Opera Prima - Gabriele Belletti
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Titolo: Condominio
Autore: Gabriele Belletti
Fonti: Collana “Opera Prima”, n. 24, Anterem 2010
A cura di: Luigi Bosco e Poesia2.0
In copertina: disegno di Daniel Egneus
Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro.
Tutti i diritti riservati all‟autore.
OPERA PRIMA
24
GABRIELE BELLETTI
CONDOMINIO
(Poesie Scelte)
Anterem, 2010
12:27
porta si apre, con le dita sfilacciate accidenti accarezzano i pavimenti,
dille di venire domani, ombra noia non segue pare, ombra noia ha la
museruola degli oggetti decisi lenti, la libellula croce rossa fa
gocciolare la cenere del sole sulla terra incattivita, arriva Fernanda,
con la tosse inasprita grattugia, girati, la lana fuggita grigia dalla casa
s‟addormenta nella landa, non geme e non suda, la calza rossa isola
aspetta, le onde bugia dell‟elettrodomestico aspiratore non tornano,
l‟alluce gioca con la bacinella, elimina con un semplice gesto anche i
peli più corti, telefono ambasciatore di presenze frettolose in sospeso
traffica, con il risuonare infiltrato della lavatrice folle, cassa con sopra
donna boccolosamente triste, poi conficcata sulla sedia girevole
18:06
non ha il permesso della polvere, non perturba la stanza, la muoverà,
soffocherà, cenere, le cisterne grigie dell‟ozio ossuto decidono di
contare il di loro contenuto costanza, borsa gialla e rossa Sinalco, in
ore in polvere, non mi muovo ancora, calco, spengo, dove non si
muove lei decide il confine sedere, può invadere una fetta, un
quadrato base per altezza del gelatinoso braccio abbandonato, si fa
colla e sigaretta, ventilatore bianco a velocità uno che dice di no
ripetutamente assonnato, incontra la saliva, un boccone letterale nella
bocca chiusa prende la forma, le signora Paganelli sputa è viva, gatto
di legno rigato e inclinato, la scopa, attende una ribellione comune di
Parigi, in fretta lascia il significato la mandibola deforma
14:24
si scompone il maggiolino, entra, nella casa paurosa, coperta, sono le
parole, non riconosco il vicino, il gatto appoggia la testa, non si
accorge, osa, il maggiolino, genio del teatro inventa la lingua uncino,
tutta sua, non riconosco, si affida alla carne, appoggiata al divano, con
la sigaretta mi chino, scavalca la folta cecità grigia, la vedo, non so
cosa farne, la salvezza, ha provato, vuole averlo, non riesce ad
assentarsi da lui, a togliersi di mezzo, dall‟ospedale, averlo, è venuto a
trovare, la grande lucciola non vuole riflettersi, ruvida, punto luce
verde, punto luce giallo, s‟addestra alle distanze, l‟altro, lo attacca
negli occhi, s‟avvicina, scappa lento, scappa e la natura è la stessa, si
converte nel nuovo, ma non cambio, la mattonella marrone lo mostra
in fallo, eccolo, prendilo il solleticatore, estraneo, ti rivolge, nel sogno
cammina, il fumo ampio lo raccoglie, si lega, la pianta, della mano,
non c‟è, calore, nero su rosa, verde e nero, su rosa, maggiolino, su
fiore tagadà, puzza il fiore, non c‟è nascondiglio, rumore verde, vola,
vattene, vola, il filo, non riesco, morirà impigliato, nella rosa
11:59
si complica la strada, verso il frigorifero, alto, mio, e non ti vuole, ti
accosti, io, impulso si esplica, ticchettio prudenza, si abitua ad avere a
che fare e duole, senza nominare, difficile, lumaca mucillagine, lascia,
perdo la striscia, e scappa, il tempo la scavalca, sento la porta, ricopre
gli inferi, divano e immagine, scatola risuona le tappe, «se non conto
niente in questo mondo mi estinguo dall‟esserci», non prova ad
aprirla, ritorno e ho fame, l‟autobus delle undici e quarantasette in
sottofondo, undici e cinquantanove, non sento la stessa cosa, trova, la
pianta si muove, si perde le parti della bava, e si fa trovare, l‟odore
arriva, «occidente vuol dire tramonto», non si muove, solo la
forchetta, tolgo tutto, tranquillamente, non sono molto interessato, il
suono s‟incontra, virtù dell‟appartamento, fioritura, esplode contrario,
ora mi alzo e vado a lavare i tre piatti, la forchetta e la pentola, la
lumaca ha scelto, non sento, dormire, il telefono fa alzare la donna, il
gatto chiede di mangiare, resto spento
23:05
la lampada rossa di bolle, non si stanca a dare il ritmo, tutto è fluido e
il tempo colla, altri suoni, la guardo mentre non si sente, l‟altra gialla
ha più forza per il mio buio, mente, il rumore di una donna che piscia
nel bagno, l‟appuntamento del sabato che non manca, l‟aria è diversa,
si camuffa dietro il pretesto del domani ragno, i pesci non sanno spiare
gli esseri umani, la donna si alza e mi guarda, la macchina passa,
vorrei essere già farfalla, ho fame e non c‟è niente, la luce della
televisione attira l‟insetto, nessuno lo vede venire, preferisci stare qui
e non fare niente, il lampadario riposa l‟aria gialla, prendimelo ancora
in bocca, ho fame e non capiscono, la coperta blu sul pavimento, il
cane ci guarda, il rumore del telefono ritorna
Trame dell’esplosione
Postfazione
di Daniele Maria Pegorari
C‟è una „scheggia‟ di testo da cui mi conviene partire per tentare una
lettura di questa bella „opera prima‟ di Gabriele Belletti: nel cuore del
testo segnato dall‟orario 06:57 si legge «trame in attesa di film della
settimana», che mi pare un‟acuta variazione sul tema
dell‟impossibilità di un racconto organico, che si accompagna alla
speculare sparizione dell‟autore come super-io in grado di dominare la
realtà che intende rappresentare, rovesciando sui fenomeni la forza
della propria ragione ricompositiva e interpretativa e lato sensu
ideologica. In altri termini le «trame in attesa di film» non sono che la
riedizione di uno dei miti capitali della post-modernità, quello dei
personaggi in cerca d‟autore che si rifiutano alla mediazione di una
mente filosofica, poiché la tragedia di cui sono portatori è immane e
inaccettabile, dunque non accoglibile dalla mente e ancor meno
incastonabile all‟interno di una forma artistica, sia essa il romanzo
edificante o il dramma catartico. Tale mito è poi contaminato con la
grande metafora cinematografica di Pasolini, per la quale solo il
montaggio dà senso ai frammenti d‟azione e dà luogo al film, con la
stessa definitezza con cui la morte, impedendo ogni altra
modificazione dell‟identità, rende una vita raccontabile: in altri
termini, ancorché paradossali, la morte dà senso alla vita.
La poesia di Belletti, invece, si rassegna sconsolata a guardare la
violenza di una soggettività e di una collettività ridotte a un pulviscolo
di azioni decentrate, defunzionalizzate, insignificanti e pertanto non
raccontabili, dunque «trame» in assenza di un «film» che possa
renderle intelligibili e „costruttive‟, cioè concretamente disposte
secondo una struttura, ma anche, sul piano morale, portatrici di un
significato comunicabile. Misurata la fine di ogni pretesa, epica prima
e romanzesca poi, di ricognizione e spiegazione globale della realtà
(di cui sono fulgida testimonianza, lungo tutto l‟arco del Novecento, il
romanzo coscien-zialista di D‟Annunzio, Svevo, Pirandello, Gadda e
Moravia e le allegorie antieroiche di Calvino, da Il sentiero dei nidi di
ragno a I nostri antenati, da Il ca-stello dei destini incrociati a Se una
notte d‟inverno un viaggiatore), anche la poesia del Novecento ha
dovuto prendere atto della perte d‟auréole della funzione autoriale,
passando dalla confessione della tentazione del silenzio, propria di
Montale, a quella sorta di delega semiologica rappresentata
dall‟equiparazione fra poeta e lettore nell‟ermetismo, fino ai labirinti
linguistici di Zanzotto e delle neoavanguardie e alle poetiche
dispersive e tragiche di Cucchi, Ermini, Ruffilli e De Angelis, che
definirei „indiziarie‟, nel senso che la condizione umana vi appare
segnata ab origine da una sparizione o da una sentenza letale che
costringe il soggetto ad aggirarsi alla ricerca di segni perlopiù muti di
una storia già trascorsa. La grande letteratura borghese ch‟era stata per
definizione costruttiva e proiettiva – come nel concetto di
Bildungsroman – si ritrova invece polverizzata in un‟antipoesia che
rimpiange l‟innocenza perduta, l‟armonia originaria che si esprimeva
anche formalmente, attraverso la musicalità della metrica, la
cantabilità del verso.
Non mi sembra casuale, d‟altra parte, che l‟età contemporanea abbia
conosciuto nei suoi momenti esordiali e in quelli provvisoriamente
finali l‟esperimento della rinuncia alla singolarità dell‟autore, dalla
poesia multilingue e a più mani di Dada alla cosiddetta nuova epica
dei „collettivi‟ dei giorni nostri, che perlopiù si nascondono dietro
alcuni pseudonimi di relativo successo. L‟idea che regge queste
ipotesi, indipendentemente dall‟opzione per l‟anonimato o per la
conservazione delle firme, è che, se il tempo storico che ci troviamo
ad attraversare è inadatto a formare un‟individualità autenticamente
autoriale, una «umana compagnia» di scrittori «confederati» possa
almeno lottare contro una totale destituzione di senso. È entro questa
cornice che occorre collocare la raccolta di Belletti, giacché essa
rappresenta l‟arduo tentativo di mettere a tema proprio la sparizione
del soggetto lirico, cioè quello che statutariamente coinciderebbe con
l‟io empirico scrittore dei versi, e lo fa genialmente sia attraverso una
costruzione testuale che consente la moltiplicazione delle voci, sia con
una struttura che soltanto all‟ultimo brano, con un vero e proprio
colpo di scena, disvela la motivazione della sua natura intrinsecamente
„antinarrativa‟, cioè antifilosofica, antideologica e antisoggettiva. Il
riconoscimento di un rapporto con la forma „romanzo‟ è obbligato
dalla scelta del titolo, Condominio, cioè un „luogo‟ per eccellenza, in
cui le storie concrete particolari possono intrecciarsi ed essere
magnificamente romanzesche, come avveniva nelle locande
dell‟Ottocento francese o, prima ancora, nei castelli della letteratura
cavalleresca o gotica.
Eppure il condominio non è così tanto presente, come si potrebbe
pensare, nella letteratura novecentesca, proprio in virtù del fatto che il
romanzo perde la sua presunzione di „opera mondo‟ (cioè diventa altro
da sé e, in definitiva, anti-romanzo) e si dirige prevalentemente verso i
non-luoghi (supermercati, autostrade, stazioni, discoteche), cioè i
luoghi della dispersione o dell‟intreccio casuale, che non prevede
impegno e condizionamento dell‟identità (che essendo vieppiù
inesistente, come quella del cavaliere di Calvino, avrebbe un bel
daffare se dovesse dimostrare la propria tenuta eroica). Semmai, e non
per caso, il condominio ricompare come location di
quell‟abbassamento popolare e commerciale del romanzo borghese
che è la fiction televisiva, dove non si richiede profondità critica o
complessità ideologica e il contenitore abitativo è solo il pretesto per
l‟incastro delle storie che vi si svolgono. Allora mettere in campo il
condominio, da parte di Belletti, significa inevitabilmente misurarsi
con le questioni tipicamente postmoderne della scomparsa
dell‟identità e della irrappresentabilità della storia e del tempo:
esautorato della facoltà di ordinare e raccontare le storie molteplici,
operandovi quella reductio ad unum che era tradizionalmente il
mandato pedagogico di ogni romanziere, da Omero a Boccaccio, da
Balzac a Manzoni, l‟io lirico si riduce alla misura di uno dei tanti io
empirici che compongono la realtà disordinata di quello spazio
collettivo, precisamente quella che si pone in ascolto e visione di tutto
quello che gli capita e lo riversa spasmodicamente sulla pagina, come
in un diario dell‟inutile, in un regesto dell‟antiepica.
Dopo di che l‟io si rifugia in un angolo dello spazio, della „stanza‟ (nel
senso metaforico della porzione abitata e in quello formale dei ventisei
frammenti che costituiscono questo impossibile poemetto), e si
confonde con altri io, maschili e femminili, senza che sia più possibile
identificarlo o ricostruirne le intenzioni. Non potendo restituire alla
realtà la sua armonia perduta, il poeta ricorre a una finta prosa (i cui
precedenti immediati e significativi sono da ricercare in Flavio Ermini
e in Stefano Guglielmin), cioè a blocchi di testo il cui unico principio
ordinatore è la geometria perfettamente rettangolare delle sue righe
giustificate che rinviano proprio agli spazi impersonali e modulari
dell‟abitazione urbana. La scrittura, così, è priva di ritmo, ardua nelle
sue volute anacolutiche ed ellittiche, spiazzante per la mancanza di
punti fermi e la presenza di virgole che, fuorché indirizzare
logicamente il lettore, talvolta spezzano le sequenze, dimostrando che
persino ciò che sembrava unito, in realtà appartiene a percezioni
distinte.
L‟esempio migliore mi pare al secondo rigo della „stanza‟ 17:03:
«[…] la donna vecchia spazza, la cucina senza accorgersene […]». Se
non vi fosse quella virgola, si sarebbe in presenza di un microepisodio
di questa antiepica quotidiana, insignificante, certo, ma pur sempre
un‟azione compiuta e assolutamente plausibile nel contesto domestico
di un „romanzo tentato‟; invece la punteggiatura segnala che persino
in quel segmento linguistico così limitato si stanno sovrapponendo
due distinte percezioni mutilate (la prima nella sua conclusione, la
seconda nella sua partenza), come tutte le altre che si affastellano in
questa sorta di flusso di coscienza che vede dilatarsi i minuti (proprio
quelli che fanno da indicatori paratestuali per ciascuna stanza) nel
tentativo, non più di scegliere gli eventi importanti dotati di pienezza
semantica (impresa impossibile a questo soggetto dimezzato), ma di
registrare il più possibile gli indizi, le tracce, i relitti di una vita
collettiva disperatamente convulsa. Frammenti di dialogo,
infrapensieri, rumori, azioni scorciate, visioni di oggetti inanimati
anche minimi che assumono lo stesso valore degli esseri umani (cfr.
18:06: «[…] ventilatore bianco a velocità uno che dice di no
ripetutamente assonnato […]»), spezzoni catturati da un apparecchio
televisivo o radiofonico, indicati tra virgolette (cfr. 20:10: «[…] “gli
indici di contrattazione sono in rialzo, le indiscrezioni su un probabile
nuovo taglio sui” […]»; 17:03: «[…] “adesso e nell‟ora” […]»),
insomma ogni meteoritica informazione che possa sovrapporsi nel
tempo puntiforme del minuto è ansiosamente riposta nella scatola
quadrangolare del testo, come se per questa via Belletti volesse
realizzare un deposito privato dei pochi oggetti dominabili dal
soggetto, fino a fissare la propria predilezione sul corpo, che già da
Volponi a Magrelli, passando per Oldani, è stato il rifugio estremo
dall‟assalto della Storia. Sembrerebbe, dunque, fino alle soglie
dell‟ultimo brano, che il poeta stia davvero tentando un diario del
minimale, al punto che ogni volta che l‟orario indicato in apertura di
brano non è consecutivo al precedente, il lettore è indotto a credere
che sia trascorsa una notte e che il nuovo orario sia da collocare al
giorno successivo, il che porterebbe a quattordici giorni il tempo della
storia possibile, ammesso che non ci siano salti più lunghi o che,
addirittura, non appartengano a giornate differenti anche gli orari che
sembrano in sequenza.
Questa struttura aumenta l‟effetto paradossale di quelle scansioni
cronologiche, anch‟esse care al racconto televisivo, in particolar modo
giallo, in cui l‟orario accresce l‟aspettativa del pubblico e tiene alta la
tensione preparando quest‟ultimo alla rivelazione di un particolare
importante. E invece nel Condominio di Belletti non avviene nulla di
diverso da quanto è possibile immaginare nella vita di ognuno, tra
porte che si aprono, fiori maleodoranti, il rumore dell‟«autobus delle
undici e quarantasette», amplessi spregiudicati, come del tutto
ordinaria è l‟azione compiuta da un personaggio nell‟ultimo
sorprendente brano, 5:29: «[…] salvo un condomino, cocci liberi, in
quell‟istante era sceso a gettare la spazzatura». Eppure questo gesto è
quello più grottescamente postmoderno, degno dell‟antieroe
novecentesco, quello che vince o si salva sempre solo per caso, non
certo per l‟eccellenza della propria virtù o per un destino più alto che
gli sia dato (come nell‟Enea virgiliano, per intenderci): la casualità di
quella breve uscita dal Condominio è ciò che salva il personaggio –
una donna, si apprenderà – dall‟esplosione per fuga di gas che
distrugge l‟intera palazzina, e allora ci sovviene che uno dei brani
centrali del poemetto, alle ore 12:04, iniziava con le parole
«dimenticata di spegnere il gas», esemplare del procedimento ellittico
di questo poemetto, per la mancanza del soggetto e del verbo ausiliare.
Così scopriamo finalmente l‟arcano: non si tratta del fallimentare
romanzo condominiale della durata di due settimane o più, ma del
racconto poetico di due esplosioni – quella coscienziale, di cui
eravamo già al corrente, e quella per così dire „reale‟ di un caseggiato
e delle sue numerose vittime – raccontate, probabilmente, nell‟unico
giorno del loro accadere, ma con un punto di vista totalmente „interno‟
alla deflagrazione stessa. L‟io che racconta vivendo è esploso, come il
visconte calviniano, insieme con tutto il resto e i suoi frammenti di
diario si sono scompaginati e disordinati più di quanto non lo
imponesse la stessa inettitudine del soggetto. I mille brandelli di realtà
ch‟egli ha pazientemente trascritto sono tessere di un puzzle che non
si ricomporrà mai, perché nessuno potrà farsi mallevadore della
corretta sequenza delle schegge narrative, certo, ma ancor più perché
l‟esplosione non ha fatto che aggravare quel deficit di consapevolezza
rappresentativa e di responsabilità intellettuale che sono il frutto di
un‟originaria e tragica débâcle dell‟io.
Gabriele Belletti (Rimini, 1980) vive a Santarcangelo di Romagna. Si
è laureato in Filosofia all‟Università di Bologna con una tesi dal titolo
Estetica comprensiva e poetica degli oggetti, sulla nuova
fenomenologia critica di Luciano Anceschi. Ha partecipato alla
seconda edizione di RicercaBo, organizzata nel 2008 dall‟Università
di Bologna presso la Mediateca di San Lazzaro, dove ha presentato le
prime dieci poesie di Condominio. Insegna nei licei.