Oltre il muro - commercio equo in Palestina

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"Siamo due popoli che hanno pagato un prezzo altissimo. Ognuno di essi ha mille ragioni per accusare l’altro. Ho partecipato negli anni Ottanta alla prima Intifada. Ho trascorso quattro anni in carcere... La scelta del dialogo è inevitabile: nasce dalla convinzione che un’identità sana non può essere fondata sulla negazione dell’identità altrui" ”Oltre il muro, l’alternativa possibile”, è il racconto, per immagini, riflessioni e frammenti di vita quotidiana, dell'esperienza di produttori di commercio equo che vivono in Palestina.

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“Siamo due popoli che hanno pagato un prezzo altissimo. Ognuno di essi ha mille ragioni per accusare l’altro. Hopartecipato negli anni Ottanta alla prima Intifada. Ho

trascorso quattro anni in carcere. In seguito sono stato feritoda un colono israeliano e, mentre ero in Arabia Saudita percurarmi, ho appreso la notizia della morte di mio fratello,

assassinato da un soldato israeliano. Credevo di non poter piùvivere con questo dolore. La parola pace era allora

lontanissima dai miei pensieri. Finché un giorno è arrivatanella mia casa un’ebrea israeliana privata dei suoi cari dalconflitto e ho potuto constatare che c’erano tanto dolore eumanità anche dall’altra parte. La scelta del dialogo è

inevitabile: nasce dalla convinzione che un’identità sana nonpuò essere fondata sulla negazione dell’identità altrui,

compresa quella dello Stato d’Israele. Il dialogo, poi, è unmodo per curare ferite, dolori personali, è un modo per

liberarsi del peso della propria storia raccontandola. Il dialogoè vita, il monologo uccide. Troppo spesso gli israeliani e ipalestinesi hanno fatto lunghi e accorati monologhi”.

Le parole di Mustafa Qossoqsi, giovane psicologo dell’Istitutodi psicoterapia Almadina di Nazareth, riassumono con unasemplicità quasi provocante ciò che costituisce, nello stesso

tempo, il dramma e la salvezza della convivenza di due popolie tre religioni in un’unica terra: monologo e dialogo,diffidenza e fiducia, separazione e convivenza. Ci piace

affidare alle stesse parole il senso della collaborazione avviatada LiberoMondo con due organizzazioni che fanno della

convivenza e dell’incontro uno dei pilastri della loro attivitàin Palestina.

”Oltre il muro, l’alternativa possibile”, è il racconto, perimmagini, riflessioni e frammenti di vita quotidiana,

di questa esperienza.

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Bilancio di un quinquennio…

Il muro (“The fence”, come viene comunemente chiamato in Israele), è una lungabarriera che circonda, e a volte penetra, i territori della Cisgiordania per un percorso dioltre 700 km (se si considera anche il progetto della costruzione di una seconda barrie-ra nella Valle del Giordano). La costruzione del muro è stata deliberata dal Consiglio deiMinistri israeliano nel maggio del 2001, su proposta del leader laburista Ehud Barak. Ilmuro vuole essere una risposta alla seconda Intifada palestinese, esplosa nell’autunnodel 2000 dopo una lunga serie di tensioni tra israeliani e palestinesi e culminata con gliattacchi terroristici dei gruppi estremisti palestinesi e l’occupazione di molti villaggi daparte dell’esercito israeliano.

La costruzione ha avuto inizio a Jenin, nel giugno del 2002 e avrebbe dovuto realiz-zarsi, in teoria, seguendo il tracciato della Linea Verde del 1967. Nella realtà dei fatti, inalcuni casi il muro oltrepassa tale linea, penetrando in profondità nel territorio palesti-nese fino a 6 km. Il percorso, in questo modo, ha creato delle vere e proprie “enclaves”,tagliate fuori dalla loro terra dal muro e abitate da 95.000 palestinesi (oltre il 4% dellapopolazione della Cisgiordania). Inoltre, circa 200.000 palestinesi della parte occupatadi Gerusalemme Est saranno esclusi dal resto della Cisgiordania. Per la costruzione delmuro è stato espropriato il 10% circa della Cisgiordania, e ciò è stato fatto adducendoragioni di natura militare e di sicurezza. Infine, il tracciato è stato variato in alcune zo-ne, durante la costruzione del muro stesso, con lo scopo di incorporare circa 343.000coloni residenti nella West Bank, per un totale di 10 insediamenti israeliani inclusi;quest’ultima operazione ha comportato l’espropriazione di altre terre appartenenti acirca 30 villaggi palestinesi.

Complessivamente, lo sforamento della Linea Verde e la costruzione del muro neiterritori della Cisgiordania sta provocando l’intrappolamento di circa 270.000 palesti-nesi, residenti in oltre 120 centri abitati. Di questi, circa 70.000 non godono del dirittodi residenza in Israele, e questo comporta l’impossibilità di accedere ai più elementariservizi (come scuola e servizi sociali) e l’impossibilità di muoversi. In questa striscia diterra, inoltre, sono stati espropriati 31 pozzi idrici (alcuni molto grandi e ricchissimid’acqua), mentre oltre 100.000 ulivi sono stati abbattuti. Oltre al muro, inoltre, vannoconsiderate le “by pass roads”, strade di accesso riservate ai militari israeliani per moti-vi di sicurezza. La costruzione della barriera, quindi, ha frantumato in molte zone la

1. Muri per dividere

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La costruzione del muro tra Betlemme e Gerico.

Cisgiordania, rendendo praticamente impossibile la continuità territoriale per il futuroStato Palestinese.

Cos’è il muro

La barriera che divide Israele e Cisgiordania e che ha provocato l’espropriazione dimolti terreni non è una costruzione uniforme. In alcune zone, addirittura, un murovero e proprio non esiste, essendo sostituito da un reticolato di filo metallico elettrifi-cato.

Il muro, alto mediamente 8 metri (il doppio di quello che c’era a Berlino), è fatto dicemento ed è interrotto, lungo il percorso, da torri di guardia e da “zone cuscinetto”,larghe dai 30 ai 100 metri, costituite da barriere elettriche, trincee, telecamere, senso-ri e presidiate costantemente da militari. In altri spazi sono presenti diversi livelli di fi-lo spinato, sentieri per il pattugliamento, zone sabbiose per rintracciare eventuali im-pronte, fossati e telecamere di sorveglianza. Le “zone cuscinetto” hanno rappresentatoun buon motivo per l’esproprio di case e terreni e per l’allontanamento di numerose fa-miglie residenti nelle zone adiacenti.

Lungo la linea di separazione sono stati costruiti numerosi cancelli, vietati al tran-sito dei contadini palestinesi, che rinforzano il già meticoloso sistema israeliano dielargizione dei permessi per i passaggi.

Nella striscia di Gaza (1,3 milioni di abitanti concentrati in 356 km2 di territorio),sono state distrutte numerose case ed espropriati terreni per costruire un muro di ferrolungo 3 km e alto 8 metri, munito di cancelli elettronici per il passaggio di carri armatie bulldozer); tutto ciò è avvenuto con l’opposizione dell’ONU, senza l’avallo di un ac-

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cordo internazionale e con la condanna della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja(luglio 2004).

Il progetto, l’approvazione e la costruzione del muro godono dell’appoggio di tuttol’arco parlamentare israeliano, dal Likud, il partito di destra del premier Ariel Sharon, aiLaburisti di Barak e Peretz, fino ad alcuni esponenti del Meretz, considerato un partitodi estrema sinistra.

La situazione

Il percorso del muro ha provo-cato i seguenti effetti:- esproprio di terreni in

Cisgiordania;- allontanamento di famiglie;- creazione di enclaves pale-

stinesi, strette tra il territo-rio israeliano e la West Bank;

- demolizione di case, negozi,scuole e altri edifici troppovicini al muro;

- abbattimento di decine dimigliaia di ulivi;

- privazione di pozzi idrici, difatto passati in territorioisraeliano;

- forte limitazione della mobi-lità tra Cisgiordania e Israe-le;

- creazione di tre grandi ghet-ti: ghetto nord (nella partenord-occidentale, nelle zonecomprese tra i villaggi di Je-nin, Qalqilyah, Ariel e Qedu-mim), Gerusalemme (dove ilmuro, che passa bruscamen-te attraverso villaggi e quar-tieri, ha provocato la perditadel 90% delle terre di questodistretto) e ghetto sud (zonedi Betlemme ed Hebron).

Il tracciato del muro e l’impatto sulle comunità palestinesi

in Cisgiordania.

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L’espropriazione della terra comporta la creazione di grandi problemi anche perquanto riguarda l’approvvigionamento idrico dei villaggi palestinesi posti lungo il trac-ciato del muro o vicini a esso. I 31 pozzi espropriati privano le comunità di un apportodi circa 4 milioni di metri cubi d’acqua. Inoltre, durante i lavori di costruzione sono sta-ti distrutti 35.000 metri di condotte dell’acqua, utilizzate in precedenza dai palestinesiper uso civile e l’irrigazione dei campi.

Solo nel villaggio di Jayyus (distretto di Qalqilyah), oltre 2.800 ettari sono statiespropriati, e con essi 7 pozzi (significa il 72% della terra intorno a questo centro abi-tato).

Limitando le considerazioni alla sola zona nord della Cisgiordania (intorno alle cittàdi Qalqilyah, Tulkarem e Jenin), è stato calcolato che circa 20.000 persone (3175 fami-glie) si sono trovate nel lato orientale del muro, completamente separate dai loro terre-ni agricoli, rimasti nella parte occidentale. In questi territori, l’espropriazione della ter-ra, la distruzione fisica e le restrizioni imposte al movimento hanno provocato la perdi-ta di circa 6.500 posti di lavoro; la produzione di olio d’oliva ha subito una perdita di ol-tre 2.200 tonnellate (poco meno del 9% della produzione annuale in Palestina). A tuttociò va aggiunta la perdita di produzione a carico dei comparti orticolo, frutticolo e fo-

raggero (si stima una perdita totale annuale di100.000 tonnellate di materiale vegetale).

L’edificazione del muro ha provocato la de-molizione di centinaia di edifici, molti dei qualicommerciali, con ulteriore danno per quanto ri-guarda le attività economiche e l’occupazione.

Considerando la situazione a livello genera-le, la costruzione del muro si colloca in un qua-dro sociale già duramente provato da anni dilotta della Seconda Intifada e continue occupa-zioni e repressioni dell’esercito israeliano in se-guito ai numerosi e sanguinari attentati terrori-stici. In Cisgiordania, il tasso di disoccupazioneè di circa il 45%, per arrivare al 70% nella stri-scia di Gaza. Circa 120.000 palestinesi che, pri-ma del 2000, lavoravano regolarmente in terri-torio israeliano, sono stati tagliati fuori dal mu-ro e sono stati rimpiazzati da immigrati asiaticie africani. Due milioni di persone, infine, vivonosotto la soglia di povertà: significa che il 63%della popolazione deve arrangiarsi con meno didue dollari al giorno.

La difficile situazione di Gerusalemme est.

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Intifada: un problema non solo politico

Intifada è un parola araba che significa “rivolta”, “sollevazione”, “scrollarsi di dos-so”. Il termine è entrato nell’uso comune a causa di due lunghe campagne volte a porrefine all’occupazione militare israeliana in Palestina. L’intifada è uno degli aspetti più si-gnificativi degli anni recenti del conflitto Israelo-Palestinese.

La prima Intifada palestinese inizia nel 1987 e si conclude nel 1993, in seguito allafirma degli accordi di Oslo e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).L’Intifada di Al-Aqsa (nota anche come seconda Intifada palestinese) indica invece ilviolento conflitto Israelo-Palestinese che ebbe inizio il 28 settembre 2000, quandoAriel Sharon e il suo folto entourage di uomini armati, entrarono nel complesso dellaMoschea Al-Aqsa. Come tutti i conflitti armati, è tuttavia difficile attribuire l’inizio aun episodio specifico, per quanto eclatante e provocatorio possa essere; l’origine, inquesto caso, va ricercata nel mancato riconoscimento reciproco (ufficiale ed effettivo)delle rispettive entità statali e territoriali. Ad oggi, infatti, non esiste uno stato palesti-nese ufficiale e l’esistenza di Israele come stato e territorio è ancora osteggiata da par-te di molte formazioni (politiche e militari) palestinesi. Il risultato è che entrambe leparti non si fidano delle reciproche intenzioni, ritenendo che la firma di un accordo nonsarebbe rispettata in alcun modo. Una conclusione, tuttavia, è difficilmente contesta-bile, vale a dire che la seconda Intifada si è rivelata di gran lunga più violenta e tragicadella prima, con azioni eclatanti e sanguinose da parte dei movimenti palestinesi cheaffidano la loro lotta politica ad azioni terroristiche e la politica di occupazione daparte delle autorità israeliane. Una indubbia sconfitta per le formazioni moderateisraeliane e palestinesi, che hanno visto prevalere, per la soluzione dei problemidell’area, le tesi estremiste dei movimenti ultraortodossi ebrei e dei fondamentalistiislamici.

L’attuale Intifada si differenzia dalla prima per due aspetti fondamentali: il lanciodi pietre è stato sostituito, abbastanza diffusamente, tra le fila palestinesi, dall’utilizzodi armi da fuoco e azioni terroristiche; in secondo luogo, annovera la partecipazioneanche degli arabi di Israele, rimasti invece sostanzialmente fuori durante la prima rivol-ta. A una Intifada intesa come resistenza all’azione del governo e dell’esercito israelia-no e legittima lotta per il riconoscimento delle terre e dei diritti dei palestinesi, se ne èaggiunta una, fin da subito, unicamente tesa ad affermare con la violenza un profondaintolleranza nei confronti degli israeliani e di esponenti di altre religioni, ricalcando co-sì, in maniera opposta, gli atteggiamenti più oltranzisti e intolleranti dei coloni ebreidegli insediamenti.

In 5 anni di conflitto, la triste contabilità delle vittime è, purtroppo, molto lunga:1073 vittime fra la popolazione israeliana (772 dilaniati da attacchi kamikaze, fra cui115 minorenni, e 301 militari uccisi durante scontri a fuoco) e 4373 palestinesi uccisi,fra popolazione civile, gruppi armati e terroristi suicidi (fonte: The Palestinian HumanRights Monitoring Groups). Responsabili delle uccisioni sono in questo caso, oltre aimilitari, anche i coloni degli insediamenti.

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Tra le vittime palestinesi, sono incluse anche quelle della cosiddetta “Intrafada”,ossia della repressione che i gruppi armati palestinesi attuano al loro interno, nei con-fronti di persone ritenute non sufficientemente allineate o sospettate di collaborazio-ne con persone od organizzazioni israeliane, di cittadini, esponenti politici che hannodenunciato la forte corruzione all’interno dell’ANP /Autorità Nazionale Palestinese),oppure di esponenti di altre religioni. Arresti, pestaggi ed uccisioni, sempre nell’ambi-to dell’Intrafada, sono stati condotti anche contro omosessuali , come denunciato damolte associazioni per i diritti umani e dalla comunità gay. Delle quasi 300 personemorte a causa dell’Intrafada, inoltre, 114 sono stati arbitrariamente giustiziati in se-guito ad accuse di collaborazionismo. All’interno dell’Intrafada, inoltre, sono da anno-verare gli episodi di violenza contro le donne; la maggior parte delle donne palestinesi,infatti, non lavora e dipende economicamente dal marito. Molte non hanno il coraggiodi denunciare i soprusi subiti, perché hanno paura delle possibili rappresaglie della lorostessa famiglia, in virtù di un “codice d’onore” la cui osservanza le espone a violenze eumiliazioni. La donna che subisce una violenza sessuale, infatti, è ancor più colpevoledello stupratore. Secondo simili codici, ad esempio, è stato possibile per un killer, anco-ra anonimo, uccidere Layla Kbeila, una sessantanovenne di Rafidia colpevole di aver al-levato un figlio così “impudente” da rifiutare il matrimonio con la figlia di un potentelocale. La situazione, in questi casi, è aggravata dal fatto che i delitti d’onore, secondola legge palestinese, non sono perseguibili, essendo l’omicidio, in più di un caso, consi-derato come legittima difesa. Stentano ancora, purtroppo, i segnali di miglioramento odi ribellione da parte della società civile palestinese al riguardo: da un sondaggio com-missionato da due centri di ricerca palestinesi (Society for the Advancement of the Pa-lestinian Working Woman e il Palestinian Center for Public Opinion Polls), risulta cheoltre il 50% dei Palestinesi ritiene giusto che il marito picchi la moglie nel caso si senta

offeso nella sua virilità, e che il governo non debbaintervenire in caso di abusi e violenze interne allafamiglia, mentre più del 70% pensa che le donnenon debbano lavorare, bensì badare alla famiglia

Un altro motivo di preoccupazione per moltipalestinesi è il comportamento violento nei con-fronti dei dissidenti che auspicano un’Intifada di-versa e liberata dalle frange più radicali ed estre-miste, o dei giornalisti palestinesi che denuncianole storture e le degenerazioni della lotta, la corru-zione di molte istituzioni o i problemi di ordine so-ciale e civile che spesso si manifestano nei territoricontrollati dell’ANP. Le violenze a carico di sempli-ci cittadini (contadini, operai, donne), politici ogiornalisti sono state documentate e numerose,senza che si sia intervenuti decisamente per bloc-care simili episodi. La paura, in molti casi, di essereaccusati di collaborazionismo e di andare incontroa processi sommari è ancora molto forte.

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La “lotta” per esportare l’olio d’oliva

Circa metà del raccolto palestinese di olive non può essere venduto, a causa dell’ef-fetto combinato dell’occupazione israeliana e della scarsezza di investimenti a lungotermine. La situazione è così seria che la raccolta non si effettua nelle zone dove le re-strizioni ai movimenti e i blocchi abbondano. Inoltre, parte dell’olio ottenuto si dete-riora a causa di problemi legati al trasporto, all’immagazzinamento e alla vendita, so-prattutto sul mercato interno. Si tratta di uno dei maggiori problemi nei territori pale-stinesi, dove circa due terzi della popolazione ha un reddito prevalentemente agricolo.A causa di ciò, alcuni gruppi di olivicoltori stanno tentando nuove soluzioni, attraversola ricerca di nuovi mercati: si stima infatti che delle 25.000 tonnellate di olio prodotteannualmente, circa 10.000 restino invendute (cioè il 40% circa della produzione).

L’immagazzinamento è uno dei problemi più seri, perché, se protratto a lungo, por-ta al progressivo inacidimento del prodotto, fino a renderlo invendibile.

Una delle cause principali delle difficoltà che affliggono gli agricoltori palestinesi,spiega Hadas Lahav di Sindyanna, è stata la progressiva chiusura dei mercati interna-zionali, soprattutto arabi, in seguito alla Guerra del Golfo del 1990-91. A questo aspet-to, inoltre, va aggiunta la richiesta di livelli qualitativi più elevati e di tempi di conse-gna rigorosi (e brevi) da parte degli importatori.

La produzione è inoltre ostacolata dalla polizia israeliana, che procede di frequentealla confisca di molti terreni coltivabili e alla restrizione nell’utilizzo dell’acqua neces-saria per l’irrigazione. Questo difficile quadro economico è stato ulteriormente aggra-vato dalla costruzione del muro di separazione, che ha privato gli agricoltori palestine-si di ulteriori 55 milioni di metri cubi d’acqua annuali, secondo le stime effettuate daJudah Jamal, Direttore Generale del PARC (Palestinian Agricultural Relief Committees),il più grande raggruppamento di agricoltori palestinesi. Judah proviene da una famigliadi agricoltori di Beit Surik, zona posta intorno a Gerusalemme (famosa per le sue pe-sche e olive) ma divisa da ben tre fasce di sicurezza costruite dall’esercito israeliano: ilMuro di recente costruzione, la Linea Verde del 1967 e il muro intorno alla città di Ge-rusalemme. Tutta questa serie di barriere rende praticamente impossibile la coltivazio-ne delle terre, soprattutto quelle maggiormente produttive. Jamal elenca inoltre le re-strizioni che complicano la normale attività agricola in alcuni territori: coprifuoco, li-

2. Testimonianze per unire

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mitazione dei movimenti, continui controlli su tutti i beni spediti oltre i territori dellastriscia di Gaza e della West Bank (Cisgiordania). I fattori sopra elencati, conclude Hadas, forniscono le ragioni per cui l’olio palestinese,sebbene di ottima qualità, sia quasi sempre più costoso di quelli prodotti in altri paesimediorientali, come Giordania e Siria, per non parlare del confronto con i produttorieuropei, sostenuti dai sussidi comunitari. Se si considerano, infine, le piccole dimensio-ni delle aziende agricole palestinesi, la capacità di competere sui mercati internaziona-li (compreso quello israeliano) è piuttosto bassa.

La strategia che i gruppi di agricoltori palestinesi stanno portando avanti consistepertanto nel rivolgersi a mercati che, pur richiedendo una buona qualità, non sono cosìesigenti in termini di bassi costi e consegne in tempi veloci. Uno di questi canali è costi-tuito dalla vendita a gruppi di solidarietà, come quelli del commercio equo, che acqui-stano i prodotti palestinesi anche come forma di sostegno politico. La determinazione,da parte dei gruppi di commercio equo, nel sostenere i prodotti palestinesi, favorisceanche la risoluzione di problematiche strettamente legate alle considerazioni prima ef-fettuate (consegne in tempi lunghi, prezzo, controllo della qualità, ecc.).

Parlando, più in generale, di prodotti agroalimentari e derivati, è da registrare la po-sitiva esperienza di alcuni gruppi di produttori (tra cui PARC, Sindyanna, UAWC e YW-CA), che da qualche anno hanno avviato relazioni con organizzazioni di commercioequo e solidale europee e statunitensi. In Italia, in particolare, ricordiamo l’esperienzadi CTM, (cous cous, datteri e mandorle di PARC), Chico Mendes (saponi all’olio di olivadi Sindyanna), e LiberoMondo (olio di oliva, olive e maggiorana di Sindyanna e couscous di YWCA).

Queste iniziative, se restringiamo il campo di osservazione ai dati dell’olio, permet-tono di commercializzare circa 1000 tonnellate di olio di oliva (il 6-7% circa del fattu-

rato totale): dal punto di vistadella quantità la cifra non èelevata, ma se consideriamo laqualità il risultato è sicura-mente importante. Oltre il90% dell’olio esportato attra-verso il mercato solidale, in-fatti, è biologico, e comunquetutta la produzione è caratte-rizzata da una qualità media

Checkpoint a Qalandiya,tra Gerusalemme e Ramallah.

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elevata. Un altro esempio concreto ed evidente di come alla responsabilità sociale sipossa affiancare un alto livello di qualità.

Nell’immediato futuro, è atteso un incremento della quantità esportata attraversoil fair trade, grazie agli ottimi andamenti delle vendite nell’ultimo triennio e alla richie-sta crescente di olio palestinese. Nel lungo periodo, ovviamente, la produzione di olio dioliva, così come di tutti gli altri prodotti agricoli trasformati, dipenderà dalla risoluzio-ne dei nodi politici e sociali attualmente presenti in Palestina. Solo in questo modo sa-rà possibile affrontare i grandi problemi che affliggono l’economia palestinese: scarsitàdi investimenti, incertezza del quadro politico ed economico, barriere alla produzione ecommercializzazione.

L’olio di Qaffin

“Ogni cosa in Israele ha un significato politico, anche l’olio di oliva”- sostiene Hadas La-hav, una delle animatrici del progetto di Sindyanna – “Quando mettiamo quest’olio intavola non dimentichiamo il duro lavoro che c’è dietro. Per un agricoltore palestineseogni goccia di olio significa anche umiliazione, sopruso, fatica”. Riportiamo qui di seguito la situazione dei produttori di Qaffin (un villaggio dell’estremazona nord-occidentale della Cisgiordania, con cui Sindyanna è in contatto), così come lastessa Hadas l’ha vissuta.

Nell’agosto del 2003, quando visitammo Qaffin, si poteva ancora oltrepassare il gi-gantesco solco che segnava il corso del futuro muro. Ora esiste una sola porta, ad ovestdel villaggio, attraverso la quale possono unicamente transitare i proprietari di terreniagricoli che siano muniti di lasciapassare fornito dal DCO (District Commande Office).L’abbandono delle colture degli ultimi due anni è evidente nei terreni ad ovest del mu-ro, che si sono riempitidi rovi e spine. Que-st’anno si è registratoun buon raccolto, ma lagente di Qaffin può ap-profittarne solo in pic-cola parte. Dei 1500abitanti che hanno ri-chiesto il permesso perentrare nelle loro legit-

Ulivi dei produttoridi Sindyanna.

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time terre, infatti, la metà si sono visti rifiutare la domanda. I respinti si sono dovuti ri-volgere ai fortunati possessori del permesso, affinché provvedessero al raccolto in lorovece, riuscendo in questo modo a recuperare parte del raccolto. Quasi metà delle olive,infatti, precisa Taisar Harasheh, capo del Qaffin’s Local Council, si perdono in anticipo,a causa dell’incuria dovuta alla impossibilità di attendere alle normali pratiche agrono-miche; un’altra parte viene rubata oppure distrutta a causa del pascolo incontrollato dimandrie e greggi.

Per la raccolta delle olive, il DCO concede un permesso di cinque giorni, quando, in-vece, occorrerebbero settimane di lavoro. Durante tale operazione, due soli trattoripossono attraversare il muro, per trasportare i frutti frettolosamente raccolti. Simili li-mitazioni sono nocive, perché allungano il tempo di trasporto dei frutti; il tempo, infat-ti, è un fattore cruciale nella lavorazione delle olive. Dopo la raccolta, è estremamenteimportante eseguire la pressatura nel minor tempo possibile: quanto maggiore saràl’attesa, tanto minore sarà la qualità dell’olio che si ottiene, a causa soprattutto, del-l’aumento del livello di acidità. Con due soli mezzi a disposizione, le olive dovranno tra-scorrere più tempo a terra. Queste considerazioni, purtroppo, non contano molto perl’esercito di occupazione.

Continua Harasheh nel suo racconto: “Ricevemmo la promessa da parte dei militariche i permessi sarebbero stati rilasciati per almeno metà anno, dato che gli appezza-menti richiedono cure non solo durante la raccolta. In questo modo sarebbe stato pos-sibile seguire buona parte delle fasi della coltivazione. Pochi giorni dopo, un funziona-rio del DCO, Rabeh Maklada, annunciò che i permessi sarebbero stati annullati nel girodi due settimane, in quanto, secondo loro, la raccolta era già terminata e le personeavrebbero sfruttato questi permessi per lavorare in Israele”.

Sempre secondo Harasheh, il tasso di disoccupazione in Qaffin è salito fino all’85%dopo la costruzione del muro. Prima, il 90% della forza lavoro era impiegata in Israele;

ogni giorno, infat-ti, non meno di3.000 lavoratorio ltrepassavanol’altro lato dellalinea verde, perandare nei campi,nei cantieri edili enelle fabbriche.Attualmente, non

Imbottigliamentodell’olio nel magazzinodi Sindyanna.

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più di 50 persone possono transitare, ma non attraverso la porta vicina a Qaffin, che èriservata unicamente agli agricoltori, bensì attraverso il checkpoint di Barta’a, moltichilometri più a nordest del loro villaggio.

Un altro grande problema, aggiunge Hadas, è quello dell’acqua, necessaria non so-lo per le famiglie del villaggio, ma anche per la coltivazione dei campi. L’olio si ottieneda una varietà tipicamente mediorientale, la “Surri”, che riesce a compiere il suo ciclovegetativo sfruttando l’acqua piovana. Se si potesse irrigare, tuttavia, il raccolto tripli-cherebbe e la qualità dei frutti, soprattutto in certi anni siccitosi, sarebbe sicuramentemigliore. La zona nord della Cisgiordania è molto ricca di acqua, e sono attivi almenodue o tre pozzi per ogni villaggio. Molti di questi centri abitati, ora, sono finiti oltre ilmuro, in territorio israeliano, e in altri l’esercito ha distrutto la rete idrica, così da de-viare il corso delle acque in direzione dei territori israeliani. Nella zona di Nablus, adesempio, la gente è costretta a percorrere tre chilometri per avere un gallone d’acqua.

Comprare l’olio di Qaffin, così come quello di tanti altri villaggi, è un’autentica sfi-da: i contadini dovranno lottare per ottenere il permesso del raccolto, mentre Sindyan-na dovrà risolvere un’infinità di problemi, grandi e piccoli, per poterlo acquistare. Lavendita dell’olio palestinese attraverso i canali del fair trade non è solo un fatto com-merciale, è anche un messaggio di pace e lotta politica.

Keep Hope Alive

“Mantenere Viva la Speranza” è lo slogan che contraddistingue la “Olive Tree Cam-paign”, la campagna lanciata nel 2002 da YWCA of Palestine per sostenere i contadinipalestinesi che hanno visto seriamente compromessa la loro attività in seguito alle con-fische dei terreni e alla distruzione degli uliveti. Uno degli obiettivi della campagna è ilreimpianto di circa 50.000 pianti-ne di ulivo in diverse zone dei ter-ritori occupati, grazie al sostegnodi numerose associazioni ubicatein diversi paesi del mondo. Attra-verso il reimpianto degli ulivi, icontadini palestinesi sono inco-raggiati a non abbandonare la lo-ro attività, continuando la con-duzione dei loro appezzamenticon rinnovato spirito e con mezzimigliori (nuove piantagioni, mi-gliori conoscenze tecniche eagronomiche e nuove opportuni-tà commerciali per la vendita deiloro prodotti). Nei mesi di febbra-io e marzo del 2004, si sono svol- Una produttrice di cous cous di YWCA of Palestine.

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te due giornate (“Olive Tree Planting Days”) che hanno visto la partecipazione di nume-rosi contadini.

Strettamente connessa con questa grande iniziativa è la “Al-Ard A-Taibeh Cam-paign” (campagna per una buona terra), finalizzata alla valorizzazione del patrimonioagricolo palestinese e alla conservazione delle terre e dell’ambiente. Anche in questocaso, i beneficiari sono i piccoli conduttori agricoli, sostenuti attraverso specificheazioni di marketing volte a migliorare la conoscenza e la vendita dei prodotti delle terrepalestinesi. Le campagne si inseriscono in un’attività a più largo respiro che YWCA haintrapreso, da alcuni anni, per mantenere viva la speranza, nei palestinesi, di vivere inuno stato palestinese finalmente libero e riconosciuto da Israele e da tutto il mondo.

Za’atar Express

“Za’atar” (Mayorana syriaca), l’antico issopo biblico, è una pianta erbacea diffusa e ap-prezzata in alcune zone del medioriente, del nordafrica e dell’Europa balcanica. InIsraele e Palestina, con il nome di za’atar si indica anche una spezia che deriva dalla mi-stura di maggiorana, timo, sumac, semi di sesamo tostati e sale, a volte anche in combi-nazione con olio di oliva. Utilizzata comunemente nella cucina mediorientale, la za’atarviene raccolta in tutto il territorio palestinese. LiberoMondo ha avviato, dal 2004, l’im-portazione di questa erba per la preparazione, in miscela con altre essenze, di una tisanamolto apprezzata. Il racconto seguente testimonia ciò che i produttori e l’organizzazione Sindyanna devo-no affrontare per commercializzare questo semplice prodotto.

Coltivazione di za’atar(maggiorana) nella zonadi Jenin.

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Dalle colline che sovrastano il villaggio di Qaffin (nella parte nord-occidentale del-la West Bank) possiamo notare come la gran parte dell’area sia cambiata negli ultimis-simi anni. Il muro di separazione, fiancheggiato da una brutta strada, ha cambiato latopografia del luogo, per non parlare della sua demografia. Sono stati strappati, qui,circa 1350 acri (poco meno di 550 ettari) dedicati alla coltivazione degli olivi, pari acirca il 60% della locale superficie agraria utile. Le ruspe hanno tirato giù centinaia diulivi secolari, da sempre fonte di sostentamento per molti piccoli coltivatori. La gentedel villaggio non può oltrepassare il muro dall’unica porta esistente, se si eccettuano ipochi agricoltori che hanno il permesso per andare a coltivare, solo in determinati gior-ni, i loro appezzamenti; per varcare il muro, infatti, è necessario salire molti chilometripiù a nordest e raggiungere il Barta’a Checkpoint.

I CheckpointsAbu al-Abed, che guida la “Fruit Trees Association” nell’area di Jenin, è riuscito ad

incontrarci al Barta’a Checkpoint. Ci siamo conosciuti nell’ottobre del 2004, in occa-sione dell’incontro mondiale dei piccoli produttori di “Terra Madre”, organizzato dalloSlow Food a Torino. La pioggia battente non è certamente favorevole per individuare ickeckpoints della West Bank. Inoltre, è sabato, e i controlli sono notevolmente rallen-tati e i soldati più rilassati rispetto agli altri giorni. Ci siamo sbagliati nel supporre che ilBarta’a Checkpoint fosse vicino all’omonimo villaggio. Siamo passati attraverso il vil-laggio senza essere ostacolati, continuando su una strada in direzione sudest. Ad uncerto punto abbiamo pensato di esserci persi: nessun checkpoint, niente soldati, solouna strada nel mezzo del nulla. Improvvisamente, a una curva, appare la fascia di sepa-razione e, in fronte a essa, il checkpoint. Non il Barta’a Checkpoint, bensì un posto diblocco improvvisato dalla polizia. Due poliziotti annoiati e tre auto in attesa del con-trollo. L’ufficiale esamina i nostri documenti e ci fa cenno di passare con la mano. Glichiediamo dove sia il Bartha’a Checkpoint e ci dice di proseguire per circa due chilome-tri, lungo la brutta strada che corre a fianco del muro.

Barta’a Checkpoint assomiglia a una fortezza, circondata da steccati, porte e tor-rette di guardia. Decine di soldati pronti a scattare, pattuglie su entrambi i lati dellaporta, nel tentativo di regolare l’incessante flusso di traffico di veicoli e pedoni. Un mi-litare controlla i nostri documenti e sembra piuttosto felice di incontrare un’israeliana.“Shalom”, dice, con un sorriso smagliante, “Benvenuta!”. Con un gesto amichevole, cisconsiglia dal tornare indietro per mezzo della stessa via da cui proveniamo. Quellastrada, dice, è solo per i Palestinesi; la polizia (i due che abbiamo prima incontrato),si apposta lì per fare multe, a chiunque tenti una scorciatoia che porti al villaggio diBarta’a.

La porta principale del checkpoint è riservata ai veicoli, molti dei quali appartenen-ti a israeliani che vanno e vengono dal centro abitato. La strada è larga quanto due cor-sie di un’autostrada, sembra di essere su un altro pianeta. Dietro c’è un’altra porta, unostretto buco, in realtà, per i pedoni palestinesi, la maggior parte donne e bambini in at-tesa di essere controllati.

Un sorridente Abu al-Abed ci accoglie dall’altra parte del muro. Ha lasciato la sua

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auto un po’ più in là, perché non ha il permesso di passare. Ha già parlato con i soldati,e ha già capito, purtroppo, che per nessuna ragione al mondo gli permetterebbero diconsegnare a noi la merce che ha portato: 60 borse di “za’atar” (il biblico issopo), rac-colto e confezionato dalle donne della cooperativa di Jenin. “Non vi possiamo aiutare”dice un affabile soldato che ci consiglia, però, di andare al Jalameh Checkpoint: “È uncargo terminal super moderno… Perché sono stati investiti milioni per costruirlo? Esat-tamente per fare ciò che voi state chiedendo”.

L’intricato caso della maggiorana…Non avendo altre possibilità, non ci resta che prendere la strada principale e torna-

re in Israele. Dopo mezz’ora di guida attraverso Wadi Ara, raggiungiamo il JalamehCheckpoint, che è chiuso di sabato. I soldati, un po’ annoiati e sonnacchiosi, sono spia-centi, ma non hanno il numero di telefono dell’ufficiale incaricato. Un funzionario delMinistero dell’Agricoltura volenteroso ci informa che il checkpoint è aperto solo dalladomenica al giovedì e che ogni visita deve essere concordata in anticipo. Ad Abu al-Abed non resta che tornare a Jenin con le 60 borse di za’atar…

Trascorrono due settimane, unitamente a dozzine di telefonate fatte per contattareimpiegati e “persone esperte in materia”, in ogni luogo possibile. Il servizio informazio-ni telefonico ci fornisce un numero che porta a una impiegata piuttosto irascibile dellaprigione di Kishon, anche conosciuta con il nome di Jalameh. Non riesce a capire checosa diavolo vogliamo dalla sua vita… Un caso di omonimia! Proviamo, a questo punto,a fare un tentativo con i commercianti che trasportano merci da Israele alla West Bank:ci forniscono il numero di un funzionario, di nome Bassam, in servizio proprio al Jala-meh Checkpoint. Una giornata intera di chiamate telefoniche e messaggi ci conduce,infine, a una surreale conversazione con la persona responsabile della principale arte-ria di commercio tra West Bank e Israele: “Non è necessario che facciate nulla” – mi di-ce - “Lui (Abu al-Abed) è l’unico che debba ottenere un permesso”. “Ma proprio a lui

hanno detto che noi (Sin-dyanna) dobbiamo richie-dere un permesso. “No, è unbugiardo, non gli credete!”.

Ricapitolando, per po-ter esportare della maggio-rana, Abu al-Abed (pur sen-za essere un bugiardo, per-ché a lui era stato detto ef-fettivamente così) deve ri-chiedere un permesso al

Mercato di Jenin .

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Ministero Palestinese dell’Agricoltura. Per poterlo ricevere, tuttavia, deve prima prova-re che la maggiorana non sia stata raccolta allo stato selvatico (è una pianta protetta inIsraele, sebbene sia una tradizione molto sentita, in Palestina, andare a raccogliere za-’atar nelle zone collinari, dove, peraltro, è diffusissima). Per dimostrare questo, devepresentare una dichiarazione degli stessi agricoltori che l’hanno coltivata. Presentatala dichiarazione e ottenuto il permesso, dovrà recarsi all’Ufficio Relazioni del DCO (Di-strict Commander’s Office), per ottenere il numero del libretto di circolazione del veico-lo che dovrà incontrare (ossia il mio), unitamente all’identità e al numero di patente deiguidatori (cioè io). Abu-al Abed fa diligentemente tutto questo e, nel giro di 24 ore, rie-sce a ottenere il permesso.

Il Cargo Terminal al Checkpoint JalamehCi accordiamo per incontrarci al Jalameh Checkpoint di lunedì, alle 11.30. Visti i

precedenti, porto con me un romanzo con un buon numero di pagine e un bel sacchet-to di semi di girasoli da sgranocchiare. Con mio sbalordimento, ogni cosa procede comeun meccanismo a orologeria! I soldati controllano i miei documenti e in pochi minutisono dentro con la mia auto. Il terminale del checkpoint è a dir poco surreale: non me-no di 25 passaggi, muniti di rampe e porte a comando idraulico, e nessuno in vista. Suc-cessivamente, noto un veicolo isolato al termine del Passaggio n. 3, nel varco palestine-se: mi fermo davanti a esso, restando tuttavia sul versante israeliano. Quattro addettidel terminal gettano le borse di za’atar da questo veicolo nel mio. Un gruppetto di sol-dati attendono alla sicurezza dell’operazione, che si compie in un batter d’occhio.

A questo punto sorge un altro problema: l’auto di Abu al-Abed ha il permesso, manon lui, per cui non può entrare e incontrarmi. La situazione si sblocca solo se sarò io achiedere direttamente ai soldati di lasciarlo entrare per ricevere il pagamento della za-’atar. In fondo al terminale c’è una sala munita di barriere in fibra di vetro. Abu al-Abeded io ci veniamo incontro, procedendo tutti e due verso quella sala. Una donna soldatoalquanto annoiata ci sorveglia mentre entriamo nella sala in fibra di vetro. Missionecompiuta! Abu al-Abed è visibilmente soddisfatto: “Grazie ad Allah, oggi ogni cosa si èsvolta per il meglio e con ordine, senza alcun tipo di problema!”

Solo una cosa lo preoccupa: come potranno i produttori palestinesi raggiungere econoscere i loro clienti israeliani, ora che l’occupazione ha scavato questo fossato traloro?

Sono solo saponette…

Le saponette all’olio di oliva che Sindyanna propone alle botteghe del commercio equoeuropee (e non solo!) provengono da piccoli produttori situati nella zona di Nablus, nellaparte settentrionale della Cisgiordania. Il sapone viene prodotto in piccoli laboratori ar-tigianali e poi trasportato al magazzino di Sindyanna di Majd al-Krum, in Galilea. Moltosemplice, no? Ecco cosa deve fare M.T. , artigiano palestinese di Nablus, per poter pro-durre e vendere le sue saponette.

M.T. rappresenta, nella sua famiglia, la terza generazione di produttori di saponi. Daquando l’esercito israeliano ha occupato la città di Nablus (città simbolo della resisten-

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za palestinese, laboratorio della seconda Intifada e zona di reclutamento di alcuni ter-roristi “kamikaze”), imponendo il coprifuoco, per lui è diventato molto difficile conti-nuare la sua attività. Non appena il coprifuoco cessa, M.T. corre al suo laboratorio, po-sto in un sobborgo della città. Nel 2004, durante uno dei periodi più difficili e dramma-tici dell’occupazione, i locali sono stati “visitati” dai militari, che hanno sfondato laporta di ferro, rovesciato scatole e barili, versato materiale sul pavimento, sequestratol’hard disk del computer, danneggiato il macchinario necessario alla produzione e ori-nato dappertutto; numerose latte di olio di oliva, inoltre, sono state schiacciate daicarri armati. Il danno complessivo ammonta a circa 10.000 dollari, ma nessuno lo ri-compenserà mai.

Fin dal 1967, la piccola azienda che ha ereditato M.T. produce saponi, principal-mente per il mercato israeliano, ma da qualche anno è estremamente difficile conti-nuare a vendere agli israeliani: i compratori non vengono più a Nablus ed è estrema-mente difficile oltrepassare i confini della Cisgiordania per consegnare il prodotto. Pergarantire la consegna al magazzino di Sindyanna ha escogitato un metodo “under-ground”, che illustriamo brevemente.

Quando il coprifuoco cessa, e comunque c’è una pausa nei combattimenti, l’olio,che proviene da piccoli coltivatori delle colline circostanti, viene venduto di contrab-bando a M.T.

Il sapone viene prodotto, tagliato e sistemato nei cartoni. Successivamente, sfrut-tando un periodo di relativa tranquillità dell’area, si provvede all’invio. La fase del tra-sporto è molto delicata, e può richiedere molto tempo. Durante una spedizione, a cau-sa di un attentato condotto da un terrorista kamikaze, Nablus venne sottoposta sottostretto coprifuoco. Il trasportatore, per portare il sapone al vicino villaggio di Deir A-Sharaf, impiegò quattro ore anziché i dieci minuti normalmente necessari a compierequel tragitto. Per evitare i posti di blocco, infatti, l’autista tentò una difficile e dissesta-ta strada attraverso lecolline circostanti. Acausa dei salti dovutealle buche sul percorso,circa 2.000 confezioni(delle 24.000 totali) siruppero. Il camion inattesa al villaggio diDeir Al Sharaf, prove-niente da GerusalemmeEst, dovette attenderefino al giorno successi-vo per la partenza, acausa del ritardo.

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Olio di Oliva

Dalla pianta...La pianta dell’ulivo (Olea europea) richiede, per vegetare e fruttificare, terreni

profondi, acqua e sole. In particolare, il clima dev’essere mite, possibilmente con po-che incursioni sotto lo zero termico, e asciutto; il terreno ideale è quello di medio im-pasto, con buona presenza della frazione sabbiosa; se tende all’argilloso, dev’esseredotato di buone condizioni per lo sgrondo dell’acqua; l’irrigazione, praticata soprat-tutto negli oliveti di recente costituzione, permette di superare la siccità estiva, evi-tando i principali effetti negativi a essa connessi: caduta dei frutti, rallentamentodella maturazione e lunghi intervalli fra le annate pienamente produttive. Le pianteirrigate in maniera regolare e razionale possono arrivare a raddoppiare il volume delfrutto. Un’altra pratica agronomica importante per l’olivo è la potatura, che si effet-tua per pulire la pianta dai rami secchi o malati, sfoltire la chioma, soprattutto all’in-terno, e mantenere il sistema di allevamento adottato, armonizzando la capacità pro-duttiva della pianta con l’ambiente circostante. La raccolta, eseguita normalmentetra ottobre e dicembre, può essere effettuata con diversi sistemi: “brucatura” (il piùantico, vale a dire la raccolta a mano), “bacchiatura” (ossia scuotimento dei rami me-diante lunghe pertiche) e raccolta meccanica mediante macchine che scuotono iltronco, provocando la caduta delle olive. La raccolta è, forse, la fase che più incidesulla qualità dell’olio di oliva; è importante, infatti, che le olive non cadano sul terre-no, bensì siano raccolte in teli e avviate immediatamente alla spremitura: solo in que-sto modo, infatti, si potranno ottenere degli oli a bassa o bassissima acidità. Un altrofattore decisivo è il periodo della raccolta, che non deve corrispondere alla piena ma-turazione del frutto, bensì va anticipato all’inizio di questa, quando l’oliva presenta ilmassimo di fruttato e il minimo di acidità.

... al frutto...Le olive raccolte in Palestina appartengono prevalentemente alla varietà “Surri”,

particolarmente pregiata per il suo aroma e il gusto spiccato. Si tratta di frutti (drupe)ovoidali, allungati, dal colore verde chiaro e dal nocciolo abbastanza grande. La matu-razione avviene soprattutto in ottobre e novembre, mentre la raccolta, spesso effettua-ta con metodi tradizionali e in condizioni ambientali estremamente difficili, è finaliz-zata alla produzione di olio, che avviene mediante spremitura a freddo. Alcune varietàdi olive “Surri” sono invece particolarmente indicate per il consumo diretto, in tavola.

3. I prodotti

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Le olive dell’olio di Sindyanna provengono da piccoli coltivatori palestinesi pre-senti nella regione israeliana della Galilea e nella zona nord occidentale della Cisgior-dania. Le olive raccolte vengono conferite ad alcuni frantoi della zona, per la spremi-tura. Per evitare intermediazioni, Sindyanna paga il prodotto lavorato direttamente aiproduttori, e non al frantoio; quest’ultimo, infatti, si relaziona con gli olivicoltori.

... all’olio!L’operazione di estrazione dell’olio dalle olive si suddivide normalmente in quattro

distinti passaggi: frangitura, gramolatura, spremitura e separazione acqua/olio. Du-rante la frangitura, la polpa e i noccioli delle olive vengono ridotti in pasta, mentrenella gramolatura quest’ultima subisce un continuo rimescolamento, così da favorirel’unione delle goccioline d’olio in gocce sempre più grandi, facilmente separabili dallafase solida. La spremitura rappresenta la fase vera e propria dell’estrazione e porta al-la separazione delle tre componenti della pasta, vale a dire sansa, acqua di vegetazio-ne e olio. Il frantoio utilizzato da Sindyanna esegue la spremitura tramite pressionemeccanica: la pasta, sistemata su dischi di fibra vegetale denominati fiscoli, vienepressata per circa un’ora, così da ottenere un mosto oleoso, composto da olio vero eproprio e acqua di vegetazione. La frazione solida che dopo la spremitura aderisce aifiscoli è la sansa. Nel corso dell’ultima fase, grazie alla differenza di peso specifico,l’acqua si separa dall’olio. Dopo la separazione, l’olio viene lasciato decantare, così dapermettere alle tracce di impurità eventualmente rimaste di depositarsi al fondo deirecipienti.

Gli oli di oliva sono classificati commercialmente in base al processo di estrazionee al contenuto di acido oleico. La dizione “vergine” si riferisce al metodo di estrazione,che avviene per semplice molitura, mentre gli oli “raffinati” derivano da oli verginiche abbiano subito un processo di raffinazione.

I prodotti diSindyanna:olive “Surri”,olio extravergine dioliva,saponetteall’olio dioliva.

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L’olio extra vergine di oliva, il prodotto qualitativamente migliore, non deve pre-sentare un’acidità superiore all’1% (dato espresso in grammi di acido oleico per 100grammi di olio), mentre quello definito semplicemente “vergine” può averla fino al2%. In base a percentuali differenti di acido oleico e alla presenza di olio raffinato, siottengono prodotti di qualità via via inferiore, distinti in olio vergine di oliva, olio dioliva e olio di sansa di oliva. Esistono inoltre alcuni tipi di oli che non sono ammessi alconsumo diretto, bensì si abbinano, in miscele, a quelli prima ricordati. Questa classi-ficazione, quindi, evidenzia due aspetti fondamentali: - gli oli qualitativamente migliori sono quelli ottenuti solo con spremitura meccanica; - gli oli raffinati hanno subito una lavorazione chimica che ha compromesso la partearomatica di quegli atti al consumo.

L’olio palestinese di Sindyanna Si tratta di un olio extra vergine di oliva (le analisi di laboratorio hanno rivelato un

tenore in acido oleico dello 0,76%). Le olive della varietà “Surri” conferiscono un aro-ma particolare all’olio di Sindyanna, rendendolo particolarmente indicato per condi-re insalate crude.

L’olio di Sindyanna distribuito da LiberoMondo è arricchito dalla gamma degliaromatici: sei differenti preziose aromatizzazioni ideali in cucina per arricchire nu-merosi piatti. L’olio aromatico viene realizzato aggiungendo al nostro olio extra ver-gine d’oliva una serie di prodotti attentamente selezionati dalla Cooperativa “La Pie-tra Scartata” di san Clemente, nota a numerose Botteghe del Mondo per gli ottimiprodotti a marchio “La Madre Terra”: peperoncino, basilico, aglio, limone e salvia, in-fatti, vengono posti a macerare a temperatura ambiente in olio, a seconda del tipoche si desidera ottenere.

L’olio in tavolaIl valore calorico dell’olio è piuttosto elevato: 900 calorie ogni 100 grammi di pro-

dotto. I grassi sono i più rappresentati (98-99%), mentre sono assenti proteine, car-boidrati e colesterolo. Da segnalare la presenza delle vitamine E (19 mg/100g di olio)ed A (3mg).

I grassi dell’olio di oliva sono costituiti soprattutto da trigliceridi. Gli acidi grassi sisuddividono in saturi (15% circa del totale) e insaturi (85% circa). Gli acidi grassi in-saturi dell’acido oleico sono rappresentati prevalentemente da tre frazioni: acidooleico (il più abbondante), linoleico e linolenico. L’acido linoleico è contenuto in pro-porzioni simili al latte materno, ed è per questo motivo che l’olio extravergine di olivaè indicato nell’alimentazione dei più piccoli. Nell’olio, inoltre, sono presenti acidigrassi polinsaturi essenziali, così denominati perchè l’organismo umano non può sin-tetizzarli e deve quindi assumerli attraverso la dieta.

L’olio di oliva possiede numerose proprietà benefiche che è bene ricordare: riducela percentuale di colesterolo Ldl; abbassa i rischi di occlusione delle arterie; riduce lapressione arteriosa; aumenta l’apporto di vitamine A - D – E; previene l’arteriosclero-si e l’infarto del miocardio.

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Cous Cous

Mille e mille granelli, come la sabbia del deserto... La storia del cous cous si perdetra le dune e le montagne del Nord Africa, popolate dagli Imazighen, gli “uomini libe-ri”, i berberi che da millenni abitano le vallate del Maghreb. Con alcuni cereali coltiva-ti (frumento, orzo, miglio e sorgo) già tremila anni fa, infatti, si preparavano delle mi-scele a base di acqua o latte denominate sekso, kskso, kuskus, kuski, secondo gli idio-mi berberi. Gli arabi adottarono questo alimento base, introducendo alcune innova-zioni, basate soprattutto sulla cottura a vapore, che portarono al cous cous odierno.Viaggiatori, mercanti e conquistatori diffusero il cous cous in molte città del Norda-frica, del Medio Oriente e del sud dell’Europa; il “kuskusu” (o sekso, kskso o kuski) di-venne quindi un alimento mediterraneo, costituendo un vero e proprio ponte gastro-nomico tra differenti terre e culture.

Il cous cous di YWCALa semola base dei cous cous viene preparata partendo da differenti tipi di farine:

grano, mais (cous cous “Baddaz”) e orzo (cous cous “Belbola”). Nel laboratorio alimen-tare di YWCA, la produzione segue una procedura antica e capace di garantire un’ot-tima qualità. La farina di frumento si pone in un recipiente (quello tradizionale, chia-mato “mafaradda”, è di terracotta) in cui si spruzza dell’acqua salata. Con le dita e il

palmo della mano leggermentesollevato, si raccoglie e si sfregacon moto rotatorio veloce la se-mola, così da ottenere dei gra-nelli che dovranno essere passatial setaccio, in modo da unifor-mare la dimensione; in linguaaraba questo particolare movi-mento è denominato “ftel” e si-gnifica appunto “intrecciare, ar-rotolare”. Questa fase è la piùimportante di tutto il processo,perchè richiede pazienza e abili-tà, ed è da essa che dipenderàl’uniforme dimensione dei gra-nellini di semola. La massa deigranelli così ottenuta si stendesu una tovaglia, dove viene la-

La produzione del cous cous nel laboratorio YWCA di Gerico.

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sciata asciugare per circa venti minuti; in seguito, essa viene passata al vaglio di se-tacci caratterizzati da dimensioni sempre più piccole, in modo da ottenere cous cousdi differenti dimensioni. I granelli più grandi hanno, generalmente, la dimensione diun granello di pepe e vengono impiegati, unitamente a quelli di taglia media, per cu-cinare piatti a base di carne o pesce. I grani più piccoli, invece, sono solitamente im-piegati per preparare dolci. Una volta pronto, il cous cous si lascia riposare per circatre ore. La cottura a vapore successiva, in un tegame simile a uno scolapasta denomi-nato cuscussiera, può durare mezz’ora (se il consumo è immediato) o un’ora (se saràprotratto nel tempo).

Il cous cous in tavolaIl cous cous è da sempre un esempio di tradizione e convivialità, e accomuna le

cucine di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La maggior parte delle ri-cette tradizionali provengono dal Maghreb, l’Occidente del mondo arabo rispetto alMashrek, l’Oriente. A tavola, tuttavia, ogni tradizione ha il proprio modo di consu-marlo. I più esperti lo mangiano con le mani, prendendo un pezzo di carne o di verdu-re per formare una pallina con la semola; la tradizione ammette anche un cucchiaio,per servirsi. La preparazione e il consumo del cous cous sono frequentemente legatealla pratica religiosa, e un piatto di cous cous viene sempre offerto ai poveri, in occa-sione della “Sadaqa”, l’elemosina. Il cous cous è anche portatore di “Baraka”, la graziadivina, e per questo motivo, prima della preparazione, si dovrebbe pronunciare un’in-vocazione divina. Il cous cous, inoltre, è il piatto tradizionale del mezzogiorno del ve-

Il cous cous (bianco e integrale) di YWCA of Palestine.

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nerdì e in occasioni particolari, come il ritorno dei pellegrini dalla Mecca. Per le comu-nità ebraiche originarie del Maghreb, il cous cous è il piatto per eccellenza del venerdìsera, il primo pasto dello Shabbat, giorno di riposo settimanale.

La preparazione classica prevede semola con carne (di montone, pollo, agnello omanzo) e verdure, tuttavia esistono infinite “variazioni sul tema”, a partire dal pesce(famoso e prelibato il cous cous di pesce della provincia di Trapani). In Marocco, ilcondimento non è molto piccante e si preferisce un miscuglio di spezie dolci, come lacannella, oppure miele e uvetta (retaggio tipico dell’Andalusia araba); in Tunisia si pri-vilegia decisamente la variante con molto pomodoro e la salsa piccante harissa; sesiete dei convinti sostenitori del world food, ossia della contaminazione dei sapori edella sperimentazione, avrete sicuramente “cous cous per i vostri denti”. In Francia lopropongono con anatroccolo selvatico e olive nizzarde, negli Stati Uniti con pomodo-ri secchi e (pseudo) Parmigiano, mentre, in Australia, troverete cous cous e canguro!

Tutte le virtù del cous cous 100g di cous cous cotto (puro) contengono circa 100 calorie, insieme a idrocarbu-

ri complessi, vitamine B e minerali. La stessa quantità di cous cous preparato con fari-na integrale contiene anche 3 Kg di fibra e quantità significative di fosforo, potassio ezinco. Il cous cous sta diventando sempre più popolare come alimento versatile e abasso contenuto di grassi, al punto che si trova abbinato, precotto, in combinazionialimentari insolite.

Sono in fase di sperimentazione tipi di cous cous a base di avena miscelata conolio di soia, olio di oliva e olio di pesce, oppure con riso, avena e mais. Ci si discosta unpo’ dalle ricette tradizionali ma ne beneficia notevolmente la salute, riducendosi sen-sibilmente il colesterolo, il tasso glicemico e il rischio cardiaco.

Za’atar

L’issopo citato dalla Bibbia è la Za’atar, una pianta erbacea strettamente imparen-tata con la maggiorana, dai fusti esili e raccolti in ciuffi; fornisce foglie che, opportu-namente seccate, costituiscono uno degli aromi più diffusi nella cucina mediorienta-le in genere, essendo uno degli ingredienti base dello za’atar, miscela di spezie utiliz-zata per accompagnare e insaporire molti piatti. Spesso coltivata accanto all’ulivo e almandorlo, rappresenta, insieme a questi, un elemento inconfondibile della campagnapalestinese.

Una spezia in cucinaMajorana syriaca (classificata anche come Oryganum majorana syriaca) è una

specie diffusa soprattutto nelle regioni mediorientali che si affacciano sul mediterra-neo; particolarmente rustica, è in grado di crescere in terreni poco profondi e poveri edi sopportare forti escursioni climatiche (resiste fino a –15°C.). Cresce in cespugli bas-si e fitti (fino a 60 cm di altezza), presenta foglie grandi ovali verde-grigio, particolar-mente aromatiche, e fiori bianchi tra giugno e agosto.

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Le foglioline vengono raccolte staccandole, soprattutto in primavera, da cespuglicoltivati oppure allo stato spontaneo. Opportunamente essiccate, possono essere uti-lizzate come singolo elemento aromatizzante o, più frequentemente, in miscele for-mate da sesamo tostato, timo essiccato, sumac in polvere e sale. Nello za’atar, la mag-giorana deve essere perfettamente essiccata e presentarsi in proporzioni ben definiterispetto agli altri ingredienti. Per ogni parte di maggiorana, infatti, occorrono tre par-ti di sesamo tostato, due di timo e mezza di sumac. L’impiego dello za’atar è piuttostoversatile, ma è sul pollo e alcuni formaggi, tipo feta, che i risultati saranno eccellenti,soprattutto se accompagnati da pita (il pane libanese basso e soffice, molto indicatoper raccogliere il cibo) e un filo d’olio.

La maggiorana di Sindyanna, importata da LiberoMondo, ha dimostrato di essereottima nella preparazione della tisana “Dopo pasto”, in miscela con finocchio, mentapiperita e salvia. La maggiorana “za’atar”, infatti, si rivela efficace per rimediare aduna digestione lenta e difficile e per riportare equilibrio all’organismo dopo una gior-nata intensa e stancante.

Piante di za’atar, il biblico issopo, condimento base della cucina palestinese.

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Le saponette

Il sapone all’olio d’oliva di Sindyanna è prodotto in un laboratorio della città diNablus, mediante l’utilizzo di ingredienti molto semplici: olio d’oliva, acqua e idrossi-do di sodio. Questa formula rende la pelle morbida, garantendo allo stesso tempoun’efficace pulizia e protezione. Grazie alle sue proprietà, il sapone di Sindyanna è in-dicato anche per pelli sensibili e delicate (come, ad esempio, quelle dei bambini). Il sa-pone all’olio d’oliva viene prodotto da artigiani della città di Nablus (Territori Palesti-nesi), secondo metodi tramandati da generazioni. Nei laboratori, il sapone viene sud-diviso nel tradizionale formato quadrato da 120g, in attesa della spedizione al ma-gazzino Sindyanna di Majd al-Krum, dove, dopo un viaggio avventuroso, viene lascia-to asciugare e, infine, confezionato ed etichettato.

Confezionamento delle saponette nel magazzino di Majd al-Krum.

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4. I Produttori

Sindyanna of Galilee è un’organizzazione no-profit, sorta nel 1996 nel villaggiodi Majd al-Krum (territori occidentali della Galilea) dall’iniziativa congiunta di ungruppo di donne arabe ed ebree e con l’obiettivo di sostenere alcune produzioniagricole (con particolare riguardo all’olivicoltura) in una regione fortemente pro-vata da conflitti, ingiustizie e soprusi quotidiani. Il problema principale a cui si cer-ca di dare risposta è il recupero e la salvaguardia delle terre conquistate e confisca-te dal governo israeliano, mantenendo così un’attività economica importante permolte famiglie, con particolare riferimento al lavoro delle donne. Un altro obiettivoestremamente importante è la creazione di momenti di lavoro comune fra arabi edebrei.

Sindyanna of Galilee

Hadas eZippora

(Sindyanna)in visita allaCooperativa

LiberoMondo.

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Sindyanna è nata grazie all’appoggio del WAC (Workers Advice Center, Ma’an inarabo), un sindacato molto attivo in Israele, con sedi operative in Galilea, Jaffa eGerusalemme Est. Il WAC si propone soprattutto di fornire supporto e assistenza ailavoratori meno organizzati e difesi (lavoratori irregolari, con contratti a termine,disoccupati, immigrati…). Il WAC, inoltre, fornisce consulenze per quando riguardala ricerca del lavoro, gli aspetti legislativi e i diritti dei lavoratori; vengono inoltreorganizzate attività di scolarizzazione e ricreazione per bambini e ragazzi (campiscuola, campi estivi, ecc.). Il WAC, in questi anni, è stato attivamente impegnato incampagne a difesa dei diritti e del lavoro del popolo palestinese e a sostegno del-l’integrazione della popolazione araba nella società israeliana. A causa di questaattività, il WAC ha avuto più di un problema con l’attuale governo israeliano. Sin-dyanna, attualmente, è gestita da due donne palestinesi, Maryam e Samya e dauna donna ebrea, Hadas. La sede dell’associazione è a Jaffa (vicino ai locali delWAC), mentre il magazzino per il ricevimento dei prodotti e la spedizione si trova aMajd al-Krum.

Il nome “Sindyanna” significa “quercia” in arabo e rappresenta, per la sua forzae longevità, un albero simbolo in Galilea. La parola “Sindyanna” evoca inoltre la re-lazione strettissima che esiste tra gli abitanti di Galilea e la loro terra, come ricordaSamya Na’amneh, una donna palestinese impegnata attivamente nel progetto: “Imiei nonni avevano trenta alberi di olivo in cima a una collina. Avremmo volutoaiutarli a portare lì l’acqua, per mantenere in vita quelle piante, ma ora quella terranon appartiene più a loro, perché è stata confiscata dal governo; mi piace comun-que ricordare l’importanza degli ulivi per la mia famiglia, perché permette a tuttinoi di mantenere vivo questo legame tra la terra e la gente”.

La popolazione dei territori occidentali della Galilea comprende circa 240.000arabi e 50.000 ebrei. La principale attività agricola è legata all’olivicoltura, condot-ta soprattutto da piccoli coltivatori arabi. Buona parte della popolazione palestine-se, tuttavia, cerca lavoro nelle cittadine più grandi della zona, tradizionalmentepopolate da ebrei. La raccolta delle olive costituisce comunque una integrazioneimportante del reddito di molte famiglie, anche se la politica di confische ed espro-priazioni portate avanti dal governo israeliano in quest’ultimo decennio ha note-volmente ridotto questa fonte di reddito. Dal 1980, una notevole parte delle terrecoltivate della zona (circa 25.000 ettari) è stata posta sotto il controllo dell’ammi-nistrazione regionale del Misgav Council, tradizionalmente gestito da esponentidella popolazione ebraica. Questo ente ha la facoltà di confiscare terreni per usipubblici, ma questi interventi raramente vanno a beneficio della comunità araba.

Sindyanna intende dare un contributo allo sviluppo della coltivazione dell’olivoe alla commercializzazione dei prodotti a esso collegati (olio, saponette ed erbearomatiche), nella speranza che l’esempio possa essere seguito da altre iniziativeanaloghe. Vengono inoltre organizzati dei “Days of work”, giornate di lavoro in cui

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si impiantano nuovi ulivi in terre incolte, così da contrastare il più possibile l’azio-ne di confisca da parte del governo. Ogni anno, i piccoli coltivatori della zona pos-sono comprare oltre 6.000 piantine di ulivo a metà prezzo. Il principale lavoro del-l’organizzazione, tuttavia, risiede nella produzione e commercializzazione dell’oliodi oliva, le due fasi in cui la gestione si rivela più problematica, considerata soprat-tutto la situazione generale, la difficoltà nel reperire nuovi mercati e la precarietàdei trasporti e della comunicazione.

L’ambito di riferimento è quello del Fair Trade (l’organizzazione è socia IFAT)grazie al quale sono state avviate relazioni commerciali con numerose realtà no-profit europee, statunitensi e giapponesi. Sindyanna svolge, inoltre, un importantelavoro di consulenza riguardo alla produzione biologica e al miglioramento delletecniche di coltivazione, attraverso il potenziamento di alcune pratiche agronomi-che, fra cui l’irrigazione.

L’olio viene acquistato da famiglie di piccoli olivicoltori arabi della Galilea edella zona nord-occidentale della Cisgiordania interessata dal passaggio del muro.Gli olivicoltori conferiscono il loro raccolto a un frantoio locale, che provvede allaspremitura e all’imbottigliamento. Sindyanna ritira l’olio pagandolo agli olivicolto-ri, i quali, a loro volta, si relazionano con il frantoio. In questo modo, la fase dellatrasformazione è seguita direttamente dagli olivicoltori, il frantoio esegue unasemplice lavorazione in conto terzi e Sindyanna evita di pagare un intermediario.

La maggiorana proviene da un gruppo di produttrici organizzate nella Women’sCooperative for Cultivation and Production, appartenente al più ampio CollectiveCooperative of Fruit Grower’s, operante nella regione di Jenin. Le socie produttricidella cooperativa (20, distribuite nei villaggi di Zbuba, Inza e Kufar Dan) sono spe-cializzate nella coltivazione di piante aromatiche: maggiorana siriaca, maramia(una varietà di salvia) e camomilla. Molte fra esse producono anche cous cous, sa-pone di olio di oliva, labaneh (un delicato formaggio di latte di capra), jibnah (unaltro formaggio) e vari tipi di marmellate. La coltivazione e i laboratori di trasfor-mazione avvengono in ambito familiare, e per molte di esse rappresentano unafonte di reddito essenziale, date le difficili condizioni delle rispettive famiglie diappartenenza.

Il sapone all’olio di oliva proviene da un laboratorio di Jenin, e viene rifinito econfezionato nel magazzino di Majd al-Krum.

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YWCA è la sigla di Young Women’s Christian Association, organizzazione mon-diale di ispirazione cristiana a sostegno delle donne, attiva in circa centodieci pae-si. Le sedi nazionali sono composte a loro volta da vari gruppi locali, piuttosto indi-pendenti, ognuno operante con la struttura e i criteri di una ONG e con azioni rivol-te alla promozione e allo sviluppo di programmi e servizi a sostegno delle donne edelle loro famiglie. Le finalità di YWCA sono rivolte alla promozione umana, socia-le e professionale delle associate e alla loro piena integrazione nel contesto socialepalestinese, nel quadro di un impegno generale per la giustizia, i diritti umani e lapace. Tra i principali interventi sono da annoverare la formazione di formatori, l’ac-coglienza per giovani donne in cerca di casa, l’informazione sanitaria, l’avvio al-l’impresa e la gestione di progetti di sviluppo e promozione dei diritti delle donne.

YWCA of Palestine ha una lunga storia di impegno a favore delle donne (fin dal1918), costituendo un riferimento importante per la vita quotidiana delle proprie

YWCA of Palestine

Nazar (sezione YWCA ofPalestine di Gerico) con unarappresentante del gruppo diproduttrici di maggiorana delvillaggio di Amza.

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associate, in un contesto sociale e politico ancora oggi molto difficile. La visioneche persegue è quella di una Palestina riappacificata, basata su valori di democra-zia, giustizia sociale, diversità culturale e sviluppo sostenibile. L’azione concreta èrivolta a migliorare le condizioni di vita e, più in generale, lo status delle donne me-diante la partecipazione ad attività scolastiche, culturali e professionali.

I punti fondanti dell’attività di YWCA of Palestine sono il sostegno all’autode-terminazione femminile e il rifiuto di qualsiasi forma di discriminazione, l’attua-zione di processi democratici e partecipativi all’interno delle varie comunità, lapromozione del volontariato e lo scambio di esperienze tra i vari gruppi, così dacreare una rete comune di conoscenze.

Attualmente, YWCA of Palestine è gestita da un consiglio generale e da tre con-sigli locali situati a Gerusalemme, Ramallah e Gerico. A questi, si affiancano i duecentri gestiti nei campi profughi di Aqabet Jaber (vicino Gerico) e Jalazone (Ramal-lah). Nei cinque centri le attività, piuttosto differenziate, sono comprese in alcunisettori principali: formazione professionale permanente (“Vocational Training Cen-ter”), brevi corsi e workshops, attività a favore dei ragazzi, consulenza per l’avvioalla micro-impresa.

La sede di Gerusalemme, la più antica, comprende un centro di formazionepiuttosto articolato, spaziando dal training per formatori a corsi professionali per

Il campo profughi di Aqabet Jaber, dove vivono alcune produttrici di cous cous di YWCA.

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giovani donne, dalla gestione di un Centro per la Salute all’organizzazione di cam-pi estivi e attività sportive per ragazzi. Tra i corsi di formazione, alcuni sono miratiallo sviluppo della micro-imprenditoria locale, mentre è attivo un laboratorio diproduzioni alimentari.

Il centro di Ramallah è sorto per appoggiare le attività svolte a Gerusalemme,soprattutto dopo le restrizioni al movimento decise dal governo israeliano comerisposta alla seconda Intifada. Le attività dei corsi professionali sono partite nel2001, coinvolgendo una ventina di studenti, per arrivare a oltre quaranta nel2004.

A Gerico, oltre ai tradizionali corsi di formazione, è attivo un progetto che, for-nendo impiego stabile a sei donne, ha portato alla specializzazione nella produ-zione di svariate tipologie alimentari, tra cui confetture, erbe essiccate, formaggi,verdure refrigerate, miele, pasticceria tradizionale palestinese, succhi di frutta ecous cous.

Nei campi profughi di Jalazone e Aqabet Jaber è attivo il “MultifunctionalCommunity Based Center” finalizzato all’assistenza di donne e bambini. In ognunodi questi centri sono attivi un asilo nido, un programma di animazione per i ragaz-zi (tra cui i campi estivi) e uno per la creazione di micro-imprenditoria.

Complessivamente, i progetti attuali possono essere così suddivisi:- corsi di formazione professionale nei centri di Gerusalemme e Ramallah, fina-

lizzati alla gestione di attività di segreteria e ufficio, prevenzione sanitaria e ge-stione domestica. Per quanto riguarda l’area di Ramallah, i corsi hanno un’im-portanza particolare, in quanto rivolti ai pendolari che non possono più rag-giungere Gerusalemme, in seguito alle restrizioni sulla mobilità imposta dal go-verno israeliano;

- due asili nido situati nella zona di Jala e dei campi di Aqabet;- corsi di lingue, computer e parrucchiera presso i centri di Gerico, Ramallah e Ge-

rusalemme;- attività informali educative e di ricreazione per donne e bambini nelle zone di

Jala e Gerico (campi estivi, danza e attività sportive);- corsi di ricamo e artigianato presso Ramallah e Jala;- laboratori alimentari a Gerico, con vendita diretta dei prodotti;- campagne e iniziative di diverso tipo, fra cui “The Olive Tree Campaign”, “Keep

Hope Alive e “Al Ard A-Taibeh Campaign”.