorio della Divina Commedia con queste parole: “Sta come torre ferma che non crolla – giammai la

cima per soffiar di venti”. Infatti questa lanterna ha affrontato intatta sei tempestosi secoli finche gli uomini

non l’hanno sconfitta, ma di questo parleremo piu avanti.

Nel 1358 il faro è ricordato nell’Itinerarium Syriacum di Francesco Petrarca:

«Post hec paucis passuum milibus, portus et ipse manufactus, Pisanum vocant, aderit et fere contiguum

Liburnum, ubi prevalida turris est, cuius in vertice pernox flamma navigantibus tuti litoris signum

prebet».

(Dopo poche miglia ecco il porto artificiale che è detto Porto Pisano, vicino e quasi un tutt’uno con Livorno,

dove si erge una fortissima torre, in cima alla quale nella notte una fiamma indica ai naviganti la costa sicura).

Anche il grande astronomo Galileo Galilei (1564 –1642) usava salire in cima alla torre per portare avanti I

suoi esperimenti. Il faro di Livorno è stato anche impresso in alcune monete d’oro ancora conservate al Museo

Civico di Pisa.

Il Faro simboleggia la forza dei Pisani che nonostante la sconfitta nella guerra con i Genovesi, per tutto il XIV

secolo, rimangono una potenza repubblicana tanto da vincere anche la famosa Battaglia di

Montecatini nel 1315, nella quale Pisa si impose contro le forze riunite di Firenze, Siena, Prato, Pistoia,

Arezzo, Volterra, San Gimignano e San Miniato.

I Pisani, popolo fiero e duro da abbattere, iniziarono con il faro, denominato poi Fanale, anche la ricostruzione

del Porto Pisano ricostruendo le torri di difesa distrutte dai Genovesi ed elevando tre nuove torri. La

ricostruzione della quarta torre detta Formice, o "della Formica", ben riassume il sistema portuale pisano: si

trattava di una torre posta in un luogo strategico del porto, dove il Comandante del Porto era tenuto a mantenere

intorno dei pali per far attraccare le navi; detto sistema fu realizzato con l'apposizione di dodici colonne in

pietra per gli ormeggi (inter palos in dictu porto ormeggiate). Infatti le galere non viaggiavano mai sole, ma

in carovana: ma quand'esse arrivavano nel porto, non c'era posto per tutte ed alcune attraccavano in questo

punto della rada. Più a sud venne costruita un'altra torre detta Maltarchiata o Palazzotto o Castelletto a difesa

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meridionale dell'imboccatura del porto e collegata alla riva da un lungo molo difeso da una palizzata lignea

che si riconduceva al fondaco della Domus Magna. Pare che dalla Formice partisse un altro moletto, difeso

da palizzata lignea, che arrivava in linea retta fin quasi alla Magnale per una lunghezza di circa 260 metri. La

distanza tra la Maltarchiata e la Formice, di circa 80 metri, costituiva l'ingresso meridionale del porto, mentre

la distanza tra la Formice e la Magnale era di circa 300 metri, in gran parte coperti dal suddetto molo. È dello

stesso periodo anche la Torre Rossa (turris Vermilia), sulle cui rovine sarà poi costruita, dai fiorentini, l'ancora

esistente Torre del Marzocco che distava dalla Magnale circa 180 metri verso nord-ovest. Infine tra la

Vermiglia e la torre Frasca o Fraschetta verso nord vi era un tratto di mare di circa 360 metri, ben presto reso

inagibile dalle secche sabbiose e dagli accumuli di alghe andando a costituire pericolosi bassifondi e rendendo

inaccessibile il porto dal lato settentrionale. Queste torri costituivano un complesso fortificato a difesa dei due

ingressi del porto definito da alcuni Porto Magnalitico essendo dominato dalla mole della Magnale: ebbero il

nome di Vermiglia eretta a fianco della ricostruita Magnale (turris Magnalis) e la Torrazza (Turrassa) verso

sud a fianco della Formice. Il Fanale davanti al borgo di Livorno era già funzionante nel 1310, mentre le altre

torri furono tutte ripristinate fin dal 1297. Ciascuna torre era anche fornita di castellani e sergenti. Vengono

restaurati e ampliati l'antica Dogana (Deghatia), il Fondaco (Domus Magna), l'arsenale (Tersania) e il

palazzotto dove aveva sede il Tribunale per le cause marittime, già arricchito da fregi e marmi recuperati

probabilmente dalle antiche rovine di Triturrita.

L'importanza del porto è testimoniata anche dall'organizzazione amministrativa del suo distretto denominato

"Piviere o Capitanato del Piano di Porto Pisano", dipendendo direttamente dai Consoli del Mare della

Repubblica Pisana.

Dopo il 1339 si cominciò a distinguere il Porto Pisano dallo scalo di Livorno che andò ad acquistare sempre

più importanza. Ciononostante il Porto Pisano continuò ad essere ancora funzionante, portando in alto il

vessillo della Repubblica Pisana.

Cap. 7 – La Repubblica di Pisa passa sotto Firenze - Nasce la città di Livorno.

Con il passare degli anni e la diminuzione degli scambi commerciali la situazione economica e politica

dell'ormai decadente Repubblica Pisana, che già dal 1323 aveva subito la conquista aragonese della

Sardegna con la perdita del suo ultimo dominio sui giudicati di Cagliari e di Gallura, comincia a diventare

insostenibile e il 13 febbraio 1399, il signore di Pisa Gherardo Leonardo d'Appiano, dopo un lungo assedio,

cedette la città e il contado per la cifra di 200.000 fiorini d'oro a Gian Galeazzo Visconti del ramo pisano

dei Visconti per farsi signore di Piombino ed ottenere la nomina a Conte Palatino.

Il controllo della Repubblica da parte dei Visconti durò poco, infatti Pisa mantenne la sua indipendenza e il

dominio su quella parte di costa toscana e oltre fino al 1406, quando fu occupata dai mercenari Angelo

Tartaglia e Muzio Attendolo Sforza che disposero l'annessione alla repubblica fiorentina.

Con la dominazione fiorentina iniziò un declino inarrestabile della città che, nelle arti, aveva diffuso lo stile

architettonico romanico pisano, anche nelle chiese sarde. Soffocati i traffici commerciali e mercantili, che

avevano contraddistinto per secoli la sua efficienza, alcune delle più importanti famiglie pisane, per sfuggire

alla morsa fiorentina, emigrarono all'estero o in altri Stati italiani, in particolare in Sicilia. A Palermo a partire

dai primi anni del XV secolo, si trasferirono così gli Alliata, i Vanni, i Caetani, i Damiani, gli Agnelli,

i Corvini, i Bonanni (poi anche in Abruzzo), gli Upezzinghi, i Galletti, i da Settimo, i Gambacorti (prima a

Napoli), i Palmerini, i del Tignoso, i Vernagalli, i Mastiani, i Pandolfini, i Grassolini, i da Vecchiano, i

Bernardi, e molte altre famiglie. Firenze fu scelta dai della Gherardesca, i Compagni, i Caetani, mentre

a Roma si trapiantarono i Lante, i Roncioni, gli Angeli, i Campiglia Ceuli.

Nel 1440 la lanterna in cima al faro fu rifatta, perche l’anno precedente si era bruciata. Gli Ufficiali del porto

furono incaricati sia di rifare la lanterna sia di provvederla di olio:

«ut semper dicta lanterna noctis tempore arderet et luceret, pro honore Communis et salute

navigiorum, secundum consuetudinem alias observatam».

(affinché sempre di notte la detta lanterna arda e faccia luce, ad onore del Comune e per la salvezza dei

naviganti, secondo l’uso mantenuto in passato).

Decaduta la Repubblica di Pisa, l'originaria croce pisana scolpita sull'angusta porta d'ingresso del faro fu

cancellata e sostituita dal giglio fiorentino. Nel 1583 il granduca di Toscana Francesco I de' Medici, allestì,

alla base del fanale, il primo lazzaretto della città (1584) ed il secondo in Italia dopo quello di Venezia,

affiancato da alcuni magazzini che ne deturparono la purezza delle linee. Un'iscrizione ne ricordava

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l'evento: Franciscus Med. Magnus Dux Etruriae MDLXXXIIII. Tali basse costruzioni nei primi anni

del Novecento erano ancora presenti, ma oggi non ne resta più traccia.

Il Granduca Cosimo I° de’ Medici realizzò che Livorno era nella posizione strategica per diventare un

importante porto per il commercio nel Mediterraneo per Firenze, una città che stava espandendo i suoi

commerci in tutto il mondo conosciuto e dispose la fine del Porto Pisano, da prima nel 1406 e, definitivamente,

nel 1509, con l'ampliamento della città di Livorno. L'uso del porto Pisano è comunque documentato per tutto

il XV secolo, venendo citato da un poeta minore, Matteo Fortini, nella sua operetta "L'Universo". Gli Statuti

di Livorno del 1507 ne ricordano per l'ultima volta l’esistenza.

Il Granduca ordinò allora molti lavori per rendere il porto di Livorno ancora più efficiente mentre il faro

diventava un riferimento ancora più importante.

Nel 1583 il Granduca di Toscana, Ferdinando I° de’ Medici dispose anche la costruzione del nuovo faro della

Meloria. La nuova torre sulla secca fu ricostruita nel 1598 ma crollò dopo non molti anni per la violenza del

mare.

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Ferdinando I ordinò anche ulteriori cambiamenti nel porto di Livorno con la costruzione alla base del faro di

un cantiere, il primo dell’epoca, e un lazzaretto per i marinai che giungevano dalle coste sia del Mediterraneo,

sia dai mari Orientali per evitare il diffondersi di eventuali epidemie. Si dice che l’intero lavoro fu finito in

soli cinque giorni, perché vennero messi al lavoro cinquemila uomini tutti insieme. Tutto questo cambiò

drasticamente l’aspetto del faro la cui base era ora circondata dalle nuove costruzioni che ancora esistevano

ai primi del 1900.Lo sviluppo del porto andò di pari passo con una nuova pianificazione della città di Livorno

il cui piano originale era stato disegnato dall’architetto Bernado Buontalenti (1536 –1608) il quale circondò

la città con mura di forma pentagonale. Nel 1587 Ferdinando I° de’ Medici apportò ulteriori modifiche e

tramutò il porto di Livorno in porto franco. Con questa innovazione molto vascelli commerciali approdavano

allo scalo labronico incrementando enormemente il traffico marittimo. Durante questi secoli Livorno era anche

una base militare e dal faro si poteva assistere alla partenza delle galee Medicee che si inoltravano nel

Mediterraneo per combattere i pericolosi pirati saraceni che in quei secoli attaccavano e depredavano le coste

italiane.

Livorno diventa il porto dei Medici

Quando la famiglia de’Medici si estinse nel 1736 con la morte di Gian Gastone de’ Medici, l’ultimo della sua

stirpe, che non lasciò un erede legittimo, Livorno aveva già ottenuto la qualifica di città, aveva più di 30.000

abitanti, un grande porto e un grande faro, il piu antico d’Italia, piu vetusto anche del faro di Genova, costruito

nel 1543. Nel 1737 il governo della Toscana passò nelle mani dei Duchi di Lorena, il primo dei quali fu il

granduca Francesco Stefano di Lorena (1708-1765), noto con il titolo di Francesco III, il quale creò una

reggenza presieduta da Marc de Beauvau, principe di Craon, compiendo una sola visita nella regione

(1739). Nel 1765 il governo passò nelle mani di Pietro Leopoldo di Lorena (1765-1790), un principe

illuminato che apportò molti cambiamenti. Egli aumentò la portata dello scalo livornese, che attraeva navigli

da ogni parte del globo conosciuto e divenne un sempre più potente scalo commerciale sia per i beni in transito

che per quelli in arrivo, dovuto alla sua sicurezza a cui contribuiva anche la presenza del faro. La dinastia

dei Lorena governò per più di un secolo durante il quale Livorno fu occupata dalle truppe francesi e dagli

spagnoli ma tuttavia città e faro sopravvissero.Fu solo nel 1860, dopo le guerre di indipendenza, che la storia

di Livorno entra a far parte della storia d’Italia, una nuova nazione, appena costituita, e anche il faro entra

nell’elenco dei fari Italiani con il numero 1896.

Cap. 8 – Il Fanale dei Pisani e della Meloria vengono distrutti.

Il faro di Livorno detto Fanale dei Pisani aveva la lanterna, in ferro, e una sorgente luminosa, in principio, a

olio, poi a petrolio, con speciali specchi a riverbero fino al 1841 quando furono installate le prime lenti di

Fresnel e un bruciatore tipo AGA a gas di acetilene a incandescenza con splendori di 20 in 20 secondi, infine

a luce elettrica alla fine del 1800 ha consentito l’uso di una lampadina prima da 3000 W poi da 1500 con una

caratteristica di 4 lampi ogni 20 secondi. L’ottica girevole aveva un meccanismo meccanico azionato da un

peso motore e un congegno ad orologeria che ne controlla la discesa consentendo una rotazione ogni 20

secondi.

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Purtroppo non esistono elenchi degli antichi guardiani del faro, è andato tutto distrutto. Solo nel 1800 abbiamo

delle registrazioni delle forniture che venivano effettuate da una ditta appaltatrice per il combustibile, gli

stoppini e quant’altro poteva essere necessario per la gestione del faro. Si tratta di fogli formato protocollo

scritti a mano, come si usava allora, con una grafia antica, quasi illeggibile, ma che erano importanti per

conoscere i costi di gestione che dovevano essere precisi perché andavano presentati alle Autorità che allora

gestivano il Servizio Fari, il Genio Civile e il Ministero dei Lavori Pubblici. Fu solo nel 1911 che il Servizio

fari passò definitivamente sotto il controllo della Marina Militare.

Il 15 maggio 1867 venne anche edificato il nuovo faro della Meloria su traliccio in metallo alto 15 metri con

lanterna esagonale che i livornesi chiamavano “La Gabbia”. Il faro fu eretto a fianco della storica torre,

innalzata sotto Cosimo III de’Medici nel 1709, come monumento celebrativo della battaglia avvenuta in quelle

acquee nel 1284. Il faro venne successivamente distrutto da una mareggiata.

Il Faro della Meloria del 1867 detto “ La Gabbia”

Durante la seconda guerra mondiale, nel 1943, le truppe Tedesche occupavano il nord d’Italia e le armate

Americane stavano arrivando dal sud. Roma era già stata liberata e Firenze lo sarebbe stata presto. Il porto e

la città di Livorno erano in mano ai Tedeschi e avevano subito diversi bombardamenti da parte degli Alleati,

ma il faro non era stato danneggiato, tuttavia era già stato spento da diverso tempo in quanto poteva essere un

importante punto di riferimento per i bombardieri americani e per chi volesse sbarcare in quella zona.

Arrivò il momento in cui i Tedeschi decisero di ritirarsi per sfuggire all’attacco della quinta e sesta armata

americana che stavano risalendo la penisola ma prima di questo essi arrecarono all’antico faro il piu terribile

insulto che si potesse arrecare a un monumento così antico: il 19 luglio 1944 con una carica di dinamite i

guastatori tedeschi del Generale Kesseling, distrussero il faro fino alle fondamenta. Il faro di Livorno aveva

fronteggiato per secoli mareggiate, venti di tempesta, ogni genere di offesa che poteva essere arrecata dalla

natura ma in un attimo un gruppo di uomini aveva cancellato tutto questo.

Il Fanale dei Pisani non esiste più

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C’è un episodio, che riguarda questo fatto, che vale la pena di ricordare e che ho tratto da un racconto di Lilla

Mariotti storica, scrittrice e Presidente dell’Associazione culturale “IL MONDO DEI FARI”, è stato

raccontato da Saido Giordani, figlio di Giovanni Giordani, di professione farista, che durante la guerra era

guardiano del faro di Livorno. Quest’uomo era in sostanza prigioniero dentro il suo faro occupato dai tedeschi

che avevano posizionato delle batterie antiaeree nelle vicinanze. Il Farista doveva occuparsi delle sue usuali

mansioni, ma aveva l’ordine di non accendere il faro. Il faro conteneva molte munizioni e Giordani sapeva

che i tedeschi lo avevano minato, lui ci dormiva dentro e non si sentiva molto tranquillo, ma non poteva

allontanarsi. Uno dei militari tedeschi, un sergente di nome Walter, era entrato in amicizia con il farista, e gli

aveva detto che lo avrebbe avvisato se avessero ricevuto l’ordine di far saltare il faro. Un giorno Walter gli

consegnò un sacchetto di caramelle per i suoi figli e delle sigarette per suo padre e gli disse che gli concedeva

quarantotto ore di licenza per andare a trovare la sua famiglia che si trovava all’Isola d’Elba. A Giovanni non

sembrò vero e parti con il primo traghetto che riusci a trovare e quando tornò due giorni dopo, il faro non c’era

più, era un ammasso di macerie e i tedeschi erano fuggiti. Saido racconta che suo padre non ricordava il

cognome del sergente, lo aveva sempre chiamato Walter, comunque dopo la guerra fece di tutto per

rintracciarlo, sentiva di dovergli la vita ma ogni ricerca fu vana.

La guerra finì, la città iniziò la ricostruzione, ma le rovine del faro non furono mai toccate, vennero lasciate lì

dove si trovavano. I Livornesi sapevano che se le avessero portate via non sarebbe più stato possibile

ricostruirlo e loro volevano il loro faro, non uno qualsiasi.

Negli anni ’50, ci fu quasi un movimento popolare che chiedeva a gran voce la ricostruzione del faro.

Il Presidente della locale Camera di Commercio e dell’Industria, Graziani, nel 1952 apri una pubblica

sottoscrizione che in breve tempo raggiunse i 2 milioni di lire, una gran somma per quei tempi, e in seguito

venne raccolto altro denaro. I lavori cominciarono nel giugno del 1954, dieci anni dopo la distruzione e il

lavoro fu eseguito dall’Impresa Ghezzani che, mettendo una gran fede e buona volontà in quello che stavano

facendo, seguirono i piani originali di Giovani Pisano del 1303, limitatamente alla parte esterna, utilizzando

il 90% del materiale originale ricavato dalle macerie e dove mancava usarono pietre verruca scavate dalla

stessa cava di San Giuliano da cui erano state ricavate le pietre originali.

In due anni il faro di Livorno era terminato e aveva lo stesso aspetto del faro originale, i lavori per la

ricostruzione del nuovo Fanale costarono 95 milioni.

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Nel 1955 durante i lavori per eliminare il mozzicone di torre rimasto dopo la distruzione del faro ad opera dei

Tedeschi, si scoprì che la parte inferiore della torre che aveva una forma a tronco di cono, in realtà racchiudeva

e nascondeva una struttura cilindrica che era la esatta continuazione del cilindro che si vedeva ad una altezza

maggiore. Tale basamento cilindrico, come si poteva dedurre dalla sua erosione ad opera del mare, era stato

inizialmente e per un lungo periodo scoperto ed esposto alle intemperie. Solo in un secondo tempo era stato

costruito il rinforzo a tronco di cono del basamento. Durante questi lavori di demolizione, eseguiti con la

volontà precisa di studiare accuratamente la struttura residua prima della sua totale eliminazione, fu ritrovato

un vano a piano terra, a cui davano luce tre finestrelle, senza alcun accesso dall’esterno (ovviamente l’accesso

era solo dall’alto), dimostrando cosi che la base della torre non era piena come era stata la base del primo faro;

inoltre fu ritrovato sulla parete esterna del cilindro, a lato di una delle finestrelle, una pietra a forma di scudo.

Nell’angolo superiore sinistro di tale scudo, attualmente collocato alla base del faro, in una ampia nicchia, si

può notare un residuo di quello che doveva essere il disegno originale di uno stemma: un ramo che si suddivide

in tre rametti con foglie o spine (6 o 8) e che terminano in alto con 5 foglioline o con un fiore a 5 petali.

Al di sopra di questo stemma si trova una pietra rettangolare alta 32 cm, con una iscrizione ancora leggibile.

A(nno) D(omini) MCCCII DE ME(n)SE MA[I]

OP(er)A(r)IO NOCCO CATELLO D(e) SPINA

All'inaugurazione avvenuta il 16 settembre 1956, partecipò anche il Presidente della Repubblica Giovanni

Gronchi e il Ministro Romita.

Cap. 9 – Il Fanale dei Pisani e della Meloria ai giorni nostri.

Approfittando dei nuovi ritrovati della tecnica e della scienza, il nuovo Fanale è assai migliore del vecchio,

che già prima sembrava un prodigio. La sua altezza totale, compresa la torretta dei macchinari e la lanterna, è

ora di metri 53,10 mentre il massimo diametro è 12 metri. Nell’interno, un moderno impianto di ascensore

raggiunge gli ultimi piani dove sono i locali di guardia dei faristi detti “stanze di veglia”. Una scala a chiocciola

porta alla terrazza merlata e alla lanterna dove sono posizionati gli apparati di comando e controllo, il sistema

ad orologeria che ne consente la rotazione anche in assenza di corrente elettrica e la lente di Fresnell a 4 spicchi

con elementi diottrici e catadiottrici che amplificano la luce di una lampadina da 1000 W ad alogenuri

metallici. Il “Fanale” di Livorno è un faro ad ottica rotante alimentato dalla rete elettrica nella sua sorgente

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principale che emette 4 lampi ogni 20 secondi con una portata di circa 24 miglia marine, ma può funzionare

anche a portata ridotta (18 miglia) con un fanale di riserva detto PRB che funziona con batterie da 12 volt. Il

faro è automatizzato dal 2006 con un sistema computerizzato di telemonitoraggio e controllo denominato

SACF realizzato su specifiche della MMI che ne verifica giornalmente tutte le funzioni principali e segnala

ogni anomalia tramite SMS a una centrale di controllo che è ubicata presso l’Ufficio Tecnico dei Fari di La

Spezia e da questo inviato alla Direzione Fari e Segnalamenti del Comando Logistico della Marina a Napoli

(a fini statistici e di valutazione) e al Comando Zona Fari Alto Tirreno (SP) per le azioni di riparazione e

mantenimento in efficienza.

Alla Meloria a fianco della Torre costruita da Cosimo III, in ricordo della battaglia del 1284, fu costruito dalla

Marina Militare negli anni 60 un faro alto 17 metri in muratura dal colore giallo e nero che emette 6 flash ogni

10 secondi. Tale segnale definito “Cardinale Sud” e previsto dalla normativa internazionale indica che a nord

della sua posizione è presente un pericolo. Inoltre, ritenendo non più idoneo all'illuminazione dell'intera area

delle secche un solo segnalamento, venne eretto, sempre negli anni 60, anche un secondo faro bianco alto 20

metri per indicare anche l’estremità nord delle insidiose secche. Entrambi i fari, sono ad ottica fissa con

lampada a led di tipo L2 alimentati da batterie a 12 volt con impianto fotovoltaico e hanno una portata di circa

10 miglia.

Faro Cardinale Sud della Meloria

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Dalla ricostruzione del faro negli anni 50 ad oggi si ha notizia che i seguenti Faristi hanno prestato il loro

servizio presso il faro di Livorno:

• Ferrari Giuseppe Classe 1923 dal maggio1952 al marzo 1969

• Luccioli Arturo Classe 1922 dal agosto 1957 al giugno1971

• Borghesi Elio Classe 1922 dal ottobre 1957 al marzo1960

• Battaglini Filippo Classe 1930 dal marzo1960 al marzo 1962

• Retali Rinaldo Classe 1930 dal aprile1958 al giugno1960

• Paradiso Francesco Classe 1921 dal settembre1968 al febbraio 1971 poi a Portofino

• Berti Piero Classe 1921 dal 1976 al

• Ezio Valerio Classe 1934 dal novembre 1978 al 1987

• Perrotto Luciano Classe 1940 dal agosto 1979 al novembre 1979 poi al Tino

• Gibilaro Rosario Classe 1936 dal novembre 1982 al 1991

• Buselli Piero Classe 1954 dal aprile 1980 al febbraio 1985 poi a Porto Santo Stefano

• Tenerini Claudio Classe 1951 dal 2000 al 2010

• Villa Marco Classe 1971 dal 2007 al 2010

• D’Errico Carmelo Classe 1955 dal settembre 2008 al aprile 2014

• Fiorentini Renzo Classe 1949 dal aprile 1988 al settembre 2015.

Fiorentini Renzo è stato l’ultimo farista in servizio al Faro di Livorno.

Il Farista Renzo Fiorentini

Il presente opuscolo è stato curato dal CV (AUS) Stefano Gilli Vicepresidente dell’Associazione

Culturale IL MONDO DEI FARI, già Comandante dal 2013 al 2019 del Comando Zona Fari Alto

Tirreno, dal 2005 al 2010 vicedirettore della Direzione Fari e Segnalamenti del Comando Logistico della

MMI e dal 2010 al 2013 responsabile del settore Segnalamenti Marittimi e Idrografia presso la

Delegazione Italiana Esperti in Albania.

Dott. Stefano GILLI

Capitano di Vascello

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