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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Filosofia TESI DI LAUREA UNA TEOLOGIA PER UN MODELLO DI CONOSCENZA IL “DE TRINITATE” DI AGOSTINO D’IPPONA. Relatore: Chiar.mo Prof. Massimo PARODI Correlatore: dott. Stefano SIMONETTA Laureando: Giuseppe Bottarini Matr. n. 543449 Anno Accademico 2003 - 2004

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INDICE INTRODUZIONE……………………………………………………p..1 PARTE PRIMA LIBRI I – IV: SECUNDUM SCRIPTURAM 1.1 Lo sviluppo del dogma trinitario nel cristianesimo

dei primi secoli……………………………………………………p.. 5 1.2 La via di Agostino………………………………………………...p.11 1.3 Teologia e cristologia……………………………………………..p.13 PARTE SECONDA LIBRI V – VIII: NON SUBSTANTIALITER, SED RELATIVE 2.1 La dottrina delle relazioni………………………………………..p.19 2.2 Persona e sostanza………………………………………………...p.22 PARTE TERZA LIBRI IX – XV: DE VERITATE 3.1 Essere e verità……………………………………………………...p.29 3.2 Essere e soggetto: l’anima…………………………………………p.42 3.3 Verità e soggetto……………………………………………………p.53 CONCLUSIONE La tradizione filosofica di un modello di ragione…………………….p.70 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………… p.73

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INTRODUZIONE

Composto lungo l’arco di più di un ventennio, dal 399 al 421, il trattato

intitolato alla Trinità è una delle opere più complesse di Agostino, nella

quale metodo e pensiero si riflettono l’uno nell’altro, nel senso che la

concezione metodologica dell’opera esprime quella filosofica nelle sue

caratteristiche fondamentali.

I 15 libri che lo costituiscono sono stati suddivisi, secondo un giudizio

pressoché unanime della critica, in tre grandi blocchi: libri I – IV, che

trattano in senso dogmatico – esegetico la giustificazione del dogma; libri

V-VII, in cui si svolge una chiarificazione logico-filosofica; libri VIII - XV,

dove Agostino si incammina alla ricerca dell’imago Trinitatis, in un

itinerario filosofico che consenta alla ragione di cogliere, senza esaurire, ciò

che prima riteneva per fede1. Il libro VIII è stato spesso considerato di

transizione, ma in virtù del fatto che presenta una preliminare introduzione

filosofica alla nozioni di verità, bontà, giustizia e amore, sembra potersi

collocare come ultimo libro del secondo blocco, in tal modo definito dai

libri V – VIII. In questa sezione del trattato viene svolta la dottrina delle

relazioni intratrinitarie, secondo un modello di logica relazionale rilevante

sia per la teologia sistematica, sia per la filosofia della conoscenza e della

soggettività, trattate nella terza ed ultima parte, qui dunque identificata nei

libri IX – XV.

Il metodo seguito nella concezione generale dell’opera esprime la stessa

progressiva generazione della verità, a partire dalla sua affermazione nella

fede biblico-teologica, l’initium fidei quale gradino preliminare in cui la

1 cfr. H. Marrou, S. Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1989. L’opera di Marrou rappresenta il riferimento comunemente accettato dalla critica per le discussioni sulla suddivisione del trattato, pur nelle diverse concezioni del significato delle parti così distinte.

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ragione si coglie nella misura, nell’ordo che ne è condizione: il giudizio

dunque non definisce la regola, ma vale, piuttosto, nella regola.

Il riconoscimento dell’indisponibilità di questa misura nell’esteriorità

condizionata della conoscenza sensibile, e l’esperienza della sua evidenza

nella costituzione trascendentale della coscienza avvengono in quella

incorporea conversio, lungo quell’itinerarium di “riduzione”

fenomenologica e trascendentale alle proprie condizioni di senso compiuto

dalla mens che culmina, di analogia in analogia, nella generazione della

sapientia, che proprio in quanto generata si propone come imago Trinitatis,

non perciò in ragione di una qualità mimetica della rappresentazione, che

poi si estenderebbe al giudizio, ma per la sua virtù espressiva, che possiede

in quanto analogia della generazione della verità nella verità, nell’originaria

e semplicissima unità della misura, della regola e dell’ordo che costituisce

l’insuperabile orizzonte di legittimazione del pensiero e dell’esistere.

Tale methodos coincide con l’itinerarium, con il dispiegarsi della mens nella

verità, come indicano una serie di testimonianze interne, a partire dal libro I,

2.4 2, in cui si tratta di reddere rationem primum secundum auctoritatem,

segnalando l’initium fidei quale primo passo del necessario reditus critico

della ragione alle proprie condizioni di possibilità. Il prologo al libro VIII

afferma il principio metodologico della exercitatio mentis, dove il continuo

ritorno alle verità comprese e dette serve alla chiarificazione della loro

inerenza ad un piano epistemico di fondazione, che avviene, da questo libro

in poi, modo interiore.

In XV, 3.4 e 3.5, Agostino, prima di compiere lo sforzo finale, getta uno

sguardo retrospettivo sulla materia trattata, ne dà la sintesi, consentendo di

individuare nella sua concezione della domanda filosofica le ragioni di un

metodo che è già epistemologia, chiarendo il senso della sua inerenza ad un

quadro platonico e neoplatonico di riferimento. Secondo questa

2 Agostino d’Ippona, De Trinitate, in Nuova Biblioteca Agostiniana. Opera omnia di Sant’Agostino, a cura della Cattedra Agostiniana, fondatore e direttore A. Trapè direzione di R. Piccolomini, Roma 1987-2004, vol. IV. Per le citazioni dal De Trinitate e dalle altre opere di Agostino menzionate, si fa riferimento a questa edizione.

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ricostruzione (XV, 3.5) il libro VIII introduce un nuovo metodo, segnato

dal ricorso alla riflessione: ratione reddita intelligentibus, ma cambia anche

la prospettiva dell’oggetto, per cui Dio non è più considerato a partire dalla

Trinità, per dimostrarne l’unità, ma, viceversa, si considera l’unità e se ne

indaga la conformazione trinitaria, queritur quid tres sint.

Il metodo è per veritatem quae intellecta conspicitur, e non più secundum

Scripturam, mentre il rovesciamento della prospettiva indica che ci si

muove in un quadro filosofico che, nel riconoscere l’unità quale propria

misura, rifigura la domanda filosofica come domanda sul Bene in sé

concepito come condizione di ogni altro bene, quindi di una vita felice,

possibile come tale solo nella misura, nella regola e nell’ordo, la cui

tematizzazione quindi non punta anzitutto alla costruzione di un’ontologia,

di una filosofia “prima” in senso aristotelico: Non omne quod de Deo dicitur

secundum substantia dici…sed dici etiam relative, id est non ad se, sed ad

aliquid quod ipse non est (ibid.) Si tratta dunque di un’indagine

indispensabile alla posizione stessa della domanda, in direzione di una

fondazione epistemica delle condizioni alle quali la verità e il bene, nella

misura concessa alla finitudine umana, sono effettivamente possibili come

partecipazione alla loro misura suprema: Deinde per veritatem quae

intellecta conspicitur, et per Bonum summum a quo est omne

bonum………ut natura non solum incorporalis, verum etiam immutabilis

quod est Deus, quantum fieri potest, intellegeretur admonui.(ibid.).

Da qui in poi, la via intrapresa è quella della ricerca dell’imago Trinitatis,

nel limite segnato dall’analogia: sempre seguendo XV, 3.5, la riflessione

sulla caritas ha condotto ad una prima analogia, l’amante, l’amato, l’amore,

mentre nel libro IX si è analizzata l’imago nell’homo secundum mentem:

mens, notitia, amor.

L’itinerario approda infine alla triade memoria, intelligentia, voluntas, e

dopo una digressione sulle possibilità espressive offerte dall’uomo esteriore,

nella considerazione del senso della vista, che conferma l’insufficienza di

una analisi fenomenologica che non giunga a quella incorporea conversio in

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cui la coscienza coglie nella propria costituzione trascendentale la misura

come fondamento della propria verità, si perviene alla sapientia come

modalità espressiva adeguata, imago e analogia dell’ordine stesso, in cui

anche la scientia trova la sua legittimazione, come sapere dell’ente secondo

la regola e il numero3. Nel XIV libro, questa sapientia è connotata come

Dei munere in eius ipsius Dei participatione donata4.

Finchè, nello stesso libro XV5, si ribadisce che il valore conoscitivo

dell’imago stessa - in aenigmate et per speculum – non si fonda nella

capacità rappresentativa, mimetica, diretta quindi alla riproduzione del dato,

che pure si è soliti ascriverle, ma nella qualità espressiva del proprio

carattere genetico, in virtù del quale, come il Verbo è somiglianza espressa e

quindi imago del Padre in quanto da lui generato, così la sapientia, generata

quale culmine dell’itinerarium mentis, lo è dell’ordine e della misura nei

quali riconosce il proprio fondamento.

3 Cfr. H. Marrou, op.cit., pp. 171 ss. 4 De Trin., XIV, 19.25. 5 Ivi, XV, 9.15; 11.20.

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PARTE PRIMA

LIBRI I – IV: SECUNDUM SCRIPTURAM

1.1 Lo sviluppo del dogma trinitario nel cristianesimo dei primi secoli

La teologia del primo cristianesimo tentò di dimostrare la concordanza fra la

confessione della divinità del Figlio e dello Spirito Santo e il monoteismo

dell’Antico Testamento, spiegando in chiave trinitaria certi passaggi

veterotestamentari. Questo modo di procedere è in relazione con la storia

esegetica che questi testi hanno già conosciuto nel pensiero giudaico 6. Il

nesso è interessante, perché mostra come la concezione cristiana del Figlio

quale ipostasi preesistente accanto al Padre e le relative idee che sullo

Spirito si sono formate lungo il cammino che ha portato alla dottrina

trinitaria, non siano a priori in contrasto con il giudaismo e la sua fede

nell’Unico Dio. Si pensi a ciò che il libro dei Proverbi dice sulla sapienza

preesistente, che poi sarà il punto di partenza sia del concetto giovanneo di

logos, sia della dottrina ad esso relativa sviluppata dall’apologetica nel

primo cristianesimo. In modo simile anche la teologia rabbinica ha

identificato la Sapienza preesistente di Dio con la Thorà: la Sapienza è vista

come una forma di manifestazione divina al tempo stesso relativamente

distinta da Lui. Qualcosa di analogo si riscontra anche nella teologia

deuteronomistica del nome di Jahvè, del quale si afferma che abita nel

tempio, mentre Dio sta nel cielo (Dt 26,15); ed anche la Gloria di Jahvè è

6 cfr. Storia della Teologia, Epoca Patristica ., a cura di A.Di Berardino – B.Studer, Casale Monferrato, 1993, vol I, cap.1, pp.68 ss.

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raffigurata come un’entità in un certo senso altra rispetto a Dio, come una

gloria che nel futuro escatologico scenderà sulla nuova Gerusalemme per

abitarvi per sempre. In tutte queste rappresentazioni si nota la tendenza a

distinguere le forme di apparire e di agire di Dio nel mondo da Lui stesso.

Questo si spiega con il modo in cui ci si raffigura la trascendenza di Dio: il

fatto che sia stata sempre più rilevata ha avuto come effetto che i suoi modi

di rendersi presente nel mondo si siano a tal punto reificati, da poter essere

concepiti come ipostasi. Per molti aspetti, nelle prime fasi di sviluppo della

teologia cristiana, le concezioni del Figlio e dello Spirito, quali titolari

dell’economia salvifica divina, assomigliano proprio a queste figure.

Possono dunque essere messe in relazione con le rappresentazioni giudaiche

degli angeli, e viceversa i racconti veterotestamentari sulle apparizioni di

Dio che l’esegesi giudaica riferisce a loro possono essere presi come una

convalida della confessione cristiana della triade Padre, Figlio e Spirito. Un

ruolo importante, nella prova scritturistica che la chiesa antica porta per la

dottrina trinitaria, è quello svolto dal racconto della visita dei “tre uomini”

ad Abramo, a Mamre - Gn, 18, 16, e dalla visione della chiamata di Isaia,

che già Filone ricollega ad Es. 25,22 dove Dio parla dall’alto del

propiziatorio dell’arca dell’Alleanza in mezzo ai due cherubini.

Gli enunciati cristiani sul Figlio e sullo Spirito possono quindi ricollegarsi a

problemi di cui già si occupa il pensiero giudaico, vale a dire quelli del

rapporto tra la realtà divina, sostanziale e trascendente, e il modo di

manifestarsi dell’unico Dio. La risposta cristiana, che sarà data con i concili

di Nicea e Costantinopoli, nella professione di fede nella divinità piena del

Figlio e dello Spirito, attesta che le forme della presenza e della rivelazione

di Dio nel mondo devono essere concepite come con-sostanziali allo stesso

Dio trascendente, il quale a sua volta è impensabile senza la Sua volontà di

presenza all’uomo. Questa tematica si ritrova nello sviluppo del concetto di

logos: come per Filone, anche nell’apologetica cristiana del II secolo7 esso è

considerato il titolare vero e proprio della rivelazione del Dio trascendente,

tanto nella creazione quanto nella storia della salvezza. Per questo, Giustino

7 cfr. W. Pannenberg, Teologia sistematica, vol.I, Brescia 1990, pp. 312-313.

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riferisce al logos le apparizioni di Dio narrate dall’Antico Testamento:

specificamente cristiana qui è soltanto l’affermazione che in Gesù di

Nazareth il logos appare in modo corporeo, definitivo e completo. D’altra

parte, proprio la sua identificazione con Gesù porterà alla definitiva

convinzione della divinità piena del logos stesso.

Questo non a causa della sua funzione escatologica, la quale suggerisce

piuttosto uno stato di inferiorità, rispetto all’origine divina, di ciò che

procede da Dio. L’unità con Dio, intesa come divinità piena del logos,

deriva invece dalla sua funzione di rivelazione, capace di conferire una

partecipazione salvifica a Dio stesso. Tuttavia, agli inizi della cristologia del

logos, in primo piano troviamo ancora l’idea della sua unità con il Padre dal

quale egli comunque deriva, allo scopo di garantire la legittimità della

cristologia all’interno di una concezione monoteistica della divinità. L’idea

di logos può essere ricavata anche da quella dell’unico Dio, che con la

creazione del mondo pone al di fuori di sé la sua stessa Ragione, come

Verbo che costituisce l’origine di tutto ciò che è diverso da Lui8.

A quest'idea di processione si ricollega anche quella di partecipazione alla

sostanza del Padre, come si dimostra in Origene. La nozione di processione

cela però un’ambiguità, per la quale o il logos è distinto dal Padre, e posto

sul versante creaturale, oppure si rischia di sacrificare il monoteismo. L’idea

di “generazione eterna” del Figlio, a differenza della creazione del mondo,

introduce una chiarificazione terminologica, nel permanere di un debito

verso l’ontologia neoplatonica e la dialettica del Parmenide platonico, che

rende, almeno in Origene non sostanziale tale chiarificazione.

Atanasio motiva l’unità del Figlio con il Padre su una base diversa da quella

della relazione con l’origine, vale a dire con la logica della relazione al

Figlio che è già implicita nel nome del Padre. Questo però non chiarisce

ancora in quale modo si debba poi più precisamente intendere l’unità. In

questo senso orienteranno i loro sforzi i Cappadoci, vedendo l’unità delle

8 Per l’idea di “logòs endiàthetos e logòs prophorikos”, decisive sono le teologie di Teofilo d’Antiochia e Tertulliano.Una ottima esposizione in J.Kelly, Il pensiero cristiano delle origini, IL Mulino, Bologna 1983.

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Persone nell’unità della loro azione ad extra e ritenendo quindi di poter

contrastare efficacemente il rimprovero di “triteismo”.

L’unità dell’agire divino può essere concepita anche come unità

“collettiva” della sostanza divina, esistente prima ancora di una qualche

attività comune, quando l’idea di un agire unitario si ricolleghi a quella di

una trialità di persone divine.

L’agire comune non è costitutivo per le Persone e le differenze tra esse. La

teologia del secondo e terzo secolo tenta di motivare la differenza delle

Persone trinitarie ricorrendo all’idea di tre diverse cerchie operative, del

Padre, del Figlio, dello Spirito. L’idea dell’attività unitaria di Dio, delineata

nel quarto secolo, tenta di esprimere la ragione costitutiva delle differenti

Persone, riuscendo a non contraddire l’assunto di una pluralità di Persone

divine. Questo è reso possibile dall’idea di una cooperazione continua fra le

tre Persone, dove però la loro trialità dev’essere presupposta per altra via.

Non è possibile ricavare dall’unità del loro agire comune anche le

reciproche relazioni, oppure l’indipendenza o l’autonomia del loro

sussistere.

Ciò che si può unicamente pretendere è che la costituzione delle Persone

divine, sempre che per altre ragioni si debba assumere questa pluralità in

Dio, sia concepita in modo tale che il loro operare sia comprensibile

nell’uno o nell’altro modo. Ciò non esclude l’idea di una cooperazione

collettiva di soggetti ontologicamente indipendenti, perciò attraverso questa

via non si sgombra affatto il campo dal sospetto di triteismo. Nessuna

meraviglia perciò che anche i Padri Cappadoci si vedano costretti ad

affrontare tale sospetto, ora però da un altro versante, quello della riflessione

sulle relazioni tra le Persone, in quanto relazioni costitutive per la loro

differenza e indipendenza.

Invece, Atanasio aveva abbozzato una prospettiva secondo cui la

concezione delle Persone singole di per sé stessa implica le loro relazioni

con le altre, concezione che non può nemmeno formarsi senza queste

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relazioni. Illuminante è a tal proposito il riferimento alle relazioni tra Padre

e Figlio: che il Padre senza il Figlio non sia pensabile come Padre, è

l’argomento decisivo addotto per provare la piena divinità del Figlio.

Successivamente, lo estenderà pure al rapporto del Padre con lo Spirito,

anche se qui il nome di Padre non porta ad un'analoga evidenza.

L’argomentazione diventa persuasiva quando si fa leva sul fatto che il Padre

è Dio, che quindi non può mai essere privo del suo Spirito.

L’argomento è ripreso dai Cappadoci nel tentativo di precisare le differenti

caratteristiche delle tre Persone: le loro peculiarità sono determinate dalle

reciproche relazioni. Questo punto di vista logico non legittima una

soluzione ontologica della questione sulla costituzione delle persone. Qui,

essi si richiamano all’antica idea che il Padre è la fonte della divinità, e che

da Lui il Figlio e lo Spirito ricevono la loro divinità e al tempo stesso la loro

unità con il Padre, che solo è senza origine 9.

Questo però e anche il punto di vista che lega il “subordinazionismo” alle

concezioni pre-nicene della Trinità e che, durante la lotta per la formula di

Nicea, rappresenta sempre un ostacolo per il riconoscimento della piena

divinità del Figlio. E' anche l’argomento degli ariani, secondo i quali

soltanto il Padre è senza origine e quindi Dio nel senso più alto, origine di

tutto il resto, che non ha bisogno Egli stesso di origine. Basilio tra i

Cappadoci distingue fra l’assenza di origine della divinità in quanto tale, e

l’ingenità del Padre come tratto caratteristico della sua Persona rispetto al

Figlio che invece è generato.

Tuttavia, non va così avanti come Atanasio, il quale applica anche al Padre

la relazionalità delle differenze personali nel senso del reciproco

condizionamento, perciò può anche affermare che il Padre è “ingenito” solo

in relazione al Figlio. Ora invece, nell’idea del Padre come origine e fonte

della divinità, la Persona del Padre e l’essenza della divinità ritornano a

fondersi al punto che al Padre - e solo a Lui - spetta in modo originario

l’essenza divina, mentre il Figlio e lo Spirito da Lui la ricevono.

9 cfr. Storia della Teogia, a cura di E. dal Covolo, Bologna 1995, vol.I, cap. IX, pp.265 ss.

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Rispetto ad Atanasio ciò significa una ricaduta nel subordinazionismo,

perché qui il punto di vista della determinatezza reciproca della peculiarità

delle Persone non è sviluppato fino all’idea di una costituzione ontologica

altrettanto reciproca del loro essere personale, ma spiegata nel senso delle

relazioni con l’origine, quelle che possono essere considerate costitutive

dell’essere personale soltanto, rigorosamente parlando, in rapporto al Figlio

ed allo Spirito, se il Padre deve essere considerato l’origine e la fonte della

divinità.

Il dibattito relativo alle controversie sul dogma di Nicea e la piena divinità

del Figlio e dello Spirito lascia dunque aperta la strada a ulteriori possibili

chiarificazioni del modo di intendere l’unità personale intradivina.

Facendo leva su una generazione eterna, non temporale, i Padri Cappadoci

possono affermare tre Persone ugualmente divine, ma devono poi

rispondere dell’accusa ariana di triteismo, e quindi riformulare il problema

dell’unità di Dio nella sua trinità in modo del tutto nuovo.

Non basta più, per sfatare l’accusa, derivare il Figlio e lo Spirito dalla

Persona del Padre, poichè il Padre è solo una delle tre Persone in Dio,

mentre la divina essenza è unica. Diversamente da quanto succedeva quando

s' identificava il Padre con l’essenza divina, distinguendolo dal Figlio e

dallo Spirito, qui si è costretti ad affermare il Figlio e lo Spirito come

ipostasi subordinate al Dio supremo. Non sembra sufficiente pensare, con

Basilio, l’unità della divina essenza analogamente ad un'unità del genere, la

quale lega tra loro le tre ipostasi. In questo caso si genera subito il sospetto

di triteismo, che non si può fugare nemmeno mettendo in dubbio che

l’attività delle tre Persone divine sia comune, dato che la costituzione della

loro trinità deve essere antecedente rispetto alla comune attività

all’esterno10.

10 Sulla teologia dei Cappadoci sono da ricordare anche: G. Bosio, E. Dal Covolo, M. Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III – IV, Torino 1993, pp. 261 – 370, e M. Simonetti, La crisi Ariana del IV secolo, Roma 1975.

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1.2 La via di Agostino11

Si può cercare una soluzione nel senso di una ricerca che presupponga

l’unità della divina essenza ad ogni differenziazione di tipo trinitario, per

precisarla poi in modo tale da escludere ogni idea di differenza sostanziale,

anche a costo di stendere sulla distinzione delle tre Persone un velo

impenetrabile di mistero.

E’ la via che Agostino segue nel De Trinitate. L’occasione gli è offerta dalla

tesi dei Padri Cappadoci sulla comunione fra le tre Persone divine nel loro

operare dall’esterno, da cui conseguiva che dagli effetti creaturali si può

conoscere soltanto l’unità di Dio. Quest'unità va concepita in modo

assolutamente semplice, senza alcuna composizione: non solo perchè l’idea

stessa sarebbe incompatibile con la nozione di Dio, poiché porrebbe poi la

domanda di quale sia la causa di una simile composizione, dato che non è

nemmeno pensabile qualcosa di composto che sia al tempo stesso anche

causa prima ed assoluta, ma anche in ragione dell’idea stessa di filosofia che

guida Agostino, al cui centro, come ricorda il prologo al libro VIII, sta la

questione del bene come condizione ineliminabile di una vita felice. In

conformità a quest'idea, Agostino cerca di interpretare gli enunciati del

dogma trinitario. Anzitutto riconoscendo che la trinità delle Persone non può

implicare una diversità di tipo sostanziale; si mostra critico nei confronti

della distinzione delle Persone in quanto ipostasi, perché l’equivalente latino

del termine greco – hypòstasis – è proprio quello di substantia12. Ma non

poteva prendere nemmeno in considerazione una diversità accidentale in

Dio, il quale, essendo immutabile, non può avere alcun accidente in sé.

Accettò invece la determinazione delle differenze trinitarie mediante il

concetto di “relazione”, così come lo avevano sviluppato i Padri Cappadoci

11 Per una comprensione del senso storico-teologico del tentativo agostiniano, cfr. W.Pannenberg, op.cit., pp. 319 ss. 12 De Trin., VII, 5; VIII, 1. A proposito della categoria della substantia, va ricordato che Agostino dipende più dalla concezione stoica che da quella aristotelica.

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con riferimento ad Atanasio, nel senso che le diversità delle Persone ora

risultano esclusivamente condizionate dalle reciproche relazioni 13.

Per Agostino, affermare l’esistenza di relazioni nell’Essere divino non

significa riproporre nell’idea di Dio determinazioni di tipo accidentale,

perché le relazioni non esprimono mutabilità, ma esistono fin dall’eternità,

mentre gli accidenti sono determinazioni mutevoli.

Anzitutto va rilevato che Agostino non ha tentato di derivare le differenze

trinitarie dall’unità dell’Essere divino.Le analogie cosiddette“psicologiche”,

che caratterizzano le parti dell’opera successive alla giustificazione storico-

biblica del dogma (libri I – IV) e alla dottrina delle relazioni non hanno,

come si vedrà, un significato eminentemente teologico: né alla teologia

appartiene propriamente la dottrina delle relazioni, che assume il significato

di strumento logico in una filosofia “prima” che non persegue la

definizione se non in funzione della teoria della soggettività svolta nei libri

IX – XV, senza con ciò rifiutare le formulazioni della fede, ricondotte alle

possibilità offerte dall’epistemologia biblico-teologica e continuamente

rimandate alle condizioni logico-trascendetali di verità del giudizio, che ne

costituiscono comunque la misura. Una filosofia sorretta da una dottrina

logica che usa Aristotele ma al tempo stesso lo corregge, nella rifigurazione

dell’impianto e del senso della metafisica come indagine sulle condizioni

trascendentali di possibilità di ogni vero e di ogni bene nella partecipazione

all’unicità e alla semplicità suprema della misura.

La ricerca intorno alle strutture trascendentali della soggettività, che

saranno riconosciute nell’analogia quali espressioni, come traccia o come

imago, del piano epistemico di fondazione del vero e del bene che in tale

forma si esprime, svolge al tempo stesso una dottrina della conoscenza che,

fedele alla concezione agostiniana della filosofia come incorporea

conversio, itinerarium di generazione della sapientia come ideale regolativo

di una vita felice in quanto buona, mira anzitutto al riconoscimento di un

piano irrinunciabile di fondazione, riconoscimento in cui si inquadra anche

13 Ivi, VIII, 1.

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la dottrina sul Principio, la quale dunque non è concepita per definire in

termini che sono propri di un diverso ideale di sapere.

1.3 Teologia e cristologia

La centralità della mediazione di Cristo è un motivo fondamentale e

ricorrente della filosofia di Agostino – basti pensare al De magistro - non

tanto per una sua esplicita partecipazione all’indagine dogmatica, quanto

piuttosto per il senso metodologico che assume questa centralità: se è vero

che “il discorso su Dio è necessariamente presente in filosofia perché il

pensiero di Dio è il terreno che l’Occidente si è da sempre scelto per la

stabilizzazione della nozione di verità”14 lo è anche il fatto che questo

pensiero si scandisce in contenuti e modi del pensare umano, ed è di questo

che in filosofia si tratta.

In tal senso è lecito sostenere la mediazione cristologica, come mediazione

metodologica, e così si legittima come filosofica anche un’indagine fondata

sull’analogia, che riconosca da un lato l’imprescindibilità - perché pensare

abbia un senso – di una perfetta adaequatio tra essere e pensiero, quale si

realizza nell’Intelletto divino, ma, dall’altro, consenta di sviluppare un

modello di conoscenza che trovi nelle funzioni trascendentali della

soggettività, garantite da quella perfetta adaequatio, le condizioni alle quali

- nella distanza che appunto l’analogia stabilisce – si possa parlare della

ragione in termini di recta ratio, che ripeta, nella differenza, la perfezione

che la fonda.

Il ruolo di mediatore è per Agostino centrale nella sua concezione

dell’avvenimento dell’incarnazione, trattato sottolineando in particolare il

concetto di kenosis. Nei suoi scritti, e non solo nel De Trinitate, tale

14 cfr. E. Jungel, Gott als Geheimnis der Welt, Tubingen 1976, pp. 138-140.

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dimensione è sempre oggetto di una considerazione attenta: “….occupa una

tale centralità……che humilitas e incarnazione possono venir considerati

come sinonimi “15. Il Verbo incarnato esprime un’alterità che non è

estraneità, il Vero e il Bene non si riducono al condizionato, tuttavia

quest’ultimo vi partecipa, come ogni verità partecipa della sua condizione di

possibilità.

La stessa teologia di Paolo si gioca intorno all’unicità della mediazione in

Cristo, come lo stesso Agostino sottolinea richiamandosi all’Apostolo:

Quod autem non aliquem ex angelis dicit Mediatorem sed ipsum Dominum

Iesum Christum, in quantum homo fieri dignatus est habens alio loco; Unus

– inquit – Deus, unus et mediator Dei et hominum homo Christus Iesu

(1Tim 2, 5)16.

Nella concezione agostiniana, il senso teologico di tale mediazione rimanda

all’incarnazione e all’evento della redenzione, in funzione di una fede che

sappia superare la lettera ma anche restare “al di qua” di una dissolvenza di

quell’evento in un vacuo “spiritualismo”. La memoria dell’incarnazione e

del suo significato soteriologico rappresentano quindi il passaggio alla fides

cristiana, a sua volta mediatrice di un sapere dell’anima su se stessa, posto

come revelatum che da un lato la anticipa – perché il depositum fidei

procede dal mysterium fidei - dall’altro presuppone una forma

trascendentale quale fondamento dell’atto di assenso, e infine si impone

come regola nella indisponibilità del contenuto salvifico a riguardo del

destino della libertà umana17.

Sviluppando questo pensiero, Agostino si è rifatto alla Lettera ai Filippesi,

2, 5-11 e alla Lettera ai Romani , 5, 8-10: il Dio che per amore si è spogliato

della propria maestà, così come lo presenta Paolo, è il Dio della redenzione,

della Trinitas che si mostra alla considerazione della fede e della scientia

della fede, la teologia biblica, e che la filosofia svolta nel successivi libri del

trattato svela come misura, regola, quando nel rimando analogico

ricostruisce la trama trinitaria che forma l’ordito di vestigia e imagines;

misura che come principio del giudizio non soggiace alle condizioni di

15 cfr. W. Geerlings, Christus Exemplum, Mainz 1978, p.61. 16 De Trin., III, 11. 26. 17 Ivi, XV, 17. 22.

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questo, ma conferisce valore conoscitivo alla rappresentazione, all’imago

quando questa si sa come generata nella regola.

La dottrina della salvezza è dunque l’oggetto specifico della teologia

agostiniana, e la cristologia – anche qui seguendo l’idea di Paolo – si

coniuga con una teologia dello Spirito Santo, concepita in senso

intratrinitario, e in stretta relazione con l’ecclesiologia e l’insegnamento

sulla grazia divina18.

Lo Spirito è il vincolo d’amore che unisce il Padre e il Figlio, e anche qui le

definizioni non sono che tentativi: Ergo Spiritus Sanctus ineffabilis est

quaedam Patris Filiique communio, et ideo fortasse sic appellatur, quia

Patri et Filio potest eadem appellatio convenire19.

Il vincolo si costituisce come donum del Padre e del Figlio, nella reciprocità

dell’amore e nella sua fecondità, che conferisce al dono stesso la

consistenza propria di una relazione – relative dicitur - di cui Agostino

cerca i riscontri nella storia della salvezza. L’intento non è legare Trinità

economica - ad extra – e Trinità immanente, come a cercare una continuità

tra ratio e fides altrimenti indimostrabile: esse vengono infatti chiarite in

sede di dottrina della conoscenza nella loro costituzione trascendentale e

fondate, altrettanto filosoficamente, nella concezione dell’unità

dell’intelletto divino, quanto piuttosto quello di insistere sul carattere di

revelatum di ciò che è oggetto di fede cristiana, che la specifica in quanto

tale.

Qui lo Spirito è caritas, donum, communio tra il Padre e il Figlio e a questa

visione teologica si fanno presenti le sue funzioni nell’ambito dell’economia

salvifica. Lo Spirito è la presenza della Trinità nel credente, secondo la

triplice modalità con cui l’azione salvifica di Dio lo raggiunge:

- l'uomo è creato da Dio di sua libera volontà;

- è istruito per mezzo di leggi sul modo in cui deve organizzare la sua

vita, dopo di che riceve lo Spirito Santo;

18 cfr. C. Schutz, Einfuhrung in die Pneumatologie, Darmstad 1985. 19 De Trin., V, 11.12.

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- la gioia amorevole che questo dono provoca induce alla scelta del

Sommo Bene immutabile che è Dio, già in questa vita, per aver parte

alla vera luce20.

L’ordine della creazione e quello della salvezza sono intimamente correlati e

al tempo stesso distinti, per evitare una affrettata identificazione dello

Spirito Santo con le forze dell’uomo: Non enim habet homo unde Deum

diligat, nisi ex Deo. Ma tra il donatore – il Padre – e il dono – lo Spirito –

non vi è nessuna differenza ontologica: il Padre dona se stesso, e non un

bene creato.

Agostino parte dalla comprensione corretta dell’inabitazione dello Spirito

per contestare la concezione volontaristica dei pelagiani e per sostenere con

vigore che lo Spirito Santo è il principio per eccellenza di tutta la vita nella

grazia. Per questo motivo cita spesso nei suoi ultimi scritti la pericope di

Rm 5,5: “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello

Spirito che ci è stato dato”. Lo Spirito Santo, in quanto dono divino per

eccellenza, fa sì che l’uomo resti in Dio e Dio in lui, accende l’amore di Dio

e quello del prossimo. Conformemente a ciò, questo amore è segno,

inequivocabile, di communio tra l’uomo e Dio, secondo l’insegnamento

della prima lettera dell’Apostolo Giovanni.

La dottrina teologica dello Spirito Santo, nel De Trinitate, introduce a quella

che è tradizionalmente indicata come l’invenzione teologica agostiniana per

eccellenza, la “dottrina delle relazioni”. Il discorso si sviluppa, a partire dal

V libro, secondo differenti intenzioni: in teologia, appare come un originale

contributo al dibattito sul dogma, e in questo senso si svolge all’interno

della teologia storico-biblica e della critica teologica rispetto alle posizioni

assunte dalla Tradizione e dai Padri, con particolare attenzione alla resa

linguistica delle formulazioni. Su un altro piano, la dottrina si propone

come un contributo alla logica, usando e correggendo Aristotele, che deve

servire alla fondazione della domanda filosofica, che orienta l’itinerario di

Agostino: la filosofia si interroga sulle condizioni alle quali sia possibile per

l’uomo pensare e vivere rettamente, e quindi sul fatto necessario di un

20 De Spiritu et Littera, III, 5.

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ordine di verità e di bene che sia ultimo, a cui l’ordine umano della ratio

partecipi e a cui rimandi, e che quindi, in base al principio della omoiosis tra

conoscente e conosciuto, ne esprima analogamente la struttura.

Se, con questo, la teologia viene rifigurata intorno alla categoria della

relazione, non si estende con ciò il campo della definizione oltre il lecito: il

rimando non è che il riconoscimento da parte della coscienza antica della

inconcepibilità di una autolegittimazione di se stessa, che dunque in Dio

distingue metodologicamente ciò che onto-logicamente deve essere

semplice – ma sulla cui essenza, in realtà, non si deve poter dir nulla - per

non veder svanire nello spiritualismo ogni sua pretesa veritativa, e potersi

rivolgere al mondo certa di sé, della propria verità e continuità.

La legittimazione filosofica della soggettività si svolge dunque, secondo

questo modello, successivamente alla riflessione sull’Intelletto divino, che

garantisce l’inerenza ad esso della res creanda come della res creata, e

quindi l’originaria adaequatio intellectus ad rem da parte della ratio umana

all’interno della perfetta adaequatio intellectus et rei in Dio. Questo

modello attraversa tutta la filosofia antica, da Parmenide ad Aristotele, da

Platone ai Neoplatonici, e risulta costitutivo anche nella riflessione

gnoseologica degli autori cristiani, per i quali si innesta sulla dottrina stessa

de Deo creante.

Il modello agostiniano prosegue questa tradizione, ma nel De Trinitate essa

è in qualche modo radicalizzata: il discorso su Dio è esplicitato in sede di

teologia storico-biblica; già a questo livello si insinua però l’idea di una

insufficienza della terminologia logica di Aristotele e di quella filosofica dei

Padri greci, e l’interesse non si rivolge tanto ad una esauriente

riformulazione del dogma trinitario, ma a distinguere ciò che va predicato

assolutamente, secundum substantiam, da ciò che invece relative dicitur, ed

è questo il piano logico di riferimento a cui appartiene l’analogia, per una

corretta impostazione del problema della conoscenza e della soggettività,

che costituisce il centro nevralgico del trattato: Quapropter illud precipue

teneamus, quidquid ad se dicitur praestantissima illa et divina sublimitas

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substantialiter dici; quod autem ad aliquid non substantialiter, sed

relative…21, e più avanti aggiunge: Unde manifestum est Deum abusive

substantiam vocari ut nomine usitatiore intellegatur essentia, quod vere et

proprie ita ut fortasse solum Deum dici oporteat essentiam.22, e, se Dio

deve restare Dio, e non abdicare alla propria divinità quando è oggetto del

pensiero umano, la sua essenza è per definizione realiter inconcepibile.

Si arriva così ad una dottrina delle relazioni come organon sia della

considerazione teologica del Principio che della successiva considerazione

della soggettività e del suo rimando analogico-trascendentale alla propria

misura ultima.

21 De Trin., V, 8.9. 22 Ivi, VII, 5.10.

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PARTE SECONDA

LIBRI V – VIII: NON SUBSTANTIALITER, SED RELATIVE

2.1 La dottrina delle relazioni

La riflessione trinitaria sembra portare, secondo quanto esposto fino a qui,

ad una correzione della dottrina ontologica neoplatonica23, per la quale

molteplicità, alterità, divenire, devono essere espulsi dall’Uno assoluto, che

è in se e per sé stesso – la prima ipotesi del Parmenide – e riferiti soltanto al

derivato – il nous di Plotino – che è relativamente, in altro e per altro.

Agostino, pur muovendosi sempre all’interno di quel modello, giunge a

coniugare nell’Uno stesso i generi sommi assoluti con quelli derivati, in

quanto in se stesso il Principio non può essere soltanto identità sostanziale e

immutabilità: ma sempre nel senso del relative dicitur, in funzione quindi

del pensare umano che deve le proprie possibilità all’inerenza, nella

partecipazione, ed espressa nell’analogia, al Principio, che dunque va

pensato come misura e ordo della mens, che ne rappresenta l’imago, e prima

ancora dell’intera conformazione trascendentale della soggettività, che ne è

vestigium, traccia; inerenza entro cui si dà la possibilità di fondare il

pensiero stesso di un Principio e la sua dicibilità in termini legittimi. E se la

mens rivela all’indagine filosofica una conformazione trascendentale dei

propri momenti costitutivi tale che ciascuno di essi consista attraverso e in

ragione di una relazione con gli altri, allora tale costituzione deve

legittimarsi analogamente nel Principio, la cui unità logica deve - per dare

23 cfr. W. Beierwaltes, Pensare l’Uno, Milano 1997. La concezione generale della filosofia platonica alla quale si fa riferimento in questa tesi è quella sviluppata da F. Trabattoni, Platone, Roma 2003.

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un credito al pensiero umano – articolarsi intorno al concetto di relazione, e

porsi così come fondamento metodologico di ogni ricerca plausibile che

ambisca ad un valore di verità.

La teologia biblica fornisce già un’indicazione, nel riconoscimento della

Rivelazione personale del Dio cristiano: ma si tratta ora di una fondazione

filosofica, in vista della quale occorre una preliminare considerazione

logica.

La tradizione successiva ad Agostino vedrà qui la radice di ciò che, con

Tommaso d’Aquino, sarà definita la quaestio de alteritate in divinis,

all’interno della problematica di una distinzione metodologica in ciò che di

per sé, come assoluta semplicità, non conosce alcuna articolazione interna,

in una linea di pensiero che, movendosi in un quadro epistemologico del

tutto differente, conduce all’articolarsi reciproco di essenza ed esistenza in

Dio in vista della sua pensabilità e dicibilità24. Non sono questi i termini di

Agostino, che procede correggendo il quadro logico aristotelico, secondo

una concezione del senso stesso della metafisica radicato nella domanda

intorno al Bene e alla sua possibilità nella partecipazione: se dal punto di

vista delle dieci categorie, gli accidenti possono inerire solamente alla

sostanza sensibile e creata25, e se il Principio al tempo stesso deve essere

pensato nell’analogia, così come essa può configurarsi in questa concezione

della metafisica, allora gli si devono attribuire le categorie non sostanziali

della relazione e dell’agire26 . Nell’Assoluto, relazione o atto non possono

essere accidentali, contingenti: paradossalmente, trasgredendo alla logica

aristotelica, vi è nel Principio qualcosa di Altro – la relazione tra le Persone

– ma che simul non è accidentale: In Deo autem nihil quidem secundum

accidens dicitur, quia nihil in eo mutabile est; nec tamen omne quod dicitur,

secundum substantia dicitur. E poco oltre: ….quod tamen relativum non est

accidens, quia non est mutabile27.

24 cfr. G. Ventimiglia, Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere in Tommaso d’Aquino: esse, diversum, contradictio. Milano 1997. 25 De Trin., V, 2.3. 26 Ivi, V, 8.9. 27 Ivi, V, 5.6.

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Bisogna quindi simul distinguere e identificare due piani: l’ad semet ipsum

dell’unica, identica sostanza assoluta, e l’ad alterum, l’ad invicem della

relazione comunque non accidentale o apparente di una pluralità di alii essi

stessi sostanziali: Trinitas relatarum ad invicem personarum et unitas

aequalis essentiae28. Il Padre – nell’esemplificazione biblico-teologica –

ingenerato ha e non è il Figlio generato, alius nella relazione, ma è con Lui

idipsum nella unicità dell’essenza, in cui il Principio è ciò che ha, non

potendosi dare alcuna dissoluzione della semplicità del divino. Infatti, Cum

vero ingenitus dicitur Pater,non quid sit, sed quid non sit dicitur. Cum

autem relativum negatur, non secundum substantiam negatur, quia ipsum

relativum non secundum substantiam dicitur29.

Nell’identità della Trinità si dà così una differenza fra attributi assoluti -

essentia, idipsum, aeternitas, sapientia, amor - , essenziali perché propri del

Principio, e attributi relativi, non comuni perché specifici a ciascuna

Persona nel suo rapporto con le altre. Seguendo i Cappadoci, le Persone si

differenziano secondo la relazione di origine30: il Padre è generante, il Figlio

è il generato, procedit ab utroque amborum Spiritus31, ovvero la terza

ipostasi procede simul dal Padre e dal Figlio, come dono comune -

contrariamente alla soluzione orientale, che parla di processione dal Padre

per mezzo del Figlio - e ipostatica identità di amore ed azione delle prime

due Persone. Ancora una volta, l’insistenza sull’unità decide della

questione, sottolineando il senso delle distinzioni: se il Principio di Plotino è

ab-solutus, nella semplice Unità, e il Nous, l’identità in sé relazionata

dell’essere-pensiero non è che il derivato, ecco che nel Deus-Trinitas

Agostino pensa , allineando le tre ipostasi plotiniane e identificandole in

virtù delle loro relazioni reciproche, il Principio stesso come Verbum,

alterità talmente identica all’Uno da identificarsi con esso, dove l’alius

dell’immagine non è aliud, cioè un’altra sostanza32, come nel caso

dell’ipostasi neoplatonica del nous. E la Terza persona, che procede dalle

prime due, anziché alienarsi dall’infinita ricchezza del Principio, come

28 Ivi, IX , 1.1. 29 Ivi, V, 6.7. 30 Ivi, V, 5.6-15. 31 Ivi, XV, 26.47 32 Ivi, V, 5.6; 7.8.

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l’anima del mondo neoplatonica, è la stessa unità della pluralità: Unitas

amborum…communio consubstantialis et coaeterna, inseparabilis atque

aeterna connexio33.

L’adeguatezza nel Principio tra essere e pensiero si esprime nel paradosso:

Trinitas…unum de uno cum quo unum 34, e l’Uno è simul simplex et

multiplex, ma questo paradosso rappresenta per Agostino il tentativo più

adeguato in vista di una fondazione trascendentale della dottrina della

conoscenza in cui la costituzione stessa della ragione possa rimandare

analogamente alle proprie condizioni di possibilità, fermo restando che il

modello di razionalità di riferimento non prevede una autolegittimazione

della soggettività, che o in quanto creata, o in quanto sostanza nel senso

aristotelico, oppure come partecipe del Principio deve potersi ritrovare nella

originaria adaequatio intellectus et rei nell’Intelletto divino.

In questa ottica, l’approfondimento dell’analisi della relazione tra le varie

Persone divine conduce poi alla riflessione che si svolge in quella sezione

del trattato che M. Schmaus ha chiamato “la dottrina psicologica della

Trinità” 35, i libri IX – XV, nei quali viene proposta la filosofia del soggetto

e della conoscenza di Agostino, che nelle parti precedenti ne ha delineato il

quadro metafisico e logico di riferimento.

33 De Trin., VI, 5.7 e 4.6 34 Ivi, VII, 3.5 35 M.Schmaus, Die psycologische Trinitatslehre des Hl.Augustinus, Munster 1966 (11a ed.)

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2.2 Persona e sostanza

L’approfondimento riguarda soprattutto i libri VI – VII, e procede dalla

convinzione maturata fin dai tempi di Cassiciaco che il Padre “ sia” l’Esse

assoluto ed immutabile, Aeternitas, Memoria, abissale fondamento

cosciente; il Figlio è la sua Sapientia, o Verbum, il suo Intellegere; lo

Spirito è l’Amor, Caritas, Voluntas36. Ma, nell’esegesi di 1Cor 1,24, -

“Cristo è Sapienza e Potenza di Dio” – Agostino rifiuta l’interpretazione

che il Padre assuma soltanto nel Figlio la propria sapienza; il Padre non è

sapiente per il Figlio, ma in se stesso, altrimenti non potrebbe sussistere

personalmente in sé ma soltanto in altro e per altro, perdendo la sua

assolutezza in quanto determinato dal Figlio che genera; al contrario

ciascuna persona per Agostino dev’essere concepita come unità di tutte le

perfezioni personali; il Figlio non è una qualità o una funzione del Padre

specificata ed espressa, ma è totalità delle perfezioni generata dalla totalità

di perfezioni del Padre, ovvero un alius che è idipsum con il Padre; ma la

stessa unica essenza di Dio è Persona sapiente ed amante37.

Dal punto di vista degli attributi divini assoluti, quindi, non vi è differenza

tra tutto Dio e una singola Persona - Non enim aliud est Deo esse, aliud

personam esse, sed omnino idem38 - o tra una persona e l’altra; ciò perché

le realtà divine hanno la capacità di identificarsi e distinguersi senza

aumento o diminuzione, in quanto nella loro infinita spiritualità non vi può

essere quantità.

Il tutto nell’essenza divina è infinito come ciascuna parte o singola persona

che la compone, secondo la dottrina neoplatonica della praedominantia,

teorizzata da Plotino e in particolar modo da Porfirio, rielaborata

trinitariamente da Mario Vittorino, da Ilario e dai Cappadoci nella tesi della

circuminsessio: le realtà spirituali in quanto inestese e infinite si

36 De Trin., XV, 5.7-6.9. 37 Ivi, VII, 2.3. 38 Ivi, VII, 6.11.

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compenetrano reciprocamente coincidendo, distinguendosi soltanto per il

predominare in ciascuna di esse di una singola, specificante perfezione,

comunque partecipe di tutte le altre39.

Già Plotino aveva pensato la seconda ipostasi, il nous, come Uno-tutto delle

idee,e in particolare come sintesi ipostatica dei generi sommi, ove in

ciascuna idea erano tutte le altre40; ma Agostino non solo pensa il Verbum

come pensiero che unifica la totalità delle idee, ma persino lo stesso Unum

come Unum omnium, assoluta identità di ipostasi, di alterità personali, di atti

in loro stessi trinitari e implicanti la totalità delle specifiche perfezioni

personali41.

Se si ammette la perfezione in sé trina di ogni singola persona, sembra

divenire problematica proprio la relazione trinitaria: nessuna necessità di

autocompimento metafisico spinge il Padre già perfetto a determinarsi nel

Figlio – non si tratta quindi di una teogonia trinitaria, come in Porfirio e

Vittorino. Agostino sottolinea qui il senso paradigmatico del modello

proposto, quello di essere misura perfetta della mens e delle sue strutture

trascendentali memoria, intelligentia, amor, che solo analogamente in quel

modello si ritrovano: ognuna di queste strutture non può sussistere se non

nelle altre e per le altre nell’unità di una unica persona, non hanno cioè una

loro personale sussistenza, contrariamente alle Persone divine42. Ma non si

sta svolgendo qui una teologia della Trinità secondo il senso che porterà alla

formalizzazione di quella sussistenza: il relative dicitur, così

insistentemente richiamato nelle pagine agostiniane, riporta sempre di

nuovo al contesto filosofico di riferimento, e lo stesso enunciato teologico si

costruisce nella logica della relazione.

E’ dunque fuori misura il frequente rimprovero che si è mosso ad Agostino

di aver privilegiato quasi modalisticamente – condizionato, secondo tale

critica, dall’analogia porfiriana della mens umana, che spingerebbe a

39 cfr Storia della teologia, op.cit., pp. 386ss. 40 Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Milano 2000, VI 7, 1-2. 41 De Trin., VII, 1,1-2. 42 Ivi, XV, 7.12.

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rinchiudere l’assoluto in se stesso, pensandolo di più come mistero logico

che come mistero d’amore – l’unità di Dio rispetto all’articolazione

personale: non solo perché in forza del relative dicitur Agostino conclude la

sua indagine trinitaria quasi sostanzializzando le Persone, acuendo la

tensione paradossale tra il tutto sostanziale e le parti relative, e rispetto alla

distinzione greca tra sostanza generica - ousia – e sostanza specifica –

hypostasis – approda alla lucida coscienza dell’aporia di qualsiasi soluzione

razionale, rifiutandosi di considerare Dio come substantia che si specifica in

tre individui, ma perché tutto il discorso proposto nel libri VI – VII non ha

come scopo quello di dimostrare il dato biblico-teologico, o di legittimarlo

remoto Christo: al contrario, solo la mediazione dischiude all’amore della

fede il senso del Mistero. La ricerca si orienta invece alla fondazione della

verità, verso la sua imago nella struttura trascendentale della mens, quindi al

conferimento di valore veritativo alla ratio nella partecipazione alla

misura data, al “numero” che le è assegnato.

Nel dire su Dio, l’essenza è persona, è individuo, la distinzione è tale per cui

le Persone sono idem e unum nell’essenza: non c’e realiter una differenza

tra persona – termine che Agostino non ritiene adeguato ad esprimere la

relazione che dovrebbe indicare43 – ed essentia , substantia, come se dalla

humana inopia del linguaggio Dio potesse essere pensato come una

essentia e simul tres essentiae, una substantia et simul tres substantiae, una

persona et simul tres personae44.

L'inopia del linguaggio e del pensiero umano indica l’impossibilità di

definire in senso essenziale il Principio; ma se linguaggio e pensiero non

vogliono risolversi in una nube spiritualistica di indistinzione, che ripete

all’infinito e tautologicamente l’identità nel Principio di essere e pensiero, e

rinunciare con ciò ad una qualsiasi altra possibilità di un discorso con

valore assegnabile di verità, allora quella divina simplicitas va

metodologicamente articolata, per ritrovarla come necessario fundamentum

inconcussum nella struttura trascendentale della mens.

43 Ivi, VII, 4,7-9. 44 Ivi, VII, 4,7-6.12.

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I paradossi logici che Agostino introduce e discute sono tutti rivolti a

ribadire la molteplicità dei piani di discussione: e soltanto sul piano della

mediazione cristologica, dell’ordo amoris manifestato nella mediazione di

Cristo essi rivelano l’identificazione della Sostanza Assoluta con l’atto

d’amore perfetto, cosicché nel libro XV è la caritas dello Spirito, dono del

Padre e del Figlio, che meglio rivela l’essenza divina.

La soluzione rappresenta un’eversione rispetto alla tradizione neoplatonica,

la quale espelle il desiderio dell’altro dall’Uno assoluto in quanto irrelato,

perché se l’Uno amasse l’Altro, sarebbe manchevole di qualcosa. Per

Agostino, invece, se l’Assoluto è personalità intelligente, è amore assoluto,

che non si dà senza relazione all’alterità45, proprio perché amore, l’Idipsum

non può non dilatarsi in trinità, la persona assoluta in relazione di persone; e

quanto più l’alius consiste della relazione personale, tanto più capace, anzi

infinita è la forza unificante dell’amore, relazione in cui gli alia divengono

gli idem dell’assoluto: …caritas qua Pater diligit Filium, et Patrem diligit

Filius, ineffabiliter communionem demonstrat amborum…46.

Questo è il piano teologico dischiuso dalla mediazione, chiave ermeneutica

della relazione d’amore tra le persone divine quando si intende pensare il

Principio nella fede. Come spiegano lungamente i libri IX e XIII del De

Trinitate, o i libri VIII-X del De civitate Dei, o ancora gran parte del

Tractatus in Iohannis Evangelium, Cristo è Salvatore in quanto medium o

mediator, che riconcilia Dio con l’uomo alienato dal peccato proprio in

quanto identificato con il Padre per natura e con l’uomo per amore; e ricorda

la mediazione dialettica della ratio degli scritti giovanili, capace di cogliere

il modus ideale, che connette i contrari nell’ordo rationis.

La terminologia logica con cui viene definita la mediazione cristologica

allude anche qui alla necessità di mantenere in tensione reciproca gli estremi

dei piani di riferimento: Cristo è detto medium, coniunctio, copulatio,

reconciliatio oppositorum 47. Egli è l’idem ipse, identità di…repugnantia et

contraria,communicatio idiomatum: cum Filius sit et Deus et homo, alia

45 De Trin., XV, 20.38. 46 Ivi, XV, 19.37. 47 De civitate Dei, X, 22.29.

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substantia Deus alia homo48: nell’unità personale di Cristo si identificano

divino e umano, eterno e tempo, essere e non essere, vita e morte. Questo è

il Mysterium fidei, che non è giudicabile come uno sconvolgimento

dialettico ed ontologico del neoplatonismo: sarebbe fuorviante vedervi una

ontologia agostiniana contrapposta ad una ontologia neoplatonica: qui si

tratta invece della teologia di Agostino, che usa della dottrina logica delle

relazioni, e nel riconoscimento della necessità della mediazione, articola

intorno ad essa il piano teologico – legittimando una teologia della

relazione – e quello epistemologico, in vista di una filosofia della mens e

del soggetto in cui la verità si sveli come ordine e regola.

Questa intenzione si propone come principio ermeneutico dell’ultima parte

del trattato, i libri VIII-XV, nei quali Agostino esporrà quella fondazione e

quella filosofia. Tuttavia, la dottrina delle relazioni, nella storia della

teologia, è stata oggetto di interpretazioni volte a considerarla un contributo

rivolto alla teologia sistematica, geniale e problematico nello stesso tempo.

In questo ambito, si è identificata la soglia di criticità della dottrina

agostiniana con lo statuto ontologico del secundum relativum in divinis,

dove la posizione stessa del problema segnala che ci si muove entro un

diverso modello epistemologico, di tipo aristotelico, interessato alla

definizione, in vista di un progetto metafisico che si allontana da quello

agostiniano, il quale svolgeva l’interrogazione metafisica in funzione della

fruibilità da parte dell’uomo del Vero e del Bene, secondo un’intenzione che

in Agostino tendeva a correggere alcune istanze “aristoteliche” del

neoplatonismo – in particolare di Plotino - che sembravano invece orientate

ad affermazioni definitive sull’essenza reale del Principio, lontano quindi

dalla concezione che è propria di Agostino riguardo alla concettualizzazione

metafisica.

La centralità della figura di Cristo come mediatore e l’introduzione della

logica delle relazioni in Agostino, invece, non è funzionale alla definizione

teologica o metafisica; ma nel primo caso ad indicare nel dato rivelato il

punto d’innesto dello stesso discorso teologico, e nell’altro, a correggere

48 De Trin., I, 10.20.

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l’impianto logico aristotelico in vista di una filosofia del soggetto e della

conoscenza centrata sull’analogia concepita in senso logico-trascendentale.

A questo scopo, anche l’uso in teologia della dottrina delle relazioni deve

servire a chiarire la possibilità stessa dell’analogia rispetto al Principio, nel

rimando ad uno stesso modello logico.

Nel dibattito intorno all’“eredità agostiniana”, la posizione più decisa viene

assunta da Tommaso d’Aquino49, la cui lettura in chiave ontologica della

posizione agostiniana sottende un quadro filosofico generale del sapere del

tutto diverso nei due autori, ed ha contribuito in qualche modo a nascondere

il filo d’Arianna che percorre il trattato De Trinitate di Agostino. Da qui in

avanti, la dottrina delle relazioni del vescovo di Ippona è stata sempre più

interpretata come il prologo a quella delle “relazioni sussistenti” di

Tommaso50.

I contributi dell’Aquinate in tale direzione riguardano soprattutto le

riflessioni contenute nella Summa Theologiae51 e nel commento alla dottrina

trinitaria di Boezio, e rappresentano una svolta non solo rispetto ad

Agostino52, ma nei confronti di una tradizione che, a partire dal vescovo di

Ippona, rifigura l’intera dottrina nel senso di una riflessione che, pur non

disimpegnandosi dalla questione dogmatica, resta fedele all’intenzione

filosofica di Agostino, nella considerazione della funzione logica della

dottrina delle relazioni, quindi nella “fedeltà” al significato filosofico del

relative dicitur, che consente sia di confermare le intenzioni e il quadro

generale della metafisica e della gnoseologia neoplatonica, sia di rispettare

una teoria del linguaggio che concede anche alla teologia, oltre che ad una

filosofia de anima e de Deo, la distanza necessaria al mantenimento della

tensione tra la radicale alterità del Vero e del Bene e la necessaria inerenza

del pensiero umano al Principio che ne regola l’adeguatezza.

49 Per una presentazione sintetica della teologia trinitaria di Tommaso d’Aquino: O:H. Pesch, Tomas von Aquin, Mainz 1988; L. Scheffczyk, Der eine und dreifaltige Gott, Mainz 1968; Id., Lehramtliche Formulierungen und Dogmengeschichte der Trinitat, in Mysterium salutis, vol. II, Mainz 1967 50 cfr. F. Courth, Trinitat. In der Scholastik , Freiburg-Basel 1985. 51 cfr G. Ventimiglia, op. cit.. 52 cfr. Id., ivi, pp. 48ss.

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PARTE TERZA

LIBRI IX – XV: DE VERITATE

3.1 Essere e verità

I libri VIII-XV del De Trinitate sono stati, come già ricordato, tra l’altro

definiti come una dottrina psicologica del mistero costituito dal Dio

cristiano. Secondo questa linea interpretativa, Dio costituirebbe la meta di

una ricerca intellettuale da parte dell’uomo che, procedendo dagli elementi

fondamentali della conoscenza umana, e riconoscendo nella conformazione

trascendentale della soggettività e della coscienza prima le vestigia

Trinitatis e poi l’imago, pur nella distanza significata dall’analogia,

approda attraverso la volontà in un ordo amoris che riconosce appartenergli

come propria misura, nonostante la lacuna rappresentata dal peccato, che

impedisce un'immediata concezione della verità possibile per l’uomo in

termini di rectitudo53, e l’esercizio pieno della propria libertà.

Qui Dio è quest’ordo amoris; un ordo che però ha una sua logica,

indeclinabile secondo le gerarchie aristoteliche, ed anche i tentativi cristiani

vanno presi per quello che sono, vale a dire, approssimazioni; perché, come

i libri precedenti hanno mostrato, ogni discorso riporta alla fruibilità per

l’uomo di quell’ordo, cioè al problema di una vita felice in quanto vissuta

nel Vero e nel Bene; ad un piano di verità intesa come necessaria - come

esse su cui poggia la certitudo - misura della vita della coscienza che in

53 Cfr. M. Schmaus, op.cit., e E. Gilson, Introduzione allo studio di S. Agostino, Casale Monferrato, 1983, PP. 182 ss.

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qualche modo ne è l’imago. Un piano vissuto, intenzionato dalla vita

interiore; un piano svelato al Sé, nell’atto con cui conosce la propria

esistenza concependo la propria essenza, ma che subito si impone, come ciò

che rende possibile l’affermazione di questa conoscenza.

Nei libri conclusivi del De Trinitate, sono proprio la verità, la conoscenza,

ma anche il soggetto della conoscenza, ad essere in questione: non nel senso

della discussione anti-scettica, ma nel senso della relazione di cui la verità

consiste e della quale la mens è, analogamente, vera imago. La verità di Dio

resta naturalmente indisponibile; ma nella coincidenza in Lui di essentia ed

existentia – cui partecipa anche l’esperienza dell’autoevidenza del sè: il

cogito agostiniano sa della propria esistenza sapendosi appunto come

cogito–l’esse54 rappresenta la misura stessa della certezza, che resiste anche

all’errore più radicale: si fallor, sum55.

La ragione, certa di sé, riconosce ora di essere superiore alla percezione

sensibile e al senso interno, che coordina la percezione stessa, perché essa

giudica tutto questo. Inoltre, si domanda se esista ancora qualcosa di

superiore, di immutabile, in cui si dovrebbe riconoscere Dio, quo est nullus

superior56.

Una simile realtà immutabile e universalmente valida, su cui la ragione non

giudica, ma da cui è giudicata, Agostino la vede nel numero e nella

sapienza: circui<i> ego et cor meum ut scirem et considerarem et

quaererem sapientiam et numerum57.

Sembra utile qui rilevare un nesso con il Proslogion di Anselmo d’Aosta,

nel senso di un'impostazione logico-trascendetale del fides quaerens

intellectum, ancor più se ci si richiama alla conoscenza filosofica di

riferimento58. Fino al basso medioevo, lo studio delle arti liberali, com’è

54 “ Dio è l’essere per eccellenza, tanto che questo è il nome con cui si è designato Lui stesso inviando Mosè ai Figli di Israele: Ego sum qui sum. Ora, l’atto di esistere è precisamente ciò che designa la parola essentia. Come da sapere si è fatto derivare sapientia, così da esse si è fatto derivare il termine essentia.” E. Gilson, op. cit., p. 240. 55 Contra Academicos, lib. III, 11-13; De Trin.,XV, 17. 56De libero arbitrio, lib. II, 6. 57 Ivi, lib.II,8. 58 Cfr. H.J. Verheyen, La parola definitiva di Dio.Compendio di teologia fondamentale. Brescia 2001, pp.113 ss.

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noto, prevedeva oltre a grammatica, retorica e dialettica, un quadrivium,

costituito da aritmetica, geometria, astronomia e musica59. Il numero è per

Agostino60, nonostante la sua approssimata conoscenza delle discipline

matematiche, ma in forza del senso filosofico che vi coglie, nella sua

concezione di una reductio artium ad philosophiam61, la misura suprema del

giudizio nell’ambito delle disciplinae, ciò per cui si dà scientia e la

possibilità stessa del suo oggetto, così come la sapientia riconosce nella

partecipazione alla misura, al Bene quell’ordo che ne definisce il senso. Si

assiste qui alla manifestazione di uno stupore intellettuale di fronte al potere

della forma pura, che non si spiega su basi empiriche.

Il significato trascendentale risiede nel concetto di iudicare: attraverso la

questione delle condizioni di possibilità dell’esperienza sensibile e

dell’inerenza ad essa di un'unità, la ragione si pone come istanza

giudicatrice, che a sua volta incontra nel numero la propria misura, al cui

iudicium deve sottostare. Le leggi del numero non sono impresse nello

spirito attraverso la mediazione dell’esperienza sensibile, ma gli ineriscono

in ragione della sua propria essentia, e la ratio deve orientarsi secondo

questa misura, che la precede e ne costituisce la condizione di rectitudo62.

Venendo ad Anselmo, e partendo da questa concezione trascendentale della

ragione finita, che si muove tra iudicare e iudicari, nel capitolo terzo del

Proslogion, è possibile scorgere un modello simile: Et hoc est tu, Domine

Deus noster. Sic ergo vere es, Domine Deus meus, ut nec cogitari possis

non esse. Et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te,

ascenderet creatura super creatorem, et iudicare de creatore ; quod valde

est absurdum63. Il passo è immediatamente successivo alla formulazione

del celeberrimo “argomento ontologico”, ma se si riconosce in esso la

presenza del modello trascendentale di Agostino, allora sembra piuttosto

59 Sulla effettiva presenza nei programmi scolastici di questo programma, fissato fin dal III secolo a.C. ma presto rimasto un ideale di fatto sacrificato alla formazione grammatico-retorica, cfr. H. Marrou, op.cit., pp. 189-238. 60 De vera religione, XXX, 32 . 61 cfr. H.Marrou, op.cit., pp. 242 ss. 62De libero arbitrio, lib. II, 8; De civitate Dei, VIII, 5. 63 Anselmo d’Aosta, Proslogion, parte I, cap.3, a cura di Italo Sciuto, Milano 2002.

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trattarsi di una ratio che si sa sotto il giudizio di una misura che ne

costituisce la condizione stessa di possibilità. Questa concezione anselmiana

è molto vicina alla legge del numero di cui tratta Agostino: l’ id quo maius

cogitari nequit rappresenta la misura della possibiltà della ratio, come

movimento che supera l’ente possibile e rappresentabile, ad esempio, con

l’infinità potenziale della serie dei numeri naturali. E’ questo movimento, a

conferire dignità specifica alla ratio, che coglie in tal modo un concetto di

infinito del tutto diverso, nell’idea di una trascendenza che non è né

“oggetto supremo” né processo indefinito, ma orizzonte, regola, condizione.

Proprio in quanto condizione e regola va dunque concepito il Sommo Bene,

di cui qui si tratta: altrimenti lo si rende oggetto, la sua verità si risolve in

una rappresentazione giudicativa costruita secondo la presunzione di una

continuità tra il piano del reale, del pensiero e del linguaggio, quindi fondata

sull’esteriorità della misura rispetto al piano razionale, cui si concede una

fondazione solo probabilistica del sapere. Nell’id quo maius cogitari nequit

la misura è invece colta nel suo senso costitutivo per la ragione: qui il

pensiero si concepisce nella verità riconoscendo la propria misura,

lasciandosi giudicare dal numero, dalla forma pura, potendo esso stesso ora

costituirsi a giudice dell’ente oggettualmente fissato.

La ricostruzione della caratteristica logico-trascendentale nell’impostazione

del problema della conoscenza, svolta tra Agostino ed Anselmo, consente di

capire come una ratio, che si sa come finita, possa in linea di principio

superare l’ammanco in fatto di prestazione soggettiva, la radicale in-

adaequatio che le è propria nell’incontro con l’altro da sé: il soggetto

comincia dal fondamento ultimo della costituzione dell’esperienza, cioè

dalla stessa soggettività, per poi ritrovarsi in essa come imago della sua

stessa misura.

Nei libri IX - XV del De Trinitate la tensione tra trascendentalità ed

analogia si scandisce come reditus autocritico della ratio alle proprie leggi e

condizioni conoscitive, alla logica della propria validità e comunicabilità –

qui si innesta l’analogia, le strutture triadiche della mens – e come methodos

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persegue la conoscenza in quanto processo invece produttivo, di cui

discerne i dinamismi e le possibilità, in relazione a sé e al mondo.

Si manifestano anche le condizioni storiche della conoscenza: la discorsività

della ratio si modula sulle frequenze della temporalità interiore e mondana,

sullo spazio interno entro cui impara a leggere se stessa e il mondo come

simbolo, exemplum, per cui comprende la sua dinamica come ricerca di

tracce, di vestigia, e giudicata dal lumen intelligentiae veritatis. Trinità

equivale a Deus veritatis, in quo et a quo et per quem vera sunt, quae vera

sunt omnia64 . Proprio a proposito della dottrina dell’illuminazione, si

chiarisce il senso logico- trascendentale della relazione esse – verum, in cui

non conta anzitutto il rapporto dell’intelletto con la cosa, ma quello che sia

la cosa che l’intelletto intrattengono con la fonte della loro reciproca

adaequatio.

Si profila così un modello di ragione opposto a quello che più tardi,

accettando l’apporto del modello gnoseologico aristotelico, potrà essere

giudicato dalla tradizione agostiniano-francescana come un pensiero che si

muove etsi Deus non daretur, con preciso riferimento a Tommaso ed alla

sua concezione dell’intelletto agente e delle sue riformulazioni a proposito

delle rationes aeternae e seminales65.

Il concetto di illuminazione viene ad Agostino dalla filosofia neoplatonica e

dalle Scritture. Come il sole è la sorgente corporale che fa visibili le cose e

fa sì che esse siano percepite dagli occhi del corpo, così Dio rende

intelligibili le verità con la sua luce spirituale e fa sì che siano apprese dal

pensiero. In Plotino, tra Dio e l’anima passa lo stesso rapporto che corre tra

il sole e la luna: in Agostino, come la luna non ha luce propria ma è

illuminata dal sole, così l’anima razionale, che non ha misura oltre sé se non

l’esse divino, riceve il lumen intelligentiae veritatis. Dio è lux intelligibilis

ed è Padre illuminationis nostrae, cioè del lumen intelligentiae veritatis66.

Nel primo caso, è la luce in cui e per cui gli intelligibili sono tali, Padre del

64 Soliloquia, I, 1.2. 65 cfr. O. Todisco, Lo stupore della ragione, Padova 2003, pp. 31 ss. 66De civitate Dei, XI, 15.

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Verbo; nel secondo, è Padre della luce che illumina la mens, è la Verità, la

Sapienza. E’ il Bene di Platone, che fa sì appunto che le altre idee siano

intelligibili, o il Sole di Plotino: nel linguaggio cristiano, è il Padre del

Verbo, Sapienza o Figlio, luce della mente. Il vero è tale dalla verità: verax

e veritate verax est , secondo la formula usata negli scritti dedicati

all’esegesi del vangelo di Giovanni.67 Vi è una luce che proviene dalla

grazia all’anima, ma ve n’è una che compete ad ogni uomo: lumen

intelligentiae, i cui principi costituiscono la ragione naturale, che così

conosce secondo verità e può validamente rivolgersi alle cose naturali.

L’esse dunque è veritas; le verità dell’anima sono tali nel rimando analogico

delle strutture dell’evidenza razionale alla perfezione della loro misura, alla

regola cui esse tendono.

E’ in virtù di questo rimando che la ragione supera il proprio limite

congenito: con il lumen naturalis la ragione giudica delle cose; con il lumen

intelligentiae, anch’esso naturale e creato, si ha l’intuizione delle verità

prime intelligibili, su cui si fondano i giudizi della ragione, ed è questo

lumen specialis; il lumen gratiae è in vista delle verità soprannaturali. Resta

la distanza propria di ciò che è creato rispetto al proprio Principio, ma anche

l’unione con gli intelligibili in quadam luce sui generis incorporea: …sed

potius credendum est mentis intellectualis ita conditam esse naturam, ut

rebus intelligibilibus naturali ordine, disponente Conditore, subiuncta sic

ista videat in quadam luce sui generis incorporea, quemadmodum oculus

carnis videt quae in hac corporea luce circumadiacent, cuius lucis capax

eique congruens est creatus68.

La ragione69conosce dunque nelle idee, nelle norme o nelle regole che sono

imago delle Idee divine: come tali esse consentono il giudizio e la

costruzione scientifica, secondo il movimento discorsivo tipico della ratio,

che procede dal lumen conferitole – dalla misura assegnata -, lumen rationis

e lumen intelligentiae veritatis, illuminatio nostra. Si tratta di un movimento

67 Per l’esposizione della dottrina dell’illuminazione, cfr. Introduzione di M.F.Sciacca all’edizione del De Trinitate citata, pp. LXXXIII ss. 68 De Trin., XII, 15.24. 69 Per la precisazione della terminologia agostiniana a riguardo, si veda la nota di M.F.Sciacca a pag. LXXXIII dell’Introduzione sopra citata.

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che va incessantemente dalle verità alla Verità, che resta come regola,

principio del giudizio e come tale indisponibile. Quando la grazia dischiude

la visione dell’esse70, allora l’intellectus si presenta come compimento della

ratio.

Il senso logico-trascendentale della relazione originaria esse – verum

esclude una interpretazione ontologista della visio intellectualis; vedere il

vero in Dio non significa che si vedano le idee e dunque le cose in Dio, ma

che la ragione, attraverso l’imago della verità in noi, di cui Agostino tratta

quando approfondisce in questa sezione del trattato l’analogia tra

conformazione relazionale della mens e la circuminsessio trinitaria, è già

compresa nell’originaria adaequatio dell’intelletto divino: In illa igitur

aeterna veritate, ex qua temporalia facta sunt omnia, formam secundum

quam sumus, et secundum quam vel in nobis vel in corporibus vera et recta

ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus; atque inde conceptam

rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo

intus gignimus; nec a nobis nascendo discedit71.

Recta ratione aliquid operamur: non c’è quindi una considerazione di sé e

dei propri oggetti come sciolti dal loro originario inerire al piano dell’esse e

del verum, che si dà in senso regolativo, in funzione cioè della fruizione del

Bene; piano inteso come ordo intellectualis che regola l’ordo amoris,

suggerendo una possibile correzione del cosiddetto “volontarismo”

agostiniano, secondo un giudizio che si è poi esteso a tutta la tradizione

agostiniana e francescana, contribuendo spesso a celare il fatto che questa

tradizione prende corpo proprio intorno ad un certo modello di ragione: la

mens invece è partecipe della verità, altrimenti resta incapace di conoscenze

vere: la verità è presente, è data – non posta – alla mens, ma come regola, e

la distanza che il concetto di partecipazione implica sarà appunto espressa

attraverso l’analogia logico-trascendentale. Questa posizione, questa datità,

è detta da Agostino appunto illuminazione, come partecipazione nella

mediazione del Verbo, quae est lux hominum72. Non si tratta quindi di una

70 In Iohannis Evangelium tractatus, 35, 8.3. 71 De Trin., IX, 7.12. 72 Ivi, IV, 2.4.

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disponibilità della verità come universale in re, nel senso della continuità

aristotelica tra essere, pensiero e linguaggio, per cui l’intelletto, con le sue

facoltà, è conformato in modo da poterlo ricevere, e rifigurare nel concetto,

fino all’espressione linguistica orale o scritta.

Questo modello è estraneo alla concezione di ragione proposta da Agostino,

e alla tradizione che a lui si richiama, non perché, limitatamente ad

Agostino, l’Aristotele del XIII secolo non esistesse ancora, quanto piuttosto

perché questa concezione sottende un’idea della filosofia intesa come

scientia, il cui esito è il fondarsi su premesse endossali, probabilistiche,

perché è la separatezza dall’adaequatio originaria che caratterizza l’anima

aristotelica quale forma della materia. Questo esito potrebbe,

paradossalmente, quasi dirsi retorico, perché la perdita di un piano

epistemico di fondazione della verità conduce al verosimile come premessa

e conclusione del discorso scientifico. In Agostino, sarà la sapientia

generata e partecipe del Principio, nella quale si risolve la filosofia, l’imago

di quel piano regolativo che fonda la verità del giudizio; una sapientia che,

nel riconoscimento critico dell’ orizzonte trascendentale colto

dall’intellectus, da là misura alla scientia, rivolta al mondo, all’ente,

conosciuti nella regola e nell’ordine propri dalla ratio, legittimata dal

reditus preliminare della coscienza alle proprie condizioni di senso. In tal

modo, il vero si propone come la forma in cui il bene si esprime, e tale

espressione rende possibile fondare filosoficamente, nella sapientia, la

concezione una vita felice in quanto buona, secondo la partecipazione.

La participatio avviene per speculum: si tratta ora di precisare ciò che spetta

all’intelletto finito nell’atto di conoscenza73.

L’illuminazione presuppone infatti questo intelletto finito, che quindi non si

confonde con la luce divina: a questo intelletto, Agostino attribuisce il nome

tecnico di intelligentia o intellectus, e lo distingue espressamente come il

contingente dall’immutabile: ….et tamen etiam hoc lumen, non est lumen

illud quod Deus est; hoc enim creatura est, creator est ille; hoc factum, ille

73 cfr. anche E.Gilson, op. cit.,pp. 101ss.

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qui fecit…74. La natura di questo intellectus comprende quindi una

strutturale passività, ma non si tratta di una dipendenza che accada al di

fuori di un naturalis ordo: si tratta invece di pensare a questo intellectus in

termini che rendano quanto più possibile chiara l’inerenza ad esso di una

condizione che lo renda capace del vero.

Ed infatti, tale stretta inerenza è significata dal carattere di immediatezza

con cui si esercita l’illuminazione: Audisti quanta vis sit animae ac potentia,

quod ut breviter colligam, quemadmodum fatendum est animam humanam

non esse quod Deus est, ita praesumendum nihil inter omnia quae creavit,

Deo esse propinquos75.

La misura data in tal modo all’intellectus è costituita dalle res intelligibiles,

che Agostino chiama anche ideae, formae, species, rationes, regulae76: sono

archetipi logici, che come tali si distinguono per l’ originaria inerenza

all’intelletto divino, e partecipano dei suoi attributi essenziali. Eterne,

immutabili, necessarie, sono forme di tutto; affermarle come regulae

dell’intelletto finito vuol dire allora riconoscere che questo intelletto è

definito nelle sue condizioni di possibilità dall’immutabile e dal necessario.

Le sensazioni si limitano certamente a ricondurre verso la luce interiore,

tuttavia sono indispensabili: essere privati di un senso vuol dire privarsi

della conoscenza ad esso propria: Nec idonea est ipsa mens nostra, in ipsis

rationibus quibus facta sunt, ea videre apud Deum, ut per hoc sciamus quot

et quanta qualiaque sint etiamsi non ea videamus per corporis sensus77. Vi

è dunque una necessaria interazione tra l’illuminazione, l’intelletto umano e

la conoscenza sensibile, che però non si configura né nei termini della

dottrina platonica della reminiscenza, per la quale la sensazione è

l’occasione del ricordo, né in quelli dell’astrazione aristotelica, cui la

sensazione offra la materia.

74 Contra Faustum Manichaeum,XX, 7. 75 Enarrationes in Psalmos, 118. 76 cfr. la nota di Gilson, op. cit.., p. 104. 77 De Genesi ad litteram, V,16.34.

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Nel primo caso, si è visto come la verità si offra nella presenza della luce

all’intelletto, e non nel ricordo rivolto al passato: si tratta perciò di una

memoria del presente; nel secondo, è all’opera in Aristotele una concezione

della sensazione del tutto diversa, per cui essa è una passione subìta

dall’anima, mentre in Agostino si tratta piuttosto del frutto di una azione

regolatrice esercitata dall’anima stessa.

La trascendenza di quest’ultima rispetto al corpo, che segnala una volta di

più la vicinanza con l’universo neoplatonico dell’epistemologia agostiniana,

impedisce di pensare ad un’anima sensitiva che riceva il sensibile

dall’oggetto, e porta invece a considerare sensazione e immagine come

frutto di un’attività costitutiva della coscienza, rivolta ai data che non

rientrano nell’a-priori trascendentale della soggettività : Denique cur de

solis rebus intelligibilius id fieri potest – riferendosi al passo

immediatamente precedente, dove a proposito degli intelligibili, indicava

per la mens intellectualis che ista videat in quadam luce sui generis

incorporea – ut bene interrogatus quisque respondeat quod ad quamque

pertinet disciplinam, etiamsi eius ignarus est ?78 L’esperienza è una

condizione della conoscenza sensibile, e qui si ritorna alla condanna della

dottrina della reminiscenza, che darebbe sia la scientia del sensibile che la

sapientia dell’intelligibile.

La ratio opera in relazione ai sensibilia, ma l’intellectus ha a che fare

esclusivamente con l’intelligibile, e la dottrina dell’illuminazione non

riguarda la ratio, né orienta nel senso di una operazione di astrazione da

parte dell’intelletto79, che presupporrebbe una antropologia filosofica

estranea al pensiero di Agostino, per il quale un’anima aristotelicamente

intesa come forma del corpo, o una distinzione per la quale l’anima non è le

sue facoltà, ma le possiede, sono inconcepibili, in ragione del fatto che in tal

modo il senso stessa della domanda filosofica che verte sulla possibilità di

una vita felice all’insegna del bene risulterebbe compromessa. Il problema

in questione non è l’esattezza del concetto, o della definizione, come si è più

78 De Trin., XII, 15.24. 79 cfr. E. Gilson, op. cit., pp. 108 ss.

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volte ricordato nelle pagine precedenti, ma è la proposta di una teoria

fondativa della verità e delle sue condizioni.

Come a proposito della prima parte del trattato e della dottrina delle

relazioni, anche qui, nei libri conclusivi, si tratta di una intenzione

epistemologica in funzione della quale la stessa metafisica assume una

curvatura caratteristica: il problema della conoscenza deve essere affrontato

in modo tale da chiarire le condizioni trascendentali di un pensiero le cui

espressioni possano legittimare valori di verità, e quindi una possibile

fruizione del Vero e del Bene, se la domanda diretta alla concepibilità di una

vita felice, come domanda intorno alla quale nasce lo stesso discorso

filosofico, deve avere un senso, che ha, secondo una concezione che

Agostino condivide con la tradizione platonica ed ellenistica.

In questo senso, la dottrina dell’illuminazione si innesta sulla

considerazione della verità del giudizio, che si configura come misura data

all’intellectus, condizione formale del suo esercizio: Itaque cum mihi de sua

propria (la mens) loquitur, utrum intelligat hoc aut illud, an non intelligat,

et utrum velit, an nolit hoc aut illud, credo: cum vero de humana specialiter

aut generaliter verum dicit, agnosco et approbo. Unde manifestum est, aliud

unumquemque videre in se, quod sibi alius dicenti credat, non tamen videat;

aliud autem in ipsa veritate, quod alius quoque possit intueri: quorum

alterum mutari per tempora, alterum incommunicabili aeternitate

consistere. Neque enim oculis corporeis multas mentes videndo, per

similitudinem colligimus generalem vel specialem mentis humanae notitiam:

sed intuemur inviolabilem veritatem, ex qua perfecte, quantum possumus,

definiamus, non qualis sit uniusquiusque hominis mens, sed qualis esse

sempiternis rationibus esse debeat80.

Il giudizio di verità coinvolge la misura stessa della ragione, oltre la quale

non si dà a pensare nulla di più grande: Viget et claret desuper iudicium

veritatis, ac sui iuris incorruptissimis regulis firmum est; et si corporalium

imaginum quasi quodam nubilo subtexitur, non tamen involvitur atque

80 De Trin., IX, 6.9.

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confunditur81. E ancora: Item cum arcum pulchre ac aequabiliter intortum,

quem vidi, verbi gratia, Carthagine, animo revolvo, res quaedam menti

nuntiata per oculos, memoriaeque transfusa, imaginarium conspectum facit.

Sed aliud mente conspicio, secundum quod mihi opus illud placet; unde

etiam, si displiceret, corrigerem. Itaque de istis secundum illa iudicamus et

illam cernimus rationalis mentis intuitu82.

Questa misura si specifica nelle numerorum dimensionumque rationes et

leges innumerabiles83, per cui si può forse dire che la dottrina svolga la

funzione di esposizione trascendentale del piano categoriale della coscienza,

a partire dal quale rendere ragione del carattere necessario del giudizio, che

resta ingiustificato se rimane fondato sull’induzione o anche sulle premesse

del sillogismo dialettico di Aristotele, che hanno carattere endossale e

quindi non consentono la conclusione scientifica se non come verosimile.

Quando Agostino parla di notio impressa, l’interessante è l’elemento

apodittico del concetto, e la riconduzione di esso al piano della misura data

alla ragione, di cui essa non dispone.

Il fatto poi che Agostino rifiuti l’innatismo in senso proprio, con la

conseguente preesistenza delle anime, non si spiega solo in ragione della

fedeltà al dogma cristiano, ma con l’intenzione autenticamente platonica84

di porre il problema del Principio, del fondamento e dell’origine non con

l’intenzione di definirli, ma piuttosto secondo quella di giustificare la

possibilità per l’uomo di una vita all’insegna del vero e del bene, che gli

restano preclusi nella concezione intellettuale, ma che devono potersi in

qualche misura declinare se l’ordo di cui essi consistono deve avere un

significato per l’uomo.

L’illuminazione significa quindi la regola della ragione; le idee divine sono

regulae numerorum, regulae sapientiae, non conoscenze, concetti pronti

81 Ivi, IX , 6.10. 82 Ivi, IX , 6.11. 83 Confessiones, X , 12.19. 84 Sul senso filosofico che in Platone assume l’indeterminatezza della definizione sia in ontologia che nelle riflessioni dedicate in genere al problema dell’Origine e dei principi, cfr. F. Trabattoni, op. cit., pp. 103 ss. e 119 ss.

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all’uso, ma leges incommutabiles: Ubi ergo scripate sunt,( istae regulae ),

nisi in libro lucis illius quae veritas dicitur? Unde omnis lex iusta

describitur, et in cor hominis qui operatur iustitiam, non migrando, sed

tanquam imprimendo transfertur; sicut imago ex anulum et in ceram transit,

et anulum non relinquit85.

All’ordo veritatis , che la ragione riconosce come propria regola, va

ricondotto quell’ordo amoris che la volontà a sua volta trova come misura,

all’interno del modello di inerenza – nel rimando espresso dall’analogia, che

segnala limite e distanza - al Vero e al Bene che originariamente forma

l’adaequatio delle res create et creandae rispetto al loro fondamento. I due

ordini non si confondono, perché in entrambi i casi non si chiama in causa

l’ordine soprannaturale: la dottrina della grazia - illuminazione

soprannaturale - non afferma in questo contesto nulla di diverso da quella

sull’illuminazione86.

L’orizzonte conoscitivo quale ambito dello stesso ordo amoris viene

confermato anche là dove Agostino, nel De Trinitate, tratta della

conoscenza mistica , a proposito della quale viene ulteriormente specificato

l’eccesso della misura – la luce – rispetto a ciò che da essa è giudicato, e la

conseguente differenza tra conoscenza nella luce e conoscenza della luce.

Questa distinzione viene espressa nell’esempio paradossale del malvagio,

che sa cosa sia la giustizia, senza però possederla: Quibus ea tandem regulis

iudicant, nisi in quibus vident quemadmodum quisque vivere debeat, etiamsi

nec ipsi eodem modo vivant ? Ubi eas vident ? Neque enim in sua natura,

cum procul dubio mente ista videantur, eorumque mentes constet esse

mutabiles, has vero regulas immutabiles videat quisquis in eis et hoc videre

potuerit; nec in habitu suae mentis cum illae regulae sint iustitiae, mentes

vero eorum esse constet iniustas. Ubinam sunt istae regulae

scriptae…………………nisi in libro lucis illius quae veritas dicitur…et in

cor hominis qui operatur iustitiam………non migrando, sed tamquam

85 De Trin., XIV, 15.21. 86 cfr. A. Ganoczy, Dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto.Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia, Brescia 1991 pp. 106-126.

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imprimendo transfertur: sicut imago ex anulo et in ceram transit, et anulum

non relinquit………………….Qui vero non operatur, et tamen videt quid

operandum sit, ipse est qui ab illa luce avertitur, a qua tamen tangitur87.

C’è dunque una gradazione a riguardo della relazione che la coscienza

intrattiene con la propria misura: il giusto conosce la giustizia sia in sé, che

nella verità; mentre nel caso del malvagio, la coscienza è appena toccata

dalla verità, che quindi egli vede soltanto secondo una misura parziale,

privata, e dunque mutevole, provvisoria. Vedere nella verità non significa

quindi abbandonare l’ambito di una conoscenza naturale, a favore di un

ordine soprannaturale che in tal modo farebbe irruzione ogniqualvolta si

tratti di un giudizio con caratteri di apoditticità e necessità.

Diversamente accade quando non si tratta più della verità colta nella regola,

ma della regola stessa. A questo proposito, Agostino concepisce la

possibilità di una visione diretta del Verbo, delle idee divine, in virtù però di

una iniziativa divina, come spiega nel De Genesi ad Litteram – non a caso,

ci si trova in un ambito vicino alla teologia biblica - oppure, per esempio

nelle Confessiones, anche se qui non si tratta di una visione diretta del

Verbo, si assiste alla trasformazione di una contemplazione intellettuale in

rapimento estatico, come nell’esperienza di Ostia.

Nel testo sopra considerato, la luce intelligibile increata con cui si

percepisce la verità si distingue per natura dalla luce creata, l’intelletto,

incapace di per sé di immutabilità e necessità, cioè di una autofondazione

delle condizioni di verità del giudizio. Si tratta qui di quanto si è detto a

proposito della dottrina dell’illuminazione: la relazione trascendentale esse

– verum , cui l’intelletto partecipa e di cui è, analogamente, immagine, per

cui la conoscenza vera avviene nella regola, come conoscenza nelle idee,

che gli ineriscono sicut imago ex anulo et in ceram transit, et anulum non

relinquit.. E’ ribadito il tentativo di delineare un modello della ragione e

della soggettività che trova in una misura data, alla quale il giudizio si

sottopone e che perciò riconosce come orizzonte regolativo e in questo

87 De Trin., XIV, 15.21

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senso eccessivo rispetto alla propria finitudine, la condizione della propria

stessa possibilità.

In tal senso, la contemplazione delle idee, della luce increata che come tale

non si distingue da Dio stesso, in quanto ne condivide gli attributi, è

dell’ordine dell’estasi mistica, per cui forse qui non è necessario schierarsi a

favore o contro un presunto “ontologismo” in Agostino88, proprio per i

connotati fenomenologici propri dell’esperienza mistica in quanto tale. Due

testi in particolare si possono forse addurre per confermare questa

interpretazione dell’intenzione agostiniana, e mostrare come l’impressione

di un costante trapasso dall’uno all’altro piano sia segnale più che di una

incertezza dottrinale, del senso metodologico delle cosiddette

“indeterminazioni agostiniane”89, le quali, come fin qui si è cercato di

mostrare, hanno il compito di ricordare che una teoria fondazionale della

verità è l’irrinunciabile premessa di una filosofia intesa come sapientia,

come fondazione teoretica della possibilità di una vita beata, e pertanto non

può essere costruita secondo modelli logici che la presuppongono quale loro

condizione preliminare.

Il primo testo, in cui non si tratta certo di mistica, dichiara: …intuemur

inviolabilem veritatem, ex qua perfecte, quantum possumus, definiamus, non

qualis sit uniuscuiusque mens, sed qualis esse sempiternis rationibus

debeat90. Più avanti aggiunge: Itaque de istis secundum illam (scil. formam

aeternae veritatis, ideam ) iudicamus, et illam cernimus rationalis mentis

intuitu91.

Si può forse concludere che ciò che sta a cuore ad Agostino è indicare che

una teoria della conoscenza deve indicare a quale condizione il giudizio

abbia valore: giudicare nella regola è senz’altro anche giudicare la regola,

non perché se ne possa definire metafisicamente lo statuto d’essere che le

compete - è il suo stesso carattere di evidenza e apoditticità, che ne segnala

88 cfr. E. Gilson, op.cit., pp. 119-120. 89 L’espressione è di Gilson, op. cit., pp.129-134. 90 De Trin., IX, 9. 91 Ivi, IX, 11.

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la natura - ma perché è questo l’unico modo con cui l’uomo giudica

validamente: …unde ( vis interior animae ) nosset ipsum incommutabile,

quod nisi aliquo modo nosset, nullo modo illud mutabili certa

praeponeret92. Ogni giudizio vero implica la verità, immutabile, eterna; ed

ogni giudizio vero porta con sé anche una certa conoscenza della verità

eterna, sebbene venga qui ricordato che l’anima non può levarsi

all’immutabile stesso, se non nell’estasi mistica : ….et pervenit ad id, quod

est in trepidantis aspectus93 e, quindi, non disponga della misura che le è

data.

3.2 Essere e Soggetto: l’anima

In senso proprio94,in Agostino anima indica il principio animatore del

corpo, considerato nella funzione vitale che vi esercita, mentre spiritus

indica o ancora una facoltà psicologica, oppure, se usato in contesto di

teologia biblica, non si distingue dalla mens, che rappresenta l’attività più

elevata dell’anima razionale, detta da Agostino anche animus. Alla mens

ineriscono naturalmente la ratio e l’intelligentia: la ratio est mentis motio,

ea quae discuntur distinguendi et connectendi potens95; mentre

l’intelligentia, che non si distingue dall’intellectus è una facoltà della mente,

superiore alla ratio, la più elevata, ed è illuminata da Dio. L’intellectus è il

principio del comprendere, mentre la ratio è organo di ricerca, aspectus

animi che discerne e connette, facoltà discorsiva, che si applica ai data, ai

sensibilia in ordine al giudizio. Il retto uso della ratio costituisce la scientia,

conoscenza certa delle cose sensibili. L’intellectus si applica invece al

mondo intelligibile, e dalla sua attività consegue la sapientia. Se la ratio è

92 Confessiones, VIII, 17.23. 93 Ivi, VII, 17.23. 94 cfr la nota 82. 95 De Ordine, II, 11.30.

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l’atto del vedere, l’intellectus è la visio; e la ratio…..ad intellectum

cognitionemque perducit96.

Nell’ordine naturale, l’operazione per eccellenza dell’intelligenza è la

formazione del verbo mentale, in cui lo spirito/mens esprime a se stesso,

nella verità, l’oggetto conosciuto, già presente; questo verbo si esprime nella

parola, che varia secondo lingue e paesi97, mentre la mens, l’uomo interiore,

è unica, semplice nella sua essenza. Ma esplica due funzioni: una pratica,

l’altra teoretica: mentre la prima applica le verità conosciute alle cose e agli

oggetti dell’esperienza, con l’altra si indirizza alle idee, ai puri intelligibili

come alle regole in cui conosce: …duo in mente una: et ideo quiddam

rationale nostrum non ad unitas divortium separatur, sed in auxilium

societatis quasi derivatum in suis operis dispertitur officio. Et sicut una

caro est duorum in masculo et femina, sic intellectum nostrum et actionem,

vel consilium et executionem, vel rationem et appetitum rationale, vel si quo

alio modo significantius dici possunt, una mentis natura complectitur ut

quemadmodum de illis dictum est: erunt duo in carne una; sic de his dici

possit, duo in mente una98. In base a queste definizioni, la dottrina

dell’anima conduce ad una teoria della soggettività, che vive nella verità,

nella regola che ne rappresenta la condizione e la legittimazione: è la

dottrina della verità, ad orientare la filosofia della soggettività svolta nella

terza parte del De Trinitate. La soggettività agostiniana si costituisce nella

circuminsessio di memoria, intelligentia, voluntas, e, a partire dalla

concezione dell’anima, secondo la definizione sopra ricordata, la

dimensione del desiderio entra con forza a caratterizzarne la vita, una

tensione al compimento che attraversa l’esercizio delle sue funzioni, e che

poi pervade la stessa circuminsessio che costituisce la soggettività come

immagine della perfetta felicità, quella della communio tra le Persone

divine, nella convergenza dell’amor nell’ordo che compie l’anelito della

voluntas.

96 De vera religione, 24.45. 97 De Trin., IX, 7.12. 98 Ivi, XII, 3.3.

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Nel giudizio certo vi è già participatio alla verità, quindi all’essere e al

bene, già qui dunque il desiderio riconosce un compimento, secondo quel

reciproco richiamarsi dell’ordine conoscitivo e morale che caratterizza

l’imago Dei , l’uomo interiore. La considerazione del desiderio nelle pagine

agostiniane99, a partire dalle Confessiones, nel racconto delle proprie

impressioni all’arrivo a Cartagine100, o nell’analisi delle motivazioni che lo

indussero da ragazzo al furto101, ne mette in luce l’inoggettivabilità, la

indefinitività, che esprimono l’anelito infinito della volontà, ma anche il

tentativo della soggettività di sradicarsi dal piano della propria

legittimazione, nell’affermazione di una misura che non sia più data, ma

posta dalla coscienza stessa.

Tuttavia, il desiderio, come l’atto del giudizio, indica una originaria

inerenza: …sed te ipsam, veritas, in qua non est commutatio nec momenti

obumbrati, esuriebam et sitiebam102 . Agostino non parla mai di desiderium

Dei, perché, anche qui, la verità non è oggettivabile, ne è possibile

considerarla come qualcosa di cui si manchi: è la dimensione del quaerere,

quella in cui il desiderio è trattato, in cui la relazione trascendentale

dell’esse-verum si manifesta come misura del giudizio e del desiderio,

come ordo di cui nulla può essere concepito più grande o degno. Questa

misura si declina nel presente del pensare e del desiderare, appunto del

quarere, rendendo così imago la forma stessa del desiderio, così come lo è

la vita stessa della coscienza, e si afferma paradossalmente, ancora una

volta, come misura insuperabile, nel caso, stavolta, del desiderio alienato:

Potestatem quippe suam diligens anima, a communi universo ad privatam

partem prolabitur, et apostatica illa superbia, quod initium peccati dicitur,

cum in universitate creaturae Deum rectorem secuta, legibus eius optime

gubernari potuisse, plus aliquid universo appetens, atque id sua lege

gubernare molita, quia nihil est amplius universitate, in curam partilem

truditur, et sic aliquid concupiscendo minuitur103.

99 cfr. C. Dumouliè, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Torino 2002, pp. 61-72. 100 Confessiones,III, 1.1. 101 Ivi, II, 4.9. 102 Ivi, III, 6. 103 De Trin., XII, 9.14.

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L’inseparabilità della soggettività dall’ordine della verità viene ribadita

anche nella dottrina sulla grazia: la finitudine, il cui segno è il peccato,

proprio nella mancanza che la definisce, non cancella il desiderio, anzi lo

amplifica, nel disorientamento, ma proprio la sua esasperazione riafferma

l’ordine originario, l’orizzonte insuperabile del suo avvenimento, che si

afferma nel dono gratuito dell’agape trinitario104. Senza voler qui proporre

una ricostruzione della teologia della grazia, sembra interessante notare

come, nelle sue opere più tarde105, Agostino qualifichi la grazia stessa:

indeclinabiter, insuperabiliter ma non infallibiter; come se volesse indicare

un orizzonte, piuttosto che uno stato. La mancanza di espressioni tipiche

delle scuole teologiche posteriori, come “grazia santificante”, “stato di

grazia”, è indicativa del fatto che anche qui egli pensa secondo una logica

relazionale, che definisce il rapporto tra chi dona e chi riceve nel senso del

perdurare della relazione, che consente una concezione storica dell’esistenza

giustificata.

La verità nel presente della soggettività è dunque condizione della vera

libertà, e, in una metafisica per la quale il relative dicitur permane a

chiarire il senso delle definizioni, è possibile affermare che …nos tota

inhabitas Trinitas106.

Se questo è vero, l’anima, come principio vitale dell’essere umano, può

essere soltanto analogicamente detta tale anche degli altri enti animati: il

corpo che vivifica non è un corpo qualsiasi, ma il corpo dell’uomo, i cui

processi non le sono estranei. Ma ciò vuole anche dire che l’attività sensitiva

dell’uomo è sui generis, proprio per la vita della coscienza che fa del corpo

di ognuno un “corpo proprio” in senso fenomenologico, cioè come costituito

nel suo significato di presenza al mondo a partire dallo sfondo

trascendentale dell’io.

104 Per una esposizione della dottrina sulla grazia in Agostino, fino alla sua ricezione in epoca moderna e contemporanea, si veda A. Ganoczy, op. cit., pp. 112 ss. 105 De correptione et gratia, XII, 38. 106 De Trin, XV, 18.32.

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La soggettività avviene dunque nella costituzione della individualità

personale, attraverso una attività di “sintesi trascendentale” che coinvolge la

sensazione, che, non a caso, non viene semplicemente riconosciuta come

“passione dell’anima”, ma vi si riconosce un’attività originale della

coscienza, non nel senso che questa possa prescindere dal dato, ma in quello

per cui sensum puto esse , non latere animam quod patitur corpus107.

Nella conoscenza sensibile, la fenomenologia della sensazione descrive i

due momenti della percezione e della memoria sensibile. Per esempio, nella

visione di un corpo esterno si possono distinguere la res, la visio e l’intentio:

Cum igitur aliquod corpus videmus, haec tria, quod facillimum est,

considerando sunt et dignoscenda. Primo, ipsa res quam videmus sive

lapidem, sive aliquam flammam, sive quid aliud quod videri oculis potest;

quod utique iam esse poterat, et antequam videretur. Deinde,visio, quae non

erat priusquam rem illam obiectam sensui sentiremus. Tertio quod in ea re

quae videtur, quamdiu videtur sensum detinet oculorum, id est animi

intentio108.

Nel secondo momento della percezione, quello della memoria sensibile, la

triade appartiene ad un altro livello nella coscienza, quello del ricordo: tria

in cogitatione memoriae, i cui elementi sono la memoria sensibilis,

l’immagine della realtà conservata nella memoria, l’interna visio, e la

voluntas quae utrumque copulat , l’intenzionalità costitutiva della coscienza

che unisce l’immagine presente nella memoria con l’interna visio, nella

relazione che costituisce la substantia della cogitatio: Atque ita fit illa

trinitas ex memoria, et interna visione, et quae utrumque copulat voluntate.

Quae tria cum in unum coguntur, ab ipso coactu cogitatio dicitur. Nec iam

in his tribus diversa substantia est. Neque enim aut corpus illud sensibile ibi

est, quod omnino discretum est ab animantis natura, aut sensus corporis ibi

formatur ut fiat visio, aut ipsa voluntas id agit ut formandum sensum

sensibili corpori admovea , in eoque formatum detineat109.

107 De quantitae animae, XXIII, 41-42. 108 De Trin., XI, 2.2. 109 Ivi, XI, 3.6.

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Scrive S. V. Rovighi: “Quando dunque non è più presente il corpo sentito,

resta nella sua memoria una sua similitudine alla quale può di nuovo

rivolgersi lo sguardo dello spirito per esprimerne un pensiero. Il pensiero è

una sorta di visione interiore che si attua quando lo sguardo dello spirito,

diretto dalla volontà, è formato dalla similitudine conservata nella

memoria” 110. Nel definire l’elemento che unisce la triade della visione e

quella del ricordo, Agostino parla di intentio animi,111 intentio voluntatis e

voluntas animi112. Con queste espressioni, può essere indicata la tensione

della voluntas animi, della mens, verso la res per legarla e trattenerla con il

senso. L’intentio voluntatis unisce così la res con la visio e unisce ancora

l’imago corporis con la visio cogitantis.

Nell’itinerario che procede dalla sensazione al pensiero si possono dunque

riscontrare quattro species: quella del corpo esterno, l’immagine che si

produce nel senso, la similitudine impressa nella memoria e la forma, che si

dà nel pensiero. Le quattro species danno luogo a due visiones: quella

sensibile, tra l’oggetto e l’immagine del senso, e quella razionale, tra

immagine impressa nella memoria e l’interna visio: Visiones enim duae

sunt: una sentientis, altera cogitantis. Ut autem possit esse visio cogitantis,

ideo fit in memoria de visione sentientis simile aliquid, quo se ita convertat

in cogitando acies animi, sicut se in cernendo convertit, ad corpus acies

oculorum. Propterea duas in hoc genere trinitates volui commendare:

unam, cum visio sentientis formatur ex corpore; aliam, cum visio cogitantis

formatur ex memoria113 .

Si realizzano così due generi di conoscenza e di memoria, quella sensibile e

quella razionale, e di nuovo è nella misura appropriata, in un ordo come

orizzonte logico-trascendentale invalicabile, che qui si manifesta alla

descrizione fenomenologica, che la conoscenza trova le condizioni della sua

stessa possibilità; e i diversi atti di costituzione del proprio oggetto si danno

allo sguardo fenomenologico attraverso le loro relazioni, legittimando così

110 S. V. Rovighi, La fenomenologia della sensazione in Sant’Agostino, in Studi di filosofia medievale, Milano 1978, p.17. 111 De Trin , XI, 2.2. 112 Ivi, XI, 4.7; 2.5 . 113 Ivi, XI, 9.16.

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la ricerca di una fondazione filosofica della teoria della verità secondo

l’analogia logico-trascendentale: At si propterea nemo aliquid corporale

cogitat nisi quod sensit, quia nemo meminit corporale aliquid nisi quod

sensit, sicut in corporibus sentiendi, sic in memoria est cogitandi modus.

Sensus enim accipit speciem ab eo corpore quod sentimus, et a sensu

memoria, a memoria vero acies cogitantis114.

L’ unità del soggetto, espressa nella presenza all’animo di ciò che il corpo

vive – presenza che istituisce la sensazione - è data anzitutto

nell’intenzionalità che rappresenta l’essenza stessa della coscienza, cui

quindi inerisce essenzialmente l’esse, un esse “ridotto“ in senso

fenomenologico-trascendentale, come lo stesso superamento dell’argomento

scettico dimostra attraverso l’evidenza dell’unità di esistenza ed essenza del

cogito: e che però, riconoscendo questa evidenza in quanto appunto

fenomenologica – strutturante la stessa coscienza, se così ci si può

esprimere – non disarticola la soggettività dal mondo, il quale anzi è

assunto nella vita della coscienza, e consente la figurazione di questa vita

come analogia , imago del suo paradigma e della sua misura insuperabile, e,

in questo, il rispetto del modello epistemologico di riferimento, che non

consente di pensare substantialiter le condizioni del senso e della vita della

coscienza, perchè vorrebbe dire porre la ratio a giudice della propria

misura.

Quando invece – si è visto nel passo citato sopra - si tratta della coscienza

rispetto alla definizione dell’uomo, come ente animato tra altri enti animati,

allora senz’altro substantialiter essa è ciò per cui questo ente animato è un

uomo.

Ma la scientia, modalità propria della ratio, è legittimata proprio perché

quest’ultima incontra la misura ad un tempo come eccessiva e come sua, e

in ragione di essa giudica l’ente che le è dato. E’ stabilita dunque

114 Ivi, XI, 8.14.

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quell’apertura intenzionale in cui si costituisce l’esse come vissuto e

pensato, l’orizzonte precategoriale dell’adaequatio intellectus et rei.

Non sembra possibile obiettare che la memoria sia solo uno specchio delle

percezioni, negando così la datità fenomenologico-trascendentale dei

sensibilia, perché: “ l’analogia tra percezione e memoria si riferisce più

alla natura dei due processi che ai loro oggetti. Un oggetto esterno

sensibile non ha le stesse caratteristiche di un’immagine mnemonica

incorporea, anche se nei processi che stiamo esaminando svolgono

ambedue le medesime funzioni ”115. C’è per Agostino una forma di

equivalenza tra percezione e forme di coscienza. L’errore non conduce allo

scetticismo, perché ciò che si dà nel vissuto si dà nell’evidenza del noema, e

di qui si procede alla costituzione del mondo dell’esperienza, con tutte le

variabili e le prospettive contrastanti che si vivranno.

La stessa realtà esterna è dunque conosciuta in quanto giudicata e misurata,

lontano perciò da modelli che la sollevino a misura della verità. Ciò che

conta è l’imago impressa nel senso e nella memoria, e allora è importante

considerare il valore dell’imago in funzione del valore di verità del giudizio.

Solo così, la stessa coscienza, la sua vita e le sue strutture, che lo sguardo

fenomenologico portano all’evidenza, possono a loro volta costituirsi come

imago della verità, e proprio attraverso la problematicità dello statuto

epistemologico di questa imago, definito dall’analogia.

Dalla conoscenza sensibile si passa alla conoscenza razionale, alla

dimensione propriamente coscienziale, all’ homo interior: la memoria

sensibile, che deriva dalla percezione, fornisce alla mens la materia sensibile

del giudizio – l’esperienza già “vissuta” del mondo – sulla quale la ratio

esercita la propria attività regolatrice. Questa sintesi, entro la quale il corpo

stesso come corpo dell’uomo giunge alla propria costituzione, identifica la

ratio come mentis motio, che distinguendo e connettendo, imprime il

proprio ordine nella discontinuità dell’esperienza, trascorrendo da

conoscenza a conoscenza nella sintesi trascendentale del tempo interno. A

partire dal libro XI, in cui si è trattato l’uomo esteriore quale vestigio della

115 G.O’Daly, La filosofia della mente in Agostino, Palermo 1983.

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Trinitas – Veritas, l’indagine si svolge nel senso della ricerca dell’imago

Trinitatis, e le triadi fin qui riconosciute nella fenomenologia della

sensazione, con particolare riguardo all’atto della visione, rappresentano un

gradino ancora preliminare dell’analogia logico - trascendentale che trova

nell’homo interior le sue figurazioni più compiute.

Se alla ratio inferior appartiene la scientia in quanto conoscenza delle cose

temporali, alla ratio superior compete la sapientia, come conoscenza di sé e

delle res aeternae, e come tale ad essa spetta il nome di intellectus. Alla

mens appartengono dunque la ragione e l’intelligenza: mens, cui ratio et

intelligentia naturaliter ines,116 ma spetta all’intelletto la ricerca del

significato, la sintesi nel giudizio secondo quella misura dalla quale

l’intelletto stesso è istituito nel suo valore. Dice dunque Agostino: Sed

sublimioris rationis est iudicare de istis corporalibus secundum rationes

incorporales et sempiternas; quae nisi supra mentem humanam essent,

incommutabiles profecto non essent; atque his nisi subiungeretur aliquid

nostrum, non secundum eas possemus de corporalibus iudicare. Iudicamus

autem de corporalibus ex ratione dimensionumque atque figurarum, quam

incommutabiliter manere mens novit 117.

Dunque, …intellectus ergo vel intelligentia,118 e l’intelletto è lux mentis, in

cui si svela la misura, il “ numero” del sapere, nel limite della sua imago.

La lux mentis è naturale e interiore, quando nella conoscenza di sé

l’intelletto si coglie nell’attualità del suo essere esistente e si riconosce come

natura vivente ed essente; per considerare la natura della mens nella sua

attualità, vanno rimosse tutte le conoscenze relative al mondo dei sensi

esterni, mediante un procedimento di “riduzione,” di incorporea conversio,

che sveli il piano dell’evidenza trascendentale: Proinde restat ut aliquid

pertinens ad eius naturam sit conspectus eius, et in eam, quando se cogitat,

non quasi per loci spatium, sed incorporea conversione revocetur. Cum

vero non se cogitat, non sit quidem in conspectu suo, nec de illa suus

116 De civitate Dei, XI, 2. 117 De Trin., XII, 2.2. 118 Enarrationes in Psalmos, 31.9.

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formetur obtutus, sed tamen noverit se tamquam ipsa sibi sit memoria sui119.

La mens guadagna così la certezza di sé, nella conoscenza di sé, e

nell’esperienza della volontà di sé: nel conoscersi si ama, nell’amarsi si

conosce e vive nella triade dell’autocoscienza, mens, notitia sui, amor:

…mens, et notitia eius, quod est proles eius ac de se ipsa verbum eius, et

amor tertius, et haec tria unum atque una substantia120.

La mens genera la notitia sui, la parola interiore, dalla presenza a sé di se

stessa, ed è l’atto isitutivo della soggettività: l’homo interior si pensa

nell’atto intellettivo dell’autocoscienza, a partire dal riconoscimento

trascendentale dell’esse proprio in quanto verum, e si costituisce come

soggetto nella veritas , di cui è analogamente imago.

3.3 Verità e Soggetto: l’immagine

Deum nihil aliud dicam esse, nisi idipsum esse121 : non è in una definizione

di Dio, che l’interrogazione filosofica trova il fondamento della verità. La

dottrina metafisica deve invece servire alla esposizione delle condizioni di

possibilità dell’interrogare stesso, conducendo quindi all’istituzione della

soggettività nella chiarificazione fenomenologica del quaerere, entro la

quale vengono ad evidenza le sue strutture trascendentali, come imago,

rappresentazione di quelle condizioni, attraverso una forma di analogia che

non è costruita secondo un’intenzione che usa questa figura logica e

dialettica in funzione ontologica, per poter dire qualcosa a proposito di un

oggetto, superando l’equivocità della predicazione, per poterlo meglio

119 De Trin., XIV, 6.8. 120 Ivi, IX, 12.18. 121 De moribus Ecclesiae catholicae, XIV, 24.

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definire, ma invece, secondo un’intenzione di filosofia della conoscenza che

mira alla fondazione del valore di verità del giudizio nella partecipazione.

Nel primo senso, l’analogia, seguendo l’impostazione aristotelica, permette

di inquadrare teoricamente la relativa continuità del senso pur nella

incolmabile differenza del significato, e si sviluppa nella riflessione intorno

alla contestazione della concezione dell’ essere come sommo genere,

esposta ad esempio nel Sofista di Platone, operata da Aristotele122. Nel

secondo, l’analogia si chiarisce nel concetto platonico di partecipazione,

nella direzione di un’indagine sui Principi volta al riconoscimento di piani

epistemici di fondazione del giudizio e del retto agire.

La tensione tra senso e significato è particolarmente viva a riguardo degli

attributi teonimici, come nello Pseudo-Dionigi, dal quale riceve una forma

tale che imporrà due problemi alla speculazione successiva: primo, l’unità

logica e semantica della determinazione del senso, per cui il termine rimane

identico nel momento affermativo, mentre il significato muta attraverso la

negazione – il referente non è la creatura, ma Dio -; il senso però non può

essere né completamente identico, né equivoco, come mostra l’elevazione

iperbolica del medesimo significante: dove sta il fondamento dell’unità del

senso che pure consente la differenziazione del significato, per cui si dà

ragione della “dicibilità” e della “trascendenza” della realtà inconoscibile di

Dio?

Il secondo problema sarà quello del riferimento alla realtà di Dio mediante

la metafora della “causa trascendente”delle creature: se si tratta di un

predicato a sua volta simbolico, allora è un problema la sua posizione di

fondamento teorico della predicazione teonimica; in caso contrario, sarà il

carattere strutturalmente simbolico degli stessi predicati teonimici a dover

essere messo in questione. La dottrina scolastica dell’analogia consentirà,

come sopra accennato, di costruire il quadro teorico della questione, ma la

sua elaborazione ripropone soprattutto il secondo problema, che forse è la

causa anche delle incertezze di Tommaso d’Aquino sull’argomento123.

122 Cfr. F. Trabattoni, La filosofia antica. Profilo storico-critico, Roma 2002, pp. 101ss. 123cfr. B. Mondin, Il problema del linguaggio teologico dalle origini ad oggi, Brescia 1971.

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Una simile impostazione implica dunque determinate assunzioni

metafisiche, entro le quali si configura l’uso di una concezione

originariamente matematico-geometrica dell’analogia, poi logica e filosofica

in Platone ed Aristotele, nel tentativo di qualificare lo statuto

epistemologico del discorso su Dio. In Agostino, la direzione appare

diversa: se è vero che è partire dalla sua concezione della questione

teonimica che prende le mosse la riflessione dello Pseudo-Dionigi la quale,

come accennato, è all’origine della dottrina scolastica dell’analogia, che

eredita in Tommaso anche le connotazioni neoplatoniche della questione, lo

è altrettanto il fatto che il vescovo di Ippona, affermando che nomi, attributi,

formule a proposito del Deus Trinitas vanno concepiti come non

substantialiter, sed relative, non intende svolgere, se non tutt’al più entro

tali coordinate, una epistemologia teologica.

Quando perciò, nei libri conclusivi del De Trinitate, viene raggiunto l’homo

interior come imago Trinitatis, ciò che qui si svolge sembra essere una

filosofia della soggettività nel quadro di una teoria della verità che ricerca la

fondatezza delle condizioni di verità del giudizio. La stessa dottrina delle

relazioni, volta a chiarire rispetto ai primi quattro libri il limite di liceità

delle formulazioni costruite a partire dalla fede biblica, appare qui come lo

strumento logico con cui avviene il tentativo di chiarificazione filosofica

della nozione di verità, svolto a partire dai libri V – VIII, che poi si rivolge,

dal libro IX in poi, a partire dalla costituzione fenomenologica della

soggettività, come si è tentato di mostrare, alle condizioni alle quali questa

verità è vissuta e affermata dal soggetto.

Si giunge così al vestigium e all’imago della verità costituita dalle triadi

della vita interiore della coscienza, e qui il senso dell’analogia, della

ineliminabile distanza che segnala, indica proprio che il problema della

verità si pone come questione della fondazione del valore conoscitivo

dell’immagine, della rappresentazione, che forma dunque il centro

concettuale della teoria della verità svolta da Agostino nel De Trinitate.

Se è vero che l’imago si rivelerà nell’homo interior, lo è anche il fatto che

nella concezione agostiniana dell’immagine la filiazione è giudicata

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decisiva rispetto alla mimesis, e questo getta una ulteriore luce sulla stessa

concezione dell’analogia e quindi sull’impostazione del problema stesso

relativo al valore di verità dell’immagine e del giudizio, in una parola, della

rappresentazione: Omnis imago similis est ei cuius imago est; nec tamen

omne quod simile est alicui, etiam imago est eius: sicut in speculo et

pictura, quia imagines sunt, etiam similes sunt; tamen si alter ex altero

natus non est, nullus eorum imago alterius dici potest. Imago enim tunc est,

cum de aliquo exprimitur 124. L’immagine dunque non si confonde con la

somiglianza, di cui è una specie: occorre, perché una somiglianza sia

immagine, che sia la somiglianza di un essere generato a quello che lo

genera. Se è così, allora il Verbo può essere detto a pieno titolo immagine di

Dio, poiché è il Padre che lo genera come perfetta somiglianza di sé: Imago

enim si perfecte implet illud cuius imago est, ipsa coaequatur ei, non illud

imagini suae125.

Si tratta dunque di un movimento di pensiero che, procedendo dalla

concezione platonica e neoplatonica dell’eidos e dell’eidolon, non smentisce

il sospetto con cui l’immagine è riguardata, se il suo valore per la

conoscenza è ricondotto alla sua qualità mimetica: è invece l’espressività

che qualifica il valore di verità dell’immagine e permette di riconoscere, tra

tutte, quella che a pieno titolo potrà dirsi tale, relegando il resto a traccia o

vestigium.

La perfetta somiglianza di Sé a Sé in Dio si esprime nell’immagine in sé

che è il Verbo, adaequatio originaria, relazione che definisce la misura di

ogni altra adaequatio, che sussiste in quanto ne partecipa: Ubi est prima et

summa vita, cui non est aliud vivere et aliud esse, sed idem est esse et

vivere; et primus ac summus intellectus, cui non est aliud vivere et aliud

intelligere, sed id quod est intelligere, hoc vivere, hoc esse est, unum omnia:

tanquam Verbum perfectum, cui non desit aliquid, et ars quaedam

omnipotentis atque sapientis Dei, plena omnium rationum viventium

124 De Genesi ad litteram liber imperfectus, XVI, 57. 125 De Trin., VI, 10.11.

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incommutabilium; et omnes unum in ea, sicut ipsa num de uno, cum quo

unum126.

La differenza esiste in quanto e per quanto partecipe e assunta come

somiglianza nella relazione perfetta tra essere e verità, nella tensione

all’ordine e alla misura, che fornisce unità relativa alle cose create, e quindi

la possibilità stessa non solo dell’esistenza, ma anche della bellezza, o della

felicità 127. Dall’ordine naturale128 a quello spirituale e artistico129, fino

all’ordine della conoscenza: l’oggetto è costituito secondo il numero, il

rapporto, la regola, che vogliono affermarsi nella originaria adaequatio di

cui partecipano. La relazione logico-trascendentale esse-verum rappresenta

dunque l’orizzonte che definisce le possibilità stesse della soggettività, ciò

oltre cui nulla è pensabile o possibile, e di cui essa stessa è imago.

A questo rango essa assurge quando l’indagine fenomenologica rileva la

pura presenza a sé dell’ homo interior, abbandonando le stratificazioni

estetico-sensibili costitutive del mondo del soggetto, che lo ponevano in

quanto “uomo esteriore” come, orma, vestigio, ma non ancora imago: Non

sane omne quod in creaturis aliquo modo simile est Deo, etiam eius imago

dicenda est, sed illa sola quia superior ipse solus est. Ea quippe de illo

prorsus exprimitur, inter quam et ipsum nulla interiecta natura est 130.

Imago è dunque la mens: Ergo intelligimus habere nos aliquid ubi imago

Dei est, mentem scilicet atque rationem. Ipsa mens invocabat lucem Dei et

veritatem Dei. Ipsa est qua capimus iustum et iniustum; ipsa est qua

discernimus vero a falso; ipsa est quae vocatur intellectus, quo intellectu

carent bestiae; quem intellectum quisquis in se negligit, et postponit

caeteris, et ita abiicit quasi non habeat, audit ex Salmo: nolite esse sicut

equus et mulus, quibus non est intellectus 131.

126 Ivi,VI, 10.11. 127 De vera religione, XXXVI, 66. 128 Ivi, XXXII, 60. 129 De musica, XVII, 57. 130 De Trin., XI, 5.8. 131 Enarrationes in psalmos, 42.6.

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In particolare, tre strutture emergono dall’analisi fenomenologica della

coscienza: mens, notitia, amor; memoria sui, intelligentia, voluntas;

memoria Dei, intelligentia, amor. Tutte e tre hanno sede nella mens, occhio

spirituale dell’anima: Detracto etiam corpore, si sola anima cogitetur,

aliquid eius est mens, tanquam caput eius, vel oculus, vel facies: sed non

haec ut corpora cogitando sunt. Non igitur anima, sed quod excellit in

anima mens vocatur 132. L’essere immagine costituisce una qualità

essenziale della soggettività, come rappresentazione della necessaria

inerenza al piano trascendentale dell’esse-verum, e la problematizzazione

del suo statuto di verità non può arrivare fino al dissolvimento della

partecipazione, che è intesa come possibilità sempre aperta, e non

necessariamente attuale : Quamvis enim mens humana non sit eius naturae

cuius est Deus, imago tamen naturae eius qua natura melior nulla est, ibi

quaerenda et invenienda est in nobi s, quo etiam natura nostra nihil habet

melius. Sed prius mens in seipsa consideranda est antequam sit particeps

Dei, et in ea reperienda est imago eius. Diximus enim eam etsi amissa Dei

partecipationem obsoletam atque deformen, Dei tamen imaginem

permanere. Eo quippe ipso imago eius est, quo eius capax est, eiusque

particeps esse potest 133.

L’analogia tra la consustanzialità relativa delle “trinità create”, le strutture

trascendentali della mens e quella tra le Persone divine esprime la necessità

di non concedere alcuna distinzione concepita realiter tra la mens e le sue

facoltà, o all’interno di ogni facoltà, che determinerebbe una radicale

alterazione del modello di ragione proposto, verso una teoria del soggetto

che lo svincolerebbe dal proprio fondamento trascendentale, conducendolo

all’autolegittimazione nell’etsi Deus non daretur: Haec igitur tria:

memoria, intelligentia, voluntas, quondam non sunt tres vitae, sed una vita,

nec tres mentes, sed una mens, consequenter utique nec tres substantiae

sunt, sed una substantia. Memoria quippe, quae vita et mens et substantia

dicitur, ad se ipsam dicitur; quod vero memoria dicitur ad aliquid relative

dicitur. Hoc de intelligentia quoque et de voluntate dixerim: et intelligentia

132 De Trin., XV, 27.49 133 Ivi, XIV, 8.11.

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quippe et voluntas ad aliquid dicuntur. Vita est autem unaquaeaue ad se

ipsam, et mens, et essentia. Quocirca tria haec eo sunt unum, quo una vita,

una mens, una essentia: et quidquid aliud ad se ipsa singola dicuntur, etiam

simul, non pluraliter, sed singulariter dicuntur…Quapropter quando

invicem a singulis et tota omnia capiuntur, aequalia sunt tota singula totis

singulis, et tota singula simul omnibus totis; et haec tria unum, una vita,

una mens, una essentia134.

L’imago considerata, nella mens, dovrà perciò consistere di tre termini

consustanziali, e uguali nelle loro relazioni: Fortassis ergo mentis totum est,

et eius quasi partes amor quo se amat, et scientia qua se novit, quibus

duabus partibus illud totum constat ? An tres sunt aequales partes, quibus

totum unum completur ? Sed nulla pars totum, cuius pars est, complectitur:

mens vero cum se tota novit, hoc se perfecte novit, per totum eius est notizia

eius; et cum se perfecte amat, totam se amat, et per totum eius est amor

eius……..Quomodo autem illa tria non sint eiusdem substantiae, non video,

cum mens ipsa se amet, atque ipsa se noverit; atque ita sint haec tria, ut non

alteri alicui rerum mens vel amata vel nota sint. Unius ergo eiusdemque

essentiae necesse est haec tria sint: et ideo si tanquam commistione confusa

essent, nullo modo essent tria, nec referti ad invicem possent.

Quemadmodum si ex uno eodemque auro tres anulos similes facias,

quamvis connexos sibi, referuntur ad invicem, quod similes sunt; omnis

enim similis alicui similis est; et trinitas anulorum est, et unum aurum: at si

misceantur sibi, et per totam singuli massam suam conspergantur, intercidet

illa trinitas, et omnino non erit; ac non solum unum aurum dicetur, sicut in

illis tribus anulis dicebatur, sed iam nulla aurea tria.135.

Ogni moto d’amore implica tre termini: l’io, ciò che è amato, l’amore

dell’io. Se fosse l’io l’oggetto d’amore, essi si ridurrebbero a due, l’amore e

l’oggetto amato, il pensiero, considerato secondo l’essenza: Mens vero et

spiritus non relative dicuntur, sed essentiam demonstrat 136. L’amore non è

qui già l’atto con cui la volontà ama, ma la disposizione naturale del

134 Ivi, X, 11.18. 135 Ivi, IX,4.7. 136 Ivi, IX, 2.2.

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pensiero verso se stesso, dando così luogo a due termini relativi l’uno

all’altro, in una relazione di uguaglianza; il pensiero vuole sé,

compiutamente, l’amore che ha di sé è l’affermazione naturale di sé, ciò che

ama è esattamente uguale a ciò che è amato: Mens igitur cum amat se

ipsam, duo quaedam ostendit, mentem et amorem. Quid est autem amare se,

nisi sibi presto esse velle ad fruendum se ? Et cum tantum se vult esse,

quantum est, par menti voluntas est, et amanti amor aequalis 137.

Ma l’amore, nella relazione trascendentale dell’essere e del vero, non è

senza conoscenza, e il pensiero non può amarsi senza conoscersi, secondo la

propria natura intelligibile: e come l’amore dell’anima per sé è esattamente

uguale a sé, la conoscenza che ha di sé è identica a sé. La misura costituisce

la relazione, nell’adeguatezza espressa dalla circuminsessio di pensiero,

amore e conoscenza: Sicut autem duo quaedam sunt, mens et amor eius,

cum se amat; ita quaedam duo sunt, mens et notitia eius, cum se novit.

Igitur ipsa mens et amor et notizia sui, tria quaedam sunt, et haec tria unum

sunt; et cum perfecta sunt, aequalia sunt138.

La prima imago si dispiega perciò come relazione trascendentale costitutiva

della mens, anteriormente ai suoi atti. La rilevanza data al fatto che ciò che

fonda l’unità essenziale – una essentia – della mens con il suo amore e la

sua conoscenza sia ciò che fonda nel contempo la sostanzialità della

conoscenza e dell’amore indica che l’amore di sé o la conoscenza di sé non

si trovano nel pensiero come accidenti in un soggetto, altrimenti il pensiero

non potrebbe amare e conoscere che se stesso. Essentia dunque non dice qui

distinzione tra soggetto e facoltà, né entificazione di ciò che è condizione

trascendentale di una conoscenza con valore di verità, ma rimanda proprio

all’esse, inteso come l’orizzonte insuperabile della misura, del “numero”,

dell’ordo quale condizione di un possibile valore di verità della

rappresentazione, del giudizio, nella somiglianza espressa dell’immagine.

137 Ibid. 138 Ivi, IX, 4.4.

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Non si tratta nemmeno di definire l’anima e le sue facoltà, perché essa è le

sue facoltà, non vive se non delle proprie condizioni. In questo senso, il

pensiero è substantialiter conoscenza e amore, ed esse sono substantialiter

nell’essere sua sostanza: Simul etiam admonemur, si utcumque videre

possumus, haec in anima esistere, et tamquam involuta evolvi ut sentiantur

et dinumerentur substantialiter, vel, ut ita dictam, essentialiter, non

tamquam in subiecto, ut color, aut figura in corporem, aut ulla alia qualitas

aut quantitas. Quidquid enim tale est, non excedit subiectum in quo est.

……….Quamobrem non amor et cognitio tamquam in subiecto insunt menti,

sed substantialiter etiam ista sunt, sicut ipsa mens; quia et si relative

dicuntur ad invicem, in sua tamen sint singula quaeque substantia. Nec sicut

color et coloratum relative ita dicuntur ad invicem, ut color in subiecto

colorato sit, non habens in se ipso propriam substantia; sed sicut duo amici

etiam duo sunt homines, quae sunt substantiae; cum homines non relative

dicantur, amici autem relative139.

Questa prima imago resta in qualche modo nella circolarità della mens –

tamquam involuta - al di qua degli atti che, esprimendola, costituiscono in

senso fenomenologico-trascendentale la soggettività. Ma l’immagine,

nell’analogia, ha il suo valore cognitivo proprio nell’esposizione sempre

approssimata del pieno spiegamento di questa costituzione, ed ecco quindi

che lo sguardo si dirige verso questi atti, attraverso i quali lo statuto

epistemologico stesso dell’immagine si esprime in termini di filiazione, di

generazione, piuttosto che di mimesis.

La nuova evidenza che in tal modo si dà allo sguardo è significativamente

rilevata: In nono libro, ad imaginem Dei, quod est homo secundum mentem,

pervenit disputatio: et in ea quaedam trinitas invenitur, id est, mens, et

notitia qua se novit, et amor suo se notitiamque suam diligit; et haec tria

aequalia inter se, et unius ostenduntur esse essentiae. In decimo hoc idem

diligentius subtiliusque tractatum est, atque ad id perductum, ut inveniret in

mente evidentior trinitas eius, in memoria scilicet et intelligentia et

voluntate140.

139 Ivi, IX, 4.5. 140 Ivi, XV, 3.5.

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La memoria qui è la conoscenza del pensiero mediante se stesso, e questa

denominazione si spiega considerando che se il pensiero è inseparabile dalla

conoscenza di sé, resta però che la conoscenza attuale – cogitatio - non è

sempre diretta alla tematizzazione del pensiero: di qui il fatto che,

nonostante esso sia del tutto presente a se stesso, non ne abbia

consapevolezza. Questa modalità della presenza riceve dunque lo stesso

nome dato ai ricordi o alle conoscenze consapute ma non attualmente

tematizzate.

In tal modo, l’atto con cui il pensiero si percepisce non è definito un

conoscere, ma un riconoscere, memoria sui: Tanta est tamen cogitationis

vis, ut nec ipsa mens quodam modo se in conspectu suo ponat, nisi quando

se cogitat; ac per hoc ita nihil in conspectu mentis est, nisi unde cogitatur,

ut nec ipsa mens, qua cogitatur quidquid cogitatur, aliter possit esse in

conspectu suo, nisi se ipsam cogitando…………Proinde restat ut aliquid

pertinens ad eius naturam sit conspectus eius, et in eam, quando se cogitat,

non quasi per loci spatium, sed incorporea conversione revocetur. Cum

vero non se cogitat, non sit quidem in conspectu suo, nec de illa suus

formetur obtutus, sed tamen noverit se tamquam ipsa sibi sit memoria sui.

Sicut multarum disciplinarum peritus ea quae novit, eius memoria

continentu, nec est inde aliquid in conspectu mentis eius, nisi unde cogitat;

cetera in arcana quadam notitia sunt recondita, quae memoria nuncupatur.

Ideo trinitatem sic commendabamus, ut illud unde formatur cogitantis

obtutus, in memoria poneremus; ipsam vero conformationem, tamquam

imaginem quae inde imprimitur; et illud quo utrumque coniungitur, amorem

seu voluntatem. Mens igitur quando cogitatione se conspicit, intellegit se et

recognoscit; gignit ergo hunc intellectum et cognitionem suam141.

Si tratta qui di una trinità di atti, di cui si richiama uno strato più profondo,

una “preesistenza abituale” quale presupposto di ogni presenza attuale142.

Per riconoscersi, al pensiero non è sufficiente rivolgere lo sguardo a sé: così

otterrebbe un’immagine deformata, perché non ancora “ridotta” in senso

141 Ivi, XIV, 6.8. 142 cfr. E.Gilson, op. cit., pp. 256 ss, che riprende anche il parere di M. Schmaus, in op. cit., p. 271, che invece vedrebbe qui una certa esitazione tra trinità attuale ed incosciente.

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fenomenologico-trascendentale. Il mondo quale correlato dei molteplici atti

costitutivi, considerati a proposito della conoscenza sensibile, le complesse

stratificazioni di senso in cui vive la coscienza nell’orizzonte della sua

apertura intenzionale vanno attraversati per approdare al piano dell’evidenza

originaria, della coscienza che l’io vive dell’essere immagine di

quell’evidenza.

Ecco perché Agostino ritene necessario l’influsso delle rationes aeternae

correlate alla memoria latente che la coscienza ha di sé, affinché il pensiero

si scopra per quel che è e generi l’autocoscienza, che si esprime nel

giudizio, nel verbum143. La coscienza si costituisce nella ragione aeterna,

nell’evidenza, che la precede come suo orizzonte trascendentale, e che

trascorre nei suoi atti, abitandoli e informandoli, costituendoli in funzione

della loro manifestazione.

Nell’atto della sua espressione, nella generazione del giudizio, si dà per

analogia l’imago della generazione del Figlio ad opera del Padre, vale a dire

che qui si coglie ciò per cui l’immagine stessa si distingue dall’eidolon e in

cui consiste la possibilità del suo valore per la conoscenza: il Padre

concepisce eternamente una perfetta espressione di sé, che è il Figlio;

analogamente, il pensiero – nelle rationes aeternae – nella verità che lo

informa, genera una conoscenza vera di sé. Nella vita della coscienza,

l’espressione in atto si particolarizza rispetto alla memoria latente, si dà allo

sguardo nella sua propria fenomenologia, ma appartiene alla medesima vita

cui fa capo la memoria; è la parola esteriore che invece si separa,

manifestando nella parola e nel segno il giudizio.

Ogni conoscenza vera è conoscenza nella verità, e perciò l’atto del

concepimento, della generazione della verità è immagine della verità stessa,

che si produce nell’atto del giudizio, nella rappresentazione regolata e

generata dalle proprie condizioni di possibilità. Non si tratta quindi di

rendere tale verità in termini “ontici”, indagando poi sulla capacità mimetica

dell’immagine, ma di cogliere la condizione secondo cui il giudizio si

143 Cfr. L. Alici, Il linguaggio come testimonianza , Roma 1976, capp. I e III.

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produce, l’immagine si genera, svelando la forma: In illa igitur aeterna

veritate, ex qua temporalia facta sunt omnia, formam secundum quam

sumus, et secundum quam vel in nobis vel in corporibus vera et recta

ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus; atque inde conceptam

rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo

intus gignimus; nec a nobis nascendo discedit144 .

Il volgersi dell’intenzionalità della coscienza a stessa, attraverso e oltre le

molteplici stratificazioni che la costituiscono come coscienza di un mondo,

in direzione della relazione trascendentale di cui essa consiste, che è colta

dall’indagine fenomenologica come circuminsessio delle proprie condizioni

di senso, rivela il terzo elemento della seconda triade: la voluntas, che

corrisponde all’amor della prima triade, così come memoria e intelligentia

rispettivamente a mens e notitia.

La coscienza vive nei suoi atti, il desiderio muove nella circuminsessio e

induce all’espressione, alla generazione della verità nel giudizio e

nell’opera, generazione legittimata dalla misura stessa cui soggiacciono

entrambi; misura sorpresa dall’indagine fenomenologica come inizio ed

eschaton, come iniziativa interessata alla generazione della verità, come

amor, quindi, in cui generato e generante, giudizio e atto si identificano

senza confusione, senza indistinzione: Nemo enim volens aliquid facis,

quod non in corde suo prius dixerit. Quod verbum amore concipitur, sive

creaturae, sive Creatoris, id est, aut naturae mutabilis, aulla confusione

constringit 145.

L’ordo amoris non definisce un’alternativa che superi e poi porti a

compimento una ragione riscattata : vi è una vita della coscienza, che

determina l’unica vita della soggettività come identità di conoscenza e

amore ; il giudizio porta con sè la volontà della coscienza di esprimersi, di

vivere nella verità : Verbum est igitur…..cum amore notitia146, e qui, di

nuovo, la generazione costituisce l’immagine nel suo valore di verità.

144 De Trin., IX, 7.12. 145 Ivi, IX, 7.12-13. 146 Ivi, IX, 10.15.

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L’assenza di distinzioni intese realiter tra l’anima e le sue facoltà permette

ad Agostino di porre la questione della fondazione teoretica della verità, in

direzione di una diversa conformazione della teoria stessa della

rappresentazione e del giudizio, attraverso la concezione dell’imago quale

somiglianza espressa.

In tal modo, l’attenzione si sposta sugli atti costitutivi della rappresentazione

e del giudizio, sull’orizzonte precategoriale – già abitato dalla misura - che

ne costituisce lo sfondo – il vestigium - a partire da cui si genera

l’immagine, quindi la verità come espressione in quei modi; atti fondanti

questa verità, e che sono la stessa e identica vita della coscienza, irriducibili

l’uno rispetto all’altro come suoi atteggiamenti. Queste considerazioni

possono chiarire il senso delle distinzioni nell’immagine tra l’amore, causa

della generazione, il verbo, che è generato, e il pensiero, che genera. In

quanto principio della generazione, l’amore non si confonde con

l’espressione; tuttavia, l’amore si riconosce nel generato, come la verità si

riconosce nelle verità, e il desiderio della conoscenza è qui amore della

conoscenza. Il desiderio è antecedente all’amore, quindi non ne consegue; le

diverse rappresentazioni sembrano vivere l’una nell’altra, ma tutte

rimandano all’orizzonte dell’inerenza trascendentale dell’esse e del verum,

da cui il Bene riceve la forma mediante cui, in esso, si esprime147.

Ancora una volta, si tratta qui di una certa – quaedam imago - immagine

dell’adaequatio originaria, della condizione di ogni istanza di verità e

felicità nel bene: Qui appetitus, id est inquisitio, quamvis amor esse non

videatur, quo id notum est amatur; hoc enim adhuc, ut cognoscatur, agitur:

tamen ex eodem genere quiddam est. Nam voluntas iam dici potest, quia

omnis qui quaerit invenire vult….Partum ergo mentis antecedit appetitus

quidam, quo id quod nosse volumus quaerendo et inveniendo, nascitur

proles ipsa notitia; ac per hoc appetitus ille quo concipitur pariturque

notitia, partus et proles recte dici non potest; idemque appetitus quo

inhiatur rei cognoscendae, fit amor cognitive, dum tenet atque amplectitur

placitam prolem, id est, notitiam, gignentique coniungit. Et est quaedam

147 cfr. L. Alici, op.cit., cap. III.

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imago trinitatis, ipsa mens, et notitia eius, quod est proles eius ac de se ipsa

verbum eius, et amor tertius, et haec tria unum atque una substantia. Nec

minor proles, dum tantam se novit mens quanta est; nec minor amor, dum

tantum se diligit quantum novit et quanta est148.

Questa relazione della coscienza con se stessa, questa esposizione della

propria costituzione trascendentale, non è ancora però pienamente

immagine, di quella perfetta adaequatio in cui consiste la Trinitas, come lo

è invece la sapientia generata dal pensiero, insieme con l’intelligenza, al

termine del reditus, dell’itinerario della coscienza verso la sua indisponibile

misura: Haec igitur trinitas mentis non propterea Dei est imago, quia sui

meminit mens, et intelligit ac diligit se: sed quia potest etiam meminisse, et

intelligere et amare a quo facta est. Quod cum facit, sapiens ipsa fit. Si

autem non facit, etiam cum sui meminit, seseque intelligit ac diligit, stulta

est. Meminerit itaque Dei sui, ad cuius imaginem facta est, eumque

intelligat atque diligat149.

La sapientia generata si sa ora come immagine; il ricordo di sé,

l’espressione di sé nel verbo e l’amore verso sé non sono qui altro se non la

memoria della sapientia incondizionata, della sua espressione e del suo

amore. Se non si dà alcun esse al di fuori della misura, del numero,

dell’ordo, allora la verità della coscienza, la sua sapientia, non è se non

come partecipazione, come immagine. In questo senso, la natura in quanto

res creata, e quindi a maggior ragione, quella razionale e intelligente,

costituita come imago, vive nella verità, pur non disponendone: l’analogia

rimanda all’orizzonte logico-trascendentale come alla condizione secondo la

quale l’espressione del bene si dà forma nel vero, ed entrambi si danno

come perseguibili, come regola, che giudica e non è giudicata, rendendo

sensata la stessa domanda autenticamente ed originariamente filosofica,

sulle condizioni di possibilità di una vita felice in quanto recta, buona.

Quest’orizzonte ….quidem non longe positus ab unoquoque nostrum, sicut

Apostolous dicit, adiungens: in illo enim vivimus et moventur et

148 Ivi, IX, 2.18. 149 Ivi, XIV, 12.15.

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sumus…Unde secundum mentem quae facta est ad eius imaginem, debet hoc

accipi, excellentiore quodam, eodemque non visibili, sed intelligibili modo.

Nam quid non est in ipso, de quo divine scriptum est: Quoniam ex ipso et

per ipsum, et in ipso sunt omnia?150

L’analogia ribadisce appartenenza e distanza, quando le tre potenze che la

costituiscono, memoria, intelligenza e volontà appaiono secondo diverse

misure di grandezza: Ista vero tria quae sunt in impari immagine, etsi non

locis quoniam non sunt corpora, tamen inter se nunc in ista vita

magnitudinibus separantur…………Et quanto inter se aequalia fuerint ab

omni languore sanata, nec tunc aequabitur rei natura immutabili ea res

quae per gratia non mutatur, quia non aequatur creatura Creatori, et

quando ab omni languore sanabitur, mutabitur151.

Il suo valore conoscitivo sta nell’essere espressione del fondamento e nel

contempo della sua irriducibilità alla rappresentazione, ivi compresa la

formulazione teologico-dogmatica, se questa è fondata su una concezione

della domanda filosofica come interrogazione sull’essenza dell’essere, che

darebbe luogo ad una ontologia secondo un uso della logica aristotelica che

travalicherebbe l’ambito del condizionato per farsi istitutore delle

condizioni. La mens, nella sapienta generata, è lo specchio attraverso cui si

vede in aenigmate, una somiglianza espressa che rimanda ad un piano di

fondazione della verità oltre l’inadeguatezza della rappresentazione, nel

valore esemplare dell’imago: Per quod tamen speculum et in quo aenigmate

qui vident, sicut in hac vita videre concessus est, non illi sunt qui ea quae

digessimus et commendavimus in sua mente conspiciunt; sed illi qui eam

tamquam imaginem videt, ut possint ad eum cuius imago est,

quomodocumque referre quod vident, et per imaginem quam conspiciendo

vident, etiam illud videre coniciendo, quoniam nondum possunt facie ad

facies. Non enim ait Apostolus: videmus nunc speculum; sed videmus per

speculum 152.

150 Ivi, XIV, 12.16. 151 Ivi, XV, 23.43. 152 Ivi, XV, 23.44.

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L’esse va interrogato in funzione del verum e del bonum, in tanto in quanto

questa indagine è indispensabile per risolvere il problema della vita nel

segno della rectitudo, vale a dire di una vita felice in quanto buona. L’intero

percorso dei XIV libri del De Trinitate ha condotto anzitutto a ricondurre

nei limiti di questa rectitudo l’uso della ragione, della quale in questo

itinerarium, nella riconduzione fenomenologico-trascendentale della

coscienza a se stessa, si è reso riconoscibile quell’orizzonte di senso

insuperabile che è la misura, la cui affermazione ad ogni livello della vita

stessa della coscienza, ivi compreso quello dello sfondo precategoriale su

cui si innestano rappresentazioni e giudizi, rende ragione dell’esercizio

stesso della recta ratio, quale forma di espressione del bene.

Che questo bene possa essere espresso, ma non isituito, nè filosoficamente,

né teologicamente, da un ragione che si fa logos dell’essere, lo ribadisce il

libro XV, nel ricordare che l’immagine non vale per ciò che riproduce – non

è qui il suo valore di verità, in accordo con la tradizione platonica, ma per

ciò che esprime in quanto analogia; quindi mentre termini come vita,

memoria, conoscenza rimandano alla concezione di attributi, vengono

distiniti e pensati come propri di un soggetto, la perfetta semplicità, la

misura assoluta, è, come scrive Agostino, ciò che ha153.

Ciò che vale per l’immagine, vale anche per le formulazioni del dogma

trinitario; le Persone si distinguono secondo la relazione, mentre ciò che si

predica dell’essentia divina si predica secondo la sostanza: perché l’essentia

nella sua perfetta semplicità non conosce realiter alcuna distinzione: Est

tamen sine dubitatione substantia vel, si melius quod appellatur, essentia,

quam Graeci ousia vocant. Sicut enim ab eo quod est sapere dicta est

sapientia, et ab eo quod est scire dicta est scientia, ita ab eo quod est esse

dicta est essentia…………………Sed aliae quae dicuntur essentiae sive

substantiae, capiunt accidentia, quibus in eis fiat vel magna vel

quantacumque mutatio; Deum autem aliquid eiusmodi accidere non potest.

Et ideo sola est incommutabilis substantia vel essentia, qui Deus est, cui

profectio ipsum esse, unde essentia nominata est, maxime ac verissime

competit. Quod enim mutatur, non servat ipsum esse; et quod mutari potest,

153 Ivi, XV, 5.7-8; 7.11-13; 22.42; 23.43-44.

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etiamsi non mutetur, potest quod fuerat non esse; ac per hoc illud solum

quod non tantum non mutatur, verum etiam mutari omnino non potest, sine

scrupolo occurrit quod verissime dicatur esse 154.

Tutto ciò che si attribuisce nel senso della relazione non concerne la

sostanza, ma la relazione: se la definizione volesse estendersi al piano

dell’assoluto, se volesse così ricondurre l’irriducibilità del fondamento a ciò

che è fondato, nella identità perfetta dell’espressione con ciò che ne è la

condizione, si otterrebbe quella distorsione riassunta nella formula greca

comunemente accettata mìan oùsian, treìs hypostàseis, unam essentiam, tres

substantias, che non fornisce nessun significato adeguato, pena

l’autocontraddizione, il dissolvimento dell’unità essenziale espressa

dall’adaequatio originaria del pensiero a se a stesso.

Va così intesa la proposta agostiniana che riprende la nozione di persona,

che “indebolisce” la pretesa stessa della definizione, ma al tempo stesso,

restituendole lo stato epistemologico che le compete, la riporta al piano del

giudizio, dell’immagine, cioè di quegli atti e di quelle costituzioni di senso

regolati delle quali la filosofia, nel tendere ad una fondazione della loro

verità, ricerca le condizioni: unam essentiam vel substantiam, tres autem

personas 155.

In questa direzione, il concetto stesso di verità razionale, con le sue note di

immutabilità, eternità, in una parola, di “divinità” si declina senz’altro con

minori pretese rispetto ad una sua affermazione all’interno di una ontologia

“forte”: “ c’è un senso, molto più umile ma assai più verificabile, in cui si

dice che la verità razionale è eterna, etc..: lo è nel senso che essa vuole

esserlo, che appartiene alla sua essenza l’esperienza di esserlo”156.

E’ allora questo il senso dell’affermare che la verità non è altro dal bene,

che l’adaequatio della regola a se stessa garantisce l’esercizio della recta

154 Ivi, V, 2.3. 155 Ivi, VII, 5.10-6.11. 156 cfr. G. Preti, Retorica e Logica , Torino 1968, p.10, cit. in E. Franzini, Verità dell’immagine, Milano 2004, p.14.

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ratio e l’espressione in essa del bene secondo la forma del vero. L’imago

Trinitatis esprime come analogia il proprio orizzonte di senso, ribadendo,

nella impossibilità di esaurire la misura, e quindi nel riconoscimento della

sua verità nella verità della regola, la condizione stessa della propria

rectitudo e con ciò di una vita felice in quanto buona.

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CONCLUSIONE

La tradizione filosofica di un modello di ragione

Nell’indicazione della centralità, in una filosofia intesa come itinerarium

verso la fondazione della verità, del nodo in cui si intrecciano il valore

dell’espressione nell’immagine della sapientia generata, e di conseguenza,

la questione dello statuto epistemologico dei giudizi, delle rappresentazioni

nelle loro più diverse gradazioni espressive, dalla traccia al vestigio fino

appunto all’imago quale analogia più compiuta, e che persegua il

riferimento a “piani epistemici, non probabilistici, di fondazione”157 , si può

forse rintracciare la radice di una tradizione filosofica, che, procedendo al di

là dell’impostazione platonica e neoplatonica di riferimento, giunge ad esiti

che, oltre Anselmo d’Aosta, saranno propri delle scuole francescane di

Bonaventura, di Scoto o di Ockham158.

Non quindi nel senso che francescanesimo ed agostinismo combattano una

battaglia contro il “primato della ragione”, tomista o averroista, nel nome

del primato dell’amore. E’ una diversa concezione della ragione, della

metafisica, che è in gioco, perché c’è una diversa idea della domanda

filosofica che muove, e muove verso una “filosofia dell’espressione”,

secondo un preliminare reditus fenomenologico-trascendentale della

coscienza a se stessa, che, nello svelare il senso dell’immagine, del

giudizio, come processi di generazione, di espressione del vero nel Vero,

più che di mimesi, trova la forma espressiva del Bene, e di qui propone la

sua strada per una filosofia della vita felice in quanto buona.

Tutto esprime “numero, peso e misura”, cioè rectitudo, adaequatio; quando

Bonaventura scrive: Verbum divinum omnis creatura, il mondo è

espressione di Dio, parola detta per l’intelligenza, imago della fontana

157 cfr. E. Franzini, op.cit., p. 15. 158 cfr. O. Todisco, op. cit., pp. 99 ss.

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bonitatis, poiché …verbum non est aliud quam similitudo expressa et

exspressiva 159. Se giudicare, rappresentare, significano generare, per cui il

bonum si esprime nel verum, e il verum dà forma al bonum, allora

l’immagine è veramente se stessa , e fa conoscere, quando come sapientia

generata dallo sforzo della coscienza è analogia della sapientia perfetta, che

stabilisce la coscienza stessa nelle sue condizioni di verità.

Che la misura non sia disponibile, che la ragione non possa giudicarla, ma

che tuttavia in essa soltanto la coscienza incontri nel suo itinerarium – che

ricorda la incorporea conversio di Agostino - la possibilità della

rectitudo, lo ripete lo stesso Bonaventura, con la sua lettura della metafora

risalente allo Pseudo-Dionigi di Dio quale sfera intelligibile, in cui il centro,

che è ovunque, e la circonferenza , che è in nessun luogo, coincidono

nell’infinito, perché qui l’uno e i molti si esprimono nella perfetta semplicità

e nella perfetta infinità.

Nell’ Itinerarium mentis in Deum, Bonaventura scrive che, secondo il grado

di elevazione, Dio appare come il primo e l’ultimo, il semplicissimo e

l’universale, tutto in tutto e insieme irriducibile a tutto: Rursus reverentes

dicamus: quia igitur esse purissimum et absolutum, quod est simpliciter

esse, est primarium et novissimum, ideo est omnium origo et finis

consummans. Quia aeternum et praesentissimum, ideo omnes durationes

ambit et intrat, quasi simul exsistens earum centrum et circumferentia. Quia

simplicissimum et maximum, ideo totum intra omnia et totum extra, ac per

hoc “est sphaera intelligibilis, cuius centrum est ubique et circumferentia

nusquam” (Bonaventura cita qui Alano di Lilla e il Liber XXIV

Philosophorum)….Quia vero est summe unum et omnimodum, ideo est

omnia in omnibus, quamvis omnia sint multa, et ipsum non sit nisi unum160.

La trama del tempo accade in questa semplicità, che ne è centro e orizzonte:

Quia actualissimum et immutabilissimum, ideo stabile manens moveri dat

universa. Quia perfectissimum et immensum, ideo est intra omnia, non

159 Bonaventura da Bagnoregio, In I Sententiaru ,,in S. Bonaventurae Collationes in Hexaemeron et Bonaventuriana quaedam selecta, Firenze 1964, d.27, p.II, a.u., q.3, resp. 160 cfr, Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, Firenze, in S. Bonaventurae Opera Theologica selecta. Editio minor, tomus V, Firenze 1964, V,8.

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inclusum; extra omnia, non exclusum; supra omnia, non elatum; infra

omnia, non prostratum 161, ed è in questa perfetta adaequatio che sussiste il

senso di ogni espressione, di ogni virtù, di ogni exemplaritas: et hoc, quia

per simplicissimam unitatem, serenissimam veritatem et sincerissimam

bonitatem est in eo omnis virtuositas, omnis exemplaritas et omnis

communicabilitas; ac per hoc, ex ipso et per ipsum et in ipso sunt omnia, et

hoc, quia omnipotens, omniscens et omnimode bonum, quod perfecte videre

est esse beatum, sicut dictum est Moysi: Ego ostendam tibi omne bonum162.

In questa perfetta adaequatio, l’anima compie l’itinerario come movimento

nella verità, nel circulum aeternitatis che la custodisce e ne regola la vita

come espressione dell’ens ordinatissimum in cui ogni ordo non è senza

l’altro, nella perfetta circuminsessio della verità nel bene e del bene nella

bellezza della forma in cui a sua volta, si esprime, cosicché: Vita aeterna

haec sola est, ut spiritus rationalis, qui manat a beatissima Trinitate et est

imago Trinitatis, per modum cuiusdam circoli intelligibilis redat per

memoriam, intelligentiam, per deiformitatem gloriae in beatissimam

Trinitatem 163.

161 Ivi, ibid. 162 Ivi, ibid. 163 Id., De Mysterio Trinitate, in ed. cit., Firenze 1964, q. a.7.

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