Oltre il perdono di Monica De Marco

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Ester e Luca: una bella coppia, affiatata, collaudata, solida. Fino a quando Ester scopre che Luca l’ha tradita, ma è stata solo una sbandata, un’esperienza comune alla maggior parte delle coppie, quasi scontata, niente di veramente importante. Non per Ester, che non riesce a vivere il tradimento di Luca come una scappatella di poco conto ma, malgrado tutto, lo ama ancora e vuole continuare la sua vita con lui, pur sapendo che niente sarà più come prima. Il perdono si paga a caro prezzo, da ambo le parti. Quando scopre che da quel tradimento nascerà un bambino, Ester si rende conto che per salvare il suo matrimonio, ma soprattutto se stessa, stavolta deve trovare il coraggio di andare oltre. Oltre tutto, anche oltre il perdono. E quando crederà di esserci riuscita la vita le chiederà di farlo di nuovo…

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MONICA DE MARCO

Oltre il per-dono

Romanzo

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni Oltre il perdono di Monica De Marco Romanzo vincitore della selezione opere di letteratura rosa 2011. Tutti i diritti sono riservati. E’ vietata ogni riprodu-zione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazio-ne e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, de-vono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 78979108/8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] | P.E.C. [email protected] ISBN eBook 978897277781 Collana PINK http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni ri-ferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, in-dirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da conside-rarsi puramente casuale e involontario.

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Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edi-zioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore.

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A mia madre

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BIOGRAFIA Monica De Marco è nata a Pistoia nel 1961. Si è di-plomata all’istituto magistrale A. Vannucci. Giovanis-sima si è trasferita a Prato dove tuttora vive. Scrivere è il suo sogno nel cassetto, concretizzatosi nel 2008 con Attimi di felicità, romanzo autobiografico attra-verso il quale l’autrice, nel raccontare il suo sorpren-dente vissuto, cerca di sensibilizzare il lettore sulle problematiche della displasia ectodermica (www.assoande.it), malattia genetica rarissima di cui è affetto un suo familiare. Oltre il perdono è il suo secondo romanzo. BIBLIOGRAFIA 2008 Attimi di felicità Masso delle Fate RINGRAZIAMENTI Grazie a Andrea, mio nipote, per la gioia che ho visto brillare nei suoi occhi e il calore con il quale mi ha ab-bracciato quando gli ho detto che la nonna era riuscita a concretizzare il suo sogno più grande, pubblicare un libro. Grazie alla mia migliore amica (non vuole che citi il suo nome), che con pazienza certosina legge in ante-prima tutto ciò che scrivo. Quanto è antipatica quan-do critica, proprio non la sopporto! Però devo ammet-tere che anche le sue critiche, oltre ai suggerimenti e i consigli, mi sono non solo utili ma indispensabili. Grazie a Nicoletta Corsalini, poetessa e scrittrice di ta-lento. Senza i suoi insegnamenti gratuiti e disinteres-sati oggi non sarei qui.

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Grazie a Sonia Dal Cason, la mia editor. E’ stato un vero piacere lavorare insieme. Grazie a Marcello, mio marito, ai miei figli Marco e Maurizio e al resto della famiglia per aver sopportato con indulgenza la mia latitanza tutte le volte che li ho piantati in asso per andare a scrivere. Un bacio, oltre che a Andrea, anche a Matteo e Auro-ra.

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Non tradirmi amore, portami sempre nei tuoi pensieri,

non spezzerò il filo del tuo leggero aquilone…

…e tu sempre tornerai

perché IO sono la tua libertà.

Nicoletta Corsalini, Non tradirmi amore da Fiore di Loto

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Quel mattino, quando aprii gli occhi scrollandomi di dosso a fatica il dormiveglia agitato e popolato di in-cubi che mi aveva tormentato per l’ennesima, lun-ghissima notte, la lama di luce nebulosa e ancora in-certa dell’alba stava iniziando a delineare i contorni dei mobili, la lampada a stelo in un angolo, il casset-tone, lo specchio con la cornice intagliata riesumato e riportato alla vita tanti anni prima dal caos polveroso della soffitta dei nonni.

Avevo aspettato quel giorno con ansia e trepidazio-ne ed ero stupita di vederlo nascere proprio come tutti gli altri, la stessa calma oziosa e distaccata di un gior-no qualsiasi, lo stesso ritmo antico e immutabile.

Le luci fioche della notte, che da sempre mi aiuta-vano a combattere la paura del buio, si stavano stem-perando pian piano nella luminosità che invadeva la stanza attraverso la serranda semiaperta. Il sipario si apriva come di consueto sulla scena familiare di ogni giorno eppure mi sembrava di non farne parte, come se la vedessi attraverso la dimensione gommosa e sur-reale del sogno.

Ero lì e altrove nello stesso momento. Come, ormai da diverso tempo, l’uomo che da quasi

trent’anni dormiva al mio fianco. Mi voltai a guardarlo. Colsi un fremito delle palpebre chiuse, un agitarsi

nervoso delle mani che si aprivano come per afferrare qualcosa chiudendosi subito dopo senza aver afferrato nulla. Il suo respiro era leggermente ansimante, simi-

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le a quello di chi ha ripreso faticosamente fiato dopo un terribile spavento.

Lo vidi stirare le labbra nella smorfia tipica di quando è nervoso. Non riuscivo a distogliere gli occhi dalla sua bocca. Mi sarebbe piaciuto chiedergli come mai era così agitato, se aveva dormito bene.

Immaginai di farlo. Lui si sarebbe voltato verso di me per dirmi di sì,

aveva dormito benissimo. Non poteva fare altrimenti, ero l’ultima persona alla quale confidare gli incubi notturni che sicuramente aveva, che per forza doveva avere.

Mi avrebbe sorriso senza allegria e abbracciato sen-za calore, non voleva certo scatenare una discussione di primo mattino, non quel mattino.

A quel punto l’avrei abbracciato anch’io per tran-quillizzarlo, poi avrei avvicinato lentamente le mie labbra alle sue con tutta la sensualità di cui ero capace in quel momento.

Lui si sarebbe rilassato credendo che volessi dargli un bacio e invece avrei morso quella bocca maledetta che aveva osato baciare un’altra e l’avrei fatto con cat-tiveria, con famelica ferocia, con il preciso scopo di fargli male, stringendogli il labbro con i denti più forte che potevo fino a sentire la carne tenera spappolarsi, fino a farlo sanguinare e gemere di dolore. Avrei rac-colto il suo sangue con la mano per gustarne il sapore dolciastro e pulsante leccandomi le dita imbrattate e poi l’avrei guardato per godere del suo dolore e della sua espressione sbigottita e incredula.

Gli occhi sbarrati, il cuore che rullava impazzito nel petto, immaginai la scena con tanta lucidità che mi

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parve davvero di cogliere il bagliore rossastro del san-gue luccicare sulle sue labbra.

La bocca mi si riempì di saliva dolciastra. Stavo diventando pazza. Riappoggiai la testa sul cuscino, esausta, chieden-

domi se era normale quello che mi stava succedendo. Dovette accorgersi di essere stato investito dalla

corrente gelida del mio odio poiché cominciò ad agi-tarsi.

Si stava svegliando. Mi parve di vedere la cappa del sonno staccarsi da

lui, rimanere un attimo sospesa e poi svanire mentre il suo cervello riacquistava pian piano coscienza.

Si girò verso di me, ma io ero diventata molto brava a far finta di dormire. Pregai che non percepisse il battito impazzito del mio cuore mentre sentivo il suo fiato avvicinarsi al viso e i suoi occhi scrutarmi per un lungo istante indagatore.

Si alzò, prima ancora che la sveglia avesse trillato il suo monotono, ma incalzante richiamo.

Immobile nel letto a occhi chiusi lo ascoltai accen-dere la macchina del caffè, andare in bagno, rientrare furtivamente in camera a prendere i vestiti.

Solo qualche mese prima mi sarei alzata insieme a lui, avrei preparato io il caffè, l’avremmo bevuto in-sieme, nero per lui, con un po’ di latte per me e infine l’avrei abbracciato e baciato sulle labbra prima che uscisse, ma tutto si era stravolto dando vita a momen-ti come quello appena vissuto dopo che, per caso, un fottutissimo e malaugurato caso, avevo scoperto che mio marito, cioè colui al quale avevo consacrato in pratica tutta la vita e la mia stessa persona, la carrie-

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ra, i sogni, le speranze per il futuro, le aspettative, il corpo e la mente, tutto, praticamente tutto, aveva un’altra donna. Il mio bel mondo dorato era andato in frantumi, come un bicchiere infrangibile che quando si rompe si sbriciola in mille pezzi.

Con la sconcertante semplicità degli eventi che si verificano senza alcun preavviso impedendo anche la minima possibilità di tentare una difesa, mi si era sbriciolato addosso tutto ciò che avevo costruito, o meglio credevo di aver costruito fino a quel momento.

Mio marito mi aveva tradito. Mio marito aveva un’amante. Aveva accarezzato e goduto del corpo nudo di

un’altra donna. Un fatto impensabile, assurdo, inverosimile eppure

maledettamente reale, per il quale non avrei mai cre-duto possibile si potesse soffrire così tanto, forse per-ché ero sicura che non sarebbe mai accaduto a me.

E invece era accaduto, me lo ripetevo di continuo, forse sperando che a forza di ripeterlo perdesse di senso, come in quel gioco che facevo da bambina quando avevo scoperto che a dire cento volte il nome di un oggetto alla fine non riuscivo più a ricordare di che oggetto si trattasse, ma con quel pensiero non funzionava. Era un chiodo fisso, conficcato in mezzo al cervello, del quale non riuscivo in alcun modo a li-berarmi.

Quando anche solo per un attimo lasciava libera la mente era solo per riaffacciarsi il momento dopo, prepotente e beffardo.

L’attimo di tregua serviva solo a farmi assaporare il gusto della pace, per far sì che soffrissi ancora di più

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di fronte alla violenza del tormento che mi stava avve-lenando l’anima.

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L’amante di mio marito era una ragazza dell’Estonia, Ulle, che per vivere faceva la ballerina e tanto altro ancora in un locale di Montecatini.

Aveva venticinque anni, venti meno di me, mentre Luca era un bellissimo cinquantenne che le tempie brizzolate e l’aria vissuta rendevano ancora più affa-scinante. Non doveva aver avuto grossi problemi a frequentarla con assiduità in quanto rappresentante di una ditta di generi alimentari con diversi clienti proprio a Montecatini.

Il pensiero di Luca in una stanza d’albergo a far l’amore con quella donna nella luce soffice di fine pomeriggio, mentre io mi affannavo a lucidare la casa e a cucinare i suoi piatti preferiti, mi faceva uscire di testa.

Lavoravo part-time in un negozio di tessuti che mi permetteva di mantenere da sola i miei cosiddetti vizi, cioè le sigarette, il parrucchiere quattro volte l’anno, qualche vestituccio comprato alla stock-house della mia amica Martina e le sedute dall’estetista per la ce-retta, dedicando tutto il resto del mio tempo a Luca, a nostro figlio Pietro, alla casa e come se non bastasse pure al cane, Pluto, anche se in definitiva non dovevo essere io a occuparmene. Infatti il cane sarebbe stato di mio marito, non mio e Luca senza dubbio quell’ammasso di pulci e di peli lo amava tantissimo, ma ero io quella che lo portava ogni tanto a fare una bella corsa, gli cambiava l’acqua nella ciotola e gli da-va da mangiare, anche se quel fetente traditore come il suo padrone scodinzolava a tutti tranne che a me,

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ma lo facevo volentieri, anche portare Pluto ai giardi-ni, ed ero perfettamente felice.

Poi tutto si era stravolto. Avevo trascorso lunghe notti insonni a chiedermi perché, ma non avevo anco-ra trovato una spiegazione.

Anche i più bei capolavori vengono erosi dal tempo che prima o poi corrode tutte le cose umane. Era suc-cesso anche al nostro amore, forse troppo bello per essere vero, per poter durare all’infinito.

“Bello” sembrava essere l’aggettivo imperante nella nostra vita: una bella coppia, una bella casa, un figlio bello e intelligente di ventisei anni che a differenza di tutti i figli non rompeva le palle più di tanto, aveva il suo lavoro, i suoi amici, i suoi svaghi e già da un paio d’anni viveva per conto suo e solo ogni tanto si ricor-dava di passare da casa a portarmi le camicie da stira-re e a farci un saluto, una bella macchina, un bel giar-dino e infine era bello pure il cane, degna appendice della famiglia perfetta.

Mi ritenevo fortunatissima, una delle poche mogli al mondo che potesse vantare un marito fedele e appas-sionato anche dopo tanti anni. La certezza dell’amore e della fedeltà di Luca, le mille piccole attenzioni, i ge-sti di affetto che non si vergognava di dedicarmi an-che in pubblico mi facevano sentire almeno una spanna al di sopra delle altre.

Era il tipo che ti porta una rosa dicendo: “Ester, ho pensato a quanto ti amo e l’ho rubata per te da un giardino.”

Ascoltavo con condiscendente attenzione le storie di corna e tradimento che insieme al calcio, alla Formula Uno e alla crisi planetaria erano uno degli argomenti

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principali della nostra cerchia di amici, ma mi credevo inavvicinabile da tanto squallore. Il mio era un mondo diverso.

L’unica per cui mi dispiacesse era Cristina, la mia migliore e unica vera amica, una donna eccezionale legata da tutta la vita a un uomo nemmeno degno di pronunciare il suo nome.

Giorgio la lasciava spesso sola perché, a sentire lui, aveva bisogno dei suoi spazi personali, dimostrando scarsa fantasia anche nel cercare le scuse, ma Cristina aveva scoperto che fra uno spazio e l’altro coltivava numerose relazioni con varie signorine conosciute nei cosiddetti locali a luci rosse dei quali si era rivelato es-sere un cliente abituale e che negli ultimi tempi fre-quentava con assiduità una certa Alena.

Giorgio aveva fornito a Cristina una spiegazione del suo comportamento talmente semplice nella sua illo-gicità da lasciare senza parole: secondo il suo ragio-namento, la vita di coppia consisteva nel lavorare in-sieme per conseguire obiettivi comuni, tipo l’acquisto della casa o della macchina e far l’amore ogni tanto, visto che si dorme nello stesso letto, ma poi c’era un’altra vita parallela a quella della famiglia, fatta di amici con i quali uscire da soli per sfuggire alla mono-tonia del tran tran quotidiano, ma soprattutto di altre donne per poter vivere quelle che definiva storie senza importanza, ma a suo dire assolutamente indispensa-bili per continuare a sentirsi vivi.

Non tradimenti, storie senza alcuna importanza. Per quanto lo riguardava anche Cristina poteva inizia-re a coltivare le sue, lui non era geloso.

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Un pomeriggio, spinta dall’impulso urgente e irre-frenabile di dirgli quello che pensavo di lui, cioè che era una gran testa di cazzo, mi decisi a telefonargli.

Rispose al terzo squillo. “Pronto?” “Ciao Giorgio, sono Ester. Ti posso disturbare in

questo momento o sei impegnato?” Capii dal tono sfavatissimo con cui rispose: “No, fi-

gurati, ti ascolto”, che avrebbe invece voluto dirmi che era impegnato per il resto dei suoi giorni e anche oltre dato che non aveva nessuna voglia di parlare con me, né in quel momento né mai, ma non me ne fregava niente se avesse più o meno voglia di starmi a sentire, per cui partii subito in quarta e gli vomitai in faccia attraverso la cornetta tutto ciò che pensavo di lui e del suo comportamento verso Cristina. Mi dispiaceva solo di non aver avuto la pazienza di aspettare per poter-glielo dire mentre lo guardavo negli occhi.

Almeno con me tentò di negare l’evidenza, come un ladro colto con le mani dentro la cassaforte, ma alla fine, messo alle strette, la spiegazione ultima fu:

“Io non amo quella donna, ma tutto questo per me è come la benzina per un motore. Senza benzina il mo-tore non viaggia.”

Ma di cosa stava parlando? Della benzina, dei moto-ri? Cominciavo a perdere il filo logico del discorso, ammettendo che ne avesse uno, ma tentai comunque di spiegargli che stava sbagliando tipo di carburante e correva il rischio di fonderlo, quel motore al quale sembrava tenere tanto, lui mi rispose che avevo ra-gione, ma insisteva a dire che non poteva impedirse-lo, nemmeno se l’avesse voluto.

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Non c’era nulla da fare. Non riusciva a capire. Non voleva capire!

Era un mostro di presunzione, una di quelle perso-ne che si rifiutano di ascoltare la voce della coscienza e di conseguenza non si sentono mai in colpa e non ri-tengono di dover rendere conto dei propri comporta-menti. Se agiscono in un certo modo imputano la re-sponsabilità agli altri o alle circostanze, al caso, alla vita, a particolari contingenze, ma mai a se stessi così tutto diventa legittimo, giustificato e giustificabile.

Anche ammazzare, tradire, fare del male a un bam-bino o qualsiasi altra azione fra le più abbiette.

Mi aveva spiazzato. Era come parlare al muro o cercare di far passare il

classico cammello attraverso la cruna di un ago. Umanamente impossibile. Eppure sapevo bene che Cristina lo amava ed era

disposta a capire, a perdonare, a scusare tutto purché Giorgio rimanesse con lei.

Pur compatendola per questo amore così mal ripo-sto, non mi ero mai permessa di criticare le sue deci-sioni e i suoi sentimenti, senza sapere che così facen-do mi sarei evitata in futuro almeno una colossale fi-gura di merda.

Mai dire mai. E’ proprio vero! L’avrei scoperto a mie spese.

Tanta era stata l’intima certezza della fedeltà di Lu-ca che sarei stata disposta a mettere la mano sul fuo-co, sicura di non bruciarmi, non solo, per me era i-nimmaginabile ventilare l’ipotesi di potermi anche so-lo scottare appena quella mano e quindi non avrei mai

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creduto possibile di ritrovarmi ad ardere avvolta dalle fiamme dell’inferno.

Stavo peggio di Cristina, perché lei aveva più o me-no sempre saputo che tipo di uomo aveva per le mani, mentre io ero caduta direttamente dalle nuvole, anzi dalle stelle a una stalla stracolma di letame, ed è assai più difficile essere buttati giù dal trono dopo aver vis-suto i fasti di un sentimento che si credeva unico che aver vissuto da suddita, consapevole di esserlo, per tutta la vita.

E’ vero, è meglio “un giorno da leone che cento da pecora”, ma solo se si muore da leone, non se ci si ri-trova ad agonizzare come un agnellino sgozzato in nome di non si sa quale sacrificio consumato sull’altare situato nel cuore più profondo di un senti-mento che forse non è mai esistito.

La bella famiglia? Sì, eravamo una bella famiglia fintanto che quella puttana venuta dall’Estonia aveva fatto saltare un equilibrio evidentemente non così stabile fregandomi il marito, che comunque non si era impegnato più di tanto per non lasciarsi fregare.

E’ ovvio, come ha detto qualcuno, che se uno non va alla stazione sicuramente il treno non lo piglia.

Se Luca fosse rimasto a casa con me, invece di an-dare in quello stramaledetto locale per maschi rinco-glioniti insieme a quel rincoglionito del suo collega e amico, Ernesto, non avrebbe mai incontrato quella donna e io quel mattino non sarei stata lì a soffrire come un cane, che poi chissà perché si dice “soffrire come un cane”? Pluto stava benissimo, mangiava, be-veva, dormiva, faceva i suoi bisogni e quando ne aveva voglia si faceva pure qualche cagnolina del vicinato.

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Immobile nel letto, gli occhi chiusi, tentavo per l’ennesima volta, ma senza successo, di convincere me stessa che stavo vivendo una situazione comune a mi-lioni, ma che dico milioni, miliardi di famiglie e quin-di non era successo niente di così tragico dato che la famosa filosofia del “mal comune mezzo gaudio” già da sola avrebbe dovuto consolarmi.

Luca intanto continuava a circolare per casa con il passo felpato del gatto che punta il canarino, non vo-leva svegliarmi, non voleva incontrare i miei occhi, non voleva darmi un bacio prima di uscire.

Di sicuro pensava a lei, al fatto che l’avrebbe rivista nel pomeriggio e non aveva nessuna voglia di avvici-narsi a me. Come un bambino la vigilia di Natale non vede l’ora di andare a dormire per accorciare il tempo dell’attesa che lo separa dalla gioia di aprire i regali, Luca stava pregustando il momento in cui l’avrebbe vista, toccata, accarezzata di nuovo.

Era un pensiero insopportabile, che mi paralizzava. Il clic leggero della porta di ingresso che si chiudeva

mi comunicò che Luca era uscito da casa sua in punta di piedi, come un ladro. Un sapore dolciastro e acido mi salì dallo stomaco fino in gola ed ebbi paura di vomitarmi addosso, ma le gambe si animarono come per incanto e, quasi spinte da una volontà propria, mi portarono verso il bagno. Mentre mi liberavo piegata in due sul cesso di boccate di un nauseante, denso, vi-schioso liquido verdastro, il povero Pluto, che si infi-lava sempre in casa non appena uno di noi socchiude-va la porta per andare ad accucciarsi nel suo angolo preferito, mi aveva seguito scodinzolando preoccupa-to e incredibilmente, non l’aveva mai fatto prima, co-

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minciò a leccarmi la mano guardandomi con gli umidi occhi buoni pieni di comprensione e affetto. Anzi, mi parve quasi amore.

Era un pensiero bello e confortante, quasi un’illuminazione: Pluto mi voleva bene!

E mi ritrovai in terra, abbracciata al cane, a piange-re come mai in vita mia le lacrime più amare che a-vessi mai pianto e lui continuava a leccarmi il viso e le mani e piano piano mi dava colpetti leggeri con il mu-so sotto il mento, nel tentativo di farmi alzare la testa e io assurdamente pensai che nessuno al mondo si era mai preoccupato per me tanto quanto lui in quel mo-mento e l’abbracciai sempre più stretto, fintanto che il calore di quel corpo peloso e morbido, ma solido, mi dette la forza di alzarmi in piedi per cominciare, bene o male, quello che poi si sarebbe rivelato uno di quei giorni che cambiano il destino.

Luca mi aveva assicurato che con quella donna era tutto finito, ma avevo scoperto che quello stesso po-meriggio aveva di nuovo appuntamento con lei.

Già pregustavo la sorpresa delle loro facce nel ve-dermi.

Accarezzai la testa di Pluto, per ringraziarlo. Si era reso conto che soffrivo e aveva fatto tutto quanto era in suo potere per aiutarmi. Era stato più perspicace di tanti esseri umani, che quasi mai riescono a cogliere il momento in cui allungare una mano fosse anche solo per un semplice gesto di conforto diventa momento impossibile da rimandare se si vuole evitare il più to-tale sfacelo.

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Luca e io ci eravamo sposati giovanissimi, perduta-mente innamorati l’uno dell’altra, con un figlio in ar-rivo e senza una lira in tasca, ma non eravamo affatto preoccupati.

Il nostro matrimonio era cominciato all’insegna dell’incoscienza e dell’ottimismo tipici della maggior parte dei giovani.

I problemi erano stati inventati per essere risolti, dunque non c’erano problemi perché esistevano le so-luzioni e grazie a questa nostra spicciola filosofia di vita vivevamo allegramente il presente senza alcun ri-guardo per il futuro.

Il mio nuovo ruolo di sposina mi impegnava e mi divertiva nello stesso tempo. Assoluta padrona del mio tempo e delle due stanze che i nostri genitori ci avevano preso in affitto, giocavo a interpretare il ruolo della principessa del castello. Quando nacque Pietro mi sentii completamente felice, come una bambina al-la quale era stata regalata la bambola che desiderava da tempo.

Ero orgogliosissima nel constatare che avevamo sorpreso tutti: genitori, parenti e amici.

Avevano scommesso dieci a uno che il nostro ma-trimonio non sarebbe durato a lungo e avevano perso.

Avevamo vinto noi. Io, Luca e Pietro. Il nostro problema principale era il rapporto conflit-

tuale che avevamo con i soldi. Sapevamo bene che e-rano indispensabili e non bisognava scialacquarli, ma facevamo finta di non saperlo. Forse credevamo che

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si sarebbero moltiplicati da soli nel borsellino, come Pinocchio che aveva sepolto le sue monete nel campo dei miracoli. Alla fine toccava ai nostri genitori to-glierci dagli impicci, ma siccome non eravamo ancora diventati adulti come volevamo fra credere, il fatto che ci aiutassero ci sembrava non solo scontato, ma addirittura dovuto.

Come quella volta che ci staccarono la corrente elet-trica.

Spesso ci concedevamo una pizza o un cinema con il povero Pietro che dormiva scomodo sul passeggino e mai siamo rimasti senza macchina, mai, vecchie, ma sempre di una certa cilindrata, però poi mancavano i soldi per pagare le bollette e la cassetta delle lettere straripava di solleciti che non leggevamo neanche più, tanto che, a forza di ignorarli, ci presero in parola e ci lasciarono al buio.

Quel mattino Pietro si era svegliato prima del solito e reclamava la colazione, ma in casa non funzionava più nulla, nemmeno la stufa a metano, aveva l’accensione elettrica, e faceva un freddo cane perché si era ancora in pieno inverno.

Fra le mille congetture la più adeguata ci parve quella di un probabile guasto alla linea, però quel guasto doveva aver colpito solo casa nostra perché la luce sulle scale del condominio c’era e anche in stra-da, i lampioni ancora illuminati sfavillavano sfacciati prendendosi gioco di noi.

Fu così che ci venne il sospetto che forse non si trat-tava di un guasto. Rovistando fra la posta alla luce di un accendino, trovammo la comunicazione che se non avessimo provveduto al pagamento della bolletta en-

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tro il tot giorno, ieri, ci avrebbero staccato la luce e così fu.

Io rimasi lì come un’allocca mentre Luca uscì di ca-sa sbattendo la porta e inveendo come un ossesso contro quegli stronzi non meglio identificati che si e-rano permessi di fare una cosa del genere.

Si erano permessi eccome! E se non stavamo atten-ti, ci avrebbero staccato pure il gas!

Per l’ennesima volta dovetti chiedere i soldi a mio padre, non potevo stare in quelle condizioni con un bambino piccolo, ma ancora non avevo capito che ci stavamo comportando come due irresponsabili. Men-tre con una mano prendevo i soldi, con l’altra misi Pietro in collo alla mamma.

“Ve lo lascio qui stanotte, non posso tenerlo all’addiaccio”, ma in mente avevo ben altro e la preoc-cupazione per Pietro non era al primo posto.

Ci avevano lasciato al buio? Bene, non era una tragedia, c’è di peggio nella vita! Alla faccia loro avrei organizzato una cenetta ro-

mantica a lume di candela. Quella sera quando Luca rientrò dal lavoro trovò in casa un’atmosfera da mille e una notte.

Con i soldi che mi aveva dato il babbo avevo com-prato tre confezioni di candele profumate e le avevo accese un po’ dappertutto, apparecchiato la tavola con la tovaglia rossa con il vischio che si usa mettere per Natale che mi pareva facesse un bell’effetto in mezzo a quel chiarore soffuso e fumoso e messo i piatti del servito buono che mi avevano regalato per il matri-monio.

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Da mangiare non è che ci fosse molto, avevo com-prato in rosticceria pollo arrosto e patatine fritte, il tutto ormai irrimediabilmente freddo, trovandomi nell’impossibilità di scaldarlo dato che la mia cucina aveva il forno elettrico, ma non era un grosso proble-ma, eravamo giovani e, come avrebbe detto mia non-na, saremmo stati capaci di mangiare “un ciuco morto di vaiolo”.

Per rendere l’atmosfera più romantica avevo pensa-to di indossare la camicia da notte della prima notte di nozze, tutta pizzi e trasparenze, regalatami dalla zia Lina, zitella inguaribilmente svampita e romantica che a settantacinque anni suonati aspettava ancora il principe azzurro e passava le giornate leggendo libri di Liala, peraltro una delle persone più contente che abbia mai conosciuto perché chi riesce a vivere di so-gni, senza rendersi conto che non si avvereranno mai, è fra le creature più felici al mondo, ma era troppo freddo per cui mi accontentai di un vestitino di lana nera con sotto assolutamente niente, a parte un paio di calze autoreggenti.

E quando Luca mise le mani su quel niente, grazie anche allo Chardonnay del ’69 che ci eravamo scolati per festeggiare che cosa proprio non so, ci trasferim-mo subito sul letto e passammo una delle nostri mi-gliori notti, in una casa buia e fredda che solo a mette-re un braccio fuori del piumone c’era da morire con-gelati, ma immenso era l’amore che ci scaldava e non avevamo bisogno di altro che di noi stessi.

Fu quella notte, lo so con certezza, che rimasi incin-ta del mio secondo bambino.

Non sarebbe mai nato.