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SETTEMBRE 2011

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Osservatorio Strategico Anno XIII numero 9 settembre 2011

L’Osservatorio Strategico raccoglie analisi e reports sviluppati dal Centro Militare di Studi Strategici,

realizzati sotto la direzione del Gen. D. CC. Eduardo Centore.

Le informazioni utilizzate per l’elaborazione delle analisi provengono tutte da fonti aperte (pubblicazioni a

stampa e siti web) e le fonti, non citate espressamente nei testi, possono essere fornite su richiesta.

Quanto contenuto nelle analisi riflette, pertanto, esclusivamente il pensiero degli autori, e non quello del

Ministero della Difesa né delle Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessi appartengono.

L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file PDF) nelle pagine CeMiSS del

Centro Alti Studi per la Difesa: www.casd.difesa.it

Sommario

EDITORIALE

Valter Conte

MONITORAGGIO STRATEGICO Medio Oriente – Golfo Persico Yemen ancora nel caos, mentre Mahmoud Abbas chiede il riconoscimento della Palestina

Nicola Pedde 7

Regione Adriatico – Danubiana – Balcanica

L’involuzione politica della Bosnia Erzegovina e la questione croata: avanti verso il capolinea di Dayton?

Paolo Quercia 13

Comunità Stati Indipendenti – Europa Orientale

Il Caucaso, ancora strategico per gli equilibri in Russia e Europa

Andrea Grazioso 19

Relazioni Transatlantiche - NATO

Alcune considerazioni sulle ripercussioni di medio periodo di 9/11

Lucio Martino 25

Teatro Afghano

L’esercito afghano di fronte alla transizione

Antonio Giustozzi 31

Africa

L’ownership tunisina alla prova della nuova geopolitica nel Mediterraneo

Marco Massoni 37

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Osservatorio Strategico Vice Direttore Responsabile

C.V. Valter Conte

Dipartimento Relazioni Internazionali

Palazzo Salviati

Piazza della Rovere, 83 00165 – ROMA

tel. 06 4691 3204 fax 06 6879779

e-mail [email protected]

Questo numero è stato chiuso

il 30 settembre 2011

- Editing grafico a cura di Massimo Bilotta -

Iniziative Europee di Difesa

Il border control europeo: tempo di proposte o di polemiche?

Lorenzo Striuli 45

Cina

Il cantiere delle riforme politiche

Nunziante Mastrolia 51

India

India: l’attentato a New Delhi conferma le difficoltà del governo in carica

Claudia Astarita 57

America Latina

Una dottrina Monroe sudamericana?

Alessandro Politi 63

Organizzazioni Internazionali e Cooperazione Centro-Asiatica

La presidenza cinese della SCO torna alle origini

Lorena di Placido 69

Settore energetico

A tutto gas

Nicolò Sartori 75

Organizzazioni Internazionali

L’ONU e la diplomazia preventiva

Valerio Bosco 81

RECENSIONI

I rischi per l'infrastruttura informatica della Difesa. Individuazione delle risorse organizzative necessarie al contrasto dell'_"attacco informatico" per l'attivazione di strutture dedicate all'_"anti-hacker intelligence".

Gerardo Iovane 89

PID/S-1 La Dottrina Militare Italiana.

Stato Maggiore della Difesa - III Reparto – Centro Innovazione della Difesa 91

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Anno XIII – n° 9 settembre 2011

EDITORIALE

“Mamma li turchi”.

“Mamma li turchi”. Il grido d’allarme che tra il XV e il XXI secolo terrorizzava gli abitanti dell’Italia meridionale sottoposti alle scorribande dei pirati ottomani è stato ripescato da molti media per sottolineare il nascente attivismo turco. Un attivismo che si muove su vari fronti e che ha il non celato scopo di fare del paese di Ataturk la potenza di riferimento della regione. Gli sconvolgimenti del nordafrica che stanno cambiando il volto geopolitico della sponda a Sud del Mediterraneo hanno offerto nuova linfa alla politica di Ankara. E per raggiungere i propri scopi di leadership del mondo mussulmano, la Turchia non ha esitato a interrompere pluriennali legami con Israele e mettere a rischio quelli con l’UE anche a causa della crisi innescata dalle operazioni di sondaggio dei fondali al largo di Cipro, finalizzati ad individuare nuovi giacimenti di idrocarburi. Cavalcare l’onda emotiva che segue le rivoluzioni può apparire una facile strada. I canti di vittoria e le folle che osannano il leader venuto da non molto lontano sono immagini che vanno certamente scremate e depurate dei contenuti emotivi del momento. Anche se molte grandi scelte sono spesso realizzate su basi emotive più che su sole fredde analisi razionali. Erdogan ha in corso un contenzioso mediatico-diplomatico con Israele ma sa che non è possibile rinunciare totalmente alla presenza ed al ruolo dello stato ebraico in quelle terre martoriate. Israele è stato, e di certo sarà ancora a lungo, “amico dell’amico”, alleato di quegli Stati Uniti che ancora contano più di altri in questo pianeta. Ankara è pronta a porre sul tavolo del confronto anche il suo ruolo nella NATO, opponendosi con forza all’apertura di un ufficio di collegamento israeliano a Bruxelles. La posta in gioco per Erdogan, quindi, deve essere alta se sta mettendo in discussione alleanze e situazioni consolidate da tempo. È pur vero che la congiuntura geopolitica attuale presenta una serie di elementi difficilmente riproducibili contemporaneamente. Un mondo mussulmano che, rovesciate decennali dittature, cerca ora una propria via alla democrazia e tenta di individuare paradigmi e modelli importabili ma che non abbiano una decisa impronta occidentale. Una Europa in difficoltà, divisa su molte questioni, in affanno sull’economia comune, alle prese con la tenuta dell’euro ed incapace di percorrere vie realmente unitarie. Una crescente economia interna turca che, da un lato, ha bisogno di materie prime e, dall’altro, necessita di nuovi mercati pronti a recepire prodotti di qualità non molto differente dagli analoghi occidentali anche se marchiati con griffes non blasonate. E, infine, gli Stati Uniti, costretti a rincorrere una difficile crisi economica e con un Presidente in calo di consensi. La politica turca gioca a carte scoperte e ponendosi come leader dei paesi mussulmani acquisisce anche un viatico non scritto per possibili futuri interventi in Siria. Un qualsiasi intervento turco coronato da successo che aprirebbe la strada ad una democrazia in Siria darebbe un ulteriore impulso ad una “pax turca”. Oltre a garantire ad Ankara la soluzione a varie problematiche che ancora l’attanagliano, dal conflitto coi Curdi alla questione delle acque dell’Eufrate. Ma se per Erdogan e per l’intera classe dirigente di Ankara potrà essere relativamente facile acquisire credito economico e politico nei paesi mussulmani, la vera sfida successiva sarà mantenere intatto il fronte interno. La concezione laica dello Stato, con il reciproco riconoscimento e rispetto fra componente civile e religiosa, che ha fatto della Turchia il paese cui l’Occidente (e non solo) ha guardato per anni con particolare favore, potrebbe anche scricchiolare. Un indebolimento delle prerogative costituzionali affidate alla compagine militare, poi, è da mettere in conto. Anche perché in tal senso si sono espressi i membri dell’UE, chiedendo che, al pari delle altre liberaldemocrazie, anche in Turchia le forze armate abbiano

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EDITORIALE

totale dipendenza dal potere politico. Vi è da auspicare che la nascente middle class turca, fatta di piccole e medie imprese vocate all’asportazione, per le quali la stabilità sociale e politica è fondamento di un sano sviluppo economico, sappia esercitare pressioni per assicurare la continuità di una politica moderata. Come ponte tra Europa ed Asia, tra mondo cristiano ed islamico, tra economie avanzate e nascenti, la Turchia sta rapidamente assumendo un ruolo fondamentale, le cui ripercussioni possono andare anche oltre lo scacchiere mediterraneo. “Mamma li Turchi” ci avvisava che i Turchi erano più vicini, oggi ci ricorda che forse sono un po’ più lontani.

Valter Conte

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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Medio Oriente – Golfo Persico

Nicola Pedde Eventi ►Continuano le proteste in Siria, così come le attività di repressione del governo. L’ultima settimana di settembre è anche coincisa con il 30° venerdì di protesta contro il regime di al-Asad in Siria. Secondo fonti della stampa internazionale, il bilancio sarebbe di circa venti morti tra le fila dei rivoltosi, caduti sotto il fuoco delle forze di polizia siriane soprattutto nella provincia di Homs, dove più intensa resta l’attività di protesta. Sempre secondo le stesse fonti, altri scontri si sarebbero verificati nella regione di Deir al-Zor, ad Hama e nella stessa Damasco. Sebbene certamente drammatiche, le notizie provenienti dalla Siria sono in larga misura prodotte e distribuite alla stampa internazionale da attivisti locali e dai blogger. Rendendo le stesse spesso difficilmente verificabili. Ha destato orrore, ad esempio, la notizia delle torture subite da una ragazza, il cui corpo sarebbe stato restituito alla famiglia decapitato, smembrato e scorticato, sebbene la notizia abbia trovato solo parziale conferma nel circuito dell’informazione locale. Ciò che appare evidente, è la sempre maggiore difficoltà del regime di contenere la protesta con strumenti pacifici, alimentando in tal modo il numero e l’intensità delle attività di protesta e perdendo definitivamente la capacità di fronteggiare mediaticamente l’evolvere della stessa. Non ha convinto, infatti, il messaggio televisivo di Bashar al-Asad nel quale ha puntato il dito contro gli “interessi stranieri” che alimentano le rivolte, sebbene sia evidente l’influenza di una pluralità di interessi a ridosso della corposa, quanto eterogenea, massa di rivoltosi. È stato nel frattempo varato dall’Unione Europea un ulteriore pacchetto di sanzioni contro il regime siriano, intensificando questa volta la portata nel settore degli investimenti petroliferi e delle transazioni bancarie. Le restrizioni riguardano persone e società legate al regime e sono chiaramente mirate alla capacità di generare flussi finanziari in valuta straniera, potenzialmente utili per il governo nell’acquisto di armi o materiali impiegabili nelle attività di repressione della rivolta. ►Storica rivoluzione sociale annunciata in Arabia Saudita dal Re Abdullah: le donne potranno votare e candidarsi politicamente. È certamente epocale la portata dell’annuncio da parte del sovrano Abdullah che le donne potranno non solo votare, ma anche candidarsi per cariche politiche in Arabia Saudita. La notizia, diramata il 24 settembre dal portavoce della casa reale di Riad, continua specificando che la nuova legge entrerà in vigore dal 2015, e quindi in corrispondenza con la prossima Shura saudita (il Consiglio Consultivo). L’Arabia Saudita è ancor oggi uno dei paesi più oscurantisti e rigidi nell’applicazione di leggi che

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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impediscono l’emancipazione e la libertà della donna, come recentemente ricordato dal piccolo – ma significativo – movimento di donne che hanno sfidato le arcaiche leggi del paese mettendosi alla guida delle automobili. Attività, tra le tante, preclusa alle donne. Il sovrano, nonostante le forti pressioni contrarie in seno alla stessa corona ed alle istituzioni del paese, comprende come il fenomeno dell’emancipazione femminile sia strategicamente connesso da un lato all’alleggerimento della pressione su una società sempre meno disposta a tollerare i rigori della locale interpretazione della Sharia, dall’altro a contrastare e ridurre li peso e la capacità delle organizzazioni religiose wahabite. Rischiando tuttavia di innescare un processo di reazione violenta di queste ultime, sempre latente all’interno del regno ed oggi più che mai interessate a fronteggiare l’evidente perdita di potere e consensi nell’intera regione. ►L’Iran rilascia i due alpinisti americani accusati di spionaggio. Dopo oltre due anni di detenzione, la Repubblica Islamica dell’Iran ha rilasciato i due escursionisti americani arrestati nel luglio del 2009 dopo aver varcato il confine iraniano nella regione del Kurdistan iracheno. I due, Shane Bauer e Josh Fattal, erano stati arrestati con l’accusa di spionaggio a favore degli Stati Uniti insieme ad una ragazza, Sarah Shourd, che era stata tuttavia rilasciata nel settembre del 2010 per ragioni di salute. La questione dei due alpinisti americani era diventata un caso politico in Iran, nell’ambito del più vasto ed articolato scontro al vertice del sistema politico tra l’attuale presidente Ahmadinejad e la Guida Suprema Ali Khamenei. Mentre il presidente si era dichiarato di fatto disponibile ad un “atto umanitario” nei confronti dei due prigionieri, la magistratura aveva reagito duramente accusando il presidente di aver invaso le attribuzioni e le competenze del sistema giudiziario, denunciando l’azione del presidente alla Guida Suprema ed alimentando il già alquanto incandescente clima politico nazionale. Il presidente Ahmadinejad ha nel frattempo partecipato ai lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, dove ha come di consueto attaccato la politica degli Stati Uniti e di Israele, ma dove ha lanciato anche – nel corso delle interviste rilasciate – messaggi alquanto concilianti, come quello in cui si è detto “preoccupato” per la mancanza di un canale di comunicazione diretta con gli Stati Uniti, a suo avviso causa di incomprensioni e di potenziali pericoli. ►Lo stato di emergenza resterà in vigore in Egitto sino al 2012. Le autorità militari del Cairo hanno diramato un comunicato in cui si annuncia che la durata delle leggi sullo stato di emergenza resteranno in vigore sino al 30 giugno del 2012. Viene così confermata la scadenza naturale del rinnovo decretato nel maggio del 2010 dal Parlamento egiziano, ancora all’epoca della presidenza Mubarak, e si concede di fatto in tal modo alle forze militari di verificare la tenuta delle prossime elezioni impedendo l’insorgere di attività di protesta. Una mossa, quella della conferma del provvedimento, che di fatto non ha scontentato nessuna delle forze politiche egiziane, eccezion fatta per quelle di estrema sinistra e quelle radicali religiose, che vedono nella decisione un tentativo di impedire loro le attività pubbliche di protesta contro quelle che considerano elezioni di fatto già manipolate dalle nuove forze politiche egiziane

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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YEMEN ANCORA NEL CAOS, MENTRE MAHMOUD ABBAS CHIEDE IL RICONOSCIMENTO DELLA PALESTINA

Il presidente yemenita Saleh rientra a Sa-na’a Dopo diversi mesi trascorsi in Arabia Saudita, dove è stato curato delle ferite riportate duran-te l’attacco al palazzo presidenziale del 3 giu-gno scorso e dove ha trascorso la convale-scenza, è rientrato in Yemen il 23 settembre u.s. il presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh. L’arrivo, preannunciato dalla stampa saudita e da alcune testate arabe, è stato accompagnato da scontri nella capitale e da alcuni conflitti a fuoco che hanno provocato alcuni feriti a Sa-na’a e nelle immediate vicinanze. L’ufficio della presidenza ha diramato, prima ancora dell’arrivo di Saleh in patria, un comu-nicato stampa in cui il presidente comunica di rientrare al solo scopo di stabilizzare il paese e organizzare le prossime elezioni. Concluse le quali, continua il comunicato, Saleh si dimet-terà probabilmente lasciando il paese. La situazione appare ancora alquanto confusa. Mentre le forze governative leali al presidente hanno beneficiato dal prolungarsi della crisi, ricompattando la propria struttura, epurando le forze ostili o potenzialmente tali e riprenden-do il controllo della capitale e delle sue im-mediate vicinanze, quelle delle opposizioni sembrano essere entrate in una spirale di crisi essenzialmente connessa con la difficoltà di sostenere nel lungo periodo la capacità di ge-stire una crisi dai sempre più incerti esiti. Ciononostante, le forze lealiste non hanno ad oggi alcuna capacità di sovrastare definitiva-mente quelle delle opposizioni, determinando una particolare ed alquanto instabile fase di stasi in cui viene comunque guerreggiato un costante conflitto di bassa entità in una estesa pluralità di aree del paese.

Non è un mistero, peraltro, che il prolungato periodo di convalescenza in Arabia Saudita del presidente sia stato di fatto imposto dal governo saudita, principale mediatore della crisi in Yemen, nel tentativo – ad oggi vano – di favorire un processo negoziale atto ad im-pedire una ulteriore evoluzione della crisi, con il crollo delle istituzioni e la trasformazione in conflitto. È altamente conflittuale, tuttavia, il giudizio sullo Yemen in seno alla corona sau-dita, dove emergono almeno tre differenti po-sizioni, che vanno dal sostegno al presidente da parte del sovrano Abdullah, alla richiesta per un suo immediato abbandono da parte del principe Naif bin Abdulaziz, Ministro degli Interni, passando il pragmatico attendismo di altri che ritengono utile una fase temporanea di sostegno per impedire ogni capacità di espansione verso l’Arabia Saudita delle cellu-le qaediste localizzate nello Yemen. Il presidente Saleh non ha tuttavia alcuna rea-le intenzione di lasciare il potere, o almeno di lasciarlo con una fuga, rincuorato inoltre dal fatto che le truppe della Guardia Repubblicana ai comandi del figlio Ahmed Ali sembrano aver saputo riprendere il controllo della situa-zione nella capitale e nelle immediate vici-nanze di questa, spingendo le forze delle op-posizioni, e soprattutto quelle del Brigadiere Generale Ali Mohsen al-Ahmar, in aree logi-sticamente ardue da difendere e da approvvi-gionare. Secondo fonti locali, sembrerebbe che le forze militari leali al generale al-Ahmar ed alla sua famiglia, stiano soffrendo della mancanza di munizioni e rifornimenti di varia natura, com-promettendone la capacità offensiva, ma an-che la potenziale tenuta. Al contrario, invece, sembra aver trovato nuovo vigore la struttura

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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delle cellule combattenti inserite nei tessuti urbani, sebbene aleggi il sospetto che queste siano state progressivamente permeate da elementi del jihadismo internazionale assu-mendo quindi una connotazione completa-mente differente nello scontro in atto in Ye-men. Scontro ancor oggi dominato più da una faida clanica e tribale piuttosto che da istanze politiche, ideologiche o religiose divergenti. Ed è sulla carta del terrorismo e della possibi-le infiltrazione di cellule qaediste di al-Houthi che cerca di giocare la sua strategia politica internazionale il presidente Saleh, cercando di forzare la mano del sostegno occidentale nei suoi confronti e presentandosi di fatto come ultimo baluardo della difesa degli interessi democratici e laici del paese. Si inseriscono e giocano un loro ruolo nella crisi yemenita una pluralità di fattori comple-tamente differenti tra loro. Ci sono, in modo preminente, i confliggenti interessi tribali tra la comunità fedele al presidente e quella del generale ribelle al-Ahmar, ma a questa si ag-giungono le non secondarie istanze delle pro-teste in seno alle comunità urbane, dove un enorme numero di giovani protesta contro il governo per la crisi e la sempre più drammati-ca evoluzione della disoccupazione. Ci sono poi le richieste delle minoranze etniche e reli-giose, con posizioni che spaziano dalla richie-sta di maggiore autonomia sino all’indipendenza di alcune porzioni di territo-rio, ed a queste si uniscono le attività delle cellule terroristiche connesse al jihadismo in-ternazionale, alla disperata ricerca di un nuo-vo fronte operativo dove alimentare la ripresa di una conflittualità ritenuta da alcuni dei ver-tici non più in grado di attrarre l’attenzione internazionale. I palestinesi chiedono all’ONU di essere ri-conosciuti come Stato È stato accolto da esplosioni di gioia e di en-tusiasmo, in gran parte della Cisgiordania, il discorso pronunciato dal Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas

(detto Abu Mazen) all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nell’ultima settimana di settembre. Decisamente inferiore l’entusiasmo a Gaza, dove Hamas si è detta contraria alla richiesta, ritenendola non conforme agli attua-li interessi del popolo palestinese. Il discorso di Abbas è stato certamente toccan-te per tutti coloro che, da anni, invocano la nascita dello Stato di Palestina. “E’ venuto il momento”, ha più volte ripetuto il Presidente Abbas, “che venga riconosciuto lo Stato pale-stinese”, invocando il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite. Riconoscimento che, tuttavia, sarà pratica-mente impossibile ottenere – ed Abbas ne è ben conscio – a causa del veto preventivo an-nunciato dagli Stati Uniti in seno al Consiglio di Sicurezza. Almeno per il momento. Solo il Consiglio di Sicurezza può decretare il riconoscimento di un nuovo Stato e la sua ammissione in seno alle Nazioni Unite, e ba-sta il veto di uno soltanto dei suoi membri per impedire il delicato processo. Gli Stati Uniti si oppongono al riconoscimen-to in quanto ritengono valide le istanze di Israele sul raggiungimento di una pace pre-ventiva, ma sono anche fermamente intenzio-nati ad inviare un serio e perentorio messag-gio a Tel Aviv, specificando come questa sia l’ultima occasione concessa da parte di Wa-shington. Che non ha fatto mistero, in più di una occasione, di considerare l’attuale gover-no israeliano corresponsabile del fallimento del piano di pace. Ma a schierarsi contro la richiesta di Abbas sono anche i vertici di Hamas, a Gaza, che hanno infranto il proprio volontario silenzio sull’argomento denunciando come vuota la proposta del presidente dell’ANP, e soprattut-to l’impossibilità di accettarla a causa dell’esplicito riconoscimento dello Stato di Israele che questa comporterebbe. Una posi-zione dura, ed alquanto perentoria, che trova ampio consenso tra gli aderenti del movimen-to, come dimostrato dalla pressoché totale as-senza di reazioni a Gaza all’annuncio della

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richiesta di riconoscimento della Palestina all’ONU. È stata una mossa calcolata, quella di Mah-moud Abbas. Consapevole dell’impossibilità di ottenere in tempi rapidi il risultato agogna-to, ha comunque deciso di giocare la carta puntando sul suo effetto mediatico ed emoti-vo. Cercando di rilanciare il ruolo costruttivo dell’ANP ed impedendo – questo il suo inten-to – ad Hamas di poter dimostrare che la posi-zione corretta e vincente è al contrario quella della lotta senza quartiere ad Israele. Come sempre, quindi, si sommano nella com-plessa vicenda palestinese, interessi e posizio-ni diverse e confliggenti, perpetuando la stasi che dal 1947 regola l’esistenza del popolo pa-lestinese. Non è in discussione, quindi, il prin-

cipio del riconoscimento dei due Stati, come ormai di fatto accettato da tutti. Ma il modo in cui quello di Palestina possa vedere la luce. E non giova in questa situazione l’aperta, quanto ormai ricorrente, diatriba tra Hamas e Fatah. Che sembra essere avviata in direzione di un punto di stallo, se non addirittura di frattura. Se dovesse fallire quest’ultimo tentativo ne-goziale avviato dalla proposta di Abbas – seb-bene lo stesso non produrrà alcuna reale tra-sformazione politica in direzione della solu-zione “a due Stati” – il rischio è quello di ve-der scoppiare una nuova ondata di proteste anche in Cisgiordania, assistendo con ogni probabilità anche al definitivo tramonto della stessa ANP.

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Regione Adriatico – Danubiana – Balcanica

Paolo Quercia Eventi ►Fondo Monetario Internazionale prevede buona crescita economica nei Balcani. Il FMI ha rilasciato il suo ultimo rapporto sulle previsioni di crescita dei paesi dei Balcani per il 2012, rappresentando un quadro sostanzialmente positivo per la regione. Per tutti i paesi dell’area viene stimata una crescita del PIL superiore al 2% con punte di 4,5% per la Moldova, 3,7% per la Macedonia (FYROM), 3,5% per la Romania, Albania e Montenegro, 3% per Bulgaria Bosnia Erzegovina e Serbia, 2% per la Slovenia e 1,8% per la Croazia. ►Kosovo, permane critica ma stabile la situazione ai valichi di frontiera. Nonostante permangono i posti di blocco eretti dalla popolazione serba sulle strade che conducono ai posti di frontiera n. 31 e n.1, la situazione va gradualmente tornando alla normalità. I funzionari di EULEX hanno ripreso il controllo dei due valichi, protetti da un dispiegamento delle forze di sicurezza di KFOR. L’Unione Europea è in contatto con entrambe le parti e spinge per un ripristino della situazione ex quo ante, che vedeva anche la presenza di funzionari della polizia kosovara ai valichi di frontiera. Tale opzione non è ancora percorribile a causa della situazione ancora tesa tra la popolazione serba locale e le forze di sicurezza. Oltre alla questione della presenza diretta delle forze di polizia del KPS ai valichi restano da risolvere i problemi commerciali che avevano dato origine all’embargo di Pristina contro le merci serbe e che avevano causato l’assalto ai posti di confine. Il governo serbo vorrebbe portare il tema nel dialogo bilaterale aperto con Pristina, ma è verosimile che il governo kosovaro non consentirà di rimettere in discussione con Belgrado la propria sovranità sulle frontiere del paese. ►Turchia, Cipro. Tensioni sulle esplorazioni di gas nel Mediterraneo Orientale. Cresce la tensione tra Turchia e Cipro (ma anche con Israele e Grecia) per quanto concerne la questione dell’esplorazione di possibili giacimenti off-shore di idrocarburi. Il ministro degli esteri Davutoglu e il primo ministro Erdogan hanno contribuito ad innalzare la tensione accennando, in maniera piuttosto ambigua, ad interessi economici e di sicurezza di Ankara nel Mediterraneo Orientale che potrebbero essere difesi anche facendo ricorso all’uso della forza. Resta tuttavia da capire se la tensione apertasi con Cipro sia più da collegare al possibile round negoziale per lo status dell’isola o se sia invece da mettere in relazione alla crescente tensione con Israele legata alle dinamiche mediorientali.

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L’INVOLUZIONE POLITICA DELLA BOSNIA ERZEGOVINA E LA QUESTIONE CROATA: AVANTI VERSO IL CAPOLINEA DI DAYTON?

A un anno dal voto politico in Bosnia Erzegovina dell’ottobre 2010 il paese è ancora privo di un governo centrale e l’am-ministrazione dello Stato prosegue con il vecchio governo scaduto tutt’ora in carica, prolungato ufficialmente per l’ordinaria amministrazione, ma de facto agente con pieni poteri. Pertanto, il paese si trova ad affrontare la nuova delicata condizione politica con una particolare situazione istituzionale che vede il vecchio governo permanere in vita ed operare in parallelo al nuovo parlamento, uscito dalle urne delle elezioni dell’ottobre 2010. Lo stallo politico, in particolare, è dovuto dal conflitto sorto tra i principali partiti croati della Federazione e i loro potenziali alleati bosniacchi: conflitto tutt’ora in corso e che ha visto per la prima volta formarsi il governo della Federazione croato-mussulmana con l’esclusione dei principali partiti rap-presentativi della minoranza croata (i due partiti dell’HDZ). L’attuale conflitto politico bosniaco, dunque, nasce e matura prevalen-temente all’interno della Federazione croato mussulmana a causa della marginalizzazione e assimilazione politica dell’elemento croato nell’elemento bosniacco. Tale conflittualità tra croati e musulmani si è progressivamente aggravata negli ultimi anni, da quando nel 2006 alla presidenza tripartita in quota croata fu eletto Zelino Komsic, un politico di origine croata, ma militante nel partito a maggioranza bosniacca SDP. Dall’elezione di Komsic – uno dei pochi croati-bosniaci che non ha richiesto la doppia cittadinanza (croata e bosniaca) e che si rifiuta di riconoscere l’esistenza di una lingua croata diversa dalla lingua bosniaca – in poi la conflittualità tra croati e bosniacchi è progressivamente aumentata. Ciò è in buona parte dovuto al

fatto che dei tre popoli costitutivi della Bosnia Erzegovina secondo gli accordi di Dayton, quello croato si è presto rivelato essere il più fragile, sia demograficamente che politica-mente. Concentrato come maggioranza in pochi cantoni all’interno della Federazione croato – musulmana, praticamente scomparso dal territorio della Repubblica Srpska e disperso in piccole minoranze di pochi punti percentuali negli altri cantoni della Federazione, ha progressivamente assunto una postura difensiva di fronte alla egemonia politica e alla prevalenza demografica dello elemento bosniacco musulmano. Allo scoppio della guerra, nel 1991, i croati erano 830.000, 200.000 dei quali nella Repubblica Srpska; a causa degli eventi bellici, della pulizia etnica e soprattutto dei flussi di rifugiati all’estero, la popolazione croata della Bosnia Erzegovina è scesa a 460.000. Negli anni successivi agli accordi di Dayton, invece di assistere a un ritorno della popolazione croata fuggita dal paese è proseguito l’esodo dalla Bosnia Erzegovina. Secondo stime non ufficiali i croati nella Bosnia Erzegovina sarebbero ormai meno di 400.000 unità. A Sarajevo sarebbero rimasti meno di 15.000 croati, circa un terzo del numero precedente al conflitto. Naturalmente i croati non sono stati l’unico popolo a sperimentare mutamenti demografici forzosi a causa del conflitto (140.000 erano ad esempio i serbi a Sarajevo prima della guerra ed ora sostanzialmente scomparsi), ma mentre bosniacchi e serbi hanno ciascuno ricostituito il proprio nation building all’interno delle entità di cui sono maggioranza, i croati sono rimasti privi di un’entità statuale di riferimento che non sia la Croazia. Nel mentre, l’armatura di Dayton veniva svuotata del proprio significato e paralizzata

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dai numerosi meccanismi di blocco etnico il potere effettivo di governo e amministrativo si concentrava a livello di entità e di cantoni. Paralizzata la struttura dello stato centrale che garantiva i meccanismi di equilibrio su base nazionale, il peso politico reale dei croati sul terreno era destinato necessariamente a ridursi, essendo i croati minoranza in almeno il 70% dei territori della Federazione. Tale situazione si è ulteriormente complicata nel momento in cui sono emersi alcuni partiti politici a maggioranza bosniacca, ma costruiti attorno a piattaforme politiche interetniche. In questo modo in alcuni cantoni le “quote” riservate all’elemento nazionale croato potevano essere soddisfatte con la nomina di croati militanti nei vari partiti bosniacchi come l’SDP. La marginalizzazione dello elemento croato, e soprattutto la sensazione che il tempo lavori contro di esso (anche a Mostar, “patria” della identità croato-bosniaca, la comunità croata è oramai in contrazione demografica) ha portato i croati a cercare di costruire un alleanza tattica con i serbi in funzione anti-bosniacca. Tale tentativo, che qualche anno fa portò l’ele-mento croato a proporre l’ipotesi della creazione di una terza entità territoriale a maggioranza croata, ha ulteriormente aumen-tato il conflitto con i partiti bosniacchi che in risposta hanno aumentato la loro occupazione dei posti chiave di potere nella Federazione e nei cantoni in cui sono maggioranza, emarginando ulteriormente i croati che risultano essere l’elemento perdente del lungo braccio di ferro post Dayton tra i tre popoli costituenti. Sostenendo i partiti croati, il premier serbo bosniaco Dodik è riuscito a raggiungere il suo obiettivo di bloccare la funzionalità già macchinosa e precaria della Federazione e a portare lo scontro politico nel terreno croato-musulmano. Questa situazione ha prodotto la peculiare situazione politica che ad oltre un anno dalle elezioni nel paese non sono stati formati 3 governi cantonali su 7

nella federazione, il governo della Federazione è stato formato senza i partiti croati e manca il governo statale unitario. Tale situazione di stallo a livello centrale e a livello della Federazione croato-musulmana vede il solo vincitore nella Repubblica Srpska guidata da Dodik, che così può proseguire nel suo progetto di rafforzamento delle entità e dimostrare che la sola componente fun-zionante nella complessa costruzione bosniaca è la Repubblica Srpska. In questa luce va vista la conciliazione avvenuta tra Dodik e l’alto rappresentante UE Ashton con la visita di quest’ultima a Banja Luka per scongiurare il minacciato referendum nella RS di contestazione della legittimità dei provvedimenti dell’Alto Rappresentante (OHR). I croati di Bosnia Erzegovina non pagano oggi solo il prezzo di una oggettiva situazione demografica sfavorevole, ma anche un ventennio di politiche assistenzialiste da parte di Zagabria, concepite nell’era Tudjman alla minoranza croata della Bosnia Erzegovina. La concessione della doppia cittadinanza (che ha dato ai croati una maggiore possibilità di movimento e di emigrazione anche prima dell’abolizione dei visti per i cittadini della Bosnia Erzegovina) e l’estensione a tutti i croati della BiH dei benefici sociali previsti dal sistema assistenziale croato hanno per lunghi anni scoraggiato i ritorni nel paese di coloro che l’avevano abbandonato durante il conflitto e favorito ulteriori migrazioni verso la Croazia ed il resto del mondo. L’esistenza di una madrepatria verso cui migrare è il vero elemento caratterizzante della posizione dei croati di Bosnia rispetto ai bosniacchi della Federazione privi di tale opzione strategica, ma anche rispetto ai serbi di Bosnia che, pure avendo un paese gemello contermine, riescono pur sempre ad identificarsi piena-mente nelle istituzioni statuali della Repub-blica Srpska, cosa che non è possibile per i croati per via della prevalenza dell’elemento

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musulmano nella Federazione. Vi è da chiedersi oggi come la situazione potrebbe mutare nei prossimi anni nel momento in cui la Croazia entrerà, prima della Serbia e prima della stessa Bosnia Erzegovina, nell’Unione Europea. Due sono gli aspetti da tenere in considerazione: un’ipotesi in cui l’adesione di Zagabria all’UE, favorendone lo sviluppo socio-economico, produrrà un’ulteriore incentivo all’abbandono del paese da parte della componente croata che, qualora dovesse scendere sotto la soglia del 10% della popolazione del paese, sarebbe probabilmente relegata al ruolo di minoranza piuttosto che di popolo costituente. Tale scenario potrebbe evolvere tanto verso un rafforzamento della collaborazione inter-entità tra croati e serbi che paralizzerebbe gli attuali assetti storicizzando Dayton e bloccandone ogni futura evoluzione verso modelli euro-compatibili; oppure potrebbe gradualmente portare, in funzione di una progressiva marginalizzazione dell’elemento croato, alla possibilità del raggiungimento di un accordo politico tra il blocco serbo (in cui il partito di Dodik non ha praticamente rivali) e il fronte bosniacco allargato a piccoli partiti croati, per un superamento di Dayton verso un modello basato su due entità e non su tre popoli costitutivi. Il secondo macro scenario vede invece la Croazia divenire membro dell’Unione Europea e non rimanere un semplice fattore esterno di attrazione della minoranza croata quanto piuttosto divenire un giocatore attivo e disinibito nella politica interna bosniaca. A questo punto la Croazia membra della UE potrebbe giocare un ruolo di difesa avanzata della minoranza croata della Bosnia Erzego-vina, sostenendone il cammino europeo solo in cambio di adeguate garanzie del man-tenimento dello status quo tripartitico. Alcuni segnali già si registrano a Zagabria su una volontà di giocare in futuro un ruolo proattivo

in difesa dei croati all’estero e in particolare di quelli in Bosnia Erzegovina. Assumendo che la Bosnia Erzegovina non diverrà membro dell’Unione ancora per un decennio almeno, appare evidente che la questione interna croata e la postura che Zagabria assumerà verso la Bosnia Erzegovina saranno elementi chiave per immaginare i futuri sviluppi del deteriorato quadro politico istituzionale bosniaco. Alla luce di quanto sopra emerge sempre più importante il prossimo censimento della popolazione che dovrà essere effettuato a breve termine, dopo che sarà stato raggiunto un accordo sulla legge per il censimento. Difatti, l’ultimo censimento esistente della popolazione del paese è quello del 1991, effettuato ancora in epoca jugoslava e, soprattutto, prima degli enormi spostamenti di popolazione avvenuti sia durante il conflitto che dopo la fine dello stesso. A oltre vent’anni dell’ultimo censimento ed in presenza di eventi così eccezionali e straordinari come quelli avvenuti nel paese in questi due decenni, è verosimile che i risultati del censimento potrebbero rivelare delle sorprese e, soprattutto, non riflettere più le proporzioni etniche stabilite a Dayton. Vi è il timore che il prossimo censimento della popolazione potrebbe confermare il temuto calo della componente croata, che delle tre etnie componenti il paese, potrebbe essere quella che in percentuale ha subito la maggiore diminuzione. Ma alcuni sospettano che questi quindici anni dalla fine della guerra possano aver alterato anche il rapporto tra serbi e bosniacchi, avvicinando le due percentuali e forse mettendo persino a rischio la maggioranza relativa della componente musulmana. In una fase in cui Dayton dimostra tutta la sua inadeguatezza sia nel portare il paese verso l’Unione Europea, sia a consentire un pacato equilibrio di convivenza politica delle diverse etnie, il censimento generale della popolazione potrebbe essere

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l’elemento demografico capace di mettere in gioco un processo di revisione degli assetti di Dayton, basati sull’ethnic balance e sul principio dei tre popoli costituenti. Entrambi i principi sono, di fatto, antidemocratici e possono a stento convivere con il principio della democrazia elettorale. Un mutamento della composizione demografica del paese potrebbe costituire l’elemento scatenante per una richiesta di revisione degli assetti di Dayton e modificare la dialettica politica tra i principali partiti dei tre gruppi etnici del paese. A 16 anni dalla fine delle ostilità e dagli accordi di Dayton è ormai evidente che l’architettura del paese non regge più. Nonostante le enormi risorse versate dalla comunità internazionale (venti miliardi di euro in 16 anni per un paese di appena 4 milioni di abitanti) la situazione interetnica non sembra troppo lontana da quella del 1995, fatta eccezione per i possibili cambiamenti demografici che possono essere avvenuti in questi tre lustri. Il superamento di Dayton è ormai nei fatti, ma nessuno per il momento è in grado e ha interesse a fare la prima mossa per l’abbandono della struttura giuridica e politica che tiene insieme il paese. I due ten

tentativi americani, l’ultimo del 2010, di archiviare Dayton per creare uno stato più centralizzato e meno etnicizzato si sono infranti contro l’opposizione nazionalista serba, su cui Dodik ha costruito le proprie fortune politiche. È verosimile che il nuovo censimento della popolazione e l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea potrebbero costituire due nuovi fattori capaci di modificare il terreno di confronto. L’Europa dovrà tenerne conto nel momento in cui le responsabilità della UE nel paese aumentano in virtù del recente sdoppiamento dei ruoli di Alto Rappresentante (OHR) e di Rap-presentante Speciale dell’Unione Europea. Incerto è anche il futuro del rapporto tra questi rappresentanti (Inzko per l’OHR e Sorensen per l’EUSR). In una Bosnia che progredisce e lascia indietro le divisioni del passato sarebbe naturale assistere ad una riduzione dell’ufficio dell’OHR e dei suoi poteri speciali di Bonn ed un aumento delle funzione dell’EUSR in maniera tale da pilotare il paese verso l’ASA e verso l’UE. Ma l’attuale fase di deterio-ramento della situazione politica, e l’incerto destino di Dayton lasciano ancora confusi i tempi della realizzazione di tale passaggio.

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Comunità Stati Indipendenti Europa Orientale

Andrea Grazioso Eventi. ►Previsto “scambio di ruoli” fra il Presidente russo Medvedev ed il Primo Ministro Putin: sarà quest’ultimo il candidato del Partito Russia Unita alle presidenziali del prossimo anno, mentre Medvedev dovrebbe andare alla guida del Partito e quindi, in caso di successo – più che probabile – alle elezioni politiche di fine anno, diverrebbe Premier. Putin, quindi probabilmen-te tornerà al Cremlino nel 2012, e rimarrà in carica per sei anni (come previsto dalla Costitu-zione, dopo l’emendamento che ha elevato il periodo rispetto ai quattro anni attuali). Se poi fosse confermato nuovamente, rimarrebbe in carica fino al 2024. Putin divenne Presidente per la prima volta nel 2000, succedendo a Boris Eltsin. ►Dopo una lunga disputa, durata mesi, il Ministero della difesa russo ha infine siglato i pre-visti contratti di fornitura di nuovi elicotteri per le Forze armate, per un valore complessivo di circa 4 miliardi di dollari. Entro il 2020, dovrebbero quindi essere prodotti dalle industrie loca-li almeno 140 nuovi elicotteri, mentre altre somme verranno investite per aggiornare le mac-chine in linea. ►Russia e Belarus, con il contributo minore dell’Ucraina, hanno condotto la manovra mili-tare annuale “Scudo dell’Unione 2011”, secondo uno schema ampiamente collaudato. La no-vità principale di quest’anno è rappresentata dal fatto che l’esercitazione è stata condotta in Russia, anziché in Belarus come lo scorso anno, col proposito di non “minacciare” in alcun modo la sensibilità dei Paesi della NATO

IL CAUCASO, ANCORA STRATEGICO PER GLI EQUILIBRI IN RUSSIA E EUROPA

La regione del Caucaso, attraversata e divisa politicamente dall’omonima catena montuosa, sebbene periferica rispetto ai grandi flussi commerciali e finanziari e relativamente inaccessibile in termini logistici, continua a giocare un ruolo fondamentale in termini di equilibri politici e strategici nell’intero spazio euroasiatico. Per la Russia, le Repubbliche del Caucaso

settentrionale, parte della Federazione, costi-tuiscono una sorta di ferita mai rimarginata, dove il terrorismo e la guerriglia risultano quanto mai virulenti, ma dove anche gli equi-libri demografici pendono ormai sempre più esplicitamente a sfavore della popolazione russa. Il Caucaso meridionale, a sua volta, oltre che fonte di relativa instabilità – è il caso della

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Georgia e dell’irrisolta questione delle regio-ni separatiste – mostra sempre più il suo po-tenziale economico e geopolitico, grazie alla crescente rilevanza delle risorse energetiche lì collocate ed alla rilevanza delle infrastrut-ture di trasporto – non solo pipelines – che dischiudono all’Europa l’opportunità di rag-giungere e sfruttare economicamente, e senza dover attraversare la Russia, le risorse trans-caspiche. Un mese di violenza in Caucaso settentrio-nale La recrudescenza del terrorismo e della guer-riglia in Caucaso settentrionale, fenomeno evidente da molti mesi, ha raggiunto nuovi picchi nel mese di settembre, con una reiterata serie di atti di violenza in numerose Repubbli-che della regione, nonché con l’emergere di nuovi, inquietanti segnali di ulteriore aggra-vamento della tensione interetnica. Nel più grave attacco perpetrato in Cecenia dall’inizio dell’anno, il 30 agosto tre attentato-ri suicidi si sono fatti esplodere nella capitale della Repubblica, Grozny, provocando, se-condo le comunicazioni ufficiali, nove morti e ventitre feriti. Due dei terroristi sarebbero stati identificati quali Magomed Dashaev e Adlan Khamidov, rispettivamente di 21 e 22 anni, studenti di Istituti superiori. Il terzo non avrebbe ancora un nome. Secondo le Autorità, Adlan Khami-dov sarebbe il fratello di Adam, il quale aveva compiuto un attacco suicida il 30 giugno scor-so. Colpisce, quindi, l’età ed il livello cultura-le degli attaccanti, ma la ricostruzione fornita dalla polizia appare poco verosimile. Secondo le Autorità, infatti, i tre terroristi sarebbero stati scoperti mentre preparavano un attacco ad un istituto scolastico. Tuttavia, le scuole avrebbero riaperto a Grozny solo il 5 settem-bre, per consentire di celebrare il Ramadan; non si comprende, quindi, perché gli attentato-ri dovessero indossare le cinture esplosive se il loro obiettivo fosse davvero stato l’assalto

ad una scuola. Non meraviglia, quindi, se la ricostruzione dell’attacco, fornita da fonti indipendenti, sia molto differente. Secondo quanto riportato da un’agenzia di stampa russa, oltre agli attenta-tori suicidi sarebbe intervenuto un commando di appoggio. Questo avrebbe quindi aperto il fuoco sui poliziotti accorsi dopo la prima esplosione. Si tratterebbe, perciò, di un cosid-detto “attacco complesso”, molto più insidioso della semplice azione isolata di uno o più sui-cidi. Anche l’entità delle perdite fra le forze di sicurezza sarebbe ben diversa rispetto a quan-to dichiarato. Il sito vicino ai ribelli parla di 20 poliziotti uccisi, oltre a 23 feriti. La Cecenia, comunque, non è il solo punto di crisi nel Caucaso settentrionale, né il più peri-coloso. Nel corso del mese di settembre, vio-lenti attacchi sono stati registrati anche in Da-ghestan, Ingushezia e Kabardino Balkaria. A Khasavyurt, il 1 settembre, il Vice Capo della sezione locale dei Servizi di Sicurezza russi, FSB, ovvero il Tenente Colonnello Ibragim Dzhabrailov, è rimasto ucciso nell’esplosione della sua auto. Con lui c’erano 4 familiari, tutti rimasti gravemente feriti. Lo stesso giorno, a Buinaksk, è stato distrutto con una granata anticarro un negozio dove, forse, si vendevano alcolici. Nelle settimane successive, un crescendo di attacchi ha colpito quasi ogni centro metropo-litano principale nella Repubblica, come pure i posti di guardia ai confini della stessa. Cari-che esplosive artigianali o armi anticarro sono lo strumento privilegiato in questi attacchi, ma non manca il diffuso ricorso alle armi da fuo-co. Le Autorità moscovite stanno reagendo, anche attraverso il progressivo, ulteriore aumento delle Forze di sicurezza. Ai circa 7.000 milita-ri già presenti nella Repubblica, si stanno ag-giungendo altre centinaia di unità Il più recen-te rinforzo è stato destinato al distretto di Kizlyar, nel nord del Daghestan. In questo di-stretto sarebbe basata una componente di

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guerriglieri che ha dimostrato elevate capacità tattiche, tanto da infliggere numerose perdite alle Forze di sicurezza, nel corso degli ultimi mesi. Il ricorso massiccio alle truppe del Ministero degli Interni, peraltro, oltre a segnalare la scarsa fiducia riposta nella Polizia locale, po-trebbe ulteriormente aggravare la contrapposi-zione etnica fra la popolazione locale, ormai quasi completamente non-russa, ed i militari giunti dall’esterno. Anche in Ingushezia la tendenza nella conflit-tualità segna un deciso peggioramento della situazione. Nella Repubblica si era registrata una pausa negli attacchi, pausa seguita alle importanti operazioni condotte dalle Forze di sicurezza l’anno scorso, e durata fino a pochi mesi or-sono. Il 4 marzo 2010 era stato ucciso uno de-gli ideologi del movimento wahabita in Ingu-shezia, Said Buryatsky. Il 10 giugno 2010, poi, era stato catturato Akhmed Yevloev-Tazie, noto come Emiro Magas, ovvero il leader della Jamaat ingusha, oltre che capo della componente militare dell’intero movimento del Caucaso settentrio-nale. Il 27 settembre successivo era poi stato arrestato l’Emiro Adam, il successore di Ma-gas. Oltre a questi successi eclatanti, le Forze di sicurezza avevano portato a termine nume-rose altre operazioni, con l’uccisione di molti leader militari a capo delle formazioni com-battenti in Ingushezia. Questa serie di opera-zioni erano state il frutto, verosimilmente, di una profonda azione di intelligence, che era evidentemente riuscita ad infiltrare degli in-formatori nel movimento guerrigliero. Ora sembra che la guerriglia si stia riorganiz-zando, e la prova di ciò risiede nel numero crescente di attacchi, in alcuni casi altamente simbolici. È il caso, ad esempio, dell’attentato dinamitardo presso il Quartier Generale delle Forze russe, a Nazran (4 settembre), attentati intimidatori contro esponenti politici repub-blicani, nonché la comparsa della “bandiera”

del movimento insurrezionale sulla torre della radio pubblica, situata la centro della città di Ordzhonikidzevskaya, nel distretto di Sunzha. Peraltro, anche il pieno controllo delle Autori-tà locali sulle strutture di potere a loro affidate appare sempre più dubbio. Il 2 settembre, un consistente gruppo di poliziotti dei reparti an-tisommossa (OMON) ha occupato il palazzo del Presidente dell’Ingushezia, Yunus-Bek Yevkurov. Questi ha lasciato il suo posto, e attraverso intermediari è riuscito infine a far desistere i poliziotti che non accettavano la sostituzione del loro comandante con un uomo ritenuto affiliato a Yevkurov. In Kabardino Balkaria si sono registrati atti terroristici i 7 settembre – un civile ucciso e due poliziotti feriti – ed il 3 settembre, quando in uno scontro a fuoco sono morti 4 terroristi e 3 poliziotti sono rimasti feriti, durante una sparatoria. I dati aggregati, aggiornati a metà settembre, restituiscono un quadro davvero drammatico della situazione complessiva nella regione. Dall’inizio del 2011, sarebbero morte 593 persone, mentre altre 414 sarebbero rimaste ferite. La Repubblica dove gli episodi cruenti sono più frequenti è il Daghestan, con 315 morti e 244 feriti dall’inizio dell’anno. In Cecenia si sono registrati 81 morti e 103 feriti. In Kabardino Balkaria, 98 morti e 39 feriti. In Ingushezia, 65 morti e 32 feriti. Con tali presupposti, non meraviglia quindi che l’8 settembre le Autorità federali abbiano annunciato la reintroduzione del “regime di operazioni di contro-terrorismo” in tre delle Repubbliche del Caucaso settentrionale, ovve-ro Cecenia, Ingushezia e Kabardino-Balkaria. In Cecenia, tale regime speciale era durato ol-tre dieci anni, ed infine concluso nel 2009, quando sembrava che la situazione fosse tor-nata ragionevolmente sotto controllo. La deci-sione delle Autorità moscovite, quindi, segna-la implicitamente la sfiducia verso i governan-ti locali, circa la capacità di questi ultimi di

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gestire la sicurezza nella propria Repubblica. Non è casuale, quindi, se solo 24 ore prima della reintroduzione del regime, l’Inviato di Mosca nel Caucaso settentrionale, Aleksandr Kholopin, avesse pubblicamente criticato il Presidente ceceno, Kadyrov, per la sua con-dotta politica. La scelta, poi, di applicare il regime speciale, contemporaneamente, in tre Repubbliche, po-trebbe indicare l’esistenza di crescenti legami fra le formazioni terroristiche operanti nei ri-spettivi territori. La prospettiva di una pacificazione sembra, quindi allontanarsi, e d’altra parte i trend de-mografici delineano un futuro sempre più dif-ficile per le concrete possibilità di un control-lo della regione da parte di Mosca. Nel 1991, al momento del collasso dell’Unione Sovietica, circa il 26% della po-polazione nel Caucaso settentrionale era rus-so-etnica. Nel 2002, la stima dava una presenza di Rus-si-etnici pari a circa il 12-15% del totale. Nello stesso lasso temporale, la percentuale di popolazione autoctona è cresciuta da circa il 66% ad oltre l’80%. In alcune Repubbliche il trend è risultato per-sino più marcato. In Cecenia, il 94% della po-polazione russo-etnica ha abbandonato la Re-pubblica. Dal 2002 ad oggi i dati non sono di-sponibili o affidabili, ma tutto lascia pensare che l’esodo dei Russi sia continuato, peraltro aggravato del ben diverso tasso di fertilità che si registra fra i due gruppi di popolazione. Quest’ultimo elemento lascia intravedere, di qui a pochi anni, un ulteriore fronte di attrito, in particolare nelle regioni più settentrionali del Caucaso. Nel Krai di Stavropol, ad esem-pio, la pressione demografica derivante dalla crescita nel numero di Daghestani sta inizian-do a determinare reazioni delle Autorità, in-cluse misure drastiche, come la deportazione forzata di interi gruppi familiari, stabilitisi nel Krai da molto tempo, ma mai registrati uffi-cialmente.

Nuovi sviluppi nel settore dell’energia La regione caucasica, comunque, non si carat-terizza solo per la crescente violenza nella sua porzione settentrionale, ma anche per il relati-vo dinamismo economico della sua parte me-ridionale. Qui, il tema dominante rimane quello dello sfruttamento delle risorse energetiche, nonché del trasporto di queste dall’area trans-caspica verso i mercati dell’Europa. A tal proposito, grande rilevanza riveste la nuova scoperta di ingenti riserve di gas natu-rale in un bacino off-shore nel Mar Caspio, rientrante nell’area di sfruttamento dell’Azer-baijan. Il Presidente Aliyev ha reso pubblicamente nota tale scoperta, o meglio l’esito del son-daggio esplorativo condotto dalla Compagnia Total, la quale detiene i diritti di sfruttamento del campo, denominato “Absheron”, insieme alla Compagnia di stato azera SOCAR e alla Gaz de France Suez. Secondo quanto riportato dalle agenzie, la stima relativa al giacimento sarebbe pari a 350 miliardi di metri cubi di gas, oltre a 45 milioni di tonnellate di condensato. Questa scoperta si aggiunge alle altre esplora-zioni recenti, che hanno dato esito positivo, e che hanno sostanzialmente incrementato le riserve complessive di gas di cui dovrebbe di-sporre l’Azerbaijan. Oltre al valore in sé di tali scoperte, esse de-terminano anche migliori prospettive di suc-cesso per il progetto Nabucco, ovvero il ga-sdotto che dall’Azerbaijan dovrebbe portare in Europa circa 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno, senza transitare dalla Russia e dall’Ucraina. Con le nuove stime, infatti, l’Azerbaijan di-verrebbe potenzialmente capace di sostenere con la sola produzione interna il progetto Na-bucco; in altri termini, il pur strategico acces-so alle riserve turkmene non sarebbe più indi-spensabile per garantire la sostenibilità eco-nomica del Nabucco, almeno coi volumi di

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transito previsti nella fase iniziale. Nondimeno, l’Unione Europea sembra sempre più intenzionata a procedere con una “pene-trazione” strategica in Centro Asia, special-mente per l’approvvigionamento di energia. Il 12 settembre, infatti, a seguito di una deci-sione del Consiglio, l’Unione ha dato mandato alla Commissione di negoziare con Azerbai-jan e Turkmenistan un Trattato trilaterale, per la realizzazione di un gasdotto sottomarino che, attraverso il Mar Caspio, possa congiun-gere le reti dei due Paesi. In tal modo, attra-verso l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia giungerebbe in Europa anche una parte rile-vante del gas estratto in Turkmenistan, oltre a quello azero, di cui si è dato conto sopra. Inevitabile, e ampiamente prevista, la reazione della Russia, che come noto si oppone ferma-mente alla realizzazione del gasdotto trans-caspico, adducendo obiezioni di diritto (status del Mar Caspio quale bacino interno, condivi-so fra tutti gli Stati rivieraschi), oltre che di natura ambientale. La decisione europea ha poi indotto la Russia ad accelerare la realizzazione del gasdotto South Stream, che attraverso il Mar Nero do-vrà trasportare il gas naturale dalla costa cau-casica russa alla Bulgaria, per poi proseguire verso gli altri mercati europei. Il 16 settembre, alla presenza del Primo Mini

stro russo Putin, i rappresentanti delle Com-pagnie coinvolte – GAZPROM, ENI, Winter-shall Holding e Electricité de France – hanno siglato l’accordo per la realizzazione del ga-sdotto, che dovrebbe avere un costo di circa 10 miliardi di euro ed una lunghezza di 950 chilometri. La porzione di Caucaso rimasta all’interno della Federazione russa è teatro di una vio-lenta contrapposizione etnica e politica, nella quale Mosca è costretta ad investire ingenti risorse, ma che difficilmente la vedrà prevale-re, in virtù dei trend demografici e della pro-fondità dell’odio che ormai divide i popoli au-toctoni da quello russo. D’altra parte, la Rus-sia non può “semplicemente” abbandonare la regione, per il valore geopolitico e geoeco-nomico che essa riveste. Fuori dalla contrap-posizione etnico-politica, l’Azerbaijan sta crescendo rapidamente per valenza strategica ed economica. L’Europa sembra aver preso finalmente atto della necessità di un sostan-ziale appoggio politico alle iniziative delle Compagnie energetiche dei Paesi membri; la timidezza con cui ha gestito e continua a ge-stire i problemi di sicurezza nella regione, in-clusi quelli in Georgia, rendono però ancora incompleta e, forse, inefficace, l’azione di Bruxelles.

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Lucio Martino Eventi ►L’arrivo di settembre, quest’anno, ha soprattutto significato l’arrivo del decimo anniversario di quello che il presidente Obama, nel suo discorso commemorativo, ha definito come uno dei momenti più oscuri dell’intera storia americana. L’evento ha offerto l’occasione per una riflessione sulla reali implicazioni per il futuro di un epoca almeno simbolicamente chiusa già nel maggio scorso con l’uccisione di Osama bin Laden.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE RIPERCUSSIONI DI MEDIO PERIODO DELL’ 11/IX

Alla vigilia di un’altra lunga stagione elettorale che potrebbe conoscere momenti non meno intensi della precedente, partico-larmente nel caso in cui Herman Cain riuscisse mai a conquistare la nomination repubblicana, e nonostante il persistere di una crisi economica che sembra senza fine, gli Stati Uniti sono ancora in grado di plasmare il sistema internazionale in misura superiore a quanto possibile per qualsiasi altra potenza. Il predominio culturale, scientifico e tecnologico degli Stati Uniti per il momento non ha pari. La spinta di un’economia da sola pari ad oltre un terzo di quella mondiale continua a garantire agli Stati Uniti un potere decisivo su qualsiasi questione finanziaria e commerciale, mentre le forze armate americane godono ancora di un assoluto vantaggio su qualsiasi concepibile combinazione di sfidanti. Pur in questo quadro, non si può non riconoscere come l’azione strategica statuni-

tense di questi ultimi dieci anni è andata più in direzione di un contenimento della minaccia terroristica che di un suo reale sradicamento. Dieci anni d’impegno internazionale hanno effettivamente contribuito a sopprimere gli aspetti più eclatanti di una minaccia che con l’evolvere dei tempi ha assunto connotati anche molto diversi, ma non hanno potuto evitare che gli Stati Uniti si trovassero costretti ad introdurre all’interno della propria cultura politica un elemento di costante insicurezza dimenticato fin dai tempi dell’adozione della dottrina Monroe. L’approssimarsi del decennale dei tragici eventi costati la vita ad oltre tremila persone una bella mattina di fine estate, ha favorito una riflessione sul reale impatto di 9/11 che ha coinvolto trasversalmente buona parte di quell’arcipelago di centri studi e di dipartimenti universitari che da sempre contribuiscono alla determinazione dei grandi

Relazioni Transatlantiche - NATO

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indirizzi della politica estera e di difesa statunitense. Da questo processo di riesame delle scelte strategiche di ben tre amministrazioni, emerge con forza l’idea che 11/IX non ha costituito una vera e propria singolarità destinata ad incidere sul sistema internazionale in misura superiore alle capacità di comprensione delle forze che, in un modo o nell’altro hanno concorso alla sua produzione o hanno tentato di scongiurarla. A dispetto di quanto generalmente sostenuto, 9/11 ha cambiato qualcosa, ma non ha davvero cambiato tutto. Una risposta evolutiva Il terrorismo internazionale ha sicuramente costretto l’amministrazione Bush a porre in secondo piano le priorità che al termine di un’altra stagione elettorale particolarmente controversa l’avevano proiettata verso la Casa Bianca, quali i tagli al sistema fiscale e la riforma del sistema scolastico. Tuttavia, anche le più controverse politiche decise sull’onda emotiva delle stragi, sembrano oggi in realtà ispirate ad un approccio più evolutivo che rivoluzionario, sempre in accordo con una tradizione nazionale in verità accantonata solo in occasione di quella lunga parentesi costituita dalla Guerra Fredda. In ossequio con propria tradizione nazionale, l’amministrazione del Bush Jr. non poteva non impegnare il proprio paese in una “Global War on Terror” orientata ben oltre l’obiettivo di neutralizzare l’organizzazione non governativa direttamente responsabile degli attacchi contro New York e Washington, ma di sradicare completamente ogni minaccia terroristica dall’intero sistema internazionale arrivando anche a colpire quei governi disposti anche solo a tollerare una presenza di organizzazioni terroristiche all’interno del proprio territorio. Nel nome di quel “either you are with us or against us” nel quale si risolve l’intera dottrina Bush, gli Stati Uniti si lanciarono in una politica di autodifesa

riassumibile nel ricorso ad una molto tradizionale serie di guerre preventive ribadendo per gli Stati Uniti il diritto d’intraprendere tale strada in completa autonomia ogni qualvolta richiesto dalla difesa di un qualsiasi interesse nazionale. Con buona pace di tanti luoghi comuni, il consenso che emerge dall’analisi retrospettiva di questi ultimi dieci anni di vicende internazionali riconduce la risposta statunitense all’11/IX in direzione di un ritorno ad una visione strategica nella quale per la giovane democrazia americana era indispensabile dimostrare a tutti come a se stessa di esser in grado di difendere l’integrità del proprio territorio, di proteggere i propri alleati e di diffondere universalmente i propri valori e le proprie istituzioni anche, e soprattutto, promuovendo l’affermazione di una libera economia di mercato. Con uno slancio wilsoniano che ha travolto il jeffersonianesimo dei suoi esordi, l’amministrazione Bush ha così a più riprese tentato di assicurarsi l’appoggio degli Alleati di sempre, della Russia, della Cina e dei principali regimi arabi, inviando in operazioni quanto più possibile del proprio dispositivo militare e delle proprie forze clandestine, mentre il popolo americano e il Congresso ne appoggiavano in modo schiacciante l’operato. Eppure, secondo una lettura oggi sempre più diffusa, le speranze di realizzare gli obiettivi prefissi dalla “Global War on Terror” sono state fin dall’inizio compromesse da quell’ostinata difesa della politica di tagli alle entrate fiscali che costituisce il tratto più caratteristico dell’intera amministrazione Bush. Altrettanto consolidata è poi la convinzione che le operazioni lanciate in Iraq e in Afghanistan, indipendentemente dalla loro gestione operativa, non potevano non finire con il danneggiare direttamente la supremazia globale statunitense, in quanto non avrebbero potuto non amplificare quanto restava di un antiamericanismo retaggio delle

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vecchie dialettiche bipolari. In ogni modo, come nel caso del Vietnam al tempo dell’amministrazione Johnson, non può non esser riconosciuto che tra tutte le possibili alternative, nessuna verificava i connotati della tradizione strategica nazionale meglio del ricorso alla guerra preventiva. In fondo, anche l’esplicita difesa della superiorità militare statunitense, comune a tutte le amministrazioni dell’ultimo ventennio, non costituisce molto di più di un adattamento evolutivo di un’ambizione rimasta costante almeno dal momento in cui la U.S. Navy si è prima affiancata e poi sostituita alla Royal Navy nell’esercizio di un dominio marittimo quasi incontrastato. Le fasi iniziali della guerra in Afghanistan, nella loro particolare combinazione di forze indigene, operatori clandestini e potere aereo, sono con tutta probabilità lo sviluppo strategicamente più rivoluzionario degli ultimi dieci anni. Ma la sorprendente strategia scelta per l'invasione dell'Afghanistan dell'autunno del 2001 è stata presto abbandonata a favore di un ritorno ad una serie di operazioni di controguerriglia e di controterrorismo dai connotati molto più tradizionali. Con il passare del tempo, anche gli innegabili progressi raggiunti sul campo hanno avuto il deleterio effetto di aumentare la portata delle ambizioni statunitensi e di mascherare un insieme di persistenti contraddizioni quasi inevitabilmente destinate a riacutizzarsi con il rarefarsi della pressione militare. Intanto, neanche l'amministrazione Obama sembra in grado di spiegare in modo sufficientemente convincente come una vittoria in Afghanistan potrebbe mai tradursi in un aumento del livello di sicurezza interno, anche perché è proprio il destino delle varie milizie regionali a far puntualmente deragliare i numerosi e diversificati tentativi volti al miglioramento dei rapporti con il Pakistan.

Continuità dell’amministrazione Obama Quanto 9/11 ha finito con il catalizzare un ritorno ad una tradizione comune all’intero sistema politico statunitense è ancora più evidente nei caratteri di continuità con il passato offerti dall’amministrazione Obama. Non a caso la Quadrennial Defense Review 2010, e la di poco successiva National Security Strategy 2010, sono tutte e due profondamente attraversate da una palese esigenza di continuità evolutiva. Contraria-mente alle attese di quanti intravedevano nel presidente Obama il protagonista di un vero e proprio rigetto delle scelte del suo predecessore, la presente amministrazione sembra sempre di più distinguersi per l’ambizione di una loro esecuzione più competente ed efficace. In tutti i settori nei quali è in qualche modo in gioco la sicurezza nazionale, i cambiamenti sono spesso limitati ad aspetti di natura quasi esclusivamente cosmetica, tanto da aver attirato contro la Casa Bianca sia gli attacchi delle componenti populiste dell’universo repubblicano, sia di quelli degli ambienti più “liberal” di una sinistra democratica sempre di fondamentale importanza in vista delle presidenziali 2012. La lunga recessione che ha fatto seguito alla catastrofe finanziaria del settembre 2008, ha ulteriormente aggravato la contraddizione tra la portata degli obiettivi e la dimensione delle risorse disponibili per conseguirli, favorendo l’affermazione di una particolare miscela di realismo di stampo jeffersoniano e d’ideali-smo tipicamente wilsoniano che sembra sempre di più contraddistingue un’ammini-strazione incapace di superare i limiti già sperimentati dalla precedente nell’implemen-tazione di una non meno ambiziosa politica strategica statunitense. Tre problemi irrisolvibili In particolare, sono tre le questioni con le

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quali democratici e repubblicani continuano a confrontarsi senza un particolare successo nel dopo 11/IX. La prima è riconducibile alla convinzione che la condivisione di un qualche tipo d’interesse rappresenti non solo la condizione necessaria ma, nelle giuste condizioni garantite da un’opportuna azione diplomatica e da una altrettanto opportuna serie d’incentivi, la condizione sufficiente per realizzare un’efficace cooperazione internazionale su tutta una serie di problemi e di minacce globali. Invece, neanche il presidente Obama si è dimostrato in grado di convincere un consistente numero di capi di stato dei vantaggi garantiti dall’eventuale condivisione degli oneri di un impegno strategico percepito come non strettamente necessario, desidera-bile o possibile. L’idea che un consorzio di potenze emergenti, quali Brasile, Turchia, Cina e Israele, sia organizzabile per tramite di un’abile offensiva diplomatica si è rivelata una semplice illusione che inoltre finisce con il sottovalutare pericolosamente il peso che le differenti forme di governo hanno nell’elabo-razione delle priorità in base alla quale si determina l’interesse nazionale. Sotto questo punto di vista, l’enfasi riposta dalla presente amministrazione sul ritorno al dialogo con i vecchi alleati europei non sembra aver raggiunto particolari risultati a parte quello di alienare quel variopinto insieme di partner e di stati clienti coltivato anche con un qualche successo dall’amministrazione Bush. La seconda è identificabile in un’esagerata fiducia nelle possibilità del cosiddetto “soft power”, in tutte le sue varie ed eventuali incarnazioni. Dopo 11/IX, tutte e due le amministrazioni giunte alla Casa Bianca hanno confidato, e continuano a confidare, nel ricorso ad una politica internazionale ricca d’incentivi ma povera di sanzioni anche quando mirata ad evitare la proliferazione nucleare di paesi come l’Iran, la Corea del Nord o il Pakistan. Di conseguenza, nelle

capitali di mezzo mondo, si è progres-sivamente diffusa una percezione di debolezza del potere esecutivo statunitense che, paradossalmente, rende sempre più frequente la propensione del potere esecutivo a confidare e ricorrere nello strumento militare. La terza è rappresentata da un’eccessiva valutazione della disponibilità popolare ad appoggiare una politica strategica spic-catamente internazionalista. I forti movimenti politici che nell’ultimo biennio stanno insi-diando dal basso i vertici della partitocrazia statunitense, ne sono, con tutta probabilità, la prova migliore. Nella percezione della stra-grande maggioranza dell’elettorato, gli ultimi dieci anni di politica estera e strategica hanno comportato più costi che ricavi. Nel giudizio di maggioranza, nonostante l’enorme proie-zione oltremare, anche l’amministrazione Obama, con la notabile eccezione costituita dall’eliminazione di Osama bin Laden, sembra aver raggiunto risultati molto scarni, posto che la chiusura di Guantanamo sembra tanto lontana nel tempo quanto la stabilizzazione di Pakistan e Afghanistan, quanto la rinuncia iraniana al nucleare, quanto una pace duratura tra Israeliani e Palestinesi e quanto l’avvento di un’effettiva democrazia liberale in tutto il mondo arabo. Se è pur vero che non è stata la politica estera a decidere il risultato delle recenti elezioni di medio termine, proprio quel risultato sembra riflettere al meglio la bassa propensione dell’elettorato in merito al ricorso a strumenti internazionalistici anche per affrontare problemi transnazionali come la protezione dell’ambiente. Il fatto è che l’opinione pubblica statunitense è da sempre incline a fornire il suo appoggio in termini di capitale e lavoro solo per un periodo di tempo relativamente breve, tanto da rendere particolarmente difficile qualsiasi conseguente esercizio di governo di medio e lungo periodo, come lamentato sul finire dell’impegno vietnamita dall’allora consigliere per la

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sicurezza nazionale Henry Kissinger. Verso un approccio bipartitico Tornando alle ripercussioni di lungo periodo di 11/IX, non si può non riconoscere come la quasi assoluta mancanza d’incidenti terroristici all’interno del territorio statuni-tense depone a favore delle misure decise, tra mille polemiche, dall’amministrazione Bush. D’altra parte, la spiegazione di questo successo è da ultimo sempre più rintracciata nella continuata capacità degli Stati Uniti di assimilare qualsiasi minoranza, compresa quella islamica, anche dopo un 11/IX che ha avuto l’effetto di cambiare il modo con il quale il paese guardava all’immigrazione. Prima di 11/IX il dibattito sull’immigrazione era incentrato sul suo impatto sull’economia, sulla cultura e sul sistema legislativo, dopo sulla sicurezza nazionale. Per la prima volta nella loro lunga storia, gli Stati Uniti hanno così adottato un intero dispositivo di misure volte a contenere seriamente l’immigrazione clandestina e a controllare non meno seriamente quella legale, ma la conseguente minore permeabilità dei confini e ora spesso giudicata come potenzialmente dannosa per gli interessi statunitensi di lungo periodo. Con il passare del tempo, a Washington sembra si ricominci a preferire Roma a Bisanzio, tanto che sono in molti a vedere con preoccupazione il fatto che, nel giro di pochi anni, gli Stati Uniti sono passati dall’esser uno dei paesi nei quali era più facile entrare ad uno nei quali è più difficile, con l’ovvio risultato di allontanare oltre ad un cospicuo numero di turisti, di studenti e d’investimenti stranieri, anche quel tipo di persone particolarmente ambiziose e aggressive che più d’ogni altro hanno in passato contribuito alla grandezza della Nazione.

Intanto, nel confermare il ricorso a strumenti come la detenzione a tempo indeterminato in assenza di processo e l’uso del segreto di stato per bloccare l’azione della magistratura locale e federale, l’amministrazione Obama ne ha di fatto cancellato ogni carattere d’eccezionalità e ha così consolidato un approccio statunitense al contro terrorismo poggiato su quattro grandi pilastri. Il primo è che attaccare è sempre meglio di difendere. Trovare le organizzazioni ter-roristiche e distruggerle prima che possano colpire è una strategia preferibile ad una protezione dei cosiddetti “obiettivi sensibili” che, costi a parte, compromette le fondamenta stesse della democrazia. Il secondo è che ogni terrorista costituisce un caso a sé. Il terrorismo internazionale non è una dimensione nella quale il sistema giudiziario statunitense può sempre manovrare con efficacia, tanto da dover esser coinvolto solo in mancanza di alternative più appropriate. Il terzo è che il contro-terrorismo è una strada senza ritorno. Poiché è facile aumentare le misure di sicurezza per rispondere ad una particolare minaccia, ma è estremamente difficile ridurle, il rischio è che all’incremento dei costi di tali misure corrisponda un decremento effettivo del livello, reale e percepito, di sicurezza. Il quarto è che il terrorismo è un problema politicamente gestibile. Per quanto grave, il terrorismo è solo una delle tante sfide nazionali e internazionali che minacciano la sicurezza nazionale. In quanto tale non può e non deve essere posto al centro della grande strategia statunitense. Infine, 11/IX pur non cambiando la traiettoria della grande strategia statunitense e non alterando le alchimie tipiche della cultura

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politica statunitense, ha però contribuito ad aumentare l’importanza attribuita negli Stati Uniti a qualsiasi attore non governativo, tanto da creare le condizioni per l’affermarsi di un modello interpretativo del funzionamento del

sistema internazionale dal numero così elevato di protagonisti da svuotare quel multipolarismo così diffuso da questa parte dell’Atlantico di qualunque effettivo significato.

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Teatro Afghano

Antonio Giustozzi Eventi ►Burhauddin Rabbani, ex presidente della repubblica e presidente dell’Alto Consiglio per la Pace, è stato assassinato il 21 settembre. Rabbani stava cercando di avviare un dialogo con al-cuni elementi dei Taliban. ►Nel suo messaggio a conclusione del Ramadan, il leader dei Taliban Mullah Omar ha as-sunto una posizione conciliatoria. Mullah Omar ha indicato che un futuro governo afghano dovrebbe essere inclusivo ed incorporare tutte le minoranze su una base meritocratica. Mullah Omar ha anche riconosciuto che contatti con gli Americani hanno avuto luogo, sebbene allo scopo di ottenere il rilascio dei prigionieri. ►Fonti all’interno del governo afghano riconoscono che la provincia di Nuristan è ormai sotto il completo controllo degli insorti. Solo il capoluogo provinciale ed uno dei sette distretti mantengono ancora una presenza delle forze governative. ►Il governo norvegese ha congelato 50 milioni di dollari in aiuti al governo afghano. La de-cisione é in risposta alla gestione insoddisfacente del governo afghano nella gestione dello scandalo di Kabul Bank. Il Fondo Monetario Internazionale ha anch’esso congelato i propri fondi. ►Fonti diplomatiche riferiscono che Washington ha deciso di dare il via libera all’apertura di un ufficio dei Taliban nel Qatar. La richiesta veniva dai Taliban stessi, ma aveva trovato l’opposizione delle autorità pakistane. Si ritiene che all’attacco terroristico all’Ambasciata americana ed altri uffici in settembre sia da interpretarsi come un segnale da parte di elementi opposti all’approccio diretto con Washington. ►Il governo spagnolo ha ufficialmente annunciato la propria intenzione di ritirare le truppe dall’Afghanistan entro il 2014. Il 40% delle truppe saranno ritirate già nel 2013. ►L’esercito americano ha deciso di fornire veicoli blindati moderni and nuovi per l’esercito afghano. Fino ad oggi l’esercito afghano aveva solo ricevuto M-113 and Humvees di seconda mano e per lo più in cattivo stato di manutenzione. ►La NATO Training Mission Afghanistan sta venendo sottoposta a critiche intense all’interno di ISAF stessa a causa dell’incapacità di affrontare con successo il problema dello sviluppo di una nuova leadership per esercito e polizia. Sebbene corsi per ufficiali siano co-minciati nel 2010, si ritiene che siano largamente insufficienti rispetto alle necessità.►Fonti all’interno dei Taliban indicano che Mullah Omar ha emesso in ordine secondo il quale tutti i combattenti Taliban devono passare attraverso dei corsi d’addestramento prima di raggiun-gere le loro unità da combattimento. Al fine di mettere in pratica questo ordine, nuovi campi d’addestramento sono stati creati sia in territorio pakistano che in Afghanistan.

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L’esercito afghano di fronte alla transizione

Avendo discusso nel numero scorso le forze di polizia afghana nel contesto della transizione verso una presa di responsabilità afghana nel campo della sicurezza, affrontiamo in questo numero la situazione dell’esercito. Il cosiddet-to Esercito Nazionale Afghano è stato a lungo considerato il fiore all’occhiello non solo del-le forze di sicurezza afghane, ma anche più in generale dello sforzo di ricostruire uno stato afghano dopo il 2001. Negli ultimi tempi, pe-rò, sono emersi dubbi riguardo all’effettiva qualità dell’Esercito. Il Ministero della Difesa Afghano controlla oltre all’Esercito Nazionale anche la piccola Aviazione Militare Afghana, che fino a non molto tempo fa passava sotto il nome di Cor-po Aeronautico dell’Esercito Nazionale Af-ghano. L’esercito a sua volta è organizzato in sei corpi d’armata ed in un numero sempre crescente di brigate. Inizialmente, l’esercito afghano era stato concepito come una forza di fanteria leggera, atta a contrastare i vari signo-ri della guerra che dominavano la scena nelle provincie afghane. Probabilmente sotto pres-sione pakistana, si decise nel 2002 di non do-tare le forze armate afghane di molto equi-paggiamento pesante, quali carri armati ed ar-tiglieria. L’addestramento del nuovo esercito procedette nei primi anni in modo molto lento, inizialmente addirittura con un singolo batta-glione alla volta, e non comprendeva l’insegnamento di tattiche anti-carro o di dife-sa aerea. L’unica unità di carri da battaglia non è mai diventata operativa ed è stata sman-tellata di recente, sembra a causa delle rimo-stranze pakistane. In modo simile l’aviazione afghana è stata pianificata come una forza di

dimensioni e capacità modeste, senza neanche una componente da combattimento aria-aria od una capacità d’attacco al suolo oltre a quel-la garantita dagli elicotteri d’attacco Mi-24, peraltro non ancora operativi dopo anni di preparativi. Il grosso dello sforzo è invece sta-to concentrato sull’aviazione tra trasporto, che sta appena cominciando a diventare operativa. Nella sua funzione anti-signori della guerra l’Esercito Nazionale ha ottenuto qualche risul-tato, senz’altro riuscendo almeno a contenerne l’influenza. Dal 2002 ad oggi però la situazio-ne politico militare dell’Afghanistan è gran-demente evoluta. I signori della guerra hanno perso influenza, ma l’insurrezione dei Taliban è emersa come una minaccia sempre più seria. Dal 2005 in poi l’Esercito Nazionale è stato dispiegato in maniera sempre più forte contro i Taliban, ma senza un vero adattamento strut-turale od una sostanziale innovazione nell’addestramento di base ad esso impartito. Il suo impatto nella campagna contro-insurrezionale, pertanto, è stato limitato. In termini numerici, i massicci investimenti ame-ricani nella crescita numerica dell’Esercito hanno permesso di superare un paio di crisi di reclutamento, l’ultima delle quali è stata nel 2009. Da allora i volontari hanno sempre ec-ceduto le necessità dell’esercito, grazie soprat-tutto all’aumento dei salari. Sebbene il livello delle diserzioni sia alto e circa un terzo dei volontari non rinnovi il suo contratto nono-stante gli incentivi finanziari, la crescita quan-titativa non è mai stata in dubbio. In pratica, però, la forza effettiva dell’Esercito rimane molto al di sotto dei numeri comunicati alla stampa. Sulla carta, in settembre l’Esercito contava circa 165.000 uomini, ma in pratica

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solo il 65% circa sono dispiegabili e di questi quasi un terzo di regola non sono presenti, sia perché in licenza sia perché assenti senza au-torizzazione. In pratica, quindi, la forza im-piegabile nel contrasto dell’insurrezione am-monta a circa 75.000 uomini. Anche questi 75.000 non sono utilizzati in egual misura nel conflitto. In giugno, per esempio, su 50 soldati caduti in combattimen-to 29 appartenevano al 203simo corpo (sud-est ed est), mentre 8 appartenevano al 205esimo corpo (sud) e 5 al 215esimo (sud-ovest). Le perdite degli altri corpi sono state insignificanti. Di fatto, quindi, metà dei corpi sopporta quasi tutto lo sforzo bellico. Le di-serzioni sono infatti concentrate per lo più in questi corpi, che hanno pure il tasso più basso di rinnovo dei contratti tra i volontari. Ciò vuol dire che sono i soldati e gli ufficiali più esperti a lasciare l’esercito, con un danno con-siderevole per la sua crescita professionale. Le perdite subite dell’esercito sono andate crescendo negli anni e particolarmente nell’estate appena trascorsa, come risultato dello sforzo dei contingenti NATO di spostare sempre di più lo sforzo bellico sulle spalle de-gli afghani. Parallelamente sono aumentate le diserzioni, che durante l’ultima estate si aggi-ravano attorno ad un tasso annuo del 30%, molto alto per un esercito di volontari. Questo è particolarmente vero se si considera che no-nostante tutto le perdite sono ancora a livelli modesti e significativamente inferiori a quelle subite dalla polizia, nonostante l’esercito sia oggi più numeroso di quest’ultima. La transi-zione sembra pertanto trovare l’Esercito im-preparato, sia psicologicamente che dal punto di vista organizzativo. Il reclutamento nell’Esercito coinvolge soprat-tutto le comunità più povere del paese; il 90% delle reclute sono analfabete. La motivazione principale per arruolarsi sembra essere di ca-rattere economico: sono le famiglie che spin-gono i loro figli a presentarsi agli uffici dell’esercito. Fino a quando le perdite erano

insignificanti o comunque basse, arruolarsi sembrava un buon affare. Man mano che i ca-daveri dei caduti hanno cominciato a fare ri-torno ai villaggi, l’appetito per questa fonte di impiego ha cominciato ad diminuire. Le fami-glie dei caduti spesso si lamentano che l’Esercito non tratta i corpi dei caduti in modo appropriato, nonostante il fatto che in Afgha-nistan i funerali sono soggetti a regole molto precise. Le difficili condizioni di servizio fan-no sì che siano più che altro coloro che già si trovano nell’esercito a gettare la spugna; an-che se ci sono stati periodi in cui solo metà delle reclute rinnovava il contratto, i due terzi che rinnovano oggi sono sempre pochi se si considera che quasi un terzo diserta prima di arrivare al rinnovo del contratto. Il fatto che i Taliban abbiano in corso una va-sta campagna di intimidazione contro le fami-glie dei militari aumenta ancora la pressione per richiamare i giovani dall’esercito anche prima della scadenza del loro contratto. Nel sud dove i Taliban sono più forti, il recluta-mento nell’esercito è a livelli minimi: nella provincia di Uruzgan nell’ultimo anno sola-mente 14 reclute si sono presentate. Le precarie condizioni di servizio sono solo in parte il risultato di oggettive difficoltà dovute alla condizione di guerra civile che si riscon-tra in buona parte del paese. Le capacità logi-stiche dell’Esercito rimangono tuttora estre-mamente limitate e la dipendenza dai contin-genti NATO è quasi totale. Nonostante la formazione di molte nuove unità logistiche nel 2010-11, la loro capacità rimane meno che modesta perché mancano quadri preparati: è difficile trasformare contadini analfabeti in efficienti quartiermastri. La totale dipendenza dell’Esercito afghano dai suoi sponsor NATO si vede anche dal ruolo giocato dai controllori del supporto aereo: non solo le squadre NATO di mentoraggio gioca-no questo ruolo, ma fino ad oggi non si è nemmeno prefigurata la possibilità di adde-strare degli Afghani ad assumersi questo tipo

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di responsabilità. La motivazione viene indi-cata nella difficoltà di trovare candidati ade-guati per questo difficile ruolo tecnico, ma d’altra parte che senso ha avuto creare una di-pendenza dal sostegno aereo americano quan-do era chiaro che ad un certo punto questo non sarebbe più stato disponibile? Anche se non ci dovesse essere un ritiro completo delle truppe NATO, una loro riduzione renderebbe difficile mantenere mentoraggio e ‘partnering’ con tutte le unità afghane, molte delle quali rimarrebbero pertanto senza appoggio aereo. Un altro aspetto dell’Esercito afghano che è andato emergendo in mesi recenti è l’estensione al suo interno di pratiche corrotte che si credeva fossero più caratteristiche della polizia. Particolarmente traumatica per la NATO è stata la scoperta che l’Aviazione Af-ghana è un pozzo senza fondo di corruzione estrema, dove le nomine si vendono e gli equipaggiamenti si rubano. L’efficienza dell’Aviazione ne viene grandemente com-promessa, in una situazione dove invece le si chiede finalmente di assicurare i collegamenti con alcune zone remote del paese da cui le truppe NATO si sono già sganciate. La transi-zione si scontra pertanto con un nuovo ostaco-lo. Un altro esempio demoralizzante della cor-ruzione che imperversa anche nell’esercito è la gestione dell’Ospedale Militare, la cui am-ministrazione costringeva i parenti dei feriti a pagare bustarelle per curarli, nascondeva i de-cessi per farsi pagare la retta per il manteni-mento dei feriti e commerciava con le medici-ne, vendendone per decine di milioni di dolla-ri sul mercato nero. Più in generale la logistica è ormai fuori controllo: i soldati si lamentano del fatto che l’equipaggiamento che ricevono è inadeguato: stivali che si disintegrano dopo un mese, cibo insufficiente e scadente, ecc. Anche le armi spesso finiscono sul mercato mero; recentemente si è notato che i Taliban hanno cominciato ad usare anche i fucili M-16 recentemente forniti all’Esercito Afghano. Questa corruzione e lo spreco stanno diven-

tando sempre meno accettabili in occidente, dove più o meno tutti i paesi partecipanti alla missione sono alle prese con difficili decisioni di bilancio per contenere i propri deficit do-mestici. Nel Congresso americano si parla di contenere il contributo al mantenimento delle forze di sicurezza afghane attorno ai 6 miliar-di di dollari l’anno; considerato che i salari da soli costano 1.8 miliardi, ci potrebbe essere poco margine di manovra in futuro se la cor-ruzione non sarà portata sotto controllo. La crescente consapevolezza all’interno della NATO che l’Esercito Afghano non è all’altezza delle aspettative sta portando a ri-considerare il processo di transizione; fino all’uscita di Petraeus e al suo rimpiazzo da parte di Allen al vertice di ISAF, la tendenza era a selezionare zone ritenute ‘facili’ per as-sicurare una transizione senza traumi. Ora che il nuovo comandante dovrà gestire la transi-zione fino ad un punto avanzato, la considera-zione che sarebbe rischioso aspettare fino alla fine della transizione per testare le unità dell’esercito afghano si sta facendo strada. Si discute pertanto della necessità di avviare la transizione anche in aree ‘difficili’, anche se non è ancora chiaro quali. Il problema principale è come stimolare la promozione di ufficiali capaci, sia al livello delle unità da combattimento che al livello degli altri gradi dell’esercito, che dovrebbero in futuro pianificare le operazioni su larga scala. La speranza è che una volta che saranno costretti ad affrontare difficili situazioni sul campo, gli Afghani cominceranno ad attribui-re una maggior importanza a criteri meritocra-tici nelle nomine e nelle promozioni. Alcuni ufficiali dell’esercito hanno una reputazione di comandanti aggressivi, capaci di mettere sotto pressione gli insorti. Si tratta però di una minoranza. Soprattutto ci sono pochissimi ge-nerali effettivamente capaci di gestire opera-zioni su larga scala e gestire il conflitto in modo organico. La scarsità più evidente ri-guarda i sottufficiali: i migliori candidati ven-

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gono promossi rapidamente al rango di uffi-ciali ed il vuoto non può venire riempito. La maggioranza dei sottufficiali è analfabeta ed i corsi di alfabetizzazione portano le reclute so-lo al livello di terza elementare. Il morale dell’esercito rimane basso; gli uffi-ciali si lamentano continuamente del fatto che non ricevono dell’equipaggiamento militare adeguato dagli alleati occidentali: in particola-re le tecnologie anti-esplosivi rappresentano

una grossa deficienza e costano perdite pesan-ti alle truppe. Gli ufficiali insistono anche sul-la necessità di equipaggiare l’esercito con car-ri armati e caccia; durante i negoziati con Wa-shington sul futuro accordo strategico tra Af-ghanistan e Stati Uniti, è stata avanzata la ri-chiesta di fornire carri M-1 e caccia F-16. Gli Americani però non sono per nulla inclini a soddisfare tale richiesta.

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Africa

Marco Massoni Eventi ► Burkina Faso: il Governo ha smentito la notizia di alcuni media internazionali sulla pre-sunta offerta di asilo nei confronti di Gheddafi. Da giorni numerose fonti ipotizzavano infatti che Gheddafi con un convoglio al suo seguito, attraversato il Niger, avesse raggiunto il territo-rio burkinabé. L’ipotesi non è peregrina, in quanto a più riprese nel corso dell’ultimo venten-nio, ancorché con vicende alterne, Tripoli aveva cooperato con Ouagadaougou in numerosi set-tori. Il Presidente, Blaise Compaoré, che aveva in primavera avocato a sé la carica di Ministro della Difesa, nel frattempo ha dato avvio ad una riforma dell’esercito, che negli scorsi mesi si era reso protagonista di una serie di ammutinamenti. ► Burundi: dopo la strage del 18 settembre a Bujumbura rurale, dove in un assalto ad un locale pubblico, non ancora rivendicato, sono rimaste uccise quaranta persone, peggiora il quadro della sicurezza del Paese, in cui le tensioni seguite alle contestate elezioni generali del 2010, che hanno portato al potere il Presidente Pierre Nkurunziza, non si sono mai del tutto so-pite. Va rammentato che il Burundi lo scorso anno si è cimentato in un articolato processo elet-torale svoltosi in cinque fasi: elezioni comunali (24 maggio), presidenziali (28 giugno), legisla-tive (23 luglio), senatoriali (28 luglio) e, infine, quelle collinari (7 settembre). Cresce il sospetto che dietro l’assalto vi sia una manovra orchestrata dal partito al governo, il Consiglio Nazio-nale per la Difesa della Democrazia-Forze per la Difesa della Democrazia (CNDD-FDD), vol-ta ad incriminare Leonce Ngendakumana, a capo di una coalizione dell’opposizione, nota come Alleanza dei Democratici per il Cambiamento (ADC). ► Camerun: il 21 settembre la Corte Suprema ha convalidato ventitré candidature per la corsa alle elezioni presidenziali previste il 9 ottobre, mentre il Presidente uscente, Paul Biya, è stato riconfermato alla guida del partito di governo, il Rassemblement Démocratique du Peuple Camerounais (RDPC). ► Capo Verde: è deceduto a 87 anni nell’ospedale dell’università di Coimbra, in Portogallo, Aristides Pereira, primo Presidente della Repubblica dell’arcipelago. Pereira, in carica dal 1975 al 1991, anno in cui veniva introdotto il multipartitismo nel Paese, aveva fondato assieme con Amilcar Cabral il Partito per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde (PAIGC), dive-nuto nel 1981 Partito per l’Indipendenza di Capo Verde (PAICV). ► Costa D’Avorio: il Governo ha reso noto che l’Esercito, le Forze Repubblicane in Costa D’Avorio (FRCI), prenderà presto il nome di Forze Armate Nazionali in Costa D’Avorio (FANCI). L’Assemblea nazionale ivoriana, cioè il parlamento, verrà rinnovata dopo ben undici anni in occasione delle elezioni legislative indette per il 15 novembre. Inoltre il Presidente,

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Alassane Dramane Ouattara, ha annunciato che il suo predecessore, Laurent Gbagbo, già sotto processo per furto aggravato, attentato all’economia nazionale e dirottamento di fondi pubblici, sarà anche deferito alla Corte Penale Internazionale, dove dovrà rispondere di crimini contro l’umanità. ► Etiopia: il 17 settembre, il Presidente, Meles Zenawi, si è recato in visita ufficiale in Egitto, per aprire un nuovo capitolo circa lo sfruttamento delle acque del Nilo attraverso una com-missione ad hoc a cui parteciperà anche il Sudan. Verosimilmente un ruolo importante non po-trà non essere ricoperto anche dal Sud Sudan, alla cui indipendenza Il Cairo non si era dimo-strato favorevole principalmente per ragioni strategiche legate allo sfruttamento delle acque del Nilo. Sul versante economico sono particolarmente promettenti le ricerche petrolifere nell’Ogaden, l’immensa regione dell’est etiopico a maggioranza somala da decenni focolaio d’instabilità. La notizia per cui il Fronte Nazionale di Liberazione dell’Ogaden (ONLF) avreb-be assalito la scorta di un convoglio della compagnia petrolifera cinese PetroTrans, uccidendo venticinque soldati delle forze armate etiopiche, è stata smentita sia da Addis Abeba sia dai ver-tici della società di Pechino. ► Guinea-Bissau: il Premier, Carlos Domingos Gomes Júnior, ha auspicato di poter acco-gliere Gheddafi e dargli asilo. Pur non essendo la prima volta che l’uomo più ricco di Bissau si lancia in dichiarazioni iperboliche, è pur vero che sono numerosi i Capi di Stato e di Governo africani in forte debito con l’ex uomo forte di Tripoli, a dimostrazione del considerevole ruolo giocato dalla Libia nel determinare le scelte di politica interna ed estera di molte cancellerie del Continente. ► Guinea: sono state annunciate per il 29 dicembre le elezioni legislative, l’ultima tornata delle quali aveva avuto luogo nel 2002, allorché era in carica il dittatore Lansana Conté, che restò al potere dal 1984 fino alla morte, avvenuta a dicembre 2008. L’approvazione del nuovo codice minerario finora è stata la misura più rilevante apportata da Alpha Condé, il primo Pre-sidente eletto democraticamente nel 2010. Si tratta di una riforma di particolare rilievo, dato che la Guinea è il primo produttore al mondo di Bauxite. Il leader dell’opposizione, Cellou Da-lein Diallo, presidente dell’Unione delle Forze Democratiche di Guinea (UFDG), da pochi giorni rientrato da un periodo di cure all’estero, denuncia una gestione unilaterale e sempre più concentrazionaria del potere da parte del partito di governo, il Raggruppamento del Popolo di Guinea (RPG). ► Liberia: il referendum costituzionale del 23 agosto non ha raggiunto il quorum, sicché l’appuntamento per il primo turno delle elezioni presidenziali e legislative rimane fissato per il giorno 11 ottobre, in vista delle quali la Missione delle Nazioni Unite in Liberia (UNMIL) ha deciso di rafforzare la propria presenza nel Paese. Con l’adozione della Risoluzione n°1497 del 2003 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dato vita a UNMIL con il preciso mandato di moni-torare il cessate-il-fuoco successivo alla fine della seconda guerra civile liberiana, scoppiata nel 1999. ► Libia: mentre continua l’assedio alla città di Sirte, l’ENI ha ripreso la produzione petroli-fera. In occasione della Conferenza di Parigi sulla Libia, a cui hanno partecipato il primo set-tembre ben sessantatré Stati ed Organizzazioni internazionali - tra cui Cina e Russia - è stato chiesto al Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) di avviare quanto prima un processo di riconciliazione nazionale e di indulgenza, onde evitare gli errori commessi altrove nel periodo di transizione post-conflict, a cui spesso si accompagnano eclatanti episodi di violenza gratuita. L’Algeria, che ha accolto per ragioni umanitarie parte della famiglia Gheddafi, ha ribadito

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l’intenzione di riconoscere il CNT non prima che abbia formato un nuovo Governo, che le nuo-ve autorità libiche assicurano sarà presentato entro i primi di ottobre al più tardi. Le autorità nigerine hanno reso noto che trentadue membri dell’entourage di Gheddafi stazionano in Niger dal 2 settembre. Il 16 settembre, cioè un giorno dopo la visita del Premier britannico, David Cameron, e del Presidente francese, Nicolas Sarkozy, a Tripoli, anche il Primo Ministro tur-co, Recep Tayyip Erdogan, ha incontrato le nuove autorità libiche. Per l’occasione ha auspi-cato che lo Stato turco sia considerato un modello politico e sociale al quale ispirarsi, in quan-to democratico e musulmano allo stesso tempo. Intanto un ulteriore riconoscimento arriva da New York, dove la 66esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso di assegnare il seggio libico al CNT. A margine della stessa, il 20 settembre, il Ministro degli Affari Esteri Franco Frattini, incontrando il Premier libico, Jibril, ha definito la liberazione della Libia una vittoria dell’intera comunità internazionale. Infine il 15 settembre si è insediato il nuovo Am-basciatore italiano in Libia, Giuseppe Buccino Grimaldi, il cui compito verterà inizialmente sulla normalizzazione dei rapporti bilaterali, che sono comunque consolidati e protetti da con-tratti a lungo termine. Alcuni organi di stampa sostengono che la Francia abbia sottoscritto un accordo segreto con il CNT, con il quale si sarebbe assicurata diritti per il 35 per cento della produzione petrolifera libica, ma la notizia è stata smentita da Parigi e dal CNT, il quale assi-cura che sono decisioni che non possono essere prese da un Governo transitorio, a causa della provvisorietà della sua natura. ► Madagascar: il 17 settembre è stata firmata la roadmap, per far uscire il Paese dalla crisi politico-istituzionale. L’ex Presidente in esilio in Sudafrica, Ravalomanana, potrà teoricamente tornare in Madagascar, ma al momento potrebbe essere una mossa azzardata, perché l’esercito malgascio si è detto contrario al suo rientro, in quanto potrebbe alimentare tensioni. ► Malawi: il Presidente, Bingu wa Mutharika, nel presentare il nuovo esecutivo, ridotto a trentadue Ministri, ha arbitrariamente ed in maniera anticostituzionale rimosso il Vice-Presidente, Joyce Banda, la quale ha dichiarato che non lascerà il suo posto, a meno che non sia eventualmente il Parlamento a sfiduciarla. ► Nigeria: l’ex Presidente nigeriano, Olusegun Obansanjo, è stato minacciato di morte dalla setta Boko Haram, mentre era in visita a Maiduguri, capitale dello Stato di Bormo, dove da mesi si sono intensificati gli attacchi terroristici di matrice islamica. Obasanjo è stato incarica-to dal Presidente, Goodluck Jonathan, di tentare una difficile mediazione con l’organizzazione terroristica, che contempla anche l’ipotesi di un’amnistia generalizzata per i suoi componenti. Parallelamente lo State Security Service (SSS) federale ha messo una grossa taglia sulla testa di Mamman Nur, ritenuto il massimo responsabile di Boko Haram per l’attentato suicida del 26 agosto ai danni del quartier generale delle Nazioni Unite nella capitale nigeriana, Abuja, che causò la morte di ventitré persone, ferendone un centinaio. ► Repubblica Democratica del Congo (RDC): la Commissione Elettorale Nazionale Indi-pendente ha ammesso undici candidature per le elezioni presidenziali e parlamentari del 28 novembre. Tra i candidati figurano il Presidente in carica, Joseph Kabila e François Jospeh Nzanga Mobutu, figlio del Maresciallo Mobutu Sese Seko, mentre la dibattuta candidatura di Jean-Pierre Mbemba, che si trova agli arresti all’Aja dall’estate del 2008 presso la Corte Pe-nale Internazionale, è stata esclusa dalla competizione. ► Rwanda: il Presidente, Paul Kagame, è stato ricevuto dal suo omologo francese, Nicolas Sarkozy. La storica visita ufficiale, dal 12 al 13 settembre, vede un riavvicinamento fra i due Paesi dopo anni di accuse reciproche di coinvolgimento nel genocidio ruandese del 1994. Per

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quanto nel 2006 Parigi e Kigali avessero persino interrotto le relazioni diplomatiche, lo scorso anno il Presidente francese si era recato nella capitale ruandese non solo per ragioni eminen-temente economico-commerciali, ma anche per tentare un riposizionamento strategico nella re-gione dei Grandi Laghi. ► Senegal: in previsione delle elezioni presidenziali del 12 febbraio 2012 si sono costituite le coalizioni della maggioranza e dell’opposizione. Si affronteranno da una parte le Forze Alleate per la Vittoria (FAL 2012), che sostengono il Presidente in carica, Abdoulaye Wade, e dall’altra Bennoo Alternative 2012. ► Seychelles: il ventinove settembre ed il primo ottobre si terranno le elezioni legislative an-ticipate, in quanto in luglio il Capo dello Stato, James Michel, aveva anzitempo sciolto il Par-lamento. Presumibilmente le votazioni saranno boicottate da buona parte dell’opposizione, rappresentata soprattutto dal Movimento Popolare Democratico, già peraltro battuta in occa-sione delle presidenziali di maggio. ► Somalia: le Istituzioni Federali Transitorie (IFT) hanno siglato un’intesa con i rappresen-tanti del Puntland, del territorio di Galmudug e della milizia di Ahlu Sunna wa Jamaa. L’accordo è stato promosso dall’ONU, al fine di avviare un processo di riconciliazione nazio-nale inclusivo, ma non ha visto tuttavia alcun delegato degli Shebab. Secondo una parte degli analisti sarebbe fondamentale includere tutte le parti in causa, se si vuole un’evoluzione coe-rente ed efficace della roadmap per la pace in Somalia. Il Governo somalo ha inoltre reso noto l’istituzione di una commissione che avrà il non facile compito di presentare per l’inizio del prossimo anno la bozza della nuova Costituzione. ► Sudafrica: il 15 settembre in occasione del IV Summit Sudafrica-UE, tenutosi nel Parco Nazionale Kruger, il Presidente Jacob Zuma ha chiesto la sospensione delle sanzioni contro lo Zimbabwe e criticato l’intervento militare della NATO in Libia. In termini bilaterali l’Unione Europea è il principale partner commerciale del Sudafrica. Il prossimo vertice si terrà a Bru-xelles nel 2012. ► Sudan: Khartoum e Juba hanno siglato un accordo di monitoraggio congiunto dei confi-ni. Parteciperanno alle operazioni i militari dei due Stati unitamente con le forze di peacekee-ping della United Nations Interim Security Force for Abyei (UNISFA), costituita da truppe etio-piche. Mentre proseguono i combattimenti tra l’esercito sudanese e le milizie dell’Esercito Po-polare di Liberazione del Sudan (SPLA) nello Stato frontaliero del Nilo Blu, le autorità sudane-si hanno chiuso le sedi a Khartoum del Movimento Popolare di Liberazione del Sudan-Nord (SPLM-N), partito d’opposizione. Il Presidente sudanese, Omar al-Bashir, ha nominato come Governatore del Nilo Blue, il Generale Hadi Bushra. Al-Bashir ha pure nominato come Vice-Presidenti, Ali Osman Taha e Al Haj Adam Yousef e come capo dell’Autorità Regionale per il Darfur, Tijani el Sissi, in previsione dell’istituzione dei due nuovi Stati del Darfur Centrale e del Darfur Orientale. ► Togo: Kpatcha Gnassingbé, ex Ministro della Difesa, è stato condannato a vent’anni di car-cere assieme con una trentina di altri imputati sia militari sia civili con l’accusa di attentato al-la sicurezza dello Stato, per aver orchestrato lo sventato golpe del 12 aprile 2009 contro l’attuale Presidente togolose, Faure Gnassingbé Eyadema. ► Tunisia: Il 15 settembre il Primo Ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, si è recato in Tu-nisia in un viaggio che lo ha portato anche in Egitto e Libia, per dimostrare il forte interesse di Ankara a cooperare proficuamente con la Tunisia post-rivoluzionaria.

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► Uganda: l’Alta Corte di Kampala ha emesso le prime sentenze contro i colpevoli degli at-tentati nella capitale ugandese, che avevano provocato 76 morti durante la finale dei Mondiali di calcio l’11 luglio 2010. Gli atti terroristici furono poi rivendicati da milizie affiliate ad Al Qaeda, che deploravano la partecipazione delle truppe ugandesi nella Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM). ► Zambia: il candidato dell’opposizione, Michael Sata, capofila del Fronte Patriottico (FP) ha vinto le elezioni presidenziali e legislative del 20 settembre con il 43 per cento di preferenze rispetto al suo avversario, il Presidente uscente, Rupiah Banda, a capo del Movimento per il Multipartitismo e la Democrazia (MMD). Lo scrutinio si è svolto regolarmente e senza incidenti e, secondo quanto riportato dagli osservatori dell’Unione Europea, guidati dall’europarlamentare spagnola, Maria Muñiz De Urquiza, la campagna elettorale è stata particolarmente competitiva nonostante un evidente squilibrio a favore del partito di maggioranza, che è stato comunque sconfitto. Lo Zambia è il principale esportatore africano di rame con un tasso di crescita annua che si attesta intorno al 7 per cento, malgrado la persistenza del divario tra ricchi e poveri.

L’OWNERSHIP TUNISINA ALLA PROVA DELLA NUOVA GEOPOLITICA NEL MEDITERRANEO

È di notevole rilievo la visita del Presidente etiopico, Meles Zenawi, in Egitto, dal mo-mento che prelude a nuovi equilibri per la si-curezza dei complessi rapporti tra Africa Sub-Sahariana e Grande Medio Oriente riguardo allo sfruttamento delle acque del Nilo con ri-cadute specifiche nel triangolo costituito dalle regioni sahelo-sahariana e del Corno d’Africa, quella dei Grandi Laghi e la Valle del Nilo. Fino alla nascita del Sud Sudan, Il Cairo pre-tendeva di essere l’unico reale beneficiario dello sfruttamento estensivo delle acque, an-cora convinto di far leva sull’Accordo con il Sudan del 1929 e sul Trattato egiziano-sudanese del 1959. È ad ogni modo ancora presto, per sapere se gli accordi daranno buoni frutti; la posta in gioco è alta, dal momento che i Paesi coinvolti dall’indotto del Nilo non sono solo Etiopia, Sudan, Sud Sudan ed Egit-to, ma anche Burundi, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Rwanda, Tanzania e Uganda.

La Turchia sta approfittando della delicata fa-se di transizione dei protagonisti della Prima-vera Araba –Tunisia, Egitto e Libia – per ten-tare di diventare l’ago della bilancia nel Medi-terraneo orientale con interessi economico-strategici, che a ben vedere si avventurano ben oltre la sola Africa Settentrionale, per attestar-si propriamente nell’Africa Sub-Sahariana se-condo quello che viene definito un neo-ottomanesimo di ritorno. In diretta competi-zione con Israele, che soprattutto nella regione dei Grandi Laghi e nel Grande Corno d’Africa coltiva importanti interessi strategici, e con quei Paesi che hanno spinto l’acceleratore sul-la rivolta libica, Ankara immagina che la crisi europea in corso porti ad un ritorno dei nazio-nalismi avverso ad un suo immediato ingresso nell’Unione Europea. Nei confronti di Bruxel-les da una posizione di attesa la Turchia ades-so mette in campo una diplomazia più musco-lare, minacciando l’apertura di una crisi, qua-lora l’anno prossimo sarà assegnata a Cipro la

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Presidenza di turno, come invece è previsto dalla rotazione semestrale dell’Unione. Il neo-ottomanesimo in realtà si sta articolando già da diversi anni in Africa, dove la strategia di espansione turca fa leva sul principio unifi-cante dell’Islam lungo la cerniera dell’African Belt, lo iato che segna in termini etnico-culturali la divisione tra il Nord arabo ed il Sud africano. Le recenti posizioni contro Israele e le visite in Egitto, Tunisia e Libia hanno ampiamente dimostrato che lo scopo di Ankara infatti è propriamente quello di accre-scere la sua autorevolezza e di aumentare il suo engagement su molteplici volet. Difatti si tratta di un Paese islamico moderato, che si presenta come modello di riferimento anche nel Mediterraneo e nel Maghreb, dove la pre-senza ottomana non è sempre stata sgradita. Va ricordato che la Turchia è allo stesso tem-po balcanica, europea, mediorientale, caucasi-ca ed asiatica, vantando al tempo stesso la membership del Consiglio d’Europa, dell’OSCE, della NATO e dell’OCSE. Inoltre nel 2008 la Turchia è diventata il venticinque-simo membro non regionale della Banca Afri-cana di Sviluppo e dal 2005 detiene lo status di osservatore presso l’Unione Africana, unica piattaforma istituzionale intergovernativa afri-cana a livello continentale. Il primo vertice turco-africano si tenne ad Istanbul nel 2008, mentre il prossimo avrà luogo nel 2013 in un Paese africano. Frattanto è stato approvato il Piano d’Azione Congiunto Turchia-Africa con la finalità di creare un’area di libero scambio, aggirando in questo modo la concorrenza commerciale europea. Occorre notare infine che l’offerta di armamenti turchi incontra una crescente domanda in Africa. A seguito del successo della prima edizione nel 2010, dal 21 al 25 settembre ho avuto luo-go il Secondo Forum Economico-Com-merciale Cina-Paesi Arabi, inaugurato da Jia Qinglin, Presidente del Comitato Nazionale della Conferenza Politica Consultiva del Po-polo Cinese, a Yinchuan, capitale della Re-

gione Autonoma nord-occidentale Ningxia Hui, dove vive il dieci per cento di tutti i mu-sulmani in Cina, pari a circa venti milioni di persone in totale. I lavori si sono concentrati sulla cooperazione economica e commerciale nei settori dell’agricoltura, scienza e tecnolo-gia, energia, finanza, editoria e turismo. Vi hanno preso parte più di settemila delegati, provenienti da settantasei Stati, tra cui la Mauritania, rappresentata ai massimi livelli dal Presidente, Mohamed Ould Abdelaziz. L’intenzione di Pechino è di far conoscere agli interlocutori arabi quella regione cinese, che è loro culturalmente più prossima, la Ningxia, perché ivi presente una cospicua mi-noranza musulmana, gli Hui appunto, molti dei quali sono discendenti di mercanti musul-mani. Lo scopo di Pechino è di massimizzare la reciproca integrazione e attrarre mediante apposite corsie preferenziali investimenti ara-bi in questi territori, le cui uniche risorse sono di tipo agro-pastorale. Gli altri due Paesi dell’Africa mediterranea che la Cina vorrebbe coinvolgere nel Forum saranno proprio Libia e Tunisia, a dimostrazione dell’importante ruolo da protagonisti che le rispettive libera-zioni nazionali potranno presto far loro gioca-re su sempre maggiori fronti non soltanto economico-commerciali, ma anche politici. Sul fronte libico è necessario notare il ritardo con cui l’Unione Africana (UA) ha ricono-sciuto il CNT, dal momento che lamentava che non avesse ancora presentato tutte le cre-denziali necessarie a rappresentare pienamen-te le istanze della popolazione libica tutta. Inoltre, secondo il presidente della Commis-sione dell’UA, Jean Ping, il CNT non avrebbe ancora fornito garanzie adeguate sul tratta-mento riservato ai migranti africani, i quali vengono ingiustamente accusati di essere mercenari del regime, quando invece nella maggioranza dei casi si tratta di meri lavorato-ri stabilitisi in Libia prima della rivoluzione. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato la Risoluzione n°2009 del 16 settembre, av-

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viando così la United Nations Support Mis-sion in Libya (UNSMIL), di carattere non mili-tare, in quanto gestita direttamente dal Dipar-timento Affari Politici del Palazzo di Vetro. Il mandato di UNSMIL, guidata dal britannico Ian Martin, Rappresentante Speciale per la Libia del Segretario Generale (SGSR), infatti è quello di sostenere gli sforzi nazionali libici, affinché siano ripristinati la sicurezza e lo sta-to di diritto. Inoltre Ban Ki-Moon ha nomina-to come suo vice il finlandese Georg Charpen-tier. UNSMIL assicurerà anche il supporto all’organizzazione dell’elezione dell’Assem-blea Costituente, che sarà seguita poi da un referendum di approvazione della Costituzio-ne e in ultimo dalle elezioni legislative e pre-sidenziali, vale a dire il medesimo percorso intrapreso dalla Tunisia. Il Primo Ministro li-bico, Mahmoud Jibril, ha annunciato che le elezioni si terranno entro i primi venti mesi successivi al momento in cui l’intero territorio libico sarà stato interamente liberato. Si sta concentrando sull’analisi del contenzio-so giuridico in merito all’iscrizione delle liste e al diritto al voto degli elettori la prima fase della Missione di Osservazione Elettorale dell’Unione Europea in Tunisia, giunta a Tu-nisi l’8 settembre e guidata dall’europarla-mentare tedesco Michael Gahler. La missione, indipendente tanto dalle istituzioni europee quanto dagli Stati membri dell’Unione, ha lo scopo di osservare l’intero processo elettorale, che porterà all’elezione dell’Assemblea Costi-tuente il 23 ottobre, organizzata dall’Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni (ISIE) tunisina. Il mandato delle missioni di osserva-zione elettorale è quello di promuovere la de-mocrazia e i diritti umani in uno spirito di cooperazione con i Paesi partner dell’UE, raf-forzando in questa maniera la fiducia dell’opinione pubblica tunisina nel ciclo elet-torale dopo la rivoluzione. Il dispiegamento di osservatori elettorali consente di analizzare il processo legale, di seguire l’evoluzione del contenzioso e di osservare il comportamento

dei media prima, durante e dopo le elezioni anche grazie ad incontri costanti con le istitu-zioni nazionali, i partiti, i candidati, la società civile nel suo complesso e gli organi d’informazione. L’osservazione elettorale in-ternazionale, che copre la fase pre-elettorale, la campagna elettorale, il giorno dello scruti-nio, e infine lo spoglio, l’aggregazione e la pubblicazione dei risultati, si basa sui principi dell’imparzialità, della neutralità e dell’indipendenza. In particolare l’UE, avendo aderito alla Dichiarazione dei principi per l’osservazione internazionale delle Nazioni Unite come pure al Codice di Condotta degli osservatori elettorali internazionali, ha svilup-pato una propria metodologia standardizzata, fondata sulla non interferenza nel processo elettorale e sull’adesione alle leggi nazionali del Paese ospite. Per valutare il processo elet-torale nel suo complesso, la missione sta os-servando e analizzando qualitativamente e quantitativamente il comportamento dell’am-ministrazione elettorale, il grado di libertà fornito ai partiti nel corso della campagna elettorale, l’equilibrio della distribuzione dei fondi pubblici, la parità di accesso dei partiti e dei candidati ai mass-media, il grado di libertà di espressione offerto agli elettori, la condu-zione e il funzionamento dei seggi elettorali, il consolidamento dei risultati delle elezioni ed infine la tempestività e l’imparzialità del con-tenzioso. Per quanto la Tunisia stia attraversando una vivace quanto delicata fase di transizione po-litico-istituzionale, tuttavia non tutta la socie-tà tunisina sembra preparata ad affrontare il cambiamento. Al momento non è ancora chia-ro se la pletora di partiti e di liste indipenden-ti in lizza nelle ventisette circoscrizioni raffi-guri l’immagine di un Paese, dove la società civile, a lungo privata della libertà d’espre-ssione, intenda seriamente impegnarsi per ri-prendere in mano le redini del proprio futuro o se, ben lungi dalla responsabilizzazione e dall’impegno civili, rappresenti invece il met-

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tersi in gioco di forme di opportunismo se-condo i già noti schemi della politica locale, inquietante eredità dell’era di Ben Ali. Vero è che l’opacità, anche per quanto attiene al fi-nanziamento dei partiti, e l’incertezza della situazione politica tanto a livello nazionale quanto a livello locale inducono molti elettori a temere il ritorno al potere di un nuovo uomo forte, una volta che si sarà concluso il ciclo

elettorale, di cui l’elezione dell’Assemblea Costituente del 23 ottobre sarà solo la prima tappa. Al di là di una generica partizione fra forze islamiche, progressiste e liberali, si po-trà avere un quadro più preciso del contesto politico, solo quando i partiti e i candidati in-dipendenti avranno deciso come allearsi tra loro, pena un’altrimenti inevitabile quanto imprudente dispersione del voto.

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Iniziative Europee di Difesa

Lorenzo Striuli Eventi ►Una locale disputa cipriota rischia di trasformarsi potenzialmente in una controversia in-ternazionale, secondo dichiarazioni rilasciate alla stampa il 12 settembre da parte dell’Ambasciatore turco presso l’Unione Europea Selim Kuneralp. La Repubblica di Cipro (ovvero la parte greca) ha infatti recentemente affidato all’azienda statunitense di trivellazioni sottomarine Noble l’esplorazione di risorse energetiche in un tratto di mare oggetto di conten-zioso con la Repubblica Turca di Cipro del Nord. In tal senso, la Turchia ha reso nota la sua richiesta agli Stati membri dell’Unione Europea perché esercitino pressioni su Nicosia finaliz-zate alla cessazione di potenziali attività di sfruttamento di risorse che secondo Ankara appar-terrebbero a entrambe le comunità. L’Ambasciatore ha inoltre anticipato come vi sia da atten-dersi un congelamento delle già oramai basse relazioni fra UE e Turchia nell’ultimo semestre del prossimo anno, quando sarà la Repubblica di Cipro ad assumere la Presidenza a rotazione dell’Unione Europea. Al momento, comunque, sulla questione delle trivellazioni Nicosia è riu-scita a collezionare in ambito UE un largo consenso sulle sue ragioni, e sta conducendo un’analoga offensiva diplomatica anche in sede Nazioni Unite. Ciò non ha tuttavia impedito che il successivo 23 settembre una nave per trivellazioni turca sia salpata in direzione delle ac-que oggetto di contenzioso, facendo salire una tensione che al momento ancora non è chiaro ove possa condurre. ►Il 12 settembre è stato approvato a livello comunitario il progetto dell’Unione Europea sul-la messa in opera di un gasdotto che dovrebbe collegare le riserve turkmene con l’Azerbaigian, in particolare congiungendosi al Nabucco, un altro gasdotto al momento sulla carta ma che, se costruito, dovrebbe giungere in Europa attraverso la Turchia, la Bulgaria, la Romania, e l’Ungheria, quindi di fatto ponendo termine al monopolio russo di trasporto del gas da quella regione. Il progetto prevede un passaggio di un buon tratto di questo nuovo gasdotto sul Mar Caspio, suscitando già nella giornata successiva al suo annuncio ufficiale dichiarazio-ni pubbliche di disappunto da parte del Ministro degli Esteri russo, che ha posto in luce come si cercherà di bloccare l’iniziativa presso ogni sede multilaterale di gestione congiunta di questo mare interno. Secondo funzionari comunitari, comunque, dal momento che il progetto preve-drebbe il passaggio esclusivamente fra le coste dell’Azerbaigian e del Turkmenistan, bastereb-bero formule bilaterali di accordo con e fra questi due Paesi per la sua attuazione. ►Il 14 settembre gli Stati membri dell’Unione Europea sono addivenuti alla formulazione finale del testo del Trattato di Accesso della Croazia alle istituzioni comunitarie. Tale Paese diverrà dunque il ventottesimo membro dell’UE il 1° luglio del 2013, a meno di blocchi che po-

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trebbero darsi nel processo di ratifica di tale adesione, che deve avere luogo presso ciascun Parlamento degli attuali Stati membri (oltreché in quello di Zagabria, ovviamente). Al momento non sono comunque prevedibili tali battute di arresto, anche in considerazione del fatto che, per la Croazia, non sono state previste, a differenza di Bulgaria e Romania, clausole di salvaguar-dia su materie sensibili come corruzione, crimine organizzato e diritti umani, sulle quali Zaga-bria ha mostrato di aver raggiunto uno “score” più che soddisfacente, e che invece per Buca-rest e Sofia si sono rivelate di ostacolo alla piena membership comunitaria. ►Il 20 settembre è stato reso noto un paper curato dalla Commissaria Europea alla Giusti-zia, Diritti Fondamentali e Cittadinanza Viviane Reding, nel quale sono state delineate alcu-ne proposte in merito all’istituzione di una sorta di politica comunitaria di lotta al crimine. In particolare, si propone di giungere alla definizione di cosiddetti “crimini europei” sui quali impiantare degli standard comuni di pena, in special modo per reati dagli effetti transnazionali quali quelli connessi con il traffico di esseri umani, il riciclaggio di danaro sporco, la contraf-fazione monetaria e di merci, la corruzione e le turbative finanziarie, i delitti ambientali e quelli contro dati personali e patrimoniali, e la sicurezza stradale e alimentare. ►A settembre è stato reso noto l’ultima edizione del sondaggio Transatlantic Trends curato dal noto istituto di ricerca German Marshall Fund. Le risultanze in esso contenute hanno mo-strato come il 51 % dei cittadini statunitensi ritenga l’Asia essere ben più importante rispetto all’unione Europea per gli interessi nazionali del proprio Paese. Tale opinione è apparsa parti-colarmente diffusa tra una fascia giovanile di età compresa fra i 18 e i 34 anni, e cioè per uno spettacolare 70 % di persone collocate in questa categoria rispetto a un solo 29 % che venne rilevato nell’oramai lontano 2004. Dal canto loro, i cittadini dei Paesi membri dell’UE hanno mostrato di ritenere, per il 52 % degli intervistati, gli USA più importanti dell’Asia, con le sole eccezioni delle opinioni pubbliche di Francia, Spagna e Svezia. Tuttavia, presso tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, i rispettivi cittadini hanno rivelato una migliore valutazione, ri-spetto all’operato dei loro stessi governi, dell’Amministrazione Obama nelle decisioni assunte riguardo a questioni quali la crisi economica, la lotta al terrorismo e gli interventi militari in Afghanistan e Libia, confermando come, per il 54 %, essi auspichino per il futuro la continua-zione del ruolo di preminenza degli Stati Uniti negli affari mondiali. Per ciò che concerne la Libia, però, essi si mostrano, nella misura del 54 % degli intervistati, pessimisti sul futuro della stabilizzazione effettiva di quel Paese, mentre per i due terzi (e cioè in una percentuale coinci-dente con quella rilevata presso l’opinione pubblica statunitense) vedrebbero con favore una riduzione delle truppe attualmente schierate in Afghanistan. Un 43 % degli intervistati turchi ha invece mostrato di ritenere il Medio Oriente, sempre rispetto all’Unione Europea, come più im-portante in relazione alle questioni di cooperazione economica, mentre per un 42 % tale opi-nione viene condivisa anche per ciò che riguarda la collaborazione in materia di sicurezza. Ciò non toglie che il 48 % dei turchi continui a mostrare il desiderio di ingresso del proprio Paese nell’UE, e con un incremento di ben il 10 % rispetto all’analoga rilevazione compiuta lo scorso anno. Tuttavia, solamente il 33 % degli intervistati ha mostrato di ritenere che ciò possa real-mente avvenire. I cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea, dal canto loro, hanno indi-cato come solamente per il 26 % degli intervistati si veda con favore un’eventuale ingresso di Ankara nella famiglia comunitaria.

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IL BORDER CONTROL EUROPEO: TEMPO DI PROPOSTE O DI POLEMICHE

Gli anni più recenti hanno visto i seguenti avvenimenti influire decisivamente sulla cre-scita della tematica del border control a livello comunitario, come in più occasioni, in ordine sparso, ci siamo soffermati nella sezione “eventi”: l’utilizzo, da parte di immigrati provenienti da Paesi terzi, delle new entry dell’est europeo nella famiglia comunitaria come canale prefe-renziale attraverso cui giungere in Europa, che ha, ad esempio, finora suscitato l’opposizione di Francia, Germania e Olanda all’ingresso di Bulgaria e Romania alla cosiddetta “area Shengen” di libera circolazione delle persone, attualmente comprendente 25 fra Stati membri e non dell’Unione Europea; la crisi immigratoria che ha travolto il con-fine greco con la Turchia, che ha addirittura richiesto la prima esperienza di rischieramen-to field delle unità di risposta rapida RABIT (acronimo di Rapid Border Intervention Team) dell’agenzia dell’UE FRONTEX al fi-ne di rinforzare le locali forze dell’ordine de-putate ai controlli di frontiera (e che potrebbe-ro essere rischierate nuovamente, questa volta in Austria e Ungheria, secondo una recentis-sima richiesta formulata in tal senso, proprio in questi ultimi giorni, da tali due Paesi); la decisione danese di ripristino di controlli di frontiera sui propri confini che danno sulla Germania e la Svezia; la cosiddetta “primavera araba”, che ha prodotto una nuova ondata migratoria dai Pae-si della sponda sud del Mediterraneo verso quelli della sponda nord, ponendo per questi non solo gravi problemi di ordine pubblico, quanto anche ponendoli in perniciose e note polemiche con altri Stati membri dell’Unione Europea (come quelle avutesi fra Italia e Francia dopo la scelta di quest’ultima di attua-

re una politica di respingimenti verso la prima di quegli immigrati tunisini che, giunti in Ita-lia, cercassero di raggiungerla). Così, l’inizio di questo mese ha registrato la messa in moto di un certo attivismo, da parte della Commissione Europea, in direzione del-la formulazione di una proposta che deman-dasse un ruolo centrale a tale organismo co-munitario per ciò di concernente l’eventuale reintroduzione di forme di controlli di frontie-ra da parte dei Paesi membri aderenti all’area Shengen, attualmente invece di loro esclusiva competenza (da quando l’omonimo Trattato è entrato in vigore nel 2006, temporanee misure di reintroduzione di tali controlli, comunque mai durate più di 30 giorni, sono state attuate 26 volte, e di solito in occasioni di eventi sportivi internazionali e meeting politici di al-to livello quali G-8 etc.). La proposta che poi è stata presentata il 16 settembre prevedeva che i governi nazionali si affidassero a una va-lutazione preliminare della Commissione nei casi in cui prevedibili eventi (quali campionati sportivi o inabilità di Paesi terzi più o meno confinanti con quelli comunitari) li avessero spinti verso la necessità di reintrodurre tempo-raneamente controlli di frontiera. Questa, in caso di valutazione positiva, ne avrebbe tra-sferito la responsabilità di decisione in tal sen-so alla maggioranza qualificata degli Stati membri dell’Unione Europea. La procedura sarebbe stata seguita in maniera quasi simile nel caso di eventi non prevedibili (quali attac-chi terroristici o grandi catastrofi naturali o indotti dall’uomo), senonché, nel quadro di questa ipotesi, il ruolo dell’esecutivo dell’UE e degli altri Paesi membri sarebbe stato limita-to a decidere se prolungare o meno un periodo massimo, riservato allo Stato eventualmente interessato dall’evento, di cinque giorni di au-

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tonoma decisione di rispristino dei controlli in questione. Tali estensioni avrebbero, in parti-colare, potuto conoscere dimensioni pari a non oltre 30 giorni, rinnovabili per un massi-mo di sei mesi consecutivi. L’opposizione tedesca, francese e spagnola ha immediatamente fatto però naufragare (alme-no per il momento) la proposta, della quale sono nondimeno state mostrate posizioni pos-sibiliste in relazione a un altro punto in essa contenuto (formulato con tutta probabilità te-nendo da conto il caso greco, e, forse, anche italiano), e cioè la possibilità di sospendere uno Stato membro dall’area Shengen qualora questo si dimostri inefficacie alla gestione dei suoi confini con Paesi terzi. In questo senso, era anche previsto che la Commissione avreb-be potuto disporre di controlli a sorpresa, at-tuati da funzionari della FRONTEX, sui Paesi riconducibili all’area Schengen al fine di mo-nitorare le modalità di gestione dei rispettivi confini. Non è molto difficile dire chi ci avrebbe perso nel caso la proposta in questione fosse passa-ta: un po’ tutti i Paesi membri dell’Unione Eu-ropea, che avrebbero visto un’accrescersi non indifferente della farraginosità (si pensi a qua-li giochetti di voti incrociati e/o di favore e/o di scambio potrebbero attivarsi ora per questo, ora per quel Paese, nella ricerca delle maggio-ranze qualificate ora per questa estensione, ora per quell’approvazione, di ripristino dei controlli di frontiera) come anche una diminu-zione della discrezionalità con la quale ristabi-lire le proprie sacrosante sovranità territoriali. Allo stesso modo non è difficile immaginare chi ci perderebbe nel caso il secondo termine della proposta (quello relativo alla sospensio-ne dall’area Shengen dell’eventuale Stato inefficiente nella sua gestione dei confini con ambiti esterni all’UE) venisse in futuro ripe-scato (cosa possibile, dal momento che ha ri-scosso un’accoglienza decisamente più possi-bilista): gli Stati confinanti con i Paesi terzi, fra cui l’Italia, esposti ciclicamente con emer-

genze migratorie accolte di solito con somma indifferenza dalla cosiddetta “famiglia comu-nitaria”, che, nel caso della Grecia, tramite la FRONTEX si è limitata a mandare, per soli quattro mesi, nemmeno un totale di 200 fun-zionari a concorrere nella gestione di una pro-blematica di ben maggiore magnitudo, e che, nel caso di Lampedusa si è tradotta in un im-pegno ancora più modesto. Si può difatti im-maginare quale atteggiamento semi-punitivo la “famiglia comunitaria” sarebbe ben lieta di attuare nei confronti dei “seccanti” Paesi dell’area sud dell’Unione Europea, addirittura arrivando a potenzialmente aggiungere formu-le di sospensione delle loro prerogative di ap-partenenza al Trattato di Schengen al già scar-so atteggiamento realmente solidale da essa mostrato in lustri, oramai, di crisi migratorie. Più impegnata in questi giochetti da scaricaba-rile, l’Europa tutta intanto continua a colle-zionare un insuccesso di immagine dietro l’altro rispetto a quella società civile transna-zionale con la quale ama ammantarsi di porta-re avanti rapporti privilegiati e votati alla openness, alla inclusiveness e a tutti quegli anglismi tanto cari alla militanza filo-brussellese. Così, non si può mancare di far risaltare come il responsabile della divisione europea di Am-nesty International Nicolas Beger abbia, il 19 settembre, ufficialmente puntato il dito contro l’Unione Europea per le condizioni in cui si troverebbero circa 5000 rifugiati africani alle frontiere libiche sia con l’Egitto che con la Tunisia, in quanto le uniche proposte di aiuto nei loro riguardi sarebbe provenuta da Paesi quali Canada, Australia e Stati Uniti, senz’altro sia geograficamente che operativa-mente meno coinvolti rispetto ai Paesi europei (dei quali soltanto otto avrebbero formulato comunque assai più modeste proposte rispetto a quelli appena citati) nell’attuale situazione libica. Dal canto suo, invece, la nota organizzazione non governativa Human Rights Watch ha rila-

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sciato un paio di giorni dopo un rapporto nel quale a essere messa sotto accusa è diretta-mente la FRONTEX, in quanto si sarebbe resa complice, con le forze dell’ordine greche, di forme di trattamento disumano e degradante, che non di rado verrebbero riservate agli im-migrati clandestini bloccati al confine con la Turchia e riuniti nelle versioni locali dei nostri

centri di accoglienza temporanea (per quanto, a dire la verità, si tratta di considerazioni piut-tosto ingiuste, dal momento che sono sola-mente le autorità greche a essere responsabili di questi centri, e non certo la FRONTEX, senza contare che la Commissione Europea ha più volte attivamente richiamato e invitato Atene in direzione di un loro miglioramento).

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Cina

Nunziante Mastrolia Eventi ►Pechino ha chiesto alle imprese indiane di non prender parte a progetti di sfruttamento delle risorse sottomarine nel Mar cinese meridionale. Una richiesta espressa a seguito dell'invito fatto da parte vietnamita alla ONGC Videsh Ltd, la seconda impresa petrolifera dell'India. ►Gli Stati Unti non venderanno a Taiwan i 66 F-16 C/D richiesti, ma si limiteranno a fornire un upgrade per i 145 F-16 A/B già in dotazione alle Forze Armate taiwanesi dal 1992. Il costo delle forniture, che includono anche missili aria-aria e radar di ultima generazione, è di 5,8 miliardi di dollari. Pechino ha condannato fermamente la decisione presa da Washington, appellandosi, nello specifico, al Secondo Comunicato Congiunto USA-Cina del 17 agosto del 1982, con il quale gli Stati Uniti si impegnavano ad una riduzione progressiva delle forniture militari a Taipei. Tuttavia la maggior parte degli analisti sono concordi nel ritenere che la reazione cinese non andrà oltre le proteste verbali, come nel 2010 quando si arrivò alla rottura delle relazioni military-to-military. I media cinesi al contrario chiedono una forte ritorsione. ►Lo scorso 15 settembre è emerso con chiarezza un nuovo elemento sulla questione Terre Rare: l'attuale contrazione nell'offerta di Terre Rare è un trend irreversibile, ha detto Li Zhong, vice presidente della Inner Mongolia Baotou Steel Rare-Earth Hi-Tech Holding Co. La Cina, ha aggiunto, non è più disposta ad essere il principale fornitore mondiale di Terre Rare, queste in futuro saranno riservate principalmente a soddisfare la domanda interna.

IL CANTIERE DELLE RIFORME POLITICHE

Il cantiere delle riforme politiche in Cina è ormai aperto. Non è solo il fenomeno dei can-didati indipendenti, che, senza l'avello del par-tito, in numero crescente partecipano alle ele-zioni a livello locale, che bussano ad ogni por-ta per chiedere un voto, o stampano magliette e distribuiscono gadget, pur tra arresti e fermi

della polizia. E non è solo il fenomeno di una democrazia informatica che sui social media, controlla la politica, si indigna e lancia cam-pagne di mobilitazione, per ora solo virtuali. E' il partito stesso che inizia a prendere co-scienza delle necessità di cambiare. La linea ufficiale è quella di evitare l'Occidente: la

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Cina, si sostiene, “should accelerate the pace of reform according to its own needs and pre-vent the West from making the country deviate from this path”. Di qui nascono le sperimenta-zioni in atto. Sul ChinaDaily Ye Xiaowen, presidente dell'Istituto Centrale di Socialismo, scrive: “As the sole ruling party in China, the Communist Party of China (CPC) must listen attentively to the people's complaints. (…) The Party should always respond to people's de-mands. The Party should always consider people's concerns. And the Party should al-ways be able to solve people's problems. (…) Only when the people's rights to speak are re-ally protected, can the national wealth distri-bution be adjusted to maintain a balance of interests and long term social stability”, per questo, conclude l'articolo “micro blogs are the voice of the people”! Un fenomeno a cui il partito deve riservare la massima attenzione, continua Ye, dato che “when similar opinions of hundreds of millions of people flock togeth-er, a message comprising 140 words can shake the foundation of governance”. Il partito dunque deve ascoltare la voce del Paese. Già a luglio era stato condotto un son-daggio in rete circa l'innalzamento del tetto per l'esenzione fiscale totale per i redditi più bassi e il venti settembre si è concluso un sondaggio addirittura in materia di normativa bancaria. Tuttavia non ci si ferma al virtuale: il cinque settembre il ministero degli Affari Civili ha attivato decine di migliaia di com-munity workers in tutto il paese, per “ascolta-re” i bisogni, le lagnanze ed i suggerimenti delle persone e di preparare dei dossier ad hoc per comprendere i problemi dei più deboli. Al-tro strumento è quello della “audizioni”, in-contri tra cittadini e funzionari del governo locale, dove le persone possono, in teoria, esprimere liberamente la propria opinione e presentare delle lagnanze o dei suggerimenti sul tema scelto per il dibattito. Il punto è che questi incontri non sembrano funzionare: o vanno deserti o i convenuti si rifiutano di prendere la parola. Il Global Times la defini-

sce “apatia pubblica”. Eppure più schietta-mente un altro articolo dello stesso giornale spiega che le persone semplicemente non si fidano di parlare liberamente davanti a fun-zionari del governo locale. Ma è un atteggia-mento sbagliato – continua l'articolo – infatti “officials can still represent public despite their job”! Nella provincia di Wuxi, invece, si sta speri-mentando un altro metodo: i cittadini eleggo-no dei loro rappresentati, che diventano così membri di una associazione, denominata Le-he, una crasi delle parole felicità e armonia. Tale associazione, poi, si affianca al governo ufficiale ed ha la funzione di esprimere il pun-to di vista popolare. Il progetto pilota è attivo già in 27 comuni e dovrebbe essere attivato a breve in altri ottanta. E' chiaro che il Palazzo sente la necessità di comprendere meglio il paese reale. Un paese reale dal quale, probabilmente, le autorità del partito hanno compreso di essere troppo di-stanti. Avranno successo tali sperimentazioni? E' difficile dirlo. Ciò che pare evidente tutta-via è l'impossibilità ontologia per il partito di adottare quello che si è rivelato lo strumento più efficace (e forse anche il più efficiente) per la gestione della cosa pubblica e cioè la liberal democrazia in senso occidentale. Nel caso specifico libere elezioni per liberi candi-dati. Scegliere questa strada significherebbe per le autorità del partito un suicidio politico, poiché implicherebbe la perdita del ruolo di egemonia assoluta del PCC. E' per questo che il partito è costretto ad inventarsi nuove vie - quasi dei surrogati - per ascoltare gli umori collettivi e per ricercare suggerimenti e propo-ste. Nuove prassi macchinose, complesse, di cui pare lecito dubitare sia l'efficacia che l'ef-ficienza. Il ritorno di Wen Per qualche tempo è sembrato che il premier Wen Jiabao fosse stato messo in ombra. I suoi slanci riformisti non venivano riportati dai media in lingua cinese. Nel contempo anche

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l'affetto delle persone per “nonno Wen” - co-me è soprannominato – per quella sua sempre attenta sollecitudine a correre sul luogo di di-sastri, ai capezzali dei feriti, per ascoltare, consolare, rincuorare, sembrava stesse sce-mando. La blogosfera anzi lo accusava di aver mentito: erano passati sei lunghi giorni prima che il premier si recasse in visita ai feriti del terribile incidente ferroviario di Wenzhou; “sono stato poco bene”, si era scusato allora Wen. Ma i netziten cinesi erano stati lesti a diffondere immediatamente le immagini che ritraevano il premier, in apparente buona salu-te, al settimo forum Cina-Giappone. Ora Wen è tornato e a Dalian, dove si è tenuto l'appuntamento estivo del Forum di Davos, ha con estrema franchezza parlato dei problemi del Paese ed ha perorato, di nuovo, e con più forza la necessità di dare avvio ad una riforma politica del Paese. Riforme che dovranno ave-re – nello specifico – cinque obiettivi: 1) ga-rantire lo stato di diritto in Cina: il che signifi-ca il “governo della legge” che si contrappone all'arbitrio del potere, non più legibus solutus; non solo, a tale proposito ha aggiunto che è necessario scorporare il partito dallo Stato “and problems of absolute power and over-concentration of power should be redressed”: il che significa separazione dei poteri; 2) pro-muovere il benessere e la giustizia sociale: il che significa la costruzione di un welfare state di tipo europeo e processi di redistribuzione della ricchezza ma soprattutto il riconosci-mento di diritti sociali che fanno capo a tutti i cittadini; 3) garantire l'indipendenza e l'auto-nomia del potere giudiziario: il che significa svincolarlo dal controllo del potere esecutivo e da qualsiasi altra ingerenza esterna; 4) ga-rantire i diritti democratici dei cittadini e cioè dare applicazione concreta ai diritti previsti dalla Costituzione cinese: il che significa il diritto di scegliere i propri rappresentanti poli-tici ed il diritto per tutti a candidarsi a gestire in prima persona il potere politico, nonché il diritto di controllare e sanzionare il potere: “We should believe that if the people can ma-

nage village affairs well, they can also mana-ge those of a town and even a county” e forse, pare lasciar intravedere Wen, un domani l'inte-ro Paese; il che poi significa anche che impli-citamente Wen si schiera a favore dei candida-ti indipendenti che continuano a presentarsi alle elezioni a livello locale in tutta la Cina; 5) la lotta alla corruzione. Alcuni segnali La sera del 6 settembre una coppia di coniugi è alla guida di un Buick quando all'improvvi-so rallenta, per svoltare in un complesso resi-denziale nel distretto di Haidian. La cosa fa infuriare un giovane alla guida di una BMW che sopraggiunge. Scoppia un alterco. Alla di-sputa si aggiunge un altro giovane che arriva a bordo di un'Audi di grossa cilindrata. La cosa degenera e i due iniziano a picchiare violen-temente la coppia. Finché qualcuno, nonostan-te le intimidazioni dei due giovani, si decide a chiamare la polizia. In sé, nulla di straordina-rio. Ma il giovane alla guida della BMW ha solo quindici anni, non ha la patente e l'auto, con un allestimento da corsa, non ha targa. Non solo, ma si scopre che il giovane è Li Tianyi, figlio di Li Shuangjiang, un maggior generale dell'Esercito di Liberazione Popola-re, noto al grande pubblico, in quanto è uno dei più famosi tenori con le stellette del Paese. Il giorno seguente il generale Li si reca in ospedale a fare visita e a porgere le sue scuse ai due mal capitati, che decidono di non spor-gere denuncia. Tutto pare risolversi per il meglio, ma nel frat-tempo un moto di indignazione si è diffuso su Sina Weibo, il twitter cinese, nei confronti dell'arroganza di questi giovani figli di gente che conta e del loro delirio di onnipotenza ed impunità. Lo sdegno arriva sino nelle redazio-ni delle testate ufficiali del partito. Già troppe volte figli di uomini ricchi e potenti con il de-naro si sono comprati l'impunità per i propri reati, denunciava il Global Times il 12 set-tembre. Qualche giorno dopo un editoriale sullo stesso giornale lanciava l'allarme facen-

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do notare come da queste scintille di ingiusti-zia può divampare un incendio. E così altri articoli nei giorni successivi chiedevano una punizione severa per il giovane, diversamente da quanto accaduto in passato. Infine la sen-tenza: per Li Tianyi un anno di riformatorio. Ma i casi di sopruso non si fermano qui. Quel-li più gravi riguardano gli espropri forzosi di terreni e le demolizioni fulminee di case o in-teri paesi, come sta avvenendo nella contea di Shenmu, dove le autorità locali, senza nessuna autorizzazione da parte dei superiori, dal 2008 hanno iniziato a confiscare terre ed abbattere case per la costruzione di una new-town. Gli sfollati hanno vissuto per tre anni in dei pre-fabbricati, ma ora anche questi dovranno esse-re demoliti per far spazio alla nuova città, per questo le autorità locali stanno imponendo a più di 200 cittadini di trovare rifugio in alcune cave nelle vicinanze. Già in un precedente numero dell'Osservatorio si era fatto menzione di una nuova normativa per la regolamentazione delle demolizioni e degli sfratti: l'obiettivo è quello di fare in mo-do che avvengano nella maniera meno trau-matica e più umana possibile. In passato sono stati numerosi i casi di suicidio o di persone che si sono lasciate seppellire vive dalle ma-cerie delle loro case al momento della demoli-zione. Il nuovo principio è quello che prima di dare il via libera alle ruspe sia doveroso preoccuparsi di trovare una nuova sistemazio-ne ai vecchi inquilini. Se ciò non avviene le pene sono severe, come accaduto a 44 funzio-nari affidati “alla disciplina del partito” perché ritenuti responsabili di aver proceduto in ma-niera brutale a delle demolizioni che hanno causato la morte di alcuni cittadini. C'è un ulteriore elemento da riportare e ri-guarda il fatto che anche in Cina cresce un moto di indignazione per i costi della politica e le spese, a volte eccessive, dei funzionari. Recentemente particolare scalpore ha destato il caso di un gruppo di ispettori, funzionari del partito comunista della provincia di Hebei, in-viati nella contea di Zigui, tra le più povere

del Paese, per condurre un'indagine sulle con-dizioni sociali della popolazione locale, ma nel mentre i nove ispettori sono riusciti a spendere 800mila yuan (più di 125mila dolla-ri) in venti giorni. Se si considera che il gua-dagno medio di un contadino in quella contea è di 3.497 yuan l'anno, gli ispettori hanno spe-so quanto in un anno guadagnano 230 conta-dini. Il Global Times, mette in particolare ri-salto la cosa e soprattutto pubblica le singole voci di spesa, mettendo l'accento sui 90mila yuan spesi per i pasti, i 150mila per i vini e i 110mila di regali per amici e familiari. Lo “scandalo”, come lo definisce il Global Times, in sé è poca cosa viste le cifre, eppure il dato rilevante è che tali fatti vengano denunciati e dibattuti sulle colonne di un organo di stampa ufficiale del partito. E quanto Lü Qinghai, sindaco della città di Luohe nella provincia dell'Henan, che pure era considerato un politi-co dalle mani pulite, viene arrestato per corru-zione dopo che è stato in carica per soli 49 giorni, è ancora il Global Times a chiedersi: “Did the whole process of nomination, inve-stigation, discussion and even the final vote really work?” e poi “Can we say that “most officials are honest” confidently and forcefully any more?” Cresce la volontà da parte dei cittadini di sa-pere come vengono spesi i soldi pubblici. A tale proposito si segnala il caso della prefettu-ra di Shaoxing, nella provincia di Zhejiang, che ha deciso di mettere online i bilanci di 2.187 comuni che ricadono nella sua area di competenza. Nel contempo si chiede sempre più trasparenza alle stanze della politica: agli inizi del mese di settembre uno studente della prestigiosa università Tsinghua ha fatto causa a quattro ministeri, colpevoli, a suo dire, di non aver rilasciato informazioni sui vice-ministeri; informazioni per lui necessarie per scrivere un saggio sui loro compiti e sul loro operato. Il tribunale competente, tuttavia, al momento si è riservato se accettare o meno il ricorso. E' chiaro dunque che il partito si è reso conto

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che qualcosa deve cambiare nel rapporto tra il potere e la società civile. Esistono ovviamente fortissime divergenze al suo interno se sia ne-cessaria un riforma politica in senso occiden-tale (la quinta modernizzazione) o meno. Il dato di fatto tuttavia è la presa di consapevo-lezza che sia necessario comunque procedere a delle riforme che colmino la distanza tra le stanze del potere e i cittadini. Il monito di Tocqueville Tutti questi elementi, di per sé, forse, poco si-gnificativi, acquistano una maggiore rilevanza se interpretati alla luce di una riflessione che Alexis de Tocqueville fa in L'Antico Regime e la rivoluzione. L'avvio di un processo di ri-forme, fosse anche di piccoli cambiamenti, come quelli riportati in precedenza è un pas-saggio assai delicato e pericoloso. La necessi-tà di far fronte alla crisi economica e di curare le ferite sociali di trent'anni di sviluppo eco-nomico sta portando il partito a riconoscere i diritti sociali dei propri cittadini: il diritto alla salute, all'istruzione, ad un ambiente non di-speratamente inquinato, ad una pensione e a forme di assistenza sociale. Sta in altre parole, riconoscendo dei diritti che sono propri della società civile. Al contempo si sta avviando un nuovo processo: il potere politico per non es-sere percepito come dispotico, è costretto ad auto imporsi dei limiti, a frenare i soprusi, e bloccare le ingiustizie, a riformarsi. Il punto non è tanto che implicitamente nel momento in cui si sostiene la necessità di riformare il sistema, come fa Wen Jiabao, si riconosce che c'è del marcio. C'è qualcosa di più profondo. Nell'antico regime, le vessazioni, le ingiusti-zie, i soprusi del potere, vengono accettati dai cittadini in quanto rientrano nell'ordine natu-rale delle cose, vengono vissuti come fatti na-turali e normali. Ma nel momento in cui le stesse autorità definiscono tali atti come in-giustizie, si verifica una vera e propria rivolu-zione copernicana delle percezioni delle per-sone :“adesso si può dire a voce alta quello che prima poteva essere soltanto pensato. Le

lingue degli oppressi sono sciolte, le teste al-zate. Capiscono di non essere soli, che altri – alcuni dei quali al potere – la pensavano come loro. Le loro speranze vengono incoraggiate, il cambiamento è possibile, s'intravede la pos-sibilità di un nuovo mondo. Diventano impa-zienti. I cambiamenti devono arrivare subito, senza indugi. Qualcuno chiede l'impossibile, qualcun altro si rivolta con una rabbia e una furia inaspettate contro il regime che aveva appena intrapreso il processo di riforma”. Co-sì “una piccola crepa nella diga fa crollare la struttura ancora in fase di riparazione”. Per-tanto il momento peggiore per il governo di una società chiusa “è in genere quello in cui esso comincia a riformarsi. Il male che si tol-lerava pazientemente come inevitabile diventa insopportabile dal momento in cui si concepi-sce l'idea di liberarsene”. E' questo quello che è successo all'Unione So-vietica di Gorbaciov con l'avvio della Gla-snost: nel momento in cui un regime autorita-rio cerca di darsi un volto umano, è costretto a riconoscere di aver avuto sino ad allora un volto mostruoso. Allora non solo non verran-no più tollerate le ingiustizie e i soprusi, non solo si inizieranno a chiedere sempre più dirit-ti e soprattutto il diritto di avere voce e di po-ter prender parte nella gestione del potere, ma tutti i soprusi sino ad allora accettati con ras-segnazione appariranno come pure vessazioni. Ci si rende conto di essere stati vittime, di aver subito un danno e si inizia a chiedere giustizia per quanto sino ad allora si è patito. Quando tale meccanismo si innesta significa che nell'eterna lotta tra potere e società civile quest'ultima ha iniziato a suonare la carica. Ha iniziato cioè ad assediare la cittadella del po-tere. I fatti riportati in precedenza stanno, proba-bilmente, a significare che tale processo si sta innescando anche in Cina. E' vero la Cina di oggi non è l'Unione Sovietica. Sono trent'anni che Pechino ha dato avvio a quelle riforme economiche che hanno cambiato il volto del paese. Tuttavia sino ad oggi la sfera della poli-

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tica non era stata mai scalfita. Il potere non si era mai messo in discussione. Le campagne anti-corruzione che a più riprese vengono lan-ciate dai vertici del partito, non fanno ecce-zione. Spesso infatti si tratta semplicemente di espedienti per eliminare nemici politici nella costante lotta tra le fazioni all'interno del par-tito. Oggi le cose appaiono diverse. E' il partito stesso – o una sua parte – che si mette in di-scussione e che sente che qualcosa deve cam-biare. Un futuro incerto Si badi che l'avvio delle riforme politiche è una strada obbligata, una necessità e quanto più si ritarda ad abbracciare gli istituti e le prassi delle liberal democrazie occidentali tan-to più il Paese rischia di entrare in una fase di turbolenze e di difficoltà. Con le riforme economiche degli anni Ottanta, Deng Xiaoping ha innestato all'interno della Cina, un pezzo di Occidente, il mercato, con la convinzione che questo potesse lavorare ad arricchire e rendere potente la Cina, senza in-taccarne la sfera politica, ma anzi contribuen-do a rafforzare il prestigio e la legittimazione del partito. L'errore commesso da Deng non è solo quello di non aver compreso che il mer-cato è esso stesso una categoria politica, in quanto coacervo di diritti, ma soprattutto di non aver compreso che “ogni struttura cultura-le storica è un tutto organico delle parti inter-dipendenti”, se si innesta un pezzo della cultu-ra occidentale – e cioè di una società aperta – all'interno di una società chiusa si dà avvio ad

un processo di trasfusione che si fermerà quando tutti gli altri elementi saranno stati impiantati all'interno della Cina. E questo per-ché, scrive Toynbee, “solo così la società oc-cidentale può funzionare perfettamente”. Det-to in altre parole il mercato non può funziona-re senza la democrazia. Se così stanno le cose, quale futuro attende la Cina? I percorsi evolutivi possono essere sva-riati. Tuttavia al momento se ne intravedono tre: una “via spagnola”: la transizione “dolce” dal franchismo alla democrazia; una “via so-vietica”: il processo di riforme sfugge dalla mani dei riformisti e si apre una fase di torbi-di; una “via maoista” e cioè una reazione dura nei confronti di ogni apertura, l'annullamento di ogni riforma e la chiusura totale del paese; il che comporterebbe inevitabilmente, il col-lasso economico. Il dato certo è che il Paese sta per entrare in una fase estremamente delicata della propria storia, a cento anni esatti dalla rivoluzione “borghese” di Sun Yat sen. Una rivoluzione che, se la si legge alla luce delle parole di Tocqueville, fu l'ultimo atto di quel processo riformista, iniziato a seguito della sconfitta cinese nella prima Guerra dell'Oppio, che fu il movimento dell'autorafforzamento. Allora si tentò di acquisire le tecniche occidentali, per ottenere le vele e i cannoni per poter ricaccia-re in mare le potenze occupanti, il risultato fu la fine dell'Impero, l'avvento della Repubblica e l'inizio di un periodo torbido che condurrà poi alla reazione di Mao. La storia è fatta an-che di ricorsi, c'è da sperare che il futuro non riservi alla Cina un déjà-vu.

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India

Claudia Astarita Eventi ►Bilancio negativo per la presidenza mensile indiana del Consiglio di Sicurezza delle Nazio-ni Unite. New Delhi si è ritrovata a ricoprire questa carica, dopo diciotto anni di assenza, in un mese, agosto 2011, in cui il Consiglio è in genere poco attivo. L’India ha cercato (a parole) di sfruttare l’occasione per dimostrare quanto il paese meriti di diventare un membro permanente della struttura, ma non ha ottenuto grandi risultati. Questo perché relativamente alle due più grandi questioni affrontate, crisi siriana e libica, nel primo caso ha cercato di sostenere, pur senza esagerare, una linea alternativa a quella dei membri permanenti del Consiglio. La secon-da questione, invece, è stata affrontata in maniera marginale in un dibattito sul peacekeeping in cui, però, ha deciso di mantenere un basso profilo e non parlare di temi ben più delicati come la qualità della leadership delle missioni, delle truppe, e l’interpretazione ambigua del mandato di alcune operazioni. ►Il 24 settembre l’India ha effettuato un lancio sperimentale di un missile supersonico terra-terra Prithvi-II da una base militare nello Stato nord orientale dell'Orissa. Il giorno successi-vo è stato invece testato per la terza volta il razzo di fabbricazione indiana Shaurya (che in san-scrito significa coraggio), capace di trasportare una testata nucleare e dalla gittata di 750 chi-lometri (Prithvi-II raggiunge al massimo i 350 chilometri di distanza). Il missile, che può essere utilizzato anche da un sommergibile, sarà messo a disposizione della Marina Militare. Entram-bi i test sono stati inseriti nel programma con cui il paese cerca di disincentivare un eventuale attacco nucleare da parte di Cina o Pakistan, dimostrando ai paesi vicini di essere seriamente intenzionata a migliorare la propria capacità atomica. ►Le ripercussioni della campagna anti-corruzione di Anna Hazare hanno superato i confini dell’India. Delle conseguenze dell’iniziativa dell’attivista sulla legittimità delle istituzioni in-diane si è già parlato nel mese di agosto. Oggi è interessante osservare come la protesta di Hazare abbia alimentato un acceso dibattito in Pakistan sull’opportunità di poter contare su figure altrettanto carismatiche capaci di porre un freno agli scandali che affliggono anche la realtà pakistana. Indipendentemente dal fatto che esista oggi in Pakistan una fetta della società convinta che la nazione debba trovare al più presto il proprio Hazare, vale a dire una persona capace di mobi-litare le masse aiutandole a combattere contro corruzione, ingiustizia, povertà e disoccupazio-ne, e un’altra fetta che, più scettica, inquadra il movimento come “propaganda mediatica” e teme la “destabilizzazione istituzionale” da esso provocata, l’elemento più significativo è vede-

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re il nemico storico dell’India individuare una vicenda del Subcontinente come un possibile modello da imitare. Immaginando che l’Hazare pakistano diventerà poi il leader della versione asiatica della primavera araba, idealmente molto più pragmatica ed efficace. ►L’Indian Air Force (IAF) ha deciso di spendere venticinque miliardi di dollari in un piano di ammodernamento della Forza Armata. La spesa pianificata dalla IAF ha altresì riaperto il dibattito sulla necessità/opportunità di aumentare la quota di capitale estero (oggi pari al 26%) che può essere investita in progetti facenti capo al settore della difesa. Dal 2001 a oggi questa politica ha ottenuto risultati molto limitati. New Delhi non è riuscita ad attirare capitali per più di 0,15 milioni di dollari, né è riuscita a ottenere importanti trasferimenti di know how e tecno-logie sofisticate. Questo perché una partecipazione limitata al 26% non incentiva i partner stranieri a includere l’India tra i paesi dove è conveniente investire. Molti industriali sono con-vinti che anche una percentuale del 49% non sarebbe sufficiente a invertire questo trend, e sug-geriscono di puntare a un valore compreso tra il 75 e il 100%. Tuttavia, nonostante i vantaggi che l’apertura agli investimenti esteri nel settore della difesa associata a un trasferimento signi-ficativo di tecnologie sofisticate potrebbero comportare, il governo pare non essere ancora pronto a muovere qualche passo in questa direzione. ►I passi avanti della Cina nella costruzione di una centrale solare orbitale preoccupano l’India. Nel corso del quarto summit cinese su Energia e Ambiente, Pechino ha fatto sapere che la sua centrale solare nello spazio potrà essere sfruttata a fini commerciali entro il 2040. Non solo, in questa occasione la Cina avrebbe anche dichiarato che il prossimo leader mondiale sa-rà “il paese che riuscirà a sviluppare prima degli altri fonti di energia pulite e rinnovabili e che prenderà il sopravvento nella conquista dello spazio e dell’industria aeronautica”. Per quanto per problemi di arretratezza nella ricerca scientifica e nell’applicazione dei risultati della stes-sa il giorno in cui la Cina riuscirà a trasformarsi nell’indiscusso leader mondiale sia ancora lontano, dichiarazioni di questo tipo alimentano sempre scambi di opinioni molto accesi nel Subcontinente. New Delhi, infatti, si ritrova ogni volta a dibattere l’opportunità di mantenere la sua posizione storica: avvicinarsi agli Stati Uniti e, ultimamente, anche al Giappone per con-trobilanciare la Cina, ma anche per costruire per prima una centrale solare orbitale e risolvere definitivamente il problema dell’approvvigionamento energetico, oppure puntare sulla “colla-borazione asiatica”. Tuttavia, a meno che i rapporti di forza all’interno della regione non cam-bino improvvisamente, seguendo questa linea New Delhi è destinata a rimanere una potenza di secondo livello. E la prospettiva di vedere Pechino diventare sempre più forte grazie allo sfrut-tamento energetico dello spazio potrebbe finalmente portare New Delhi e Washington a fare in modo che la cooperazione per la costruzione di una centrale orbitale porti al raggiungimento di qualche risultato concreto. ►New Delhi ha affermato che “mezzo dollaro, l’equivalente di venticinque rupie, è sufficien-te per vivere e provvedere sia alle spese alimentari e sanitarie di una persona sia alla sua istruzione”. Nelle città, invece, è sufficiente guadagnare trentadue rupie per non essere più considerati poveri. La scelta del governo indiano di abbassare il livello della linea di povertà comporta una significativa riduzione del numero dei poveri -oggi stimato all’80% della popola-zione- che, di conseguenza, riduce drasticamente il peso dei sussidi destinati agli indigenti sulle finanze traballanti dello stato. Una decisione così impopolare sia sul piano interno sia su quello internazionale può essere giustificata solo dal riconoscimento da parte dell’esecutivo di diffi-coltà politiche ed economiche che il paese sembra essere incapace di affrontare

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INDIA: L’ATTENTATO A NEW DELHI CONFERMA LE DIFFICOLTÀ DEL GOVERNO IN CARICA

Il 7 settembre una bomba è esplosa fuori dall’Alta Corte di Giustizia a Nuova Delhi, togliendo la vita a una decina di persone, fe-rendone altre settanta, e riportando all’ordine del giorno la questione della vulnerabilità in-diana agli attacchi terroristici. Inoltre, il fatto che l’esplosione sia avvenuta all’interno di un edificio in cui si stavano svolgendo processi anti-terrorismo porta a considerare l’attentato come un attacco a scopo intimidatorio. In generale, va ricordato che da qualche tem-po le due principali metropoli indiane, New Delhi e Mumbai, hanno ricominciato a vivere nel terrore. E mentre la lista degli attentati messi a segno in India si allunga, è opportuno riflettere sulle cause di questi episodi di vio-lenza. Per ricordarne solo alcuni, nella capitale si può fare riferimento alle tre bombe esplose simultaneamente il 29 ottobre 2005 in tre mercati molto affollati, in cui rimasero uccise 62 persone e i feriti furono 210; alle due esplosioni alla moschea di Jama Masjid del 14 aprile 2006, che ferirono almeno 14 persone, o alle cinque bombe esplose nell’area dello shopping di Delhi a pochi minuti l’una dall’altra, il 13 settembre 2008, uccidendo 25 persone e ferendone un centinaio. Sempre nel 2008, ma a novembre, in un altro attentato mortale messo a segno a Mumbai hanno perso la vita 160 persone, e solo a luglio scorso nel-la capitale del commercio del Subcontinente tre esplosioni in tre diversi punti della città hanno provocato ventisei vittime e un centi-naio di feriti. L’attentato all’Alta Corte di Giustizia della capitale pare essere stato rivendicato dal gruppo militante Harkat-ul-Jihad Islami

(Huji), legato ad al Qaeda e con basi in Paki-stan e Bangladesh. L’attribuzione sarebbe sta-ta legata al fatto che le due email inviate ai media per ribadire la responsabilità degli Huji nell’attentato siano partite da un internet cafè del distretto Kishtwar del Kashmir indiano. Confermando la recente denuncia da parte del Primo Ministro Manmohan Singh della ripre-sa delle attività di gruppi terroristici al confine con il Kashmir pakistano. Tuttavia, forze di sicurezza nel Kashmir indiano, che hanno pre-ferito rimanere anonime, hanno sollevato dubbi sulla rivendicazione perché il gruppo militante non sarebbe più attivo nella regione da tempo. Ancora, le autorità non hanno na-scosto di voler seguire anche la pista dei mu-jahideen indiani, un gruppo militante di matri-ce islamica già responsabile in passato di nu-merosi attentati, tra cui quello che nel settem-bre del 2008 ha colpito il cuore commerciale di New Delhi. A questo proposito, è significa-tivo ricordare che a dieci giorni dall’attentato gli Stati Uniti hanno deciso di classificare il movimento dei mujahideen indiani come un’organizzazione terroristica, una scelta che New Delhi ha appoggiato con grande soddi-sfazione. Riaprendo il dibattito sulla capacità del go-verno di rispondere alla minaccia terroristica, l’attentato di New Delhi dimostra per l’ennesima volta la debolezza dell’attuale ese-cutivo e la sua scarsa capacità operativa. Nel caso specifico, va ricordato che diversi mesi fa l’Alta Corte di Giustizia era stata segnalata come obiettivo a rischio, e la richiesta di in-stallare telecamere per sorvegliare le entrate dell’edificio con l’ausilio delle forze dell’ordine è rimasta inascoltata per settimane.

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Uno scandalo, se si considera che a maggio scorso un attentato nel corso del quale il mate-riale esplosivo non ha detonato aveva già creato il panico nella struttura. L’opinione pubblica non perde occasione per sottolineare quanto New Delhi non possa permettersi di continuare a trascurare una mi-naccia così forte che andrebbe invece contra-stata con pragmatismo e determinazione. Il ministro degli interni Palaniappan Chidamba-ram, ad esempio, si è limitato a esprimere le proprie condoglianze alle vittime e ribadire che New Delhi sta facendo “del suo meglio” per contrastare il terrorismo, ma nel corso del suo mandato non ha ancora trovato il tempo per occuparsi dell’insufficienza cronica di personale tra le forze dell’ordine e di difesa, che avrebbero bisogno di essere affiancate da altre 700.000 unità per poter garantire una presenza sul campo costante. Anche la qualità e il livello delle forze di intelligence indiana non sono così all’avanguardia, visto che fino ad oggi nessun dei casi di esplosioni è stato risolto. Alcuni analisti ritengono che l’India dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di poten-ziare il sistema di sicurezza interno, che rap-presenta “un’infrastruttura fondamentale per garantire lo sviluppo del paese”. Se fosse pos-sibile assumere 700.000 nuovi agenti capaci di fare proprie tecniche di investigazione più moderne ed efficaci, magari puntando sulla collaborazione con paesi le cui strutture di in-telligence sono più avanzate di quelle del sub-continente, l’India potrebbe forse essere in grado di combattere il terrorismo in via pre-ventiva, e non limitarsi a reagire agli attacchi. L’attentato di New Delhi e il conseguente problema della gestione della sicurezza nella capitale e nel paese confermano per l’ennesima volta quanto il governo in carica stia attraversando una fase di crisi profonda. Lo dimostra anche il modo in cui è stato gesti-to il negoziato che ha portato alla firma dell’accordo sul confine di 4.156 chilometri che separa India e Bangladesh. Approfittando

dell’incontro, il Primo Ministro indiano Manmohan Singh e la sua controparte del Bangladesh Sheikh Hasina Wajed hanno cer-cato di migliorare in linea generale i loro rap-porti bilaterali. Ad esempio, New Delhi ha cancellato i dazi doganali per 46 prodotti tes-sili provenienti da Dacca per favorire le im-portazioni, riportando così un po’ di equilibrio sulla bilancia commerciale. Tuttavia, pur es-sendo riusciti a risolvere il problema delle en-claves delle minoranze nei rispettivi paesi, permettendo a 200.000 persone di vedere ri-conosciuta anche da un punto di vista territo-riale la propria cittadinanza (prima dell’ac-cordo vi erano circa 50 villaggi/enclaves in territorio indiano in cui vivevano 50.000 cit-tadini del Bangladesh e 111 realtà indiane con 150.000 residenti al di là del confine), il Pri-mo Ministro indiano non ha avuto la forza po-litica di risolvere i problemi legati alla pro-prietà di ben 54 fiumi che scorrono in entram-bi i paesi. In questo caso, però, l’ostacolo non è stato l’impossibilità di raggiungere un com-promesso con la controparte del Bangladesh, quanto la presa di posizione del Primo Mini-stro del Bengala Occidentale, Mamata Baner-jee, che si è rifiutata di accettare i principi cui si ispirava l’accordo (48% delle acque di pro-prietà del Bangladesh, 52% all’India), con-fermando la difficoltà per il governo di New Delhi di superare l’ostracismo degli stati più forti del Subcontinente. Sono queste alcune delle motivazioni che permettono di sostenere che al suo rientro in India dopo un mese di assenza reso necessario dal bisogno di sottoporsi ad importanti cure mediche, la leader del Partito del Congresso Sonia Gandhi si trova a dover guidare una na-zione che sta attraversando una fase di grandi cambiamenti. Alcuni analisti arrivano a descrivere questo periodo come una “rivoluzione silenziosa” che condizionerà le scelte e il futuro del go-verno in carica molto di più di quanto l’attuale classe dirigente si aspetti. Se fino a qualche settimana fa la rabbia della popolazione sem-

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brava essersi canalizzata soltanto nel movi-mento anti-corruzione guidato da Hanna Aza-re, oggi il malcontento tocca molti più settori, e coinvolge tutte le caste e i gruppi sociali. Alcuni chiedono al governo di occuparsi dello sviluppo, di aiutare i poveri, e non di adottare nuovi provvedimenti che ne riducono artifi-cialmente il numero. Di combattere l’inflazione, di costruire (finalmente) quelle infrastrutture che da decenni vengono indicate come necessarie per garantire una crescita a due cifre simile a quella cinese. New Delhi deve assolutamente riuscire a risolvere quanto meno i casi più clamorosi di corruzione, per-ché solo con un po’ di trasparenza in più sarà possibile destinare le (poche) risorse disponi-bili a progetti sostenibili di sviluppo e indu-strializzazione. L’India vuole ad ogni costo essere considerata una grande potenza e, in quanto tale, fa di tut-

to per contrastare l’ipotetica ascesa egemonica cinese in Asia e nel mondo. Ma non si rende conto che continuando a investire principal-mente in armamenti e ammodernamento delle Forze Armate non sarà comunque in grado in-teragire con Pechino da una posizione di pari-tà. L’India, infatti, trascurando i fondamentali che trainano lo sviluppo economico diventa debole e ricattabile sul piano commerciale, soprattutto dalla Cina, che riesce addirittura a importare dal Subcontinente le materie prime con cui costruisce i semilavorati che poi le ri-vende a prezzi nettamente più alti. Infine, tra-scurando una serie di problematiche sociali e di sicurezza che potrebbero nel medio periodo destabilizzarla sul piano interno, rischia di ri-manere sempre più spesso paralizzata o da proteste popolari, o da attentati terroristici di varia matrice.

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America Latina

Alessandro Politi Eventi ►Il direttore generale dei Carabineros cileni, Eduardo Gordon è stato costretto alle dimissio-ni lo scorso 2 settembre, dopo la morte di un manifestante ucciso a colpi di pistola ed un ten-tativo d'insabbiamento. La situazione del generale è diventata critica dopo che un servizio giornalistico aveva rivelato il favoreggiamento del direttore nei confronti del figlio in un inci-dente con omesso soccorso. L'evento evidenza l'inasprimento dello scontro sociale intorno alla questione dell'istruzione pubblica ed il persistente stallo politico nella trattativa con gli studen-ti. ►Durante la sessione dell'Assemblea generale dell'ONU, lo scorso 22 settembre la presiden-tessa Argentina Cristina Kirchner ha minacciato d'interrompere il collegamenti aerei fra le isole Falkland/Malvine ed il continente, se il Regno Unito non inizia trattative sul futuro delle isole. Il premier britannico David Cameron ha già dichiarato che i negoziati dipendono dall'approvazione degli isolani. In realtà, prima della guerra della Falkland/Malvine, la madre-patria stava esplorando soluzioni per ritirarsi da una presidio costoso e privo di reali vantaggi strategici.

UNA DOTTRINA MONROE SUDAMERICANA?

Il 5 settembre 2011, nell'ambito di una bilate-rale di Difesa tra Argentina e Brasile, è stata formulato a livello politico un concetto di co-munità di sicurezza dell'America del Sud che implica anche una capacità di dissuasione po-litica e militare rispetto a possibili interventi di paesi terzi, oltre che il definitivo accanto-namento dell'uso della forza all'interno del subcontinente americano. In uno scenario d'accresciuta competizione per beni strategici di primaria importanza (cibo, acqua potabile, energia e minerali) e di

possibile frammentazione delle regole della sicurezza internazionale, è stata sottolineata la fragilità militare dei paesi dell'area, che si traduce in una condizione di grave vulnerabi-lità, dove l'essere pacifici può essere percepi-to come essere indifesi. Sotto la spinta di Brasile ed Argentina, unite in un'alleanza strategica, e con l'appoggio del Venezuela, si stanno creando alternative poli-tiche e strategiche alla tradizionale egemonia americana. Vi sono obbiettivi ostacoli geo-strategici, d'interesse nazionale, di rischi da

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affrontare e di risorse militari per arrivare ad una comune identità di difesa, ma i paesi lati-noamericani hanno sinora impiegato tre anni per bruciare traguardi in cui l'Europa ha do-vuto lavorare per un ventennio. Good bye American Hemisphere Che il quadro strategico nel vecchio American Hemisphere della Guerra Fredda fosse cam-biato con la fine di quel conflitto mondiale e con la profonda crisi che stanno attraversando gli Stati Uniti è un fatto evidente sin dal 2004. È chiaro che il mutamento fu preparato nella cosiddetta terza ondata di democratizzazioni mondiali quando, a partire dal 1983, per una serie di motivi, le vecchie dittature militari appoggiate dagli Stati Uniti, cominciarono a perdere il potere. Proprio durante la presidenza di Ronald Rea-gan i regimi democratici ripresero ad aumen-tare in America Latina, dopo il minimo storico del 1975. Da un lato Reagan sviluppò una vi-gorosa azione di contrasto ai regimi conside-rati filosovietici (p.e. con il finanziamento del-la Contra in Nicaragua), dall'altro non sosten-ne i governi dittatoriali in difficoltà, a comin-ciare dalla giunta argentina nella guerra delle Falkland/Malvinas. L'affermazione delle democrazie, nonostante quanto fosse regolarmente sostenuto durante la lunga presidenza di William “Bill” Jeffer-son Clinton, e anche dal suo predecessore George Herbert Bush, non ha né consolidato, né sostenuto l'egemonia di Washington nell'a-rea. Anzi, osservando i 28 anni di politica sta-tunitense nell'America Latina democratizzata si può dire che il trattato NAFTA (North American Free Trade Agreement) sia l'ultimo grande successo nell'area, un successo che se-gna anche paradossalmente il sostanziale rin-chiudersi di Washington in una dimensione soprattutto nordamericana. Oggi le Americhe vedono una diarchia di fatto tra la potenza statunitense in relativo declino ed una potenza brasiliana visibile, ma non

consolidata. Il decennio passato ha registrato soprattutto una disparità di crescita economica ed un crescente prestigio politico a favore di Brasilia, mentre il quadro strategico, nono-stante la sconfitta in Iraq e le crescenti diffi-coltà in Afghanistan, continua ad essere do-minato dalla potenza militare di Washington. Tuttavia i tempi stanno maturando per un cambiamento degli assetti della politica di si-curezza del continente, come è rivelato da una serie di segnali non solo ufficiosi, ma anche piuttosto profilati. Emerge una strategia di dissuasione L'occasione per dichiarare l'apertura di una nuova fase che accompagna il superamento del vecchio ordine continentale è stato un in-contro bilaterale fra il ministro della Difesa argentina, Arturo Puricelli, ed il neoministro brasiliano, prima ministro degli Esteri, Celso Amorim. Lo scorso 5 settembre, riprendendo e ampliando spunti dell'omologo argentino, Amorim dichiara in un discorso di respingere il concetto di anarchia quale condizione nor-male della politica internazionale e invece propone un doppio binario di comunità di si-curezza tra gli stati della regione e di dissua-sione verso l'esterno. Merita riportare inte-gralmente il passo saliente del testo. “Il concetto di una 'comunità di sicurezza' mi pare molto più corrispondente alla realtà e, soprattutto, agli obbiettivi che ci proponiamo per l'America del Sud. In esso il riconoscimento del diritto sovrano degli altri stati all'autonomia viene completa-to dall'interdetto della guerra come forma di risoluzione delle controversie tra i membri della comunità. Quel che desideriamo - e cerchiamo con im-pegno – è la costituzione di una comunità di sicurezza sudamericana, capace di eliminare definitivamente il conflitto armato fra i paesi della regione. Questa strategia di cooperazione aspira a fa-vorire relazioni politiche intense tra i paesi

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dell'America del Sud, che servano di per sé come elemento di dissuasione extraregionale. In realtà è proprio in funzione dei requisiti di difesa della nostra regione nel quadro globale che il concetto di dissuasione acquista tutta la sua importanza. Le immense ricchezze di cui disponiamo ren-dono intrinsecamente preoccupante la nostra attuale fragilità militare. L'America del Sud è una grande produttrice d'energia rinnovabile e non rinnovabile, di proteine animali e vegetali. Possiede ampie riserve d'acqua potabile e di biodiversità, ed è anche dotata di grandi ric-chezze minerali. Il continente sudamericano rappresenta il 12% della superficie terrestre, il 6% della po-polazione mondiale, il 25% delle terre colti-vabili e delle riserve d'acqua dolce. Vi sono riserve accertate, calcolate per difetto, di più di 123 miliardi di barili di petrolio. Il processo di degrado ambientale su scala planetaria e la pressione crescente sull'ap-provvigionamento di cibo, acqua ed energia possono rendere drammatica la concorrenza internazionale intorno a questi beni. L'integrità delle regole multilaterali di sicu-rezza in un simile scenario potrebbe essere messa a rischio. Non possiamo confondere il fatto di esser pa-cifici con la percezione che continuiamo a re-stare indifesi. Proponendoci una comunità di sicurezza 'dall'interno', non possiamo smettere di lavo-rare sulla possibilità di uno scenario esterno di frammentazione e d'impiego unilaterale della forza da parte di stati terzi”. Pur constatando che il cammino verso il rag-giungimento di queste mete non è né rapido né facile, non può sfuggire il salto di qualità

politico che è stato compiuto: come si vedrà dall'analisi del contesto istituzionale multilate-rale regionale si sono bruciate tappe che, per fare uno spontaneo paragone, sono costate de-cenni agli Stati europei. Non è difficile nem-meno richiamare alla memoria la nascita della dottrina di Monroe, nonostante gli Stati Uniti fossero militarmente impotenti ad applicarla nel 1823. È interessante che i protagonisti siano Brasilia e Buenos Aires, i quali definiscono il rapporto come un'alleanza strategica che è il positivo sviluppo di una relazione che negli anni '70 ed '80 del secolo scorso era invece improntata ad una decisa contrapposizione strategica ed alla competizione nel settore nucleare militare. I punti cardinali espliciti del nuovo discorso strategico sono: riaffermazione del concetto di autonomia quale diritto sovrano dello stato (un'evoluzio-ne che tiene conto della frattura dottrinale ri-spetto alla classica concezione della sovranità, rappresentata dal concetto Responsibility to protect – R2P); un rigetto della guerra sul modello dell'art. 11 della Costituzione italiana; rischio di uno scenario di frammentazione e uso unilaterale della forza in una situazione di serrata competizione per risorse vitali di cui l'area è ricca (punto pienamente condiviso dall'Argentina che enumera tra le ricchezze anche la produzione alimentare di livello mondiale, il bacino idrico del Guaraní e l'A-mazzonia); creazione di una comunità regionale di si-curezza che costituisca, insieme ad accresciute capacità militari, una garanzia contro guerre intraregionali ed una dissuasione verso stati terzi, tenendo conto delle grandi ricchezze del subcontinente americano.

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Il non detto del nuovo corso La formulazione della strategia è politicamen-te corretta ed equilibrata, ma, se si esplora la pubblicistica strategica e militare spagnola e portoghese intorno al tema sicurezza regionale, si rivelano altri aspetti che costituiscono parte dell'humus in cui si sviluppano i progetti uffi-ciali. Suscitano particolare preoccupazione per le loro conseguenze regionali alcuni degli ob-biettivi dichiarati della strategia globale statu-nitense, tra cui: la stabilità regionale, l'apertura dei mercati esteri, lotta alla droga ed al terrorismo, assistenza umanitaria. Considerati in modo astratto, questi traguardi non hanno niente di negativo in sé, tuttavia la loro possibile traduzione sul terreno viene percepita come assai più problematica. Dietro la stabilità regionale si vede l'interesse a fronteggiare quelle che sono considerate mi-nacce agl'interessi vitali di Washington, specie quando i governi locali nazionalizzano le pro-prie risorse naturali come è il caso di Bolivia, Ecuador e Venezuela, considerati come paesi destabilizzanti. Sotto l'etichetta di libero mer-

cato, si vede l'intenzione di stabilire dei trattati in cui il vantaggio preminente sarà statuniten-se e l'esperienza negativa del Messico proprio con il NAFTA, nonché il continuo ostruzioni-smo del Congresso in materia, non hanno fa-vorito lo sviluppo di questa politica liberista. In materia di droga e terrorismo la maggio-ranza dei governi sudamericani sa quali deli-cati problemi pone l'arrivo d'unità militari, consiglieri, nuclei d'intelligence nel territorio nazionale e come, anche in condizioni di con-flitto interno estremo (p.e. Colombia e Messi-co) la questione della salvaguardia della so-vranità nazionale sia una condizione primaria di credibilità politica anche nei confronti dei gruppi mafiosi. Alcuni paesi come la Bolivia sono poi nettamente contrari a condividere il concetto statunitense di criminalizzazione in-discriminata di qualunque consumo di droga, specie se coinvolge usi e costumi tradizionali. E persino un tradizionale alleato come la Co-lombia ha preferito estradare nell'aprile del 2011 un noto narcotrafficante verso il Vene-zuela piuttosto che verso gli USA. Anche le più neutre esercitazioni di assistenza umanitaria (New Horizons-Nuevos Horizon-tes) sono considerate come possibili forme

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d'ingerenza indiretta in zone di tensione socia-le, tanto più che sono sempre sotto il controllo del comando strategico statunitense Southcom, responsabile per tutte le operazioni militari e paramilitari in America Latina. Sono tutti temi che ovviamente nella cosiddetta pubblicistica antimperialista vengono esasperati al limite della dietrologia, ma che non sono trascurati dai decisori. In questo senso l'intervento contro la Libia ha rafforzato la prudenza dei governi locali e l'a-stensione dei BRIC sulla risoluzione che lo autorizzava è stata un segnale politico abba-stanza chiaro sui dubbi politici e legali sull'i-niziativa. Il retroterra politico-istituzionale La base internazionale su cui nascono queste nuove tendenze politico-strategiche è l'UNA-SUR (Unión de Naciones Suramericanas), un'unione intergovernativa di due precedenti unioni doganali (Mercosur-Mercosul e Comu-nidad Andina-CAN) creata sul modello dell'UE il 23 maggio 2008. L'effetto è stato quello di creare un insieme regionale geogra-ficamente omogeneo e rapidamente allargato a due paesi osservatori di rilievo strategico, Messico e Panama. Il dettaglio interessante è quasi subito stato

creato un CDS (Consejo de Defensa Surame-ricano) su impulso brasiliano e venezuelano, cui è seguita l'adesione anche della Colombia, inizialmente reticente. I membri sono gli stes-si dell'UNASUR anche a livello d'osservatori. I compiti del CDS sono esemplari per equili-brio diplomatico ed a livello politico si è subi-to chiarito che non si è voluta fondare nessuna NATO sudamericana: 1. consolidamento dell'America del Sud co-me zona di pace, contribuendo alla pace mon-diale, in modo da esser fondamento per la sta-bilità e lo sviluppo democratico; 2. costruzione di un'identità sudamericana in materia di difesa, tenendo presente le caratte-ristiche regionali e nazionali, e capace di con-tribuire al rafforzamento dell'America Latina e dei Caraibi; 3. creare consenso per rinsaldare la coopera-zione regionale in materia di difesa. L'ambizione dell'organismo è soprattutto sot-tolineata dal concetto d'identità di difesa, che, come accennato prima, è costata all'Unione Europea una lenta e travagliata transizione di vent'anni prima accennando alla sicurezza ed alla politica estera e poi arrivando con molte cautele (e veti americani e NATO) all'idea d'i-dentità di difesa. Nel maggio 2011 è stato an-che lanciato un think tank dedicato al CDS, il Centro de Estudios Estrategicos de la Defensa, con la missione di elaborare una visione con-divisa di rischi e di prospettive strategiche. Va segnalato tuttavia che esisteva un sito ufficiale del CDS (cdsunasur.org) che, al momento del-la redazione di questo osservatorio, risultava in libera vendita nonostante il sito ufficiale dell'UNASUR mantenesse ancora questo link. Limiti e sfide Le stesse fonti ufficiali brasiliane sottolineano due limiti imprescindibili di questa strategia. Il primo è che il rapporto con gli Stati Uniti è

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e resterà di forte cooperazione. Questo signi-fica implicitamente riconoscere che, se l'ege-monia complessiva degli USA si è affievolita nell'area, essa non viene però messa in discus-sione ancora per lungo tempo e che l'ombrello strategico di Washington è ancora avvertito come necessario. Il secondo punto è che l'America Latina ha almeno cinque differenti zone di sicurezza strategica: platina (intorno al Rio de la Plata), andina, amazzonica, atlantica e pacifica; que-ste costituiscono, insieme ai diversi interessi nazionali, una divisione geopolitica oggettiva all'interno di una possibile concreta strategia comune. A livello più ufficioso ed accademico risulta-no altri aspetti che costituiscono degli ostacoli e delle sfide al tempo stesso: 1. la divisione tra stati che pensano ad una

militarizzazione della sicurezza interna, adat-tando le forze armate ad un ruolo di gendar-meria pesante o guardia nazionale per contra-stare le narcomafie, ma accettando una dipen-denza strategica dagli USA e paesi che vo-gliono sistemi di difesa bilanciati; 2. la tensione tra l'obbiettivo di escludere il ricorso delle armi nella regione e di rafforzare le capacità militari che rendono credibile una dissuasione collettiva nei riguardi d'interventi esterni (sinora poco possibili, con l'eccezione degli Stati Uniti); 3. la difficoltà di ricondurre ad un punto d'e-quilibrio la multidimensionalità dei rischi e le architetture flessibili presenti nella zona; 4. la concezione molto tradizionale di un si-stema di difesa che però non tiene assoluta-mente conto dei rischi all'autonomia nazionale in termini d'ingerenze economico-finanziarie.

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Organizzazioni Internazionali e cooperazione centro asiatica

Lorena Di Placido Eventi ►Primo expo sino-euroasiatico a Urumqi. Dal 1° al 5 settembre, nel capoluogo della provin-cia autonoma cinese del Xinjiang Uighur si è svolto il primo Expo Cina-Eurasia, che ha ri-chiamato investitori da 30 paesi. L’expo rappresenta l’evoluzione ideale della China Urumqi Foreign Economic Relations and Trade Fair, organizzata per 19 anni consecutivi. L’impegno cinese nello sviluppo economico del Xinjiang ha iniziato a produrre concreti risultati in termini statistici, se si considera che tra tutte le repubbliche centroasiatiche (comprendendo anche Af-ghanistan, Mongolia, Pakistan e India) la provincia è terza per PIL pro capite (dopo Russia e Kazakhstan). A livello locale, se ne ha tuttavia una percezione poco positiva, poiché, nei fatti, tale sviluppo segna ulteriormente le ragioni del contrasto tra l’etnia locale, uigura, e quella han, che detiene il potere politico e controlla i processi produttivi secondo il volere di Pechino. Infatti, la maggiore produzione di reddito interessa soprattutto la parte settentrionale della re-gione, abitata prevalentemente da han, mentre l’area a maggioranza uigura, a sud, contribui-sce solo per una minima percentuale. Inoltre, parallelamente a campagne di sviluppo economi-co, le autorità cinesi stanno profondamente mutando l’assetto urbano delle città storiche del Xinjiang, praticando una vera e propria opera di cancellazione della memoria storica del popo-lo uiguro. Nella misura in cui lo sviluppo economico viene percepito dall’etnia locale come strumento di controllo e sopraffazione, si vengono a perpetuare le condizioni per sempre mag-giore instabilità. ►Sicurezza e traffici transfrontalieri in discussione a Dushanbe. Il 2 settembre si è svolto a Dushanbe un summit dei capi di stato di Russia, Afghanistan, Pakistan e Tagikistan. La discus-sione ha riguardato la prevenzione dei traffici illeciti che percorrono la regione e il conteni-mento delle infiltrazioni terroristiche. Nella dichiarazione finale i quattro leader hanno consi-derato che alla riduzione della presenza militare a guida NATO in Afghanistan dovrebbe corri-spondere un adeguato sforzo dei partecipanti alla coalizione internazionale per l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze di sicurezza locali. La questione della sicurez-za lungo la frontiera tra Tagikistan e Afghanistan è particolarmente delicata: priva di adeguata protezione, è diventata la porta d’accesso per i traffici illeciti (droga, soprattutto) e per gli estremisti provenienti dalle aree di confine tra Afghanistan e Pakistan. Dal canto suo, nel corso di colloqui bilaterali, il presidente russo Medvedev ha sostenuto che risultati efficaci sul piano della stabilità e del rispetto della legge si possono ottenere solo con la fattiva cooperazione dei governi locali, intendendo sensibilizzare soprattutto i presidenti Karzai e Zardari. A margine del vertice, Russia e Tagikistan hanno firmato un accordo di cooperazione per il controllo della

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frontiera tagika con l’Afghanistan, prevedendo l’estensione della presenza russa nelle basi ta-gike per altri 49 anni. Le forze russe che presidiavano la frontiera tagiko-afgana erano state ritirate nel 2005, ma negli ultimi anni si sta facendo sempre più insistente la voce di un loro ri-torno, come sembrerebbero confermare le recenti decisioni dei presidenti dei due paesi. Alla gestione di quelle frontiere già partecipano, a vario titolo, anche alcuni paesi impegnati nella coalizione attiva in Afghanistan. Relativamente al sostegno offerto dagli Stati Uniti, nell’ultimo mese è stata diffusa da alcuni organi di informazione locali la notizia che guardie di frontiera tagike avrebbero venduto i cani antidroga donati dal governo americano, perché nell’impossibilità di sostenere le spese del loro mantenimento. ►Incontro Medvedev-Berdymuhammedov a Dushanbe. Il 3 settembre i presidenti russo e turkmeno si sono incontrati a Dushanbe, capitale del Tagikistan. Secondo l’agenzia turkmena turkmenistan.ru, i colloqui avrebbero riguardato il rilancio complessivo delle relazioni bilate-rali, sia nella riaffermazione degli accordi già conclusi sia nella definizione di altri che vedreb-bero come partner privilegiati alcune aree della Russia, quali il Tatarstan, San Pietroburgo e Astrakhan. Da aprile del 2009 si era registrato un allontanamento tra i due paesi, a causa di divergenze nella gestione delle infrastrutture energetiche sul suolo turkmeno. In particolare, ad aprile 2009 si sono verificate delle esplosioni lungo un gasdotto affidato a Gazprom, che ha scaricato tutta la responsabilità dell’accaduto sul partner locale. La ripresa di più distese rela-zioni è stata lenta e costante, tanto che i problemi di allora sembrerebbero superati. Nel 2012 il Turkmenistan assumerà la presidenza della Comunità di Stati Indipendenti. ►Parzialmente operativa in Tagikistan la centrale idroelettrica Sangtuda-2. Il 6 settembre, alla presenza dei presidenti Imomali Rakhmon e Mahmud Ahmadinejad è stato inaugurato il primo blocco della centrale idroelettrica Sangtuda-2, realizzata in Tagikistan grazie a un pro-getto cofinanziato dall’Iran. La conclusione della prima fase dei lavori era prevista per feb-braio 2012, ma le autorità locali hanno chiesto la consegna anticipata per sopperire alla croni-ca mancanza di energia elettrica abitualmente sofferta dal Tagikistan nei mesi invernali. Le re-lazioni tra i due paesi, benché talvolta siano state raffreddate dai timori tagiki di influenze estremiste, mantengono una costante positività nel comparto economico e della realizzazione di infrastrutture. In particolare, l’avvio dell’operatività della centrale idroelettrica in questione rappresenta un esempio di cooperazione in un ambito strategico quale è la gestione delle risor-se idriche per la produzione di energia. Più volte su queste pagine dell’Osservatorio Strategico si è rilevato quanto sia stato problematico per le repubbliche post sovietiche dell’Asia Centrale confrontarsi sull’utilizzo delle acque, abbondanti nei paesi a monte, poveri e bisognosi di ener-gia, e scarse in quelli a valle, ricchi di energia e con enormi esigenze di irrigazione a fini agri-coli. La costruzione delle centrali idroelettriche rappresenta una pesante distrazione di acqua per le esigenze dei paesi a valle, che utilizzano ogni mezzo dissuasivo per evitare di vedere compromesse le proprie coltivazioni. In particolare, la costruzione di Sangtuda-2 è stata forte-mente osteggiata dall’Uzbekistan, che nell’estate del 2010 aveva persino praticato un blocco sulle infrastrutture utilizzate per il trasporto dei materiali da costruzione dall’Iran al Tagikistan (compromettendo anche i rifornimenti per le truppe della coalizione attiva in Afghanistan). ►OSCE e libertà dei media. Il 19 settembre, una delegazione dell’OSCE si è recata in visita in Turkmenistan presso il ministero degli Esteri per discutere della realizzazione di un progetto congiunto sulla disciplina dei mezzi di informazione di massa. ►A Turkmenbashi vertice delle autorità portuali del Mar Caspio. Il 19 settembre è svolto nel-la città di Turkmenbashi, sul Mar Caspio, un vertice delle autorità portuali dei cinque paesi ri-

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vieraschi, relativo gestione delle merci, sicurezza nella navigazione marittima, investimenti e sviluppo dei porti. Il precedente incontro si era svolto nel 2010 a Olija (Russia, oblast’ di Astrakhan). Una delle questioni aperte con la dissoluzione dell’Unione Sovietica è quella della gestione delle acque del Mar Caspio. Fino al 1991 gli stati rivieraschi erano due, URSS e Iran, divenuti cinque in seguito all’indipendenza di Azerbaigian, Kazakhstan, Turkmenistan e Russia. Da allora la questione dello status giuridico da applicare al Caspio, legato al riconoscimento condiviso se sia un mare o un lago, è ancora aperta e non esiste una suddivisione delle acque e della relativa sovranità statuale di ciascun rivierasco. Allo stato attuale, lo sfruttamento delle risorse ittiche e, soprattutto, energetiche avviene secondo modalità pragmatiche, mentre si suc-cedono periodicamente vertici alla ricerca di soluzioni negoziali possibili. ►Rafforzata la cooperazione in ambito energetico tra Uzbekistan e Cina. Il 21 settembre una delegazione parlamentare cinese si è recata in visita a Tashkent. Oltre al rafforzamento delle consultazioni tra gli organismi parlamentari dei due paesi, nel corso degli incontri sono stati firmati numerosi accordi di cooperazione negli ambiti economico, chimico, petrolifero e del gas. Soprattutto quest’ultimo settore è stato oggetto di attenzione. Da che, a dicembre 2009, è divenuto operativo il gasdotto turkmeno-cinese che transita per circa 500 km in territorio uzbe-ko, Cina e Uzbekistan hanno cercato di rafforzare ulteriormente la cooperazione in tale ambito.

LA PRESIDENZA CINESE DELLA SCO TORNA ALLE ORIGINI

Al vertice di Astana del giugno 2011 la Cina ha assunto la presidenza della Organizzazio-ne di Shanghai per la Cooperazione. Il primo evento di rilievo organizzato da Pechino è stata la XIX riunione del Consiglio della Struttura Regionale Antiterrorismo della SCO (secondo l’acronimo internazionale RATS, Regional Anti Terrorism Structure). Il dibatti-to interno all’Organizzazione è tornato nuo-vamente sulla lotta ai tre mali del terrorismo, del separatismo e dell’estremismo, al centro degli interessi dei membri sin dalla fondazio-ne. In considerazione degli attacchi terroristi-ci delle estati 2009 e 2011 nel Xinjiang e della costante tensione che caratterizza i rapporti tra popolazione uigura e han in quell’area, il primo atto ufficiale della presidenza cinese si carica di un ulteriore significato, tutto rivolto alla sicurezza nazionale.

I tre mali. La SCO trae origine dai negoziati avviati nel 1986 tra l’Unione Sovietica e la

Cina per la soluzione di annose questioni di confine, noti come “iniziativa di Vladivo-stok”. Dopo il 1991, l’attività negoziale con la controparte cinese è stata portata avanti dagli stati emersi dalla disgregazione dell’URSS, ossia Russia, Kirghizstan, Kazakhstan e Tagi-kistan. Nel tempo, alle trattative originarie, che stavano producendo un incoraggiante suc-cesso, si aggiunsero ulteriori ambiti negoziali, tra i quali anche la definizione di misure di fiducia reciproca, la smilitarizzazione di am-pie fasce a ridosso dei confini e, infine, forme di cooperazione in ambito economico. I cin-que partecipanti a tale consolidato meccani-smo di consultazione, riuniti a Shanghai il 16 giugno 2001, costituirono la Shanghai Coope-ration Organization, accogliendo quale sesto membro l’Uzbekistan. Nella dichiarazione fi-nale del vertice istitutivo della SCO sono stati enunciati i principi ispiratori dell’Organiz-zazione e le sue ragioni fondanti. Fatto tesoro di quanto costruito insieme fino a quel mo-

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mento, relativamente alla definizione dei con-fini comuni e delle misure di fiducia recipro-ca, le parti avviavano un rilancio della coope-razione su basi nuove, dichiarando di voler congiuntamente lottare contro i tre pericoli maggiormente sentiti dai membri: il terrori-smo islamico, l’estremismo religioso e il sepa-ratismo nazionale. Citata nei documenti uffi-ciali come “i tre mali”, la triplice minaccia al-la stabilità della regione centroasiatica cela significati non apertamente confessati, ma che chiaramente costituiscono la vera, profonda ragione della cooperazione in ambito SCO. In altre parole, il contrasto alle minacce terrori-sta, estremista e separatista, al di là del signi-ficato primo, teso al mantenimento dell’equi-librio regionale, indica un tacito e reciproco sostegno a proseguire (nelle forme e nei modi ritenuti più idonei) il contrasto a forme di dis-senso e di eversione dell’ordine statale (quali la guerra della Russia in Cecenia e poi, nel 2008, quella contro la Georgia, la repressione cinese nel Xinjiang e l’opposizione all’Afgh-anistan talebano). Le leadership locali si fanno garanti dell’equilibrio regionale e, quindi, del-la sopravvivenza stessa dei loro regimi. Com-battere i tre mali vuol dire, in ultima analisi, che ciascuno stato membro sostiene a titolo di reciprocità l’altro nella definizione di strategie nazionali di lungo periodo e di azioni d’emergenza tese al controllo del territorio, alla prevenzione di infiltrazioni o attività ter-roristiche, al contrasto di movimenti separati-sti o secessionisti, alla repressione di qualun-que forma di ribellione. Mantenimento, a qua-lunque costo, dei regimi esistenti vuol dire ga-ranzia delle condizioni ottimali per cui si pos-sa creare il clima regionale più favorevole al rinsaldarsi dei legami tradizionali con la Rus-sia, premessa di un’efficace cooperazione in-nanzitutto in ambito militare ed economico, e di rinnovate relazioni economiche (ed energe-tiche!) con la Cina. In ultima analisi, quindi, combattere contro le forme di eversione, an-che di matrice terroristica, percepite nel 2001

come vera minaccia allo spazio centroasiatico, significa agire di comune accordo per la pre-servazione dell’equilibrio regionale e delle condizioni ottimali per intrattenere proficue relazioni con le potenze regionali.

Il vertice RATS di Pechino Sulla scia di tali convincimenti, nel gennaio del 2004 è stata istituita la Struttura Regionale Antiterrorismo della SCO, con sede a Tash-kent, allo scopo di raccogliere dati, garantire lo scambio di informazioni, coordinare attività congiunte di contrasto a fenomeni eversivi ri-conducibili ai “tre mali”. La diciannovesima riunione del Consiglio del RATS si è svolta a Pechino e ha rappresentato una delle prime attività di rilievo della presidenza cinese della SCO, assunta a giugno nel corso del vertice di Astana. Al centro dei colloqui, la definizione del programma delle attività per il 2012, la questione della cooperazione transfrontaliera nei termini del consolidamento di un efficace meccanismo di cooperazione tra le diverse forze, finalizzato anche allo scambio di in-formazioni. In tal senso era già stata orientata la cooperazione bi e trilaterale tra i membri, che ha avuto il culmine nelle esercitazioni “Tianshan-2 (2011)”, organizzate da Cina, Kirghizstan e Tagikistan nel mese di maggio. A livello bilaterale, la cooperazione tra Cina e Kirghizstan rappresenta ormai una costante. Data la ridotta capacità delle forze di sicurez-za kirghize, il supporto di Pechino diventa imprescindibile per arginare la minaccia terro-ristica proveniente dal Xinjiang e le possibili infiltrazioni dalle aree tribali tra Afghanistan e Pakistan. Inoltre, a seguito delle proteste av-venute a Hotan e degli attentati terroristici di Kashgar dello scorso luglio, il controllo di frontiere tanto labili rappresenta una priorità assoluta, giacché è stato confermato che gli attentatori (appartenenti al Turkistan Islamic Party, un gruppo terroristico minoritario) era-no stati addestrati nell’area di confine tra Af-ghanistan e Pakistan. Ora come allora, quindi,

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sicurezza delle frontiere e lotta ai tre mali con-tinuano a rappresentare una priorità. Alla luce dei recenti accadimenti, avere ospitato a Pe-chino una riunione al vertice del RATS assu-me una valenza del tutto particolare: la Cina, presidente di turno della SCO, torna alle ori-gini dell’Organizzazione per mantenere co-stante la lotta ai tre mali che rappresen

tano una sempre attuale minaccia, che, pur es-sendo diretta al Xinjiang, produce riflessi sull’equilibrio regionale nel suo complesso. Nei dieci anni di vita della SCO, celebrati ad Astana nell’ultimo vertice, si mantengono vi-ve le ragioni profonde dell’aggregazione delle leadership centroasiatiche: lotta ai tre mali e salvaguardia dell’equilibrio regionale.

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Settore Energetico

Nicolò Sartori Eventi ►Unione europea: approvato l’embargo alla Siria. Due settimane dopo le sanzioni approvate dal governo americano al regime di Assad, anche l’Unione europea ha adottato misure nei con-fronti del settore petrolifero siriano. Dopo un periodo di riflessione e di negoziati tra gli stati membri sull’eventualità di inasprire la posizione europea, le sanzioni introdotte il primo set-tembre vietano l'acquisto, l'importazione e il trasporto di petrolio e altri prodotti petroliferi provenienti dalla Siria. Se per i nuovi contratti le misure hanno effetto immediato, per quanto riguarda le forniture basate su contratti in corso il regime sanzionatorio entrerà in vigore a partire dal prossimo 15 novembre. La dilazione del periodo di entrata in vigore è stata sostenu-ta in particolar dal governo italiano. ►Nucleare iraniano: la centrale di Bushehr collegata alla rete elettrica nazionale. Dopo i ri-sultati positivi dei test tecnici svoltisi a metà agosto, il 3 settembre la prima centrale nucleare iraniana è entrata in fase pre-operativa ed è stata collegata alla rete elettrica nazionale. La centrale, che attualmente lavora a ritmi ridotti e produce soltanto 60 dei suoi 1000 megawatt di capacità, è stata inaugurata ufficialmente il 12 settembre alla presenza del Ministro dell’Energia russo Sergei Shmatko. La Russia, infatti, ha fortemente contribuito alla realizza-zione dell’impianto di Bushehr attraverso la sua compagnia energetica Atomstroyexport, di cui Shmatko è amministratore delegato. ►Gas russo: importanti novità per il gasdotti Nord Stream e South Stream. Il 6 settembre, nella cittadina di Vyborg, alla presenza del Primo Ministro russo Vladimir Putin e del ex Can-celliere tedesco Gerhard Schroeder, è stato inaugurato il gasdotto baltico Nord Stream. Dopo oltre un decennio dai primi progetti e studi di fattibilità, sono state effettuate le prime immissio-ni di gas nei 1200 chilometri di tubature che collegano direttamente il territorio russo alla città tedesca di Greisfwald. Il gasdotto, che passa sui fondali del mar Baltico attraverso le zone economiche esclusive di Finlandia, Svezia e Danimarca, ha l’obbiettivo di aggirare il territorio di paesi di transito quali Bielorussia ed Ucraina. A pochi giorni dall’inaugurazione di Nord Stream, i vertici di Gazprom e lo stesso Putin si sono incontrati a Sochi con i rappresentanti delle compagnie europee Eni, Energie de France (EDF) e Wintershall per la firma di un accor-do sulla ristrutturazione del consorzio South Stream. Il nuovo assetto prevede le compagnie francese e tedesca acquisiscano entrambe il 15% delle azioni, con una riduzione del ruolo di Eni nel consorzio. ►La Cina sbarca in Afghanistan. La China National Petroleum Corp (CNPC) si è aggiudica il 6 settembre il primo contratto internazionale di esplorazione in Afghanistan dopo anni di

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chiusura del settore energetico nazionale. I tre blocchi assegnati a CNPC sono collocati nel ba-cino dell Amu Darya, nella parte nord-occidentale del paese. La regione confina con l’area di Bagtyiarlyk, in Turkmenistan, dove CNPC è operativa dal 2007. Nelle stesse ore si è celebrata la cerimonia per l’inizio dei lavori di realizzazione gasdotto Beyneu – Bozoi Shymkent. La pi-peline dovrebbe essere completata entro il 2016 e convogliare 15 miliardi di metri cubi annui di gas kazako in Cina. ►Corridoio sud: TAP in attesa delle ultime autorizzazioni. Il 7 settembre il consorzio Trans Adriatic Pipeline (formato dalla norvegese Statoli, dalla svizzera EGL e dalla tedesca E.On) ha sottoposto ai governi dei tre paesi di transito del gasdotto - Albania, Grecia e Italia - la pro-pria domanda per i permessi di esenzione di accesso a terzi (TPA). L’eventuale ottenimento dei permessi e delle autorizzazioni necessari per la costruzione e l’attivazione del gasdotto andreb-be ad accrescere la competizione tra i gasdotti nello scacchiere dell’Europa sud orientale. TAP infatti, al pari di Nabucco e ITGI, mira a trasportare in Europa le forniture di gas azero del giacimento offshore di Shah Deniz II che saranno rese disponibili a partire dal 2017/18. ►Guyana francese: un successo per la prima trivellazione off-shore. Tullow Oil ha annuncia-to il 9 settembre il successo della sua prima trivellazione al largo delle coste del dipartimento d’oltremare francese. La compagnia petrolifera inglese, che opera nella regione insieme a Royal Dutch-Shell, Total e Northpet, ha stimato in 55.000 barili di petrolio al giorno la capaci-tà estrattiva del giacimento, che potrà in seguito essere ampliata a 120.000. ►BP investe nell’etanolo brasiliano. Dopo mesi di turbolenza per la compagnia inglese, cul-minati con l’annullamento del contratto per lo sviluppo dei giacimenti russi del mar Artico e la conseguente entrata di Exxon nel consorzio con Rosneft, BP si lancia nel mercato brasiliano dell’etanolo. Per una cifra attorno ai 71 milioni di dollari BP ha completato l’acquisizione del-la compagnia energetica brasiliana Tropical BioEnergia, ed ha al contempo incrementato il proprio controllo sulla Companhia Nacional de Azucare Alcool (CNAA), raggiungendo una quota pari al 99,97%. ►Gazprom tenta l’ingresso in Corea. Firmato il 16 settembre un Memorandum of Understan-ding (MoU) tra Gazprom ed il governo nordcoreano per la costruzione di una reti di gasdotti nel paese asiatico. Mosca, che nelle settimane passate aveva annunciato la possibile realizza-zione di un gasdotto che collegasse il giacimenti russi con il ricco mercato sudcoreano, è alla ricerca di uno sbocco orientale per l'esportazione delle proprie risorse. ►Trivellazioni off-shore: norme più rigide richieste dal Parlamento europeo. Con una risolu-zione approvata ad ampia maggioranza, il 13 settembre il Parlamento europeo ha chiesto che le compagnie che effettuano trivellazioni in mare vengano obbligate a presentare adeguati pia-ni di emergenza e a dimostrare di disporre di capitali sufficienti per far fronte ad eventuali danni ambientali. Il testo non ha valore legislativo, ma intende sensibilizzare la Commissione europea che in autunno presenterà una proposta di regolamentazione per le attività di estrazio-ne di gas e petrolio in alto mare.

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A TUTTO GAS

La battaglia dei gasdotti, in Europa… Il mese di settembre ha fatto registrare una rapida accelerazione nella competizione europea tra gasdotti. Dopo oltre un decennio dai primi progetti e studi di fattibilità, è stato finalmente inaugurato Nord Stream, il gasdotto baltico nato dalla collaborazione tra il gigante russo Gazprom, le tedesche Ruhrgas e Wintershall, l’olandese Gasunie e la francese Gaz de France-Suez. Nella sua fase iniziale il gasdotto, il cui costo si aggira attorno ai 9 miliardi di euro, sarà in grado di trasportare 27 miliardi di metri cubi (Bcm) annui di gas russo verso i mercati dell’Europa nord-occidentale (Danimarca, Francia, Germania, Olanda e Regno Unito). A partire dal 2013, il completamento di una seconda pipeline gemella, sarà in grado di raddoppiare le forniture. Il successo del progetto Nord Stream permette alla Russia, e agli stessi paesi europei, di ridurre notevolmente il potenziale di ricatto dell’Ucraina, per il cui territorio passa attualmente ben l’80% delle esportazioni di gas russo verso l’Europa. Negli anni passati i tentativi di Kiev di trarre vantaggi politico-economici dal proprio status di paese di transito hanno portato a ripetute dispute energetiche, negative sia per la vita quotidiana dei cittadini europei che per le relazioni politiche tra Bruxelles e Mosca. Il tentativo di ridurre al minimo l’influenza ucraina sulle relazioni energetiche tra Russia e paesi europei passa anche attraverso la realizzazione del progetto South Stream. A differenza del suo gemello settentrionale, tuttavia, il gasdotto del Mar Nero ha incontrato negli anni una strenua opposizione da parte della burocrazia di Bruxelles, che

continua a considerarlo come il rivale naturale del progetto Nabucco, sponsorizzato dall’Unione europea (Ue) stessa. Proprio nel tentativo si accrescere il supporto europeo attorno a South Stream, i partner del progetto Gazprom ed Eni hanno deciso modificare gli assetti interni al consorzio. Il meeting di Sochi del 16 settembre ha di fatto sancito l’entrata nel progetto di due nuove compagnie europee, la tedesca Wintershall e la francese Energie de France (EDF), entrambe con una quota pari al 15%. Gazprom manterrà il controllo del 50%, mentre sarà la compagnia italiana a ridurre la propria quota per favorire la partecipazione dei partner europei, nella speranza che la mossa possa spingere l’Ue a fornire le autorizzazioni necessarie per avviare la realizzazione dell’infrastruttura. Sul versante artico, sembra destinata a prendere piede l’idea norvegese di estendere la propria infrastruttura energetica esistente attraverso la costruzione di un gasdotto subacqueo in grado di trasportare sui mercati europei le nuove forniture provenienti dai giacimenti off-shore situati nei pressi delle isole Svlabard. L’iniziativa norvegese è pronta a decollare grazie all’accordo raggiunto lo scorso anno da Oslo e Mosca sulla suddivisione dal Mare di Barents, che ha messo fine ad una disputa quarantennale e dato il via libera all’esplorazione dei ricchi fondali della regione. Per poter giustificare gli ingenti investimenti necessari per realizzare gli oltre mille chilometri di gasdotto (per un costo compreso tra 1,3 e 4 miliardi di euro) sarà comunque necessario attendere che le future esplorazioni confermino in modo definitivo il potenziale geologico emerso dalle recenti scoperte effettuate nell’area.

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Nello scacchiere sud orientale, quel Corridoio Sud tanto caro all’establishment energetico di base a Bruxelles, l’Ue cerca di serrare le fila. Ottenuta dai 27 paesi membri l’autorizzazione a negoziare in prima persona con Azerbaijan e Turkmenistan un accordo vincolante per la realizzazione di un gasdotto transcaspico, la diplomazia energetica dell’Ue si è messa in moto per favorire la posizione di Nabucco nella competizione a tre con l’Interconnettore Turchia-Grecia-Italia (ITGI) e con la Trans Adriatic Pipeline (TAP). La possibilità di ottenere forniture di gas naturale provenienti dalla sponda orientale del Mar Caspio, dai giacimenti turkmeni in particolare, rende infatti l’opzione Nabucco particolarmente appetibile. Contrariamente ai progetti rivali, Nabucco ha una capacità potenziale di 31 Bcm annui, che gli permetterebbe di essere l’unico in grado di trasportare verso i mercati europei sia le forniture turkmene che quelle azere. L’intraprendenza europea, tuttavia, non è stata accolta con favore da Russia ed Iran. I due paesi hanno prontamente accusato la Commissione di agire in violazione degli accordi sullo status del Mar Caspio, contribuendo ad una potenziale destabiliz-zazione della regione. La mossa della Commissione europea arriva a qualche giorno di distanza dalla richiesta di esenzione di accesso a terzi (TPA) formalizzata da TAP ai governi dei tre paesi di transito del gasdotto Albania, Grecia e Italia. Nel caso le autorizzazioni venissero accordate, il consorzio composto dalla norvegese Statoil, dalla svizzera EGL e dalla tedesca E.On potrà presentare insieme a Nabucco e ITGI la propria offerta com-merciale al consorzio internazionale che opera il giacimento azero di Shah Deniz II. Il consorzio, di cui fa parte la stessa Statoil con una quota del 25%, punta a mettere on stream 10 Bcm di gas a partire dal 2017/18. La gara resta aperta fino al primo ottobre, sebbene la discesa in campo della Commissione lascia

presagire una condizione di vantaggio per Nabucco. Intanto gli sforzi della politica energetica europea sembrano aver fatto registrare un interessante risultato. Nei suoi documenti ufficiali la Commissione ha spesso identificato nella mancanza di interconnettori regionali uno dei principali limiti alla sicurezza energetica del vecchio continente. Per far fronte a questa cronica carenza infrastrutturale, Slovacchia e Ungheria hanno siglato un Memorandum of Understanding per la realizzazione di un gasdotto della lunghezza di circa cento chilometri che colleghi direttamente le reti dei due paesi. La pipeline, che dovrebbe costare circa 120 milioni di euro e verrà co-finanziata dall’UE nell’ambito del Terzo Pacchetto Energia, sarà un asset importante per la Slovacchia per assicurarsi 2 Bcm di forniture provenienti dal Corridoio Sud. …e non solo Ma la corsa al gas del Mar Caspio, ovviamente, non si limita al quadrante occidentale. Ad oriente, infatti, la Cina ha da tempo gettato le basi per garantire la propria influenza energetica sui paesi centro-asiatici. A inizio settembre Pechino ha aggiunto un altro tassello alla propria strategia energetica nella regione con l’inaugurazione dei lavori per la costruzione del gasdotto Beyneu – Bozoi Shymkent. Il gasdotto, che collegherà i giacimenti situati nella parte occidentale del paese allo snodo della Central Asia-China gas pipeline e sarà realizzato da una joint-venture tra KazTransGas e la China National Petroleum Corp (CNPC), dovrebbe essere completato entro il 2016 e fornire ulteriori 15 Bcm al mercato cinese. Le evoluzioni nello scenario caspico non possono che essere seguite con grandissimo interesse anche da Mosca. L’accesa competizione nella regione rischia infatti di modificare gli interessi strategici e com-

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merciali del Cremlino, che ha cominciato a guardare con sempre maggiore insistenza al mercato dell’estremo oriente. Il mercato sudcoreano rappresenta in questo senso un’invitante sbocco per il gas siberiano e dell’Estremo Oriente russo; nel 2010 i consumi coreani hanno fatto registrare un aumento del 25% (da 34 a 43 Bcm annui), a grande vantaggio dei principali produttori del quadrante orientale Qatar, Indonesia, Malesia e Oman. Nel tentativo di ritagliarsi spazio in un mercato in rapida espansione, ed in vista della competizione di un’Australia particolarmente attiva nel settore del gas naturale liquefatto, Mosca ha prontamente ripreso i negoziati per la costruzione di un gasdotto che raggiunga la parte meridionale della penisola coreana. Ovviamente, il corteggiamento di Mosca a Seul dovrà necessariamente ottenere il nulla-osta di Pyonyang, pronta a incassare i dividendi (politici ed economici) legati all’eventuale status di paese di transito. Il primo passo è stato fatto grazie alla firma di un Memorandum of Understanding tra il numero uno di Gazprom Alexei Miller e il Ministro del Petrolio nordcoreano Kim Hui Yong per la realizzazione di un sistema di trasmissione per il gas naturale nel paese asiatico. La vicenda rimane comunque decisamente complicata, perché se è vero che da un lato il regime coreano deve assolutamente rilanciare la propria economia e ridurre la dipendenza nei confronti di Pechino, dall’altro non va dimenticato che Pyonyang è tutt’ora tecnicamente in guerra con Seul. Ma la diplomazia energetica del Cremlino, nelle ultime settimane, non si è limitata a tessere gli interessi di Mosca nei due principali mercati di sbocco per le esportazioni di gas russo. Presente ad un summit economico-commerciale con i rappresentanti di Tagikistan, Pakistan e Afghanistan, il Presidente russo Dimitri Medvedev ha sottolineato l’interesse del suo

paese nell’investire ingenti capitali nella realizzazione del progetto TAPI, il gasdotto da 1700 chilometri che dovrebbe trasportare oltre 25 Bcm di gas turkmeno in India attraversando il territorio di Afghanistan e Pakistan. Fare previsioni sulla realizzabilità del progetto, ideato nel lontano 1995 e ancora oggi vittima del susseguirsi di violenza e instabilità nella regione, è tutt’ora impossibile. Va però sottolineato come l’interesse russo nelle vicende della regione si sia risvegliato in coincidenza con l’attribuzione del primo contratto di esplorazione in Afghanistan, tra l’altro vinto dalla cinese CNPC, dopo lunghi anni di totale chiusura del settore energetico del paese centrasiatico. Sebbene la crescita esponenziale dei consumi di gas indiani (+21,5% nel 2010) siano certamente un incentivo per Mosca ad investire nel gasdotto, non va sottovalutata la volontà strategica russa di posizionarsi in una futura ricostruzione del promettente settore energetico afgano vis-à-vis Pechino. Lo shale gas tra entusiasmo e battute d’arresto Continua ad alimentare un acceso dibattito il futuro dello shale gas, croce e delizia dell’evoluzione tecnologica nel settore degli idrocarburi. Da un lato il pieno sfruttamento potrebbe trasformare drasticamente lo scenario energetico internazionale, riposizionando paesi oggi importatori quali gli Stati Uniti o i membri dell’Ue (Polonia in testa) in potenziali produttori ed esportatori di gas naturale. Dall’altro, l’opposizione allo sfruttamento intensivo delle risorse di shale gas si fa sempre più agguerrita, a causa dell’impatto ambientale determinato dalle tecniche di estrazione: la pratica della fratturazione idraulica (hydraulic fracking) è ritenuta infatti estremamente pericolosa per la salute delle falde acquifere, che rischiano una contaminazione irreversibile determinata dalle sostanze (additivi chimici, sabbie, gel,

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schiume e gas compressi tra cui azoto e anidride carbonica) iniettati ad alta pressione nel sottosuolo insieme all’acqua. La diatriba è particolarmente accesa negli Stati Uniti e in Canada, due tra i paesi più promettenti per lo sviluppo delle risorse di shale gas. Per far fronte alle crescenti proteste, accompagnate da sempre più numerose e popolate dimostrazioni pubbliche, nel mese di settembre le compagnie produttrici hanno iniziato a inviare segnali rassicuranti ai cittadini. In attesa dell’elaborazione di normative vincolanti da parte delle autorità politiche competenti, e consapevoli che il business attorno allo sfruttamento dello shale gas è troppo allettante per permettere che venga bloccato (o rallentato) da pulsioni di matrice populistico-emotiva, gli operatori privati hanno provato a giocare d’anticipo. La Canadian Association of Petroleum Producers (CAPP) ha pubblicato una serie di linee guida per regolamentare i processi di hydraulic fracking. Il documento sottolinea l’importanza della protezione delle riserve idriche canadesi non negando, di fatto, potenziali rischi collegati a metodi impropri per estrarre shale gas. Anche Hulliburton, società americana leader mondiale nel settore dei sevizi petroliferi, ha manifestato l’in-

tenzione di intensificare lo studio e lo sviluppo di processi di green fracking, fratturazione idraulica effettuata grazie all’iniezione di prodotti non tossici, probabilmente derivati dall’industria alimentare. Chi non deve preoccuparsi troppo delle proteste dei gruppi ambientalisti e dei comitati per la salvaguardia del territorio è la Cina. Fortemente orientato verso il massiccio sfruttamento delle proprie riserve di shale gas, il gigante asiatico ha recentemente assegnato alla compagnie energetica nazionale China Petroleum & Chemical Corp (Sinopec) i primi contratti per l’esplorazione di riserve non convenzionali nella municipalità di Chongqing. Le abbondanti riserve stimate (cifre particolarmente ottimiste parlano di addirittura 26 Tcm) e i limitati vincoli socio-ambientali che caratterizzano il settore energetico cinese hanno immediatamente attirato l’interesse di grandi compagnie internazionali come Exxon e Royal Dutch-Shell. Queste possono mettere sul piatto della bilancia il loro know-how tecnologico e la loro esperienza nel settore, due elementi indispensabili per il governo di Pechino e per le sue controllate se vogliono realmente, e in tempi rapidi, favorire un boom del settore.

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Organizzazioni Internazionali

Valerio Bosco Eventi ►Il 12 settembre l’assistente del Segretario Generale per le operazioni di pace, Edmond Mu-let, ha aggiornato il Consiglio di Sicurezza (CdS) sullo stato delle relazioni tra Serbia e Koso-vo alla luce delle persistenti tensioni cominciate alla fine di luglio all’indomani del tentativo kosovaro di dispiegare funzionari doganali nei Gates 1 e 30 tra il Kosovo settentrionale e la Serbia. Tali tensioni sarebbero suscettibili, secondo Mulet, di “innescare una rapida escalation di violenza”. Mulet ha inoltre citato, con particolare apprensione, le parole pronunciate dal presidente serbo sul fatto che la Serbia “ sarebbe pronta a fare il tutto per tutto per impedire il passaggio di consegne in favore delle autorità kosovare” ed ha invitato Pristina e Belgrado ad affidarsi alla mediazione diplomatica condotta dall’Unione Europea. ►Il 16 settembre il CdS ha approvato la risoluzione 2009 che autorizza il dispiegamento del-la United Nations Support Mission in Lybia (UNMSIL). La missione, che ha ricevuto un mandato temporaneo di tre mesi, rinnovabile, sarà impegnata nel sostenere gli sforzi nazionali per la ricostruzione dell’apparato di sicurezza, la promozione dello stato di diritto, il ripristino dei servizi essenziali, il consolidamento delle nuove istituzioni, la ripresa economica. UNMISIL avrà inoltre il compito di facilitare il dialogo politico e la riconciliazione nazionale e di assi-stere altresì i futuri processi elettorali, nonchè l’avvio dell’esercizio di redazione di una nuova costituzione. La risoluzione 2009 ha infine rimosso alcune delle targeted sanctions imposte contro alcune personalità ed entità legate al regime di Gheddadi ed ha confermato l’intenzione del CdS di mantenere “under review” la no-fly zone decretata dalla risoluzione 1973. ►Il 16 settembre l’Assemblea Generale (AG) ha respinto con 107 voti contrari, 22 favorevoli e 12 astensioni un progetto di risoluzione che chiedeva di rinviare la discussione sulla deci-sione assunta dal Credentials Committee in relazione al riconoscimento del Consiglio Nazio-nale di Transizione come legittimo rappresentante della Libia nella 66 esima sessione dell’AG. La delegazione angolana all’ONU, in nome della Southern African Development Community (SADC), ha criticato la decisione assunta dal Comitato credenziali contestandone la leggittimità dal punto di vista politico e giuridico – “a unity Government has not been for-med” – e lamentando il fatto che il palazzo di vetro non avesse atteso le deliberazioni del Con-siglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana in relazione alla rappresentanza della Libia in seno all’UA. In favore della mozione si sono espressi Cuba, Venezuela, Bolivia ma anche di-versi Paesi africani, tra cui Congo, Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Sud Africa, Mali, Namibia, Lesotho, Uganda, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.

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►Il 21 settembre è cominciato il dibattito generale della 66esima sessione dell’AG alla pre-senza di oltre 130 tra capi di stato e di governo dei Paesi membri. Il Segretario Generale ha inaugurato i lavori dell’AG sottolineando lo storico intervento del presidente brasiliano, Dilma Rousseff, prima donna nella storia dell’Organizzazione ad aprire il dibattito generale. Il SG ha indicato nella promozione dello sviluppo sostenibile e degli obiettivi del millennio, la prevenzione e risoluzione dei conflitti, la lotta contro le violazioni dei diritti umani e il so-stegno ai Paesi in transizione come le priorità dei prossimi mesi per la Comunità Internazio-nale. Nel primo giorno del dibattito sono intervenuti, tra gli altri, il presidente americano Ba-rack Obama, il presidente francese Nicolas Sarkozy, il presidente sudafricano Jacob Zuma. ►Il 23 settembre il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha con-segnato al Segretario Generale dell’ONU la domanda per l’ammissione della Plaestina come nuovo Stato membro delle Nazioni Unite.

L’ONU E LA DIPLOMAZIA PREVENTIVA

Pur dominata dai lavori di apertura dell’Assemblea Generale, dal dibattito gene-rale alla presenza di molti capi di Stato e di governo e dall’annunciato showdown dell’Autorità Nazionale Palestinese sul rico-noscimento della Palestina come nuovo membro delle Nazioni Unite, l’agenda dell’ONU nel mese di settembre è stata se-gnata dalla riunione di alto livello del Consi-glio di Sicurezza sulla diplomazia preventiva. Il meeting, guidato dal presidente libanese Michel Suleiman, svoltosi ai margini del di-battito in corso nell’Assemblea Generale – “The role of mediation in the settlement of disputes” - ha fatto il punto sull’attività di mediazione e diplomazia preventiva condotta dalle Nazioni Unite ed ha discusso il rappor-to “Preventive Diplomacy: Delivering Re-sults” presentato dal Segretario Generale Ban Ki- Moon lo scorso 9 settembre.

Le iniziative sulla diplomazia preventiva nel biennio 2008-2010 Parte di un più lungo processo diplomatico che, sin dal 2005, con il World Summit, ha

cercato di avviare il passaggio da una cultura della reazione ad una cultura della prevenzio-ne in seno al sistema ONU, il nuovo focus del CdS sulla diplomazia preventiva è indubbia-mente da collegarsi agli interessanti sviluppi sul tema emersi nel corso dell’ultimo biennio. Il rafforzamento del Department of Political Affairs dell’ONU (DPA) e del suo Mediation Support Unit, focal points dell’Organiz-zazione per le attività di prevenzione dei con-flitti – una delle priorità del programma di Ban Ki Moon al momento della sua elezione al vertice dell’organizzazione - la creazione di uno stand-by team di esperti nella mediazione, dispiegabili in 72 ore; la proliferazione di atti-vità di mediazione congiunta tra l’ONU e le diverse organizzazioni regionali (Organizza-zione degli Stati Americani, Unione Africana, Unione Europea, Organizzazione delle Nazio-ni del Sudest Asiatico); il lavoro svolto in questo senso dagli uffici regionali delle Na-zioni Unite (si pensi allo Unites Nations Offi-ce for West Africa o al neo nato United Na-tions Office for Central Africa) e, infine, la pratica ormai consolidata di “horizon scan-

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ning briefing” da parte di funzionari del DPA chiamati ad aggiornare il Consiglio di Sicu-rezza su crisi in corso o su potenziali emer-ging crisis, hanno rappresentato gli sviluppi più significativi degli ultimi anni. Di grande importanza è stata del resto, più recentemente, la storica risoluzione approvata dall’As-semblea Generale dell’ONU nello scorso me-se di luglio, documento nel quale il più rap-presentativo organo del palazzo di vetro ha riconosciuto la necessità di rafforzare il ruolo della mediazione nella risoluzione pacifica delle controversie e nella risoluzione e pre-venzione dei conflitti1. Nel luglio 2010 era stata tuttavia una riunione del CdS, organizza-ta dalla presidenza nigeriana, a fare un primo punto del crescente impegno dell’ONU nelle attività di diplomazia preventiva e prevenzio-ne dei conflitti. La riunione del luglio 2010 aveva infatti affidato al Segretario Generale il compito di presentare un rapporto dettagliato sulla attività onusiana relativa alla diplomazia preventiva e sulle possibilità di consolidare la cooperazione con le organizzazioni regionali in materia. Il rapporto di Ban Ki-Moon e il paper liba-nese Il rapporto del SG, dedicato alla memoria di Dag Hammarskjold - considerato come il pri-mo teorico della diplomazia preventiva nella definizione di “diplomatic actions taken to prevent disputes from escalating into conflicts and to limit the spread of conflicts when they occur” - analizza il ruolo e l’impatto sin qui avuto dalle più recenti iniziative condotte in materia dall’ONU e dalle varie organizzazioni regionali e delinea altresì una serie di racco-mandazioni alfine di assicurarne il successo nel prossimo futuro2. Il rapporto descrive in maniera dettagliata il ruolo svolto dalle strut-ture del Segretariato ONU in materia di di-plomazia preventiva. Dopo aver ricordato il processo di potenziamento del Dipartimento

affari politici – braccio operativo della fun-zione di buoni uffici assegnati al Segretario Generale dall’articolo 99 della Carta – il do-cumento offre un bilancio positivo del lavoro svolto dagli inviati speciali del SG, sottoli-neando, in particolare, il successo riscosso dalla mediazione dell’ex presidente nigeriano Obasanjo nella regione dei grandi laghi e, in particolare, nel miglioramento delle relazioni tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda. Stessa enfasi è posta sul lavoro posi-tivo svolto dagli uffici regionali dell’ONU come lo United Nations Regional Center for Preventive Diplomay for Central Asia e Uni-ted Nations Office for West Africa (UNNO-WA). Nondimeno, la recente proliferazione di “resident political missions”, ovvero di mis-sioni impegnate ad assistere il dialogo nazio-nale e le iniziative locali di prevenzione dei conflitti, stabilizzazione post-conflittuale e ri-duzione delle tensioni sociali e politiche è in-dicata come un’esperienza che avrebbe offerto sin qui risultati piuttosto incoraggianti. Tra le suddette “resident political missions” possono essere qui indicate quelle più propriamente legate a compiti di peacebuilding – United Nations Integrated Peacebuilding Office in Sierra Leone (UNIPSIL), United Nations In-tegrated Peacebuilding Support Office in Guinea Bissau (UNIOGBIS), United Nations Integrated Peaebuilding Support Office in Central African Republica (BINUCA); United Nations Office in Burundi - e quelle che, pur includendo tali funzioni, operano in contesti politicamente più complessi, come la United Nations Assistance Mission in Iraq, UNAMI, la United Nations Assistance Mission in Af-ghanistan (UNAMI) e lo United Nations Poli-tical Office for Somalia, UNPOS. In particolare, il rapporto identifica nello svi-luppo di un efficace early warning delle situa-zione di crisi - “ no matter how accurate the early warning, the real test is whether it leads to early action” – nella definzione di solide

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partnerthsip tra ONU, organizzazioni regiona-li e organizzazioni della società civile, nel ri-conoscimento delle flessibilità degli approcci di preventive diplomacy adottabili – “ indirect talks betweenn third parties and and one par-ty to a dispute appear to be preferred model in some regions, while direct talks between parties to a dispute are significantly common in others” – nella creazione di strutture nazio-nali capaci di prevenire i conflitti e, infine, nella disponibilità di adeguate risorse umane (“skilled mediators”) e finanziarie, le condi-zioni necessarie per il successo delle iniziative di diplomazia preventiva. È sulla base di tale valutazione che la definizione di più efficaci meccanismi per lo scambio di informazioni tra ONU e organizzazioni regionali in materia di early warning, la crescita del numero di skil-led mediators and envoys e di staff di sostegno esperto nel mediation support, il consolida-mento della partnership tra ONU, organizza-zioni regionali e Stati membri e, infine, il raf-forzamento delle capacità nazionali di media-zione, sono suggerite dal SG come misure ca-paci di assicurare l’obiettivo del “delivering results” indicato nel rapporto. Un paper pre-sentato dalla delegazione libanese all’ONU “Strengthening and Consolidating Preventive Diplomacy”, che in parte riprende le sugge-stioni e le raccomandazioni operate dal SG, ha infine introdotto il dibattito innanzi al CdS, soffermandosi sulla crescente attività di pre-venzione dei conflitti esercitata dal Consiglio di Sicurezza – mediante dichiarazioni, risolu-zioni e missioni nelle aeree di crisi – e sottoli-neando altresì la necessità di promuovere coe-renza e sinergie tra le varie entità onusiane impegnate nella diplomazia preventiva. Il dibattito del 23 settembre Il dibattito del 23 settembre si è svolto alla presenza del presidente libanese Seuliman, del presidente della Colombia Manuel Santos Calderon, del presidente suafricano Zuma e di

quello della Nigeria Goodluck Jonhatan. Sono intervenuti, tra gli altri, anche il primo mini-stro portoghese Pedros Coelho e ministri degli esteri di Francia, Gran Bretagna, Cina, India e Brasile. Il dibattito, pur registrando un con-senso di fondo sulla necessità di consolidare le capacità di mediazione dell’ONU e delle organizzazioni regionali, assicurando in parti-colare la disponibilità di risorse umane e fi-nanziarie per le iniziative di diplomazia pre-ventiva, ha indubbiamente risentito delle per-sistenti divergenze emerse in seno al Consi-glio di Sicurezza sulla crisi libica e sull’interpretazione della risoluzione 1973. Mentre la delegazione brasiliana, commen-tando la “primavera araba”, ha sottolineato come l’azione militare si sia rilevata incapace di promuovere l’auspicata stabilità politica, è stato in particolare il presidente suadfricano Zuma a ribadire un duro attacco ai Paesi della NATO, accusati di aver imposto una “military solution” a dispetto del dettato della risoluzio-ne 1973 e del sostegno manifestato dal CdS per l’iniziativa diplomatica avviata dall’Unione Africana. Zuma ha inoltre sottoli-neato come “simili atti di disrispetto per le iniziative regionali rischino di minacciare la fiducia nutrita dalle organizzazioni regionali nel ruolo delle Nazioni Unite come mediatore autorevole, legittimo e imparziale”. Su ben altra linea sono state invece le parole pronun-ciate da William Hague, Segretario agli affari esteri della Gran Bretagna, il quale ha ricorda-to come tutti i mezzi debbano essere utilizzati per prevenire l’escalation di crisi e conflitti e come l’opzione militare abbia confermato la sua utilità in una situazione estrema come quella relativa alla Libia. Hague ha altresì ag-giunto che il governo di Londra non ha inten-zione di invocare la soluzione militare rispetto alle vicende in corso in Siria. Di grande inte-resse è stata infine la posizione della delega-zione americana, espressa dall’ambasciatrice all’ONU Susan Rice, la quale ha sottolineato

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come una prevenzione efficace dei conflitti debba fondarsi su un “comprehensive ap-proach” che sappia integrare sviluppo soste-nibile, buona governance, stato di diritto, de-mocrazia e rispetto dei diritti umani. Al termi-ne del dibattito, il CdS ha approvato una di-chiarazione presidenziale che accoglie i prin-cipi della strategia di prevenzione dei conflitti, sottolineando la complemetarietà tra early warning, dispiegamento preventivo, media-zione diplomatica, peacekeeping, practical disarmament, misure per la stabilizzazione post-conflittuale. La dichiarazione ha inoltre affermato la necessità che le azioni preventive condotte dall’ONU offrano sostegno a quelle condotte dai governi nazionali, responsabili primari della prevenzione dei conflitti nei ri-spettivi territori. Oltre a sottolineare l’urgenza di rafforzare la cooperazione tra ONU e orga-nizzazioni regionali e sub-regionali in materia di diplomazia preventiva, il Consiglio ha invi-tato il SG a intensificare l’uso di tutti gli strumenti diplomatici a sua disposizione “un-der the Charter”, incluso i buoni uffici, i suoi rappresentanti e inviati speciali, i suoi media-tori, alfine di facilitare la soluzione pacifica delle crisi. Ban Ki Moon è stato infine inco-raggiato a garantire la coerenza e il coordina-mento delle iniziative onusiane in materia di diplomazia preventiva e prevenzione dei con-flitti. Un’occasione persa? Sebbene il testo della dichiarazione presiden-ziale abbia sottolineato alcuni punti fonda-mentali, accennando in particolare alla neces-sità di garantire coerenza e coordinamento delle iniziative ONU in materia di prevenzio-ne dei conflitti, il dibattito del 23 settembre non sembra aver colto l’urgenza di una valu-tazione più ampia sul tema, accompagnata magari da un’analisi più articolata e critica dell’iniziativa sin qui svolta in materia dalle Nazioni Unite. Secondo il recente rapporto

della banca mondiale - 2011 World Deve-lopment Report: Conflict, Security and Deve-lopment - il costo medio di una guerra civile equivale approssimativamente a circa 30 anni di crescita del prodotto interno lordo di un paese in via di sviluppo di medie dimensioni: in particolare, la più pesante delle guerre civili imporrebbe costi cumulativi per oltre dieci miliardi di dollari e, in tale contesto, il ritorno ai ritmi di crescita originari avverrebbe non entro 14 anni. Rapportare queste cifre al bi-lancio annuale di 8 milioni di dollari annui dell’Ufficio ONU in Africa occidentale con-ferma il carattere assai economico degli sforzi della prevenzione. Un’analisi dettagliata del lavoro diplomatico sin qui svolto da UNOWA nella promozione al ritorno all’ordine costitu-zionale in Paesi recentemente colpiti da golpe militari – Mauritania, Guinea Conakry, Niger – una vera e propria shuttle diplomacy – con-ferma indubbiamente la natura cost-effective della diplomazia preventiva in una fase storica in cui il bilancio delle operazioni di peacekee-ping dell’ONU ha ormai stabilmente superato la quota annuale di 8 miliardi di dollari. Il successo di UNOWA dovrebbe altresì far ri-flettere sull’ipotesi di pensare alla costituzione di nuovi uffici regionali che, sprovvisti della natura di resident mission, possono godere di una maggiore legittimità e libertà d’azione nel promuovere approcci sub-regionali, con Stati membri e con organizzazioni dell’area, e lavo-rare così alla soluzione di crisi politiche su-scettibili di degenerare in conflitti dalle di-mensioni non unicamente nazionali (si pensi ai fenomeni come i flussi di profughi, i mo-vimenti transfrontalieri di bande armate e mercenari,etc.). Il rapporto del SG, forse con-sapevole dello scetticismo che regna all’interno della membership del Consiglio di Sicurezza rispetto alla creazione di nuove en-tità onusiane dal profilo d’azione regionale, ha evitato di suggerire la ripetizione, in altre aree, di esperienze di successo come quella di

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UNOWA o dello United Nations Regional Center for Preventive Diplomacy for Central Asia, la cui azione è stata fondamentale nell’arrestare le violenze inter-etniche scop-piate nell’estate del 2010 in seguito alla rimo-zione del Presidente Kurmanbek Bakiyek. L’opzione di una presenza regionale dell’ONU potrebbe del resto risultare partico-larmente utile in relazione ai Paesi dell’Africa settentrionale del Medio Oriente. Un approc-cio regionale favorirebbe ad esempio l’accettabilità di un’azione dell’ONU non mi-rata su singoli Paesi, per principio ostili ad un’ipotetica interferenza politica del palazzo di vetro – si pensi a Siria, Yemen o Bahrein – ma concentrata piuttosto sull’esecuzione di un mandato d’area per la facilitazione del dialogo politico e della prevenzione dei conflitti. Nondimeno, la nuova riflessione sulla diplo-mazia preventiva non sembra aver colto inte-ramente l’importanza di un esame dei rischi di duplicazione e sovrapposizione esistenti nelle strutture onusiane di prevenzione dei conflitti. La proliferazione degli uffici integrati di pea-cebuilding – affermatisi ormai come exit stre-tegy “istituzionale” alle operazioni dei caschi blu – solleva il tema della loro relazione con i cosiddetti country office dello United Nations Development Program, organizzazione onu-siana che, pur impegnata nella cooperazione allo sviluppo, associa a tale mandato un’intensa attività di ricostruzione post-conflittuale e prevenzione delle crisi. Dal di-battito di settembre è mancata altresì la rifles-sione su alcuni casi particolari, come quello rappresentato dall’anomalia dello United Na-tions Political Office for Somalia, divenuto nel tempo un ibrido tra potenziale resident mission e ufficio regionale. Concepito infatti come resident political mission, UNPOS, no-nostante i piani per un suo ritorno a Mogadi-scio, continua, per ragioni di sicurezza, ad es-sere a basato a Nairobi e ad effettuare, tramite

il suo Special Representative, il tanzaniano Augustine Mahiga, un’assai intensa shuttle diplomacy tra Kenya, Somalia (Mogadiscio), Somaliland, Puntland, Etiopia ed Eritrea. Ope-rativo ormai sin dal 1995, UNPOS meritereb-be una revisione più approfondita del suo ope-rato e la sua integrazione in un’entità anche qui sub-regionale - per il Corno d’Africa - po-trebbe forse più realisticamente rispondere al-le esigenze di soluzione di un conflitto che si trascina da due decenni anche grazie all’effetto determinante delle tensioni tra gli Stati dall’area. I prossimi mesi L’enfasi comunque attribuita da Ban Ki Moon al tema della rafforzamento della diplomazia preventiva – da lui confermata come una delle sue priorità anche nel suo secondo mandato alla guida dell’ONU – consente di prevedere che la questione non sarà solo al centro dei lavori della 66esima sessione dell’Assemblea Generale, ma continuerà ad essere oggetto di nuove discussioni in seno al Consiglio di Si-curezza. Appare altresì probabile che una ri-flessione più articolata sul lavoro degli uffici regionali dell’ONU impegnati nella diploma-zia preventiva possa svolgersi in seno alle commissioni tecniche dell’Assemblea Genera-le. Proprio sulla base della storica risoluzione approvata dall’AG nello scorso mese di lu-glio, Ban Ki Moon presenterà, nelle prossime settimane, un articolato pacchetto di proposte per rafforzare e consolidare le “missioni poli-tiche speciali” dell’ONU, mediante la crea-zione di meccanismi più flessibili e rapidi per il loro finanziamento. Il pacchetto potrebbe anche essere associato al rilancio di un piano di formazione del personale del Segretariato ONU alfine di incrementarne la disponibilità di risorse umane impiegabili nel sostegno tec-nico e logistico alle attività di diplomazia pre-ventiva.

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1 United Nation General Assembly Resolution, A/65/ 283, 22 June 2011 2 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General, Preventive Diplomacy: Deli-vering Results, S/2011/552, 9 September 2011.G

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Titolo: I rischi per l'infrastruttura informatica della Difesa. Individuazione delle risorse organizzative necessarie al contrasto dell'_"attacco informatico" per l'attivazione di strutture dedicate all'_"anti-hacker intelligence".

Autore: Prof. Gerardo IOVANE

La trasformazione del cyberspace da puro spazio informativo astratto a reale spazio d’azione e' oramai intrapresa: le azioni poste in essere nel cyberspace realizzano oggi effetti nello spazio fisico reale.

Il Rapporto di ricerca e' strutturato in modo da fornire nei primi capitoli le cognizioni occorrenti per comprendere ed interpretare il macro-scenario dell'attuale ''violenza'' informatica, con attori le cui caratteristiche principali non sono riconducibili ai vecchi canoni del confronto tra stati-nazione, ma sono meglio interpretabili in termini di azioni non-cinetiche e, soprattutto, dagli effetti secondari di rilevante importanza, e dall'intenzionalita' difficilmente asseribile.

L'autore con il suo Rapporto di Ricerca fornisce un quadro di situazione, informazioni tecniche, informazioni sulle "policy", esame di linee di tendenza e analisi professionali di livello nettamente "superiore", per profondita', chiarezza e lucidita' di vedute.

T.Col. Volfango Monaci Edizione: 2011 Editore: Centro Militare di Studi Strategici Prezzo: Disponibile gratuitamente, all'indirizzo web:

http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti_militari/CeMISS/Pubblicazioni/News206/2011-02/Pagine/I_rischi_per_linfrastruttur_12446intelligence.aspx

Page 81: defaultoperazioni di sondaggio dei fondali al largo di Cipro, finalizzati ad individuare nuovi giacimenti di idrocarburi. Cavalcare l’onda emotiva che segue le rivoluzioni può apparire

Anno XIII – n° 9 settembre 2011

RECENSIONE

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Titolo: PID/S-1 La Dottrina Militare Italiana. Autore: Stato Maggiore della Difesa - III Reparto – Centro Innovazione della Difesa

La natura complessa del contributo richiesto alla Difesa, nel quadro di uno scenario internazionale in continua evoluzione, impone la disponibilita’ e l’utilizzo integrato, sinergico e sincronizzato di tutte le capacita’, materiali e immateriali, che lo strumento militare e’ in grado di esprimere.

Analogamente, la ricerca del successo in operazioni presuppone l’acquisizione e l’applicazione di un articolato, rigoroso e condiviso complesso di conoscenze e di valori, in grado di stimolare la creativita’ e la capacita’ di giudizio del Comandante. Tale duplice funzione di integrazione e omogeneizzazione delle capacita’ e delle conoscenze non puo’ che essere affidata alla Dottrina. E, in particolare, alla Dottrina Interforze, quale espressione unitaria dell’identita’ culturale e di pensiero della Difesa Italiana e dei valori di lealta’, moralita’, dedizione e professionalita’ a cui essa tradizionalmente si ispira. La Dottrina Militare Italiana, quindi, nel fornire i principi e i criteri fondamentali d’impiego delle Forze Armate, promuove la creazione di una comune prospettiva e base di pensiero per la pianificazione e la condotta delle operazioni Interforze e/o Multinazionali, alla luce degli obiettivi definiti nell’ambito delle Politiche di sicurezza e difesa nazionali.

(tratto dalla “Premessa”, pag v) Edizione: Giugno 2011 Editore: Stato Maggiore della Difesa Disponibile per il download all'indirizzo web:

http://www.difesa.it/SMD/Staff/Reparti/III-reparto/Dottrina/Pagine/PID_S_1.aspx