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Luigi Meneghello Libera nos a Malo 1963 Come i bambini di Malo studiano la natura La vita a Malo prima dello sviluppo del dopoguerra La Compagnia dei ragazzi del paese Notizie sull’autore [Come i bambini di Malo studiano la natura] X Studiavamo la natura osservando il comportamento dei popolani, esplorando i territori dietro il Castello e lungo il torrente, e sullo schermo del Cinema San Gaetano. C’era stato anche il Radium che non apparteneva al prete e dove si vedevano i lavori scandalosi; ma l’avevano chiuso, e i lavori scandalosi si vedevano a Schio. Chissà che cos’altro c’era in quel film, Il Gaucho 1 (pr. Gauko)? Ma quello che c’era di certo era il lebbroso con la testa infilata in un’asse di legno in cima a una stanga con cui la gente lo teneva lontano. Il lebbroso è in mezzo a un cerchio di persone, e il Gaucho gli dice: “Vai nel cuore della foresta e uciditi.” Uciditi è parola esotica ed ha perciò un’intonazione quasi sognante. Il nostro copete 2 non significa mai ucciditi. E come si dice ucciditi? Non si dice: si direbbe sbàrete 3 , ma uno deve già avere lo schioppo in mano. Si può dire naturalmente copete sètu? che significa non farti male. Poi il Gaucho è appoggiato con la schiena a una finestra, in una specie di mezzanino o su un pianerottolo, e parla con la ragazza. Ha le mani dietro la schiena, e pian pianino spunta da dietro la finestra il lebbroso e gli addenta una mano, e morde e morde, mentre il Gaucho si divincola e impreca. “El ghe la ga petà” 4 , conferma il pubblico come un Coro. Anche petare è carico di significato, pidocchi rogna tisi, e questa stupenda malattia, la lebbra. Non si dice molto in piazza e nel centro. 1 Il Gaucho: film del 1927, interpretato da Douglas Fairbancks. 2 còpete: ammàzzati, accòppati. 3 sbàrete: spàrati. 4 El ghe la ga petà: gliel’ha attaccata.

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Luigi Meneghello

Libera nos a Malo

1963

Come i bambini di Malo studiano la naturaLa vita a Malo prima dello sviluppo del dopoguerraLa Compagnia dei ragazzi del paeseNotizie sull’autore

[Come i bambini di Malo studiano la natura]X

Studiavamo la natura osservando il comportamento dei popolani, esplorando i territori dietro il Castello e lungo il torrente, e sullo schermo del Cinema San Gaetano. C’era stato anche il Radium che non apparteneva al prete e dove si vedevano i lavori scandalosi; ma l’avevano chiuso, e i lavori scandalosi si vedevano a Schio.

Chissà che cos’altro c’era in quel film, Il Gaucho1 (pr. Gauko)? Ma quello che c’era di certo era il lebbroso con la testa infilata in un’asse di legno in cima a una stanga con cui la gente lo teneva lontano. Il lebbroso è in mezzo a un cerchio di persone, e il Gaucho gli dice:

“Vai nel cuore della foresta e uciditi.”Uciditi è parola esotica ed ha perciò un’intonazione quasi sognante. Il nostro copete2 non significa mai

ucciditi. E come si dice ucciditi? Non si dice: si direbbe sbàrete3, ma uno deve già avere lo schioppo in mano. Si può dire naturalmente copete sètu? che significa non farti male.

Poi il Gaucho è appoggiato con la schiena a una finestra, in una specie di mezzanino o su un pianerottolo, e parla con la ragazza. Ha le mani dietro la schiena, e pian pianino spunta da dietro la finestra il lebbroso e gli addenta una mano, e morde e morde, mentre il Gaucho si divincola e impreca.

“El ghe la ga petà”4, conferma il pubblico come un Coro.Anche petare è carico di significato, pidocchi rogna tisi, e questa stupenda malattia, la lebbra. Non si dice

molto in piazza e nel centro.Ora il lebbroso può ripetere al Gaucho:“Vai nel cuore della foresta e uciditi!”Nel cuore della foresta: non solo nella foresta, ma nel cuore, concetto audace come la perla dell’Adriatico5. Il

cuore della foresta è infestato di creature subdole e spietate: fortuna che sono spesso storpie e difettate, come gli uomini.

Se la lìpara ghe vedesse, e la sioramàndola ghe sentisse, no ghe saria pi òmini al mondo che vivesse6.

La lìpara non ci vede, ma si orienta annusando, e quando salta (e può sal tare sei sette metri) e un altro odore la distrae sbaglia la presa e sbatte le mandibole in aria.

Quanto la lìpara insegue un uomo, com’è suo costume di fare, insegue il suo odore; è inutile allora correre in linea retta, perché la lìpara è velocissima e raggiunge agevolmente nonché l’uomo, i cani e i cavalli. Per questo davanti alla lìpara bisogna fuggire a zig-zag; così l’odore ondeggia nell’ aria e la lìpara si mette a serpeggiare e 1 Il Gaucho: film del 1927, interpretato da Douglas Fairbancks.2 còpete: ammàzzati, accòppati.3 sbàrete: spàrati.4 El ghe la ga petà: gliel’ha attaccata.5 la perla dell’Adriatico: definizione retorica di Venezia.6 Se la lipara... vivesse: se la vipera ci vedesse e la salamandra ci sentisse non ci sarebbero più al mondo uomini vivi.

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si rompe il fil della schiena.Si può tornare indietro allora, e osservare (ma non toccare!) la testina a triangolo con l’occhietto spento della

creatura cieca.La sioramàndola è più rara. Abita nei luoghi umidi, presso le scaturigini nei boschi, si ciba principalmente di

aria, e uccide per pura crudeltà, con la linguetta.Io vidi la sioramàndola una sola volta, alla Fontanella dietro il Castello. Chiacchieravamo ignari Piareto ed io

sotto i rami folti dei faggi, accostandoci al cristallo dell’acqua sorgiva per bere. Su una pietra lambita dal rivolo c’era la sioramàndola. Era verde come la luce circostante, e macchiata di giallo e marrone, come le foglie secche. Era seduta e ci voltava le spalle.

Fermai in tempo Piareto che voleva tirarle un sasso (ma il sasso rimbalza e il piccolo mostro s’inferocisce), e andammo via in punta di piedi, prima che la sioramàndola girasse la testa.

La cavalletta verde è un mandolone bislungo* senza forza: sotto le ali fragili, quasi vegetali, porta una sottoveste di seta trasparente, giallina; la cavalletta castana è tarchiata e forzuta, specie nelle cianche7 seghettate: spara con esse come una piccola fionda, e quando spara si vedono lampeggiare le mutande scarlatte.

La cavalletta verde non mangia la cavalletta castana; invece alle cavallette castane provvedevamo una dieta di cavallette verdi opportunamente trinciate, galloni magri e flaccidi a mezzogiorno, pasticcio di occhi e antenne, e alla sera la squisitezza dei petti. Molte facevano una specie di sciopero della fame, rifiutavano quei bocconi girando la testina di qua e di là, ed eravamo costretti a ingozzarle con la forza. È inutile, una certa forza ci vuole nei rapporti delle creature più grosse con quelle più piccole.

Le tenevamo nelle ampie stalle di cartone, attaccate ai lunghi guinzagli o bianchi o neri; le portavamo a passeggio con questi guinzagli legati al dito, per straviarle**. Morivano per lo più annegate nelle grandi gare di nuoto nella vasca in Castello, o smembrate per errore in allenamento insegnando loro un nuovo tipo di crawl.

I brombòli*** muoiono tranquillamente nel sonno; e siccome dormicchiano un po’ sempre, sono esposti a un rischio continuo.

Il brombòlo è soprattutto un arrampicatore: appoggiandolo alle superfici del monumento ai Caduti in Castello, lui s’aggrappa al marmo e ràmpica pazientemente. Salivano sfruttando le minute rugosità del marmo, e i solchi delle lettere; cadevano senza preavviso, e si sentiva la piccola bòtta della nuca ai piedi dei paretoni bianchi. Il brombòlo non muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s’addormenta, ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena.

Ricordiamo ancora con affetto i nostri brombòli migliori, e specialmente quello bravissimo che si chiamava Soga. Gli altri partivano sullo spigolo a destra, raggiungevano subito ZANELLA e VANZO, più raramente STERCHELE e SAGGIN, qualche volta anche i primi PAMATO; uno si spinse una volta fino in mezzo alle P che sono dieci, poi cadde, batté la nuca e morì in seguito all’infermeria.

Ma Soga si spostava subito vivacemente a sinistra, passava LAIN, passava LAPPO, poi su: su per GALIZIAN, fratello di mia zia Lena, via per FESTA, dove già stentavamo ad arrivare per fargli sicurezza con la mano. Quando passava i due DESTRO, entrambi 16 maggio 1916, non ci arrivavamo più neanche in punta di piedi; scendevamo dalla base e stavamo semplicemente a guardare.

Era solo ora. Solo con DE MARCHI Antonio, classe ‘95, con l’altro DE MARCHI un anno più vecchio; solo col lampo del sole sulle roccette dove c’è CIMBERLE. Avevamo paura per lui, lo vedevamo salire lassù di riga in riga, pareva che non finissero mai. Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese?

Si trepidava per Soga mandato così allo sbaraglio senza una vera ragione, piccolo lassù come un ometto che s’arrampichi sul Dente del Pasubio; come l’ultimo nome che si vede appena là in cima, AGOSTI Alessandro, zio di Sandro che rinnova il nome.

Di questi nostri brombòli ci fu un’epidemia nel 1598, onde fu murata nella chiesa parrocchiale una lapide:

7* è un mandolone bislungo: Mandolon = “creatura, solitamente umana, troppo alta o lunga per la poca forza che ha, stangone debole. (Nota dell’Autore)? cianche: gambe.** per staviarle: M (dialetto stretto di Malo dal terzo al sesto decennio del secolo XX, sia nelle forme ad esso peculiari, sia in quelle genericamente vicentine o venete) straviare è “distrarre e svagare”, l’equiuv. trans. dell’intrans. to relax. (N.d.A.)*** brombòli: “Maggiolini”; uno dei nomi di bestia che più cambiano da un paese del Vicentino all’altro. Il nostro brombòli è antico. Cfr il testo riportato più sotto. (N.d.A.)

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Guastando li Brombòli le viti, la Comunità di Malo, fatto voto a S. Ubaldo Vescovo di Gubio di celebrare ogni anno li XVI Maggio solennemente la sua Festa, fu liberata...

Questo registra il Maccà8; aggiungo che attaccati a un filo e roteati nell’aria, anzitutto li Brombòli si sottraggono alla vista e si dissolvono in un cerchio vaporoso, come marroni salbèghi analogamente trattati; in secondo luogo emettono un lamento vibrante, essi normalmente muti, forse in memoria del macello di S. Ubaldo.

Noi non li prendevamo sulle viti, come forse i nostri compaesani di tre o quattro secoli fa, ma sui morari, dove parevano more. Erano cari compagni di scuola; ottima moneta; innocui, lenti, sonnacchiosi. Pareva incredibile che fosse una virtù sterminarli, com’era invece sottinteso.

Slusaròla quasi luccioletta, rizàrda come lucertola, ramarro seu ligaòro, ciupinàra ovvero talpa, libellula sive9

sitòn: la piccola borghesia si occupa prevalentemente degli insetti; i popolani anche dei rettili e anfibi. I mammiferi sono di tutti, ma quale più qual meno; striscio segreto della ciupinàra che Nane-dell’orto percepì in nostra presenza.

Stava separando la cicuta dal prezzemolo; disse “Fermi!” e tirò fuori il coltello; con la bocca faceva quella smorfia che non si sa se uno si morsichi per eccesso di attenzione, o rida. S’inchinava un po’ in giù un po’ in avanti ascoltando un piccolo fruscio sottoterra che noi non sentivamo; d’un tratto fece due passi ben ritmati e ripiegandosi su un bersaglio mobile e invisibile un paio di metri più in là, accoltellò la terra.

Quando si rialzò pareva proprio che ridesse; scavò attorno al manico del coltello e subito sotto, trapassata dalla lama enorme c’era la ciupinàra. Aveva il musetto tutto rosa, scolorito, come chi sta sempre al buio. Aveva una pelliccetta insanguinata, e sporca di terra, ed era cieca. La manine abituate a raspare pendevano inerti; impalata sul coltello, nel sole accecante, pareva una messaggera imbalbata10 dal paese di cunicoli freschi e umidi che ci sono sottoterra. Anche Nane era balbo, e l’intera cosa dava un’impressone di balbuzie, un ingorgo doloroso del pomeriggio.

[La vita a Malo prima dello sviluppo del dopoguerra]XIII

Il paese non è cambiato come tanti altri, ma è pur cambiato. Fino a questi ultimi anni era restato quasi fuori dello sviluppo industriale e commerciale del dopoguerra, ma ora ci è arrivata una piccola brezza di prosperità. Tra il paese e la nuova strada di Schio è sorto un quartiere di case nuove, nel vec chio centro le case si sono rinnovate, molte hanno ora anche il bagno, le osterie e i negozi si sono rammodernati, ci sono lampioni al posto delle vecchie lampadine col piatto di ferro appese ai fili.

Il rinnovamento è cominciato sette o otto anni fa. Prima di allora il solo senso che pareva venire dal paese (dopo la guerra) era un’immagine di stanchezza e di decadenza. Guardando dall’inferriata della mia finestra, quando venivo a casa, il palazzotto del conte Brunoro qua di fronte, mi pareva di vederlo agonizzare. Nell’alto portone di legno scuro c’era un portellino come una feritoia; le finestre del pianterreno ingabbiate dalle grate davano su un buio muffito, di cameroni trasformati in ripostigli. Due fasce di muratura staccano il primo piano: finestre a largo intervallo, con gli scuri verdi, sempre chiuse, tranne quella centrale da cui in un barlume nebbioso s’intravede va l’altra opposta, aperta al nord, attraverso lo spazio di uno stanzone patriarcale. Dentro, in qualche parte, lavorava l’altissimo, circospetto, silenzioso signor Nicola falegname, venuto ad abitarci colla famiglia in tempo di guerra.

8 Guastando... Maccà: “Poiché i maggiolini rovinavano le viti, la Comunità di Malo, dopo aver fatto voto a S. Ubaldo Vescovo di Gubbio di celebrare ogni anno il 16 maggio solennemente la sua festa, fu liberata...”. Padre Gaetano Maccà è l’autore di una Storia del territorio vicentino, pubblicata nel 1816.9 quasi... seu... sive: “come dire... o... ossia...”, congiunzioni latine che mediano la traduzione dal dialetto all’italiano dei nomi di animali. I termini colti sono spesso intercalati da Meneghello a quelli dialettali per dare al linguaggio popolare la stessa dignità delle lingue letterarie.10 imbalbata: balbuziente, incapace di parlare.

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Dalla casa del Conte, all’altro lato della strada, fu aperta una porta senza rumore, poi fu richiusa e sbatté. Uscivano il Conte e la Contessa, distintissimi, isolati, antichi, aprivano gli ombrelli sul marciapiede. Un carro col fieno passava il rastrello del Montécio.

Era uno spettacolo funebre: morivano i prati verdi, la siepe troppo folta, gli alberi sovraccarichi di foglie. Mi pareva di non poter comunicare con nessuno. Passavano automobiline col motore imballato, stupidi corvi spennacchiati, e una gracchiò.

Le strade, le persone, gli edifici: tutto pareva soltanto che invecchiasse, che si preparasse a morire senza altro senso. Sarà stato nel 1953: era certo un errore di prospettiva anche allora; ad ogni modo in seguito la modesta ri -presa della vita del paese ha cancellato queste impressioni. Qualche anno fa, tornando dopo un’assenza d’un paio d’anni, abbiamo sentito dappertutto un’aria di nuovo. In questo paese che si svecchia e si sgretola, mi dicevo, le cose di prima avranno più senso, non meno. Il cromo scaccia il legno, i finti marmi la pietra, il neon le lampadine; i bagni entrano nelle case, le cucinette moderne soppiantano le vecchie cucine; verranno i termosifoni, i frigoriferi, i tappeti. Non importa: è perché la gente ha ricominciato o forse ha sempre continuato a vivere. È come “le campane d’argento sopra il borgo”11, e poi il resto che non si può fermare, le antiche travi, i mattoni rossi delle camere, gli intonachi, i corridoi, i ciottoli della corte, il vecchio cesso nel cortile.

Le case del centro hanno un portico selciato che dà nel cortile; nel portico si aprono le porte delle stanze a pianterreno, e le scale. Le stanze sono a travi, i pavimenti a mattoni o a tavole di legno. La cucina è la stanza più importante; c’è il focolare di pietra, la cucina economica, la tavola bislunga dove la famiglia si siede a mangiare due volte al giorno. Qui i bambini fanno i compiti, la mamma cuce. Gli uomini non si vedono mai seduti in casa, tranne all’ ora dei pasti. Una volta che Gaetano era gravemente malato il papà lo prese in braccio e si mise a sedere in cucina sulla sedia vicino alla porta: ricordo che aveva il cappello in testa, calato sugli occhi, e lagrimava.

Le camere sono grandi e nude, gelide d’inverno; hanno letti di ferro con la rete metallica (figli) o gli elastici (genitori), il materasso di crine sotto e quello di lana sopra. C’è un lavandino in camera, con la brocca e la secchia; in questa al mattino si vuotano anche i vasi da notte.

La casa ha amplissimi granai, quasi un’altra casa lassù, ventosa e luminosa, cogli alti soffitti sbilenchi. Queste sfere sopramondane hanno più importanza che non si possa dire: si dovrebbe trascrivere tutto in chiave neo-platonica. Era come la Sacrestia nuova di San Lorenzo a Firenze: c’era la zona intermedia delle cose terrene, camere, cucine, cortili; in basso quella oscura dell’ Ade a cui davano adito la scala della cantina, la casetta della benzina in orto, e le altre aperture da cui s’udivano gorgogli di cose liquide, sotterranee. Qui in alto c’era la sfera nitida, spaziosa, aperta e nuda dei granai, il mondo scorporato dove emigrano le idee dei giocattoli rotti, degli oggetti spenti; il mondo delle essenze che l’artista ha cercato di riprodurre in pietra serena a San Lorenzo12.

Gli sporti del tetto sono ampi, e danno alla casa un’aria quasi aggrondata. “Gorne”, “stellaresse”13: qui al riparo si può stare a guardare la piova appoggiati al muro del cortile, all’asciutto. Spesso le finestre hanno l’in-ferriata, e il sole entra nella casa a rombi. C’è un tinello per famiglia: ha i mobili morti, gli scuri accostati. Se non c’è un battesimo o una visita importante, raramente la famiglia lo usa. Se ci si porta un visitatore inaspettato, chi lo precede scocca via dalla tavola una mosca morta, raddrizza le fotografie a sghembo nella cornice.

Nelle case migliori c’è un rubinetto d’acqua corrente in cucina, o nel retrocucina dove le donne lavano i piatti. L’acquaio è un’unica grande lastra di pietra viva, sopra di esso sono appesi ad una grossa mensola i grandi secchi di rame in cui si tiene l’acqua che si va a prendere alla fontana pubblica più vicina. D’estate anche chi ha il rubinetto in casa manda a prendere l’acqua fresca alla fontana. Quest’acqua dei secchi si attinge con una “cassa” di rame, nessuna acqua è buona come quella che si beve così. Sotto i secchi c’è il catino di rame, dove ci si lava le mani durante il giorno, e chi non ha il lavandino in camera viene a lavarsi la faccia alla mattina.

11 E’ come... borgo”: citazione di un verso della poesia di Eugenio Montale Carnevale di Gerti (“Le occasioni” 1939), che ha come tema l’inarrestabile scorrere della vita e l’impossibile desiderio di fermare il tempo.12 La Sacrestia nuova di San Lorenzo è un’ampia cappella annessa all’omonima chiesa fiorentina, che ospita le tombe di Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Straordinario capolavoro di Michelangelo, la cappella ha una struttura architettonica articolata su tre livelli, che, procedendo dal basso all’alto, conducono dall’oscurità e incompiutezza di ciò che è soggetto al tempo e alla morte alla purezza e perfezione di ciò che eterno. Allo stesso modo, secondo Meneghello, sono fatte le case contadine di Malo: cantina, abitazione, granaio. Il nostro autore ama spesso i paragoni, umoristici e seri nello stesso tempo, tra la cultura popolare e quella più elevata.13 “Gorne”, “stellaresse”: grondaie e punti della grondaia dove l’acqua tracima (voci dialettali).

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C’è molto rame in casa, secchi, testi14, stampi, leccarde15, paioli appesi sopra il camino. Sospeso alla catena del focolare c’è il paiolo della polenta.

Tutto ciò che ha attinenza con la polenta era importante, il ceppo incavato che premevano col ginocchio sul paiolo per tenerlo fermo, la méscola, le croste che si grattano direttamente dal paiolo, il vasto panaro16, il filo di cotone con cui si tagliano le fette che solo i barbari ignari assassinano con la lama del coltello. La pellagra17 non c’era più, ma si ricordava benissimo, collettivamente parlando. “Pelagroso!” ci dicevano ridendo le zie, come per vezzeggiarci con una minaccia che non fa più paura. Poi si guardavano attorno, se per caso non ci fosse uno da Isola18 che sentiva, e precisavano abbassando la voce: “Pelagroso da Isola”. Chissà se loro dicono pelagroso da Malo? Secondo i nostri vecchi però, se lo dicono sbagliano; la pellagra si era seduta lì e tenne duro un pezzo; noi andavamo soltanto a vederla. Io non mi pronuncio.

La stanza da bagno è sconosciuta; due o tre famiglie di signori si dice che l’abbiano; la Flora ne ha vista una nella casa del Cavaliere. Quando si è sporchi ci si lava sotto la fontana del cortile; in casi eccezionali si fa un bagno nel mastello in lissiara19.

Dalla lissiara si scende in cantina; la cantina è abitata da un popolo furtivo di pantegani, visitata talvolta da ande20 che scendono dai prati del Montécio e vi lasciano una pallida spoglia verdazzurra (le consideravo piccole fate trasformate in serpenti, e come le fate non ero proprio sicuro che ci fossero). C’erano altre cose tra i poderosi piani incrocicchiati della cantina; cose indefinite, addormentate tra le muffe e le ombre, forse sepolte a fiore del pavimento di terra da cui, scendendo con la candela di sera a prendere il vino, pareva che cominciassero vagamente a esalare. La porta pesante si chiudeva col grosso catenaccio (ancora storto per la sberla dell’aria, allo scoppio della Pisa), sulle finestrelle c’erano robuste inferriate: le cose della cantina si serravano dentro.

C’era nella casa un retro terra di barchesse*, legnaie, ripostigli, cameroni di sgombero. Da noi c’era il favoloso solaio dell’officina, pieno di cadaveri d’ingranaggi, cuscinetti a sfere, leve, pedali, aste, rondelle, catene; tutti impegolati in grumi secchi di vecchio sangue verde-nero. Vi si montava per la più alta delle scale a pioli, attraverso un’apertura circolare, e dall’altra apertura circolare al di là dell’enorme stanzone in penombra si vedeva il pino dell’ orto e la cerchia delle colline. Si aveva la sensazione di spiare il mondo da lassù, dal buio verso il chiaro, dal silenzio verso il rumore; era anch’esso un solaio, dunque parte del sopramondo, una specola.

Le ossa spolpate dei motori si gettavano poi nel cortiletto della forgia21, in un mucchio sotto il primo gelso, e lì arrugginivano alla piova. Nel recinto della forgia c’era la temuta casetta del gassogeno, tra le dune di calce spenta: scoppiando, avrebbe fatto saltare il paese, cancellato tutto. Allo scoppio della Pisa, qualche anno prima che nascessimo noi, era intervenuta la Madonna del Castello a proteggerci: ondeggiarono i camini delle filande, caddero i calcinacci, scrosciarono i vetri, ma insomma andò bene. Però la Pisa è a due chilometri, e la villa che c’era, dopo lo scoppio non c’era più. Ora la casetta del gassogeno, con dentro il grosso cilindro metallico di colore incarnatino, non era a due chilometri, ma in forgia; ogni speranza nella Madonna poteva perciò riferirsi soltanto alla fase precedente allo scoppio, e glielo rammentavamo spesso. In forgia c’erano anche le case delle galline e del maiale, e l’appartamento dei conigli sopra il cesso.

Il cesso si apre in fondo alla corte. Non c’è sedile: davanti alla porta c’è però un cavalletto di legno per lo zio che ha l’artrite; è suo personale, fatto da lui e bislacco e segaligno 22 come lui. E un po’ tagliente, una mera lama d’appoggio; come esattamente si usi nessuno lo sa, solo lo zio se lo porta dentro.

Qualche ospite di eccezionale riguardo lo portavamo al cesso giù dalla nonna, che era considerato più fine perché aveva un sedile di mattoni e un coperchio di legno (un disco con un piolo in mezzo come un manico). Non c’era il normale letamaio dalla nonna, ma una camera sotterranea, dentro la quale si poteva guardare per una 14 testi: recipienti di vario tipo.15 leccarde: recipienti di metallo che vengono collocati sotto la carne che cuoce per raccogliere il grasso che cola.16 panari: tagliere per la polenta.17 pellagra: malattia da carenza alimentare di vitamina PP, avente conseguenze anche molto gravi: disturbi all’apparato digerente, disturbi psichici, morte. Era particolarmente frequente tra le popolazioni in cui il mais (con cui si fa la polenta) aveva sostituito il frumento come base dell’alimentazione.18 Isola: paese a 4 km da Malo, verso Vicenza.19 lissiara; lavanderia.20 ande: nome locale di grandi serpenti detti anche saettoni o colubri d’Esculapio (nome scientifico: elaphe longissima).* barchesse: tettoie. (N.d.A.)21 forgia: fucina, luogo dove era presente il fornello e l’attrezzatura per scaldare e manipolare pezzi di metallo.22 segaligno: magro, ossuto.

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botola quadrangolare che scoperchiavamo con molti sforzi. Il fetore di questo letamaio segreto era corrotto e mefitico, non forte e robusto come quello del nostro di casa, che rispecchiava il cielo. Ma tornando agli ospiti di riguardo: li conducevamo giù per il Listòn fino alla porta della nonna; si suonava (campanella col filo metallico), si facevano le presentazioni, si diceva “Faccia come a casa sua”, e s’avviava l’ospite per il cortile.

Nella maggior parte dei cortili il cesso è usato da varie famiglie, e se c’è una bottega o un’officina, anche dai lavoranti. Per orinatoio si usa il letamaio, gli uomini davanti al muretto di riparo, i bambini sopra: in caso d’urgenza lo usano anche le bambine. L’urgenza assoluta spinge tutti, anche le donne, in fondo all’orto.

I conigli (di cui la forgia era la patria e qui venivano uccisi, davanti alla scaletta di casa loro) avevano una verandina che dava sopra il letamaio, e spesso quando noi eravamo in piedi sul muretto, specie se pioveva e si doveva tenersi rasente al muro, venivano di sorpresa a lambirci l’orecchio, provocando sgrisole*. Montando sul muretto si causavano scatti, guizzi e tuffi da parte dei pantegani di letamaio, un ceppo a sé di pantegani, fulvi e sgarbati. Li conoscevamo abbastanza bene, benché di solito corressero a nascondersi con tanta petulanza, perché scendevamo spesso tra loro, non di propria volontà però, ma perché sul muretto dalla cima bombata era facile perdere l’equilibrio.

Queste visite erano più o meno rischiose a seconda delle condizioni del letamaio; anch’esso ha le sue stagioni, i suoi ritmi naturali, il volgere della luna lo gonfia e lo secca senza posa; a volte è arido e compatto come un campo in tempo di siccità, a volte quasi un lago pieno di brutte bolle nere. Uno dei miei primi ricordi di mio fratello è quando ricomparve in cima al cortile dopo un’assenza un po’ lunga in forgia. Gli era accaduta per la prima volta la cosa che solo con una certa esperienza s’imparava a prendere in one’ s stride23, ed era un po’ scosso. Era vestito di seta cruda, quei vestitini con gli sboffi, che s’abbottonavano sotto, ma la seta non si distingueva più molto, si confondeva con le braccine, con le manine aperte, con le gambette, con la faccina e coi capelli. Scendeva piano piano a gambe larghe, facendo suoni che parevano sospiri.

Libera nos amaluàmen24. Non sono molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri così un problema.

Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri25, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago!

Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori.

Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!

Con tutte queste insidie e queste minacce, la casa apparteneva tuttavia al la vita, ai traffici degli uomini e delle bestie (le galline della zia Lena condividevano il territorio e quasi il lavoro degli operai dell’officina, ed erano considerate una nuova mutazione di galline meccaniche), alle cose di cui è piena la giornata. Era un organismo assai più complesso delle case di oggi; conteneva ogni maniera di prodotti, granaglie e patate in granaio, vini in cantina, le stanghe dei salumi, le assi coll’uva secca; le cataste della legna, i mucchi di fascine. L’ampio brolo 26

le portava dentro un pezzo cintato di campagna, sulle mure fiorivano il glicine e il calicanto; nel cortile arrivava su carri e carriole, in sacchi e su stanghe, la vita del paese. C’era spazio, il mondo domestico era mescolato con quello del lavoro, anche fuori dell’officina: gli uomini spaccavano la legna, gli ortolani vangavano, i muratori mescolavano la malta in cortile.

La casa era sommamente bella in certi giorni d’autunno, verso sera: in ogni parte si lavorava, in officina sciabordavano le cinghie dei macchinari, stridevano le lime, ronzava il trapano. Zio Checco martellava

23* sgrìsole: solo al pl.; “brividi”, ma un po’ diversamente. (N.d.A.)? one’s stride: disinvoltamente. Meneghello, che nel 1947 si trasferì in Inghilterra, opera frequenti confronti e contatti tra il dialetto di Malo, l’italiano e l’inglese.24 Libera nos amaluàmen: deformazione delle ultime parole del Padre Nostro in latino: “libera nos a malo. Amen.”, “liberaci dal male. Amen.”25 luàme, luamàri: letame, letamai.26 brolo: orto.

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sull’incudine, zio Ernesto sotto la tettoia cambiava una gomma alla SPA27, il papà ossigenava28 vicino al pilastro e lo si vedeva chino sopra il lungo pennacchio della fiamma blu; gli operai preparavano i torpedoni in cortile29.

Nella lissiara stavano facendo il vino con gli ultimi cesti che le vendemmiatrici avventizie portavano dall’orto. Nella cucina della zia Lena girava uno spiedo d’uccelli davanti alle vampe del focolare; la zia Nina in ufficio ripassava i conti di fine mese, i ragazzi studiavano in cucina, i bambini giocavano nel portico. Mi affacciavo alla finestra della camera che dà sul cortile, lasciando quello che stavo leggendo, e mi rallegravo.

Le strade principali erano selciate con ciottoli tondeggianti nerastri, che la pioggia faceva luccicare; in centro c’erano marciapiedi ordinari, altrove due liste parallele di pietra rosa con un orlo di sassi scuri.

Chissà chi ha avuto l’idea, recentemente, di provare a sbattezzare il nostro Listòn, per chiamarlo via San Gaetano? (Sono poi arrivati a un compromesso: Listòn San Gaetano). So che anche don Tarcisio ne era scontento. C’è uno zelo malinteso che vorrebbe appiccare i nomi dei santi e dei prelati alle vie di cui un’età più cristiana di questa si contentava, contrà Barbè, contrà Lòza, contrà Porto, contrà Lovara, contrà Muzana, Cantarane, Capovilla.

Già c’era la via San Bernardino (la nostra, dove c’è la vecchia chiesa col piccolo, sobrio orinatoio sul fianco, i Borboni in sagrestia, e un tubo di stufa che esce dalla finestra); c’era in fondo al paese la via San Giovanni, e c’era contrà Chiesa. Non poteva bastare? Ora la contrà Lovara non c’è più, l’hanno data al cardinal De Lai perché passa davanti alla casa dove nacque. Meglio così però, piuttosto della stradella laterale che si chiama contrà Busìa ed era teatro delle gesta del Basadonne quando quelle del Cardinale non erano ancora incominciate. Io non sono contrario alla commemorazione stradale dei nostri compaesani più distinti: vedrei volentieri anzi un “Viale del Tar30”, e dovendo manomettere il nome vecchio, un “Listòn Giacomo Golo31”.

Tutto è in pericolo.“Vuol vedere che rovinano la chiesa di San Bernardino? Guarda quei forati. Stavolta lo chiudono.”È uno degli orinatoi più esposti della provincia, proprio sull’angolo tra il fianco e la facciata. Chi lo usa non

volge le spalle ai passanti, ma il fianco indifeso. Cicci vi passava lunghi periodi spensierati: volgeva la testa, seguiva il passaggio, salutava cortesemente le signore.

L’altro in Piazzetta, sul muro tra Valentino e la Scopa, l’hanno levato da tempo. La gente però lo usa ancora, ne sposta il fantasma sotto le finestre di Valentino. La famiglia seduta a cena vede apparire sul davanzale la facce degli utenti trasognati, che guardano dentro.

E la bella palassina che costruivano dietro al campanile? La mamma di Ampelio tornando da messa si domandava di chi fosse. Stentarono a convincerla che era solo il pisciatoio nuovo. Una volta erano inconcepibili così complessi e suntuosi. Austerità dei nostri antichi costumi, piccoli drammi dell’incomprensione.

Il putèlo sceso per la prima volta dal monte con la mamma a vedere Malo, aveva veduto tanto, troppo. Tutto gli pareva possibile, anche l’orrenda cosa che veniva su lentamente per via Borgo. Era una Sàura* carica, un mo-stro gigantesco che riempiva tutta la strada. La gente non scappava, si metteva contro i muri.

Il putèlo non aveva più il tempo per provare a capire. Appoggiato al muro con la mamma (c’era un po’ più spazio sul marciapiede dall’altra parte, ma era tardi per attraversare) resistette alle scosse del terrore finché la Sàura ruggente fu a due metri, a un metro; poi corse in mezzo, sparì nelle fauci deformi.

XIV

Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell’altro che conoscevo così bene, di

27 SPA: marca di automobili prodotte a Torino dal 1905.28 ossigenava: usava la fiamma ossidrica.29 gli operai... torpedoni: la famiglia dell’autore aveva un’officina meccanica e una piccola ditta di trasporti pubblici.30 Tar: nome di battaglia di un capo partigiano famoso nella zona, a cui Meneghello dedica alcune pagine di Libera nos a malo.31 Giacomo Golo: accattone del paese, che l’autore definisce “il re dei poveretti mendichi”.* Sàura: in M, il prototipo dell’autocarro Diesel; detto di ogni autocarro di grossa mole. (N.d.A.)

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quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora, quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e favoloso? È difficile dire.

Ora siamo in un momento in cui, scrivendo, non si può dire bene né “il paese di allora” né “il paese di adesso”; i tempi mi oscillano sotto la penna, era, è, un po’ di più, molto meno. In alcune cose il cambiamento è radicale, quello che era non è più, in altre c’è poco cambiamento.

Mentre si formano le nuove strutture è rimasto ancora non poco delle vecchie, di quella vita paesana che fino a una generazione fa era comune ai nostri paesi della provincia, e per noi era (e per certi versi è rimasta) la vita tout court32. Quella vita si potrebbe rimpiangerla solo per sentimentalismo generico: ma qui dove almeno l’impianto generale delle strade, delle case, degli edifici pubblici è rimasto quasi immutato, è ancora possibile commemorarla.

Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica. Ci conoscevamo tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti. Perfino i giochi dei bambini erano più seri: meno giocattoletti di plastica, meno sciocchezze. Tutto costava e valeva di più: perfino le palline “di marmo”, le figurine con cui si giocava erano tesori.

Le stagioni avevano più senso, perché vedute negli stessi luoghi, sopportate nelle stesse case. Sembrava quasi che anche la vita privata avesse più senso, o almeno un senso più pieno, proprio perché era indistinguibile dalla vita pubblica di ciascuno. Si veniva al mondo con una persona pubblica già ben definita: Chi sei tu? Un Rana, un Cimberle, un Marchioro? Di quali Marchioro: Fiore, Risso, Còche, Culatta, Culattella? Dove non bastavano i nomi di famiglia, intervenivano i soprannomi di famiglia a definire l’identità di ciascuno. Si era al centro di una fitta rete di genealogie, di occupazioni ereditarie, di tradizioni, di aneddoti.

C’erano “signori”, gente e poveri; ma molte parti della vita si condividevano (in certi sensi di più, per esempio, che non sarebbe pensabile in Inghilterra): i servizi pubblici erano in comune, in comune la lingua, le scuole, le osterie, le chiese, i confessionali. Non era in comune il cibo: e più volte vedendo i poveri mangiare ebbi lo shock di sentire una differenza che in seguito avrei potuto chiamare di classe. Il culmine del successo mondano per i nostri vecchi era quello: “Mangia bene”.

C’erano - oltre alle istituzioni riconosciute de jure33 - innumerevoli altri istituti di fatto che informavano la vita: le compagnie, la classe di leva, il vino, persino la bestemmia. La bestemmia è un istituto di una certa importanza, non è vero che sia solo un ausilio espressivo degli inarticulate34: c’è bensì anche questo aspetto nelle bestemmie della gente, specie quelle allegre e serene che credo facciano sorridere anche il Signore e i santi. Ma la bestemmia vera è quella arrabbiata, che “tira giù” il soprannaturale*, ed esprime un giudizio di fondo - rozzo ma indipendente - sul funzionamento del mondo. Ufficialmente il bestemmiatore non s’arrischierebbe a sostenere che in fondo ne abbiano colpa lassù, se le cose vanno storte: ma nell’atto di bestemmiare, fa proprio questo, e viene a contrapporre il punto di vista del buon senso eretico a quello della pietà tradizionale. Il giovanotto emancipato che bestemmia per sport (e altrettanto il popolano che bestemmia per dispetto) suscita nei più giovani la sensazione di una sfida empia ma interessante, in cui si avverte con un delizioso brivido la differenza tra ciò che veramente si crede e si sente, e ciò che si dovrebbe credere e sentire.

Probabilmente non è il caso, parlando di questi modi di vita, di tirar fuori la parola cultura. In un solo senso c’era una nostra cultura paesana, e cioè come costume tradizionale, un sistema di rapporti e di valori ben definito e articolato. Va da sé che quella che si può chiamare in senso stretto la cultura - la cultura intellettuale - o mancava o era importata dai centri urbani dove la si elabora.

Invece un nostro costume paesano c’era: noi si viveva secondo un sistema di valori in buona parte diverso da quello ufficialmente vigente; un sistema di antica formazione prevalentemente rurale e popolare, che aveva adottato anche idee di origine urbana e colta, ma le aveva assimilate e trasformate a modo suo. In quanto questo

32 tout court: espressione francese (alla lettera “tutto corto”): in breve, senza altre precisazioni. Il senso è simile a quello reso dall’espressione italiana “punto e basta”: “la vita punto e basta”.33 de jure: di diritto, ufficialmente.34 inarticulate: ingl., coloro che non sanno esprimersi.* “tira giù” il soprannaturale: la bestemmia arrabbiata non si proferisce ma si tira-zò; si ha l’impressione che afferrino a due mani la statuetta prescelta, come da una scansia, e la tirino giù con violenza per sbatterla a terra. (N.d.A.)

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costume si rifletteva in una cultura (un’elaborazione riflessa del proprio modo di vivere) era soltanto una cultura parlata, priva di testi scritti. Aveva però la potenza delle cose vere, mentre il codice culturale ufficiale, espresso per iscritto in una lingua forestiera, dava l’impressione di una convenzione vuota, e (benché indiscusso, come le malattie) restava astratto fino al momento in cui il suo braccio secolare o ecclesiastico non intervenisse a raggiungerci.

Dietro al paese si sentiva il fondo stabile di una maggioranza contadina, inamovibile, testarda. In qualche modo noi eravamo a nostra volta il fiore urbano di questa società contadina, un centro. Si formava ancora quasi un tutto unico con la campagna, ma il paese travasava e raffinava il costume campagnolo. Di questo complesso lavoro di mediazione esercitato dall’ambiente paesano è difficile documentare bene la natura, soprattutto per difficoltà di lingua. La lingua in cui eseguivamo (senza saperlo, ben s’intende) la nostra mediazione non è scritta, e la lingua che scriviamo in paese e in tutta l’Italia può facilmente tradirci.

Il divario tra il codice di condotta postulato dalla cultura ufficiale scritta, e il costume reale del paese, era grande.

Trovo sul rovescio della copertina di un vecchio quaderno di scuola usato un anno prima che nascessi io, un Decalogo Civile che comincia così:

1. Ama i compagni di scuola, che saranno i tuoi compagni di lavoro di tutta la vita.2. Ama lo studio...3. Santifica tutti i giorni con qualche azione utile e buona, con qualche atto gentile. Fin qui siamo ancora tra le virtù specifiche dello scolaretto; poi si passa tra quelle che adorneranno tutta la

vita, dignità, veracità, rettitudine, generosità, lealtà, correttezza; additando i correlativi da evitare, il servilismo, la viltà, la credulità.

È un documento ammirevole, ma che significato poteva avere per gli alunni di Malo che scrivevano in quaderni come questo? È un codice di moralità civile che avrà avuto qualche senso nei centri urbani, dove forse c’erano mamme e papà che credevano davvero all’importanza della rettitudine civile, della bontà, della fermezza, ecc., così definite. Doveva esserci un’Italia urbana e borghese dove queste parole diventavano almeno in parte costume. Ma a Malo?

Nel nostro ambiente paesano queste parole restavano parole. “Ama i compagni di scuola”: questa non era una massima seria, nessuno cercava sul serio di farci credere, nella nostra propria lingua, che “bisogna amare i compagni di scuola”. Quando si baruffava con questi compagni, a volte ci rimproveravano, altre volte prendevano le nostre parti. In astratto i compagni di scuola non bisognava né amarli né disamarli: l’ingiunzione dell’amore non è concepibile in dialetto (e del resto è una ben strana ingiunzione anche in lingua; e nemmeno i professori di Vicenza e di Padova hanno poi saputo insegnarmi che cosa veramente significhi). I compagni erano come tutti gli altri, con alcuni si andava d’accordo, con altri no, e andava poi a giorni.

Press’a poco così era anche per tutto il resto. Ho preso in questo Decalogo il primo esempio che mi è capitato sottomano, per richiamarmi concretamente a uno dei tanti “codici” espliciti di condotta, o prevalentemente di origine civile e laica, come questo, o ispirati direttamente agli insegnamenti morali della religione, che da questo punto di vista era il settore più importante della cultura ufficiale.

Tutti sono ugualmente lontani dal codice reale di condotta che seguiva la gente, pur non trovandolo scritto in alcun luogo. Non dico che questo fosse l’opposto di quelli, che la gente vivesse in modo apertamente immorale e incivile: dico solo che la nostra condotta non si ispirava ai modelli che ci erano proposti.

La rettitudine contava relativamente poco. Parlo, s’intende, dei valori, non già dei fatti. Vada sé che la proporzione delle persone rette e di quelle non rette era press’a poco la stessa che ovunque. L’espressione “uomo retto” esiste anche in paese, ma l’ho sempre sentita con un’inflessione speciale, simile a quella che potrebbe avere altrove una frase come “ha una voce così gentile e delicata”. La rettitudine è una virtù, ma marginale.

Le virtù principali vigevano nella cerchia del mondo familiare, ed erano connesse colle necessità della vita, e col lavoro. La parola “dovere” in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione “bisogna”, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la “dòna”, per “el me òmo”, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre, magari con pause, interruzioni e rallentamenti, però in continuazione e senza orario, più o meno da quando si alza il sole fino a notte; bisogna lavorare da quando si è appena finito di essere bambini (e le

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bambine nelle case anche prima) fino a quando si è già vecchi da un pezzo; bisogna lavorare quando si è così poveri che lavorando sempre si arriva appena a sopravvivere, e anche quando si è meno poveri, e si potrebbe lavorare meno. Anche qui, non descrivo principalmente fatti ma valori: naturalmente non tutti lavoravano così, c’erano gli scioperati, i fainéants, i voglia-di-far-bene*. Ma il principio centrale riconosciuto da tutti era che bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare qualunque fatica e sacrificio.

Un Decalogo realistico in lingua sarebbe dovuto cominciare così:

1. Ricordati che bisogna lavorare per la tua famiglia, e che la tua famiglia viene prima di tutto.

Di gran lunga la maggior parte delle energie fisiche e spirituali della gente si riversava in questo lavoro. Per i più la vita era estremamente dura: duro il lavoro nei campi, nelle officine, nelle bottegucce degli artigiani, nelle filande, e durissimo per le donne nelle case e nelle famiglie. Ma anche i lavori ritenuti meno duri, dei bottegai, degli osti, dei commercianti, dei mediatori, erano pesanti a paragone dei criteri di oggi.

Le quattro filande erano l’industria massima del paese: tutte le donne del popolo o prima o poi andavano o erano andate in filanda, con orari, salari e condizioni di lavoro che riescono oggi quasi incredibili. Quando la filanda “andava”, c’era un fracasso alto e continuo di macchinari antiquati, e in mezzo come un lamento acuto il canto delle filandiere stordite:

Santa Madre, deh Voi fate che le piaghe del Signore siàno impresse nel mio cuore.

Polenta e cipolla, polenta e anguria. Le filandiere uscivano a mezzogiorno, rientravano alla “cuca” tra la mezza e un bòtto35. Per questo breve lunch hour non tutte correvano a casa; quelle che venivano da lontano si sedevano lungo i due marciapiedi, di qua e di là della strada. Dai cartocci di carta gialla tiravano fuori la polenta e lo stupefacente companatico.

Oltre alle filiere vere e proprie sapevo che c’erano le scoattine36 e le ingroppine37, nomi di sogno. Scoattine! Ingroppine! Non pareva credibile guardando queste donne e ragazze col colore dei bachi da seta sul viso.

Ristorate, dopo una mattina di lavoro, tornavano dentro a lavorare alle bacinelle di acqua bollente fino a sera, invocando in alte grida la Santa Madre del cielo, chiedendole piaghe.

Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la “semenza”) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in gior-no, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “foglia” di moraro38.

La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro**; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo 1orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti.

Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La seta marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto il miracolo; poi si trovavano nei rami secchi i

35* i voglia-di-far-bene: M voja-da-far-bèn (sost. m.) = Colui che non ne ha voglia. (N.d.A.)? rientravano... otto: rientravano (alla filanda) al suono della sirena (“cuca”) tra mezzogiorno e mezzo e l’una (un botto = un rintocco della campana).36 scoattine: operaie addette alla pulitura dei bozzoli per liberarli dai fili rotti, nell’acqua a 70-80°, usando una scopetta (in veneto scoata) di erica.37 ingroppine: operaie addette ad annodare a mano i fili che si rompono.38 mmoraro: gelso.** mangiavano dalle tre, ecc.: termini tecnici per la fasi di sviluppo dei bachi da seta. (N.d.A.)

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giocattolini d’oro lustri e leggeri.La cura dei bachi da seta era uno di quei lavori supplementari che s’affidavano principalmente alle donne,

perché non restassero in ozio: avevano solo da partorire fino a una dozzina di figli, da allevarne mezza dozzina, da cucinare per tutti, lavare, stirare, spazzare, rifare i letti, vuotare i vasi, lavare i piatti, cucire, rattoppare, rammendare, badare alle galline, curare i malati, pregare per il marito, andare in chiesa e baruffare un po’ con le vicine. Come riuscissero ad andare anche in filanda non ho mai capito.

Alla sera facevano filò39, in campagna nelle stalle, in paese nelle cucine: si divertivano, le pigrone, a far la calza o addirittura a giocare la tombola; oppure d’estate sedevano sulla porta con le mani in mano a vedere la gente che tornava dalle osterie.

Gli uomini per divertirsi alla sera andavano all’osteria a giocare alle carte; non erano venute ancora né televisione né luce al neon né bibite. C’erano decine di osterie in paese, tutte fornite di vino clinto 40 dal sapore volpino e di negro vino nostrano. Se queste osterie, sociologicamente parlando, erano una piaga, erano però luoghi più attraenti dei caffè con la televisione di oggi (che secondo me sono anch’essi, sociologicamente parlando, una piaga): avevano pesanti tavole bislunghe, grosse sedie impagliate, il banco di legno, il focolare aperto. Nella medesima stanza, o in una adiacente anch’essa aperta agli avventori, c’era la cucina della famiglia dell’oste: andando in osteria si aveva la sensazione di andare anche in visita.

Gli aspetti del lavoro di cui ho parlato finora riguardano soprattutto ciò che Hannah Arendt 41 nel suo bellissimo saggio sul lavoro umano chiama “labour” e distingue da “work.” È il lavoro-fatica, il tribulare del dialetto, che caratterizza soprattutto le società contadine, e si svolge sotto il segno della necessità: sono tipicamente i lavori della campagna, i lavori domestici, i lavori servili, tutto ciò che ha a che fare col sostentamento della vita fisiologica, secondo il ritmo delle stagioni, del giorno e della notte, del nascere, del crescere, del nutrirsi. È quel lavoro che bisogna fare semplicemente perché si mangia, perché si consuma, perché si vegeta; il lavoro che bisogna fare ogni giorno, ogni mese, ogni anno: la condanna e la schiavitù primaria del-l’uomo.

Questo è il tipico labour, ma qualunque altra attività può diventare mero labour quando si sia costretti a compierla in condizioni e con ritmo analogo, e così accadeva in paese.

Vivevamo sotto il segno della Necessità, e l’immagine della Madonna in Castello mi sembra che abbia più senso da questo punto di vista. Placida, florida e robusta, questa Donna incinta è il simbolo più appropriato di ciò che può sperare una comunità di labourers. Giocando in Castello qualche volta, se venivo a trovarmi in chiesa da solo, quando non c’era nessuno, andavo a guardarla e le domandavo: “Cossa pénsito ti?”42. Lei continuava a fare quella specie di sorriso con gli occhi prosperi e lieti; ora so che pensa sol tanto: “Fuori dalla Necessità ci sono Io”.

Non ricordo se ne parli la Arendt, ma la virtù che corrisponde a questo aspetto del lavoro è ovviamente la pazienza, la laboriosità, la voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù era riconosciuta presso di noi: “È un lavoratore” è un’espressione di alta lode per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che si consuma a lavorare, che non si ferma mai. Ma non è 1espressione più alta di lode che mio padre usa a proposito di lavoro. La lode massima è: “È bravo, è un bravo operaio,” e per operaio intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di “work”), l’artigiano, colui che la Arendt chiama homo faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virtus dell’artefice.

Perché, noi non eravamo una società rurale, eravamo un paese, con le sue arti, il suo work creativo, fatto di abilità e non solo di pazienza. Per questo ci sentivamo parte di un mondo: la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il “mondo” solido e reale, in quanto distinto dalla caduca e illusoria “natura”, si produce quando

39 filò: voce dialettale veneta, e simile in altri dialetti settentrionali: veglia, e per estensione le chiacchiere che si fanno di sera, alla fine della giornata di lavoro.40 vino clinto: deformazione di clinton, vitigno americano, dal quale si produce un vino molto dolce, dal sapore vagamente di fragola.41 Hannah Arendt: (Hannover 1906- New York 1975) filosofa ebrea tedesca, emigrò in Francia quando Hitler salì al potere e negli Stati Uniti all’inizio della II guerra mondiale. Si è occupata soprattutto di filosofia politica. Tra i suoi scritti più famosi, oltre a La condizione umana, a cui si riferisce Meneghello, ricordiamo Le origini del totalitarismo e Sulla rivoluzione.42 “Cossa... ti?”: cosa pensi tu?

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l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale.Forse è una delle ragioni per cui l’esperienza di crescere in paese riusciva così schietta, e ancora oggi (pur

sapendo benissimo che è inevitabile e desiderabile che si affermino nuove forme di vita associata) ci sembra che per certi versi fondamentali ci fosse più sugo a vivere allora a Malo che non oggi nelle nostre città moderne, in Italia e fuori.

Il paese era una struttura veramente fatta a misura dell’uomo, fatta letteralmente dai nostri compaesani, e quindi adatta alla scala naturale della nostra vita. Quello che c’era era stato fatto in buona parte lì, oggi invece le cose scendono dall’alto, le fabbriche piombano dal cielo di un’economia più vasta, creano strutture nuove che per un verso ci inciviliscono, ma per un altro ci disumanizzano. Le nuove strade arrivano come dall’aria, le fanno imprese forestiere, macchine; le mode del vestire e del vivere arrivano anche loro dall’aria, attraverso i tubi e i canali della televisione. Allora le cose non piombavano dal cielo, le facevano qui.

Si parla di stanze da bagno con mio padre, di impianti dell’acqua, della luce; ci dice quando sono arrivati i primi esempi di queste cose in paese. Si ricorda benissimo quando è stato installato il primo bagno, dal Conte: era ragazzo e ci ha lavorato anche lui. Quand’era bambino c’erano ancora i pozzi, pubblici e privati, come quello del cortile della nonna che funzionava ancora ai miei tempi; quando poi fu fatto l’acquedotto, lui e un suo compagno si presero l’incarico di fabbricare non so che tipo di giunto o di raccordo, e li fabbricarono tutti loro. Si alzavano alle quattro, anche alle tre del mattino, e lavoravano fino a notte.

Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più di adesso; le idee venivano bensì da fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era umanizzato in questo modo. Oggi arrivano i rubinetti cromati, gli aspirapolvere e le vasche da bagno, il mio amico Sandro li mette in vetrina, e poi li vende e buona notte (e si dà il caso che Sandro sia un artigiano di prim’ordine, erede di quelli di una volta; ma nel paese di oggi sembra quasi un hobby, una sua abilità personale come fare i giochi di prestigio con le carte).

Il nostro Decalogo potrebbe dunque continuare così:

2. Preparati a tribolare: quasi tutti debbono tribolare.3. Impara a essere bravo nel tuo lavoro. Non c’è nulla di più rispettabile di uno bravo nel suo lavoro.

Il quarto comandamento potrebbe riguardare le donne:

4. Sii pulita. La donna onta non merita stima.

Nella vecchia generazione quasi l’unica critica che si faceva alle donne era contro quelle che non erano “pulite”: non “nete” che vuol dire pulite nella persona ma “pulite” ossia brave a tenere la casa in ordine (“néta”), i bambini lavati, i vestiti ben rammendati e rattoppati con cura. “Onta” vuol dire insomma untidy43; nei casi gravissimi si diceva, e mio padre dice tuttora, che una donna era “un luamàro” che vuol dire most untidy.

Poiché non voglio compilare io un Decalogo, ma esemplificare un discorso, mi fermerò qui con i comandamenti.

Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano - nel modificare questo codice di condotta - la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione.

In ciò che concerne l’intaresse, lo Stato si considerava quasi universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno che il dovere di defraudare. Il rubare era riprovato dai più, ma nella sfera privata, furtiva, classica dei ladronecci notturni di galline, o dei furti dal cassetto d’un negozio o d’una credenza; invece l’“arrangiarsi” nei confronti di qualunque ente pubblico, o anche di enti impersonali, era molto diffuso; e piuttosto frequente anche l’arrangiarsi nei confronti di gruppi familiari estranei con cui si dividessero orti, cortili, magazzini, cantine, granai.

Della prima forma di arrangiamento si parlava apertamente come di cosa naturale e sottintesa, e molti se ne

43 undity: ingl., disordinata.* con grandi segni di croce: nota che le parole “Padre-Figliolo-Spiritosanto” proferite con un determinato grado di forza, anche senza gesti, significano: “Le assicuro che non è vero”. (N.d.A.)

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vantavano; della seconda invece non solo non si parlava in pubblico, ma si negava anche l’evidenza. Mentire in caso di bisogno era regola poco meno che generale: si mentiva, se necessario, con grandi segni di croce*, e facce stravolte. Per le bugie, come per il rubare, l’astratto era condannato, il concreto spesso praticato. “Busiaro” come “ladro” erano insulti; ma mentire di fatto e (nei casi che ho detto) rubare di fatto non erano sentiti dalla gente come esempi di menzogna e di furto. “Onesto” si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è “disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del “disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità. Il ladro di galline non è né onesto, né disonesto, è un ladro.

Questi esempi che mi paiono cruciali nella morale convenzionale, potranno bastare per ogni altro caso. In generale la bontà non si associava con questi, e gli altri analoghi, aspetti della condotta: era piuttosto una categoria psicologica che morale. “Bòn” vuol dire di indole gentile; “cattivo” vuol dire li tigioso, incline a trovar da dire, a rimproverare i sottomessi, a menar le mani. Né si associava la bontà con la devozione religiosa, anzi le persone “di chiesa” erano spesso tenute in sospetto di una forma speciale di cattiveria secca. Però era proprio su questo terreno della bontà che il contenuto morale della religione riusciva ad acquistare un significato comprensibile a tutti attraverso la raccomandazione generica a essere buoni, che era come la traduzione in dialetto dell’invito evangelico alla gentilezza, alla tolleranza, alla generosità, e in breve ad amare il prossimo.

I vizi canonici, invidia, superbia, iracondia, avarizia, erano considerati tratti psicologici, non concetti morali. Da piccoli eravamo stati istruiti ad accusarcene in confessione, e ce ne accusavamo scrupolosamente; ma crescendo poi ci parevano irrelevant44 per un adulto, come il domandarsi se si fosse stati “disubbidienti”. Le corrispondenti qualità si riconoscevano bensì nella gente, ma parevano moralmente indifferenti, meri tratti naturali dell’individuo, come la corporatura o la guardatura stralocchiata.

Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati.

Era questa la sfera della nostra libertà paesana. Il lavoro stesso, le necessi tà della giornata, l’attendere alle proprie faccende, i brevi intervalli di riposo, il semplice andare fino in piazza a comprare, a portare qualcosa, a chiamare qualcuno, bastavano a mettere ciascuno a contatto con tutti. Non soltanto avevamo una persona pubblica, ma anche agivamo in pubblico. Buona parte di ciò che si faceva, era fatto davanti agli occhi di tutti, era conosciuto, valutato, commentato: apparteneva oltre che a noi, al paese. Qui non valeva più la legge severa della Necessità: si poteva improvvisare, scherzare, osservare come vivevano e scherzavano e improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e disinteressatamente a una vita comune, e per solo effetto della comune appartenenza allo spazio pubblico del paese.

Le botteghe-negozi erano quasi estensioni delle case e delle famiglie, erano “aperte” quasi sempre, e in ogni modo non c’era vera distinzione tra aperte e chiuse: per comprare qualcosa si poteva sempre entrare per il corti -le, scusandosi appena con la famiglia a cena in cucina.

“Aperte” erano anche per lo più le botteghe-laboratori; c’erano i fabbri con la faccia fuligginosa, i mistri 45 in mezzo al rame, gli scarpari che tagliavano il cuoio profumato, i maniscalchi (uno era proprio in piazza, e ce n’erano altri due), i marangoni46, il cui nitido lavoro eseguito tra nitide superfici mi sarebbe piaciuto fare; c’erano i beccari47 che malmenavano quarti di bestie e frangevano ossa coi coltellacci, i munari 48 impolverati, i fornari che lavoravano nelle ore piccole della notte, e chi si alzava a quell’ora poteva affacciarsi alla porta e chiedere un pezzo di pane fresco, come accadde una volta a mio padre, e quelli glielo davano, sagome col grembiule bianco contro le fiamme del forno, ma quando si voltavano si vedeva che il grembiule era aperto di dietro, e sotto erano nudi-infanti e mostravano la schiena liscia e i rialti del sedere luccicanti di sudore. C’erano i canolari, i mestelari, i bottàri, i priari, i carrari, i soccolari; c’erano i moletta erranti, e i careghet ta, e gli ombrellari, gli stramazzari, i

44 irrilevant: ingl., insignificanti, senza peso.45 mistri: venditori di ferramenta.46 marangoni: falegnami.47 beccari: macellai.48 munari: mugnai.

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mas’ ciari49, e insomma tutti gli altri. I barbieri erano anche sartori: mio padre ancora non riesce a capacitarsi che si possa vivere facendo solo il barbiere, eppure oggi vivono così, e mantengono la famiglia. Molti di questi mestieri sono praticamente scomparsi oggi, molti altri si sono modificati: l’altr’anno c’era ancora un forno a legna, ora non so. L’esistenza stessa di tutti questi mestieri, e il loro interpenetrarsi nel paese, dava varietà e vivacità alla vita.

Le piazze e le strade erano la nostra agorà; la nostra lingua, a differenza di quella attica50, non si scriveva, ma era ricca e flessibile, e con essa si riproduceva come in uno specchio di parole il quadro rallegrante di una vita fatta non solo di triboli, ma anche di incontri, di avventure, di capricci alati, di riflessioni, di liberi eventi.

[La Compagnia dei ragazzi del paese]XX

Il luogo che si chiama il Feo, sul ciuffo dei monti, qua sopra Monte di Malo, non ci pareva facesse parte del mondo: era un assurdo pregiudizio, ma secondo noi ci abitava una schiatta primitiva di uomini, con le loro capre, le donne, i bambini e le galline. C’era inoltre un prete, una scoletta, un’osteria, e una volta all’anno la sagra.

Da ragazzi noi ci andavamo però anche d’inverno, a sciare, e un anno che c’era molta neve restammo parecchi giorni. Si usciva in zoccoli dall’osteria, di notte, per andare alla casa disabitata dove dormivamo; c’era la luna, la neve alta pareva color rosa, e scricchiolava sotto gli zoccoli.

Fu una settimana irreale. Il Feo era un paradiso ghiacciato, i sensi increduli divoravano il giorno frizzante, l’abbaglio del cielo notturno. La meraviglia diventava riso convulso; rifatti bambini, indistinguibili l’uno dall’ altro, i quattro ragazzotti risero tutta la settimana.

Per andare a letto ci si imbacuccava con sciarpe, passamontagna, guanti di lana. Eravamo in cinque nella camera: noi quattro (io, Mino e i due Bruni) in un gran letto; e il maiale nel suo recinto in un angolo. Pisciavamo sul maiale arrampicati sopra lo steccato. Bersagliato dai getti dei fantasmi imbottiti, agitati da quel perpetuo ridere, grugniva senza arrabbiarsi, e al lume della candela lo si vedeva fumare.

Questo sentirsi insieme, e contenti, è supremamente importante. Si profilava tra gli amici abituali uno schema di rapporti stabili; gli amici diventavano una Compagnia. Pareva di essere non solo al centro del mondo, ma investiti di un privilegio speciale.

Per i ragazzi di un paese la Compagnia è l’istituto-madre. E’ un’associazione libera, un club senza sede e senza regolamento, ma i suoi legami sembrano in quegli anni più forti di ogni altra associazione naturale o tradizionale. Sorge ovviamente tra vecchi compagni di scuola, vicini di contrada, coetanei; corrisponde alle varie generazioni, anzi è uno dei modi fondamentali di contare le generazioni in paese.

L’altro modo è la classe di leva, “la calasse”, la quale è parte riconosciuta della personalità di un uomo; come si sa il suo nome, tutti sanno la sua classe. Chi è Gigio Urta? È il lattaio figlio, quello che giocava con la Colomba sul prato, che è dell’undici; Nano Busa intanto, che è del dodici, giocava colla Dosolina, e noi che avevamo osservato il gioco lo andammo a descrivere alla mamma. La mamma disse: “E cosa vi interessa a voi, pettegoli?”. Aveva ragione anche lei, però ci interessava. La Colomba era bianca, prosperosa e ben fatta, la Dosolina magra e graziosa. La prima classe che io ricordo bene è quella del sette, ricordo anche distintamente che a suo tempo l’avvento di quelli dell’undici mi fece sentire la minaccia del tempo che divora le genera zioni; mi parve un cattivo scherzo della vita che questi ragazzotti dell’undici andassero già coscritti; quando andarono quelli del dodici mi arresi, e da allora non ci ho più pensato, benché ogni anno mi sorprenda quello che vedo scritto sui muri.

Ma ciò che dà più vivo il senso delle generazioni è la suddivisione per Compagnie. Ciascuna Compagnia ha un suo raggio anagrafico, forse di una mezza dozzina di anni, e c’è relativamente poca sovrapposizione ai margini; gli amici si raggruppano attorno a due tre classi centrali determinate probabilmente dal caso. Si forma una piccola costellazione compatta, e sopra e sotto si ha il senso del vuoto. Con le compagnie precedenti e

49 canolari... mas’ciari: fabbricatori di cannelle per le botti, di mastelli, di botti, cavapietre, carrettieri, zoccolai, arrotini ambulanti, seggiolai, ombrellai, materassai, produttori di salumi e carni insaccate (mas’cio = maiale).50 attica: lingua parlata nella regione di Atene nell’antichità; greco classico.

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successive si hanno scarsi rapporti: sono formazioni extra-galattiche, di cui possiamo appena distinguere la struttura generale, e giudicare che è simile alla nostra.

Negli anni dell’adolescenza e della gioventù la Compagnia è l’istituzione più importante di tutte, l’unica che sembra dar senso alla vita. State insieme con gli amici è il più grande piacere, davanti al quale tutto il resto impallidisce.

“Il tempo che si trascorreva lontano dagli amici pareva sempre tempo perduto,” dice mio fratello. Andare a scuola, fare i compiti, erano attività in sé né belle né brutte, ma sgradite perché consumavano tempo; si sciupava tempo perfino a mangiare alla tavola di casa. Appena possibile ci si precipitava “fuori”, ci si trovava cogli amici, e solo allora ci si sentiva contenti. Per questo verso nessun’altra esperienza successiva può mai essere altrettanto perfetta. Il mondo era quello, auto-sufficiente, pienamente appagato. Se si potesse restare sempre così, non si vorrebbe mai cambiare.

Di queste forme di associazione tra i giovani la società urbana moderna è oggi molto più conscia: non solo si ammette ufficialmente che esistono, ma ci si rende conto della loro importanza, e le vediamo studiate, descritte e rappresentate. Invece nella nostra società paesana non era così; tutti vedevano che c’erano le Compagnie, ma le consideravano un accidente marginale.

Eravamo inquadrati in varie altre associazioni e istituzioni riconosciute: messi per così eravamo i giovani dell’Azione Cattolica, messi per così la gioventù del regime; c’erano poi la famiglia e la scuola. Ma l’influenza di tutte queste belle cose era superficiale di fronte a quella esercitata dal gruppo dei propri compagni di elezione.

In essenza la Compagnia era una libera associazione coi propri pari; normalmente non c’era un pecking order51, e non c’erano veri capi. Le varie capacità di ciascuno erano bensì conosciute e apprezzate, ma il requisito fondamentale era quello del piacere di stare insieme da pari a pari: o c’era questo piacere, o non c’era; e quando c’era, le doti e i difetti personali diventavano cose secondarie.

Tutto questo vale soprattutto per il nòcciolo centrale della Compagnia, ma come altre società di uomini liberi, anche questa si creava attorno delle strutture complementari che ammettevano gradazioni e differenze. Stabile al centro c’era il piccolo nucleo compatto di membri perfetti, Mino, Ampelio, i due Bruni, Guido e qualche altro: la massa era qui, un fitto aggiramento reciproco di inseparabili protoni. Attorno con orbite più larghe, roteavano i membri associati, più numerosi e partecipi solo saltuariamente e con meno completa intimità. (...)

E che cosa si faceva insieme? Qualunque cosa, quello che suggeriva il capriccio, l’ora del tempo, la stagione.Nelle sere d’estate dalla strada che mena in Castello, guardando a destra nei prati oltre il torrente, le famiglie

a passeggio vedevano baluginare al livello dell’erba effimeri globi di luce. Non lucciole, non fuochi fatui: parevano piccoli spari estivi...

Là dove il greto del torrente si mischia colla spalla tenera dei prati, gli amici supini in fila sollevavano in aria le gambe, l’ilota52 inserviente preparava i fiammiferi, dava sottovoce il segnale. A turno davanti a ciascun giacente lampeggiava una fiamma bluastra.

La Compagnia non ha fini pratici, è un modo di essere: ma naturalmente i soci tendono anche a fare insieme molte cose specifiche, lo sport, gli svaghi, e soprattutto la pursuit53 del sesso. In pratica quest’ultima diventa a un certo punto l’attività più importante della Compagnia, e la sua principale funzione.

Io non conosco a fondo la storia della Compagnia nel momento in cui si cristallizzò in questo modo, e per così dire si specializzò, perché ero solo saltuariamente in paese negli anni cruciali; ma so tuttavia qualcosa. Non c’è dubbio che nella formazione dei miei amici la Compagnia è stata per questo verso l’agente più importante. Nella Compagnia - in bene o in male - si acquista la propria educazione sessuale, e si plasma quella parte del carattere di un uomo che dipende dal sesso. Per questo rispetto la Famiglia, la Scuola e la Chiesa contano assai meno.

La pursuit collettiva del sesso fornisce una scala di valori che in teoria consentirebbero di ridimensionare radicalmente la personalità dei soci. Raramente però il risultato differisce molto dal precedente ordinamento di

51 pecking order: ingl., alla lettera, “ordine di beccata”; l’espressione, derivata dallo studio del comportamento sociale degli animali, è usata anche negli studi della società umana per indicare la gerarchia dei privilegi tra i membri di un gruppo.52 ilota: in senso proprio, l’ilota era il lavoratore coatto della terra, infimo grado della società spartana nella Grecia antica; qui, in opposizione ai “membri perfetti” della Compagnia, designa il membro gregario, che pur di partecipare al gruppo si adatta alle mansioni più umili.53 pursuit: ingl., ricerca, inseguimento.

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membri perfetti, membri associati e iloti. Chi è preso sufficientemente sul serio prima di incominciare a andare a donne, non è probabile che si riveli poi inetto con le donne, perché l’impresa ha un carattere cooperativo e associato che riduce i rischi della timidezza e della goffaggine. D’altro canto i membri imperfetti e gli iloti tendono a incappare in vari infortuni proprio perché partecipano meno pienamente dei vantaggi dell’azione collettiva.

L’istituto-madre, l’asilo, il grembo. Si sta bene qui, si giace stravaccati tra le gambe delle sedie, incrocicchiati alla rinfusa colle ragazze. Con storto passo si risalgono le pontàre* dei sofà, si esplorano strapiombi di galloni. Le luci sono velate, le voci sommesse: la chioccia della Compagnia cova la sua nidiata. È sabato, si può stare fino a tardi, domani si va a messa ultima.

La Compagnia è sostanzialmente un istituto maschile, ma ha di solito il suo complemento di tose-fisse54, ausiliarie reclutate tra le bambine con cui si giocava da piccoli, cugine, compagne di scuola, vicine di casa, coetanee un po’ più giovani. Mentre la Compagnia funziona giorno e notte, le ausiliarie s’aggregano prevalentemente alla sera per i passeggi o le sedute in gruppo, e inoltre alla festa e nelle gite.

Collettivamente sono trattate come socie e amiche, ma individualmente si specializzano. Protetta dalla natura associata del suo rapporto coi maschi, sotto le ali della Compagnia la tosa-ausiliaria può permettersi libertà che altrimenti avrebbero conseguenze sociali irreparabili: così prova senza impegno con questo o con quello finché il giro si ferma e alcuni restano cubiati**.

Tra le ausiliarie ce n’erano di belle e spericolate; c’era una moretta riccioIuta che letteralmente militava nella Compagnia, la concepiva come una milizia, una specie di naia; e una bionda che prediligeva il lato avventuroso del servizio, si prodigava in brevi e continue scaramucce, assai vivaci ma impostate con fondamentale praticità e serietà. Era una ragazza allegra, ma “soda” (...)

L’ausiliaria media è di statura regolamentare, piacente, modesta: superiore - in quanto tipo - ad ogni elogio. Naturalmente ce n’erano alcune di brutte, gli Strafànti (esserini che dardeggiano, leggeri e divertenti), e i Casuàli (oggetti o mobili ingombranti e sgraziati).

XXI

Ampelio nella Compagnia era uno dei tre o quattro più importanti, il più ricercato, quello che si vestiva meglio. Era anche il più tegnoso***. Chiudeva la benzina, arrivando in moto da Schio, molto prima della curva del Conte, per scolare a fondo il carburatore. Tutto era calcolato alla perfezione: il motore moriva a duecento e più metri da casa sua, e la moto continuava in folle giusto giusto fin sul portone. Il motorino della sua moto (fu tra i primi della Compagnia a motorizzarsi, subito dopo la guerra) viveva in uno stato perenne di strozzatura, alimentato dal più piccolo giglèr55 della provincia, con un forellino invisibile. Non c’è dubbio che a Ampelio pareva ancora una falla, un ventricolo squarciato; sognava un mondo felice, popolato di giglèr senza buco.

Era fatale che Cesco Pozzàn glielo smontasse in segreto, e ci trapanasse dentro un buco che era piuttosto uno sfondamento. Il motorino, disavvezzo a quella bobàna****, poppava di furia e faceva strani rumori come un ubriaco spolpo. Il serbatoio pieno durò un po’ meno di un chilometro e mezzo.

Si sa come sono questi tegnosi però: si sottopongono a qualunque fatica per sparagnare, ma poi ci tengono smodatamente alle proprie comodità. La vita di Ampelio era piena di mollezze razionate, di archetti***** sibaritici56. La sua moto era un aggeggino senza alcun pregio particolare, ma densa di specchietti; e Ampelio la teneva lustra, spolverata, immacolata.

Alla domenica portava la morosa a fare gite in montagna, e dove cominciano le salite, per non stancare il

54* pontàre: salite ripide, pendii. (N.d.A.)? tose-fisse: ragazze stabili. “Tosa” = ragazza in dialetto veneto.** alcuni restano cubiati: M cubià = accoppiato.*** tegnoso: avaro. (N.d.A.)55 giglèr: deformazione del francese “gicleur”, carburatore.**** bobana: abbondanza, specie non meritata. (N.d.A.)***** archetti: inganni, espedienti. (N.d.A.)56 sibaritici: estremamente lussuosi e raffinati; dall’antica città di Sibari, cui si attribuiva uno stile di vita particolarmente dedito ai piaceri.

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motore, la faceva scendere e proseguire a piedi, parte per scorciatoie parte spingendo nei punti più ripidi. Così fecero un sacco di gite senza tirare il collo alla moto.

I rapporti di Ampelio con questa morosa sono restati storici in paese. In sostanza lui non voleva né sposarla né mollarla.

In paese una ragazza deve far presto: ha tre o quattro anni di tempo (di solito prima dei venti o ventuno) per farsi scegliere da un moroso, e se sbaglia addio. C’è un periodo tra l’adolescenza e la prima gioventù in cui ogni ragazza è fresca, e le sue possibilità sono indeterminate. Quello è il momento di mirare il più in alto possibile (ma senza passare il segno) là dove si crede di poter tener duro durante l’inevitabile fidanzamento lungo.

La capacità di tener duro di una ragazza che sappia il fatto suo è sorprendente: all’inizio la presa è facile, il ragazzo è tutto un appiglio, ha fame e sete di quello che la ragazza ha da dargli; sconvenienze di ceto, differenze d’età, famiglie ostili, nulla basta a fermarlo. Ma in seguito comincia il lungo assedio: il ragazzo non è ancora sistemato, la famiglia non è disposta a muovere un dito, anzi spera che il pericolo passi (se non c’è dote, o almeno un mestiere, il pericolo è sempre giudicato grave). I due assediati resistono: lui fa la difesa passiva, sempre più rattristato, preso da una serie di abitudini che ogni tanto gli pare già di detestare. L’anima della difesa è lei, che non può arrendersi, e per lo più finisce col vincere: imbruttita, sfibrata, sale all’altare, in bianco. Da anni ne ha perduto il diritto tecnico, ma su questo nessuno sottilizza.

Questa è la vittoria della ragazza. Molto più raramente è l’uomo che riporta una vittoria equivalente su una ragazza scompagnata ma anche distintamente nubile (capita alle belle e timide per esempio), che comincia a sospettarsi la vocazione della zitella. Quando compare questa sindrome, accade talvolta che un uomo anziano, screditato, benestante, si precipiti sulla preda e la rapisca praticamente senza fidanzamento: spesso è un uomo veramente scalcinato, molto stupido per esempio, o fisicamente ridicolo. Questa è la vittoria dell’uomo.

Altre volte invece la ragazza resta semplicemente da maritare. Il moroso la pianta, e a chi è piantata dal moroso, se poi le va bene è un bel caso. Qualcuna prova mezzi extrapaesani, impiegucci in città, villeggiature solitarie; annoda qualche relazione ovviamente non opportuna, prova a chiudere un occhio, a consolarsi. Per lo più tornano a casa amareggiate e ormai squalificate del tutto, e fanno quello che fanno le più timide restate in paese: sposano il loro destino di sorelle non più nubili57, di zie, di figlie incaricate di badare ai vecchi. Le più indipendenti quando tutto il resto è perduto, si danno gratis a giovanotti famelici che vengono alla notte colle scarpe in mano, e si sentono in lotta coi cigolii delle porte, colle scale che scricchiano.

Che Ampelio non voleva sposarla era evidente. Lo capiva lei, lo capivano tutti. La cosa era già probabile dieci anni prima, da almeno cinque era diventata certa, poi scandalosa, poi assurda e surrealistica.

Sposarla neanche morto: guai però se lei, come fece più volte, prendeva il coraggio a due mani e diceva: “E va bene, facciamola finita”. Improvvisamente da dongiovanni incatturabile Ampelio diventava un agnellino disperato, e belava.

Lei provò ad andarsene senza dirgli niente. Ampelio arrivava in corriera, impomatato, disinvolto; sentiva dagli amici in piazza che era partita: e li sui due piedi, come punto dalla tarantola, si scatenava. “Dov’è andata?” diceva con le lacrime agli occhi; “me lo dovete dire, lo devo sapere, devo raggiungerla, deve tornare.” Appena raggiunta, appena tornata, si ricominciava.

Negli ultimi anni lei non aveva altra speranza che di riuscire a farsi sposare, per poter passare il resto della vita a fargliela pagare. Il loro legame di odio era ormai così profondo che non si poteva più distinguere da un profondo amore.

Notizie sull’autore

Luigi Meneghello è nato a Malo (Vicenza) il 16 febbraio 1922. Nell’adolescenza si trasferisce con la famiglia nel capoluogo, dove si iscrive al Liceo Classico “Pigafetta”. Dopo aver frequentato i primi anni di liceo, si ritira perché giudica gli studi “troppo lenti” e sostiene l’esame di maturità da autodidatta a 16 anni. Studia filosofia all’università di Padova e qui si laurea. Dopo l’8 settembre, aderisce, assieme ai suoi compagni sbandati, al Partito d’Azione. Nel 1947 fonda e dirige la cattedra di letteratura italiana presso l’università di Reading in Inghilterra. Il suo libro d’esordio, Libera nos a Malo (1963), racconta la vita del suo paese d’origine negli anni della sua infanzia e adolescenza e nell’impatto con le trasformazioni del

57 non più nubili: non più sposabili. “Nubile” è aggettivo o sostantivo derivato dal verbo latino “nubere” = maritarsi.

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dopoguerra. Una particolare attenzione è rivolta agli aspetti linguistici. La guerra e la resistenza sono i temi del secondo romanzo di Meneghello, Piccoli maestri (1964), da cui è stato tratto il film omonimo, diretto da Daniele Lucchetti (1998).

Dal 1980 divide il suo domicilio tra Reading e Thiene, dove all’inizio del 2000 si trasferisce definitivamente dopo la morte della moglie.

Il 26 giugno 2007 viene trovato morto, probabilmente stroncato da un infarto, nella sua casa di Thiene.