Nuovi arrivati

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Lojze Kovačič, "I nuovi arrivati", Zandoani, Rovereto 2013

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I nuovi arrivati

La scuola dell ’esilio

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A mia moglie Beba

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E continuò su questo tono a parlare soltanto di sé, senz’accorgersi che per gli altri quell ’argomento non era certo così interessante come per lui.

Lev Tolstoj, I cosacchi

Poiché questo non è un romanzo, purtroppo non posso cambiare nulla del

protagonista.

Epilogo della trilogia

Esiste un'indipendenza voluta da Dio. È quella di ogni individuo.

La testa sulle spalle la porta ciascuno per sé.

Alfred Döblin, Viaggio in Polonia

Interessante: che parola importante! Interessante non ci porta subito alla “pro-

fondità” opaca, affl iggente, familiare, non alle “madri”, soggiorno caro ai tedeschi.

Interessante non s'identifi ca aff atto con “divertente”. Lo si traduca alla lettera:

inter-esse, tra l'essere, cioè tra la sua oscurità e il suo bagliore.

«Olimpo dello splendore». Nietzsche.

Gottfried Benn, Doppia vita

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E così lasciavamo Basilea. Gerbergässli … rue Helder … Steinenvorstadt … Nadelberg … rue de Bourg. Era venuta mol-ta gente, a casa nostra, soprattutto poliziotti. Alcuni in unifor-me, altri in civile. Tra loro ce n’erano alcuni che assomigliavano a commercianti del centro, altri invece coi loro larghi cappelli di velluto nero sembravano dei volteggianti ballerini di varietà. Due di loro, attraverso Luisenplatz, scortarono noi e i nostri po-chi bagagli alla stazione. La gente si fermava a guardare. Attra-versammo il piccolo ponte sull’affl uente, proprio là dove non più di un’ora e mezza prima avevo giocato con dei ciottoli ingialliti ai piedi della grotta artifi ciale. Alla fi ne partimmo davvero … Addio, Basilea!

Eravamo in viaggio dall’una di pomeriggio. Io non facevo che andare dentro e fuori … su entrambi i lati del vagone, dai fi ne-strini si godeva un’interessante prospettiva su case e persone … In corridoio avevo un intero fi nestrino tutto per me. Ogni tanto la mamma mi gridava di non strusciarmici contro, per non in-sudiciarmi, e di rientrare nello scompartimento, dove lei e Vati1 sedevano con Gisela. Ma io non l’ascoltavo, mi vergognavo per lei … per non sentire la sua voce, premevo l’orecchio contro il vetro … Era il mio primo viaggio in treno … Del primo per davvero, quando a cinque anni ero andato con Vati alle terme di Urach e poi ero tornato a Basilea, ricordavo solo il rivestimento

1 Vati è il diminutivo della parola tedesca Vater (pron. fater), che signifi ca padre. Vati sarebbe quindi il corrispettivo dell’italiano papà, babbo [N.d.T].

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azzurro dei sedili dello scompartimento … Ora potevo vedere com’era Basilea in preda alle vertigini. Come una specie di gros-so serpente verdegrigio che volava all’indietro, metà rasoterra e metà per aria … e che poi fi niva risucchiato in una sorta di enor-me vortice là in fondo, frantumandosi in mille pezzi … una vera bufera, un uragano. Poi scorsi una sfera di vetro che lentamente fl uttuava nel cielo. Non riuscivo a capire se fosse la cupola della Mustermesse o quella della stazione ferroviaria centrale. Sotto il treno le case formavano una serpentina … ne riconoscevo alcu-ne, ma solo per le facciate che davano sulla via. Ciò che progres-sivamente svaniva dietro di noi, era più interessante di ciò che ci veniva incontro. Perciò tenevo la testa voltata da quella parte … L’aria vibrò sul tetto rosso a forma di stella di porte Saint Alban, sotto la quale avevo corso su e giù migliaia di volte … Adieu, adieu … poi mi apparve all’improvviso una lunga via, forse rue de la Couronne … con delle case tutte gialle per il gas o per lo zolfo … Al di là del fi nestrino, cominciò a innalzarsi gradual-mente la rete di un recinto, sempre più in alto, fi nché non ebbe invaso tutto il paesaggio e i numerosi campi da tennis rossi sullo sfondo. Un giorno io e Vati eravamo arrivati fi n lì per un sentie-ro infossato e, all’ombra, avevamo osservato due coppie giocare … Le immagini al fi nestrino si avvicendavano vorticosamente, come se i miei occhi si fossero moltiplicati … Ecco un turbinio di chiome di castagno … ma prima ancora di riuscire a percepire con chiarezza che crescevano su uno spiazzo di terra nera pieno di biciclette e panchine, già ero stato investito da grida, strilli, da uno sciabordio, un gorgoglio, e il vagone viaggava al di so-pra del bianco muro dell’Eglisee. In acqua c’era una moltitudine di gente che nuotava e giocava a palla, mentre altri bagnanti si accalcavano sulle scale e in cima al muro … Nella piscina non vedevo però la grande palla bianca con i manici, aggrappato alla quale – in compagnia di Margrit – avevo imparato a sgambet-tare nell’acqua. La vidi infi ne solo accanto al bordo, sull’erba, e una folla di braccia protese ad aff errarla … Ecco la bianca torre rettangolare con l’orologio e le bandierine appese alle funi … ma il tetto dell’Eglisee, tracciando un ampio arco, già sfuggiva al

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nostro vagone, mentre io con la coda dell’occhio riuscivo ancora a intravedere delle gambe su un tetto, dei piedi maschili … Poi gli alberi con le loro chiome nascosero alla vista quella piccola conca spensierata.

Fuori fa caldo, pensai con malignità, qui nel vagone invece c’è aria. Nel corridoio immerso nella penombra le tende sba-tacchiavano contro i fi nestrini e le porte … E proprio in una giornata così assolutamente normale, Dio aveva deciso di farmi fare quel viaggio in treno … lontano, lontano, nel paese in cui Vati aveva vissuto da bambino e poi più tardi da ragazzo. Lag-giù, dietro a quelle case, recinti e alberi che come una piogge-rella fi ne volavano a ritroso verso Basilea … dietro alle nuovole, dietro a quella superba montagna sempre irraggiungibile, per quanto la locomotiva tentasse di avvicinarsi … dall’altra parte di quei monti, avrei trovato tante cose adatte alla mia età, alle mie inclinazioni … non importava cosa, giocattoli o case, animali o persone, automobili o aerei. Neppure di notte mi sarebbe venuta in mente una cosa del genere … il paese di Vati non l’avevo mai neanche sognato, fi gurarsi se potevo immaginarmelo da sveglio … Vicino allo scompartimento di Vati e mamma, attiguo a un passaggio a fi sarmonica che attirò il mio interesse, c’era anche un gabinetto. Così minuscolo e buff o da sembrare la casa di uno gnomo. Mentre facevo la pipì, la tazza del water non smise un istante di traballare sferragliando irosamente, quasi che non volesse essere una tazza da water, ma piuttosto una caraff a da latte, una sedia o quantomeno un vaso … In fondo al vagone qualcuno aprì una porta, della gente si riversò nel corridoio … Attraverso la stretta apertura potei vedere i vagoni dietro il no-stro, simili a edifi ci ubriachi … La gente, eccitata come me, e allegra, portava valigie troppo ingombranti, troppo pesanti, di tessuto cerato giallo oppure gonfi e, rosse e laccate … I vestiti dei passeggeri emanavano un odore che assorbivo attraverso la pelle e i capelli. Che fortuna, poter viaggiare con dei tipi così spassosi, veri e propri zuzzerelloni … Un signore elegantissimo chiuse infi ne la porta e depose la propria borsa proprio nello scompartimento in cui sedevano Vati e mamma. Si mise accan-

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to al mio fi nestrino. Profumava di dopobarba e lozioni: sopra un odore, e sotto un altro. Indossava calzoni bianchi, una giacca austera, a righe, una cravatta rigida, rossa. Le sopracciglia e i baffi erano identici, folti e neri, al punto che avrebbero potu-to essere collocati sul viso in modo interscambiabile. Pareva un milionario o un gangster americano … per quanto avesse anche qualcosa del pugile, del cavallo addestrato o perfi no del carro armato mimetizzato. Al polso, che teneva appoggiato accanto al portacenere, aveva uno di quegli orologi che avevo già visto in qualche vetrina: sulla lancetta dei secondi beccheggiava tra-sversalmente una fregata verde. Mi sorrise, e io mi sentii così imbarazzato da non saper dove posare lo sguardo … lui allora mi sorrise di nuovo, scoprendo tra le labbra rosse e i baffi neri dei tasselli così bianchi, lustri e regolari che mi parve addirittura incredibile che potesse esistere qualcuno con denti del genere … A forza di sorrisi e ammiccamenti persi tanto tempo che l’im-magine al di là del vetro era già cambiata … Viaggiavamo in un cielo azzurro pallido, col sole in alto, in un angolo del fi nestrino, simile a una corona liquefatta. Apparvero poi, volteggiando, dei campanili di mattoni rosso scuro, alcuni più alti, altri meno, con coppie di santi e i tetti orlati di frecce e sfere … ogni campanile con una croce diversa. Il più grande era probabilmente quello della cattedrale, con la fontana nella quale mi piaceva sguazzare con l’acqua alle ginocchia. Ce ne stiamo andando, ce ne stiamo andando, canticchiavo tra me e me … All’improvviso si levò un orrendo fragore e sul fi nestrino dilagò un balenio di travi d’ac-ciaio, e sotto apparve il Reno con le venature scure delle onde … Vi galleggiavano lunghe, basse chiatte, che sotto i boccaporti chiusi trasportavano carbone fossile e carbone di legna per i ferri da stiro … Sul tratto superiore del Reno l’edifi cio bianco del Neptun sorgeva direttamente sull’acqua tra binari e tender, e dal fi nestrino dello scompartimento potei vedere anche il Mietlere-reinbrücke con la gente e i pilastri. Il rumore era così assordante che avrei potuto urlare e tirare calci alla porta senza che nessuno mi sgridasse … Sfi orai la porta, come in una specie di sogno pieno di rumore, avrei voluto dire qualcosa di speciale, ma dissi

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solo: «Wie wir schnell fahren»2 e tacqui deluso … Biascicai la canzoncina di Vati: «Mica Kovačeva, piva, nič plačava …»3, di cui comprendevo solo il cognome, simile al nostro … Quando quello strepito infernale cessò, ci avvolse il silenzio, quasi che il treno, tramutato in mongolfi era, dirigibile o aliante, lacerasse l’a-ria come seta, frusciando … e vennero dei cespugli, esili e appas-siti, delle casupole … Basilea stava curiosamente scomparendo da tutti i fi nestrini … quella casa di città era lì un istante prima, e ora al posto suo c’era già un colle. Quella sì che era velocità, mi metteva allegria … sentivo un ticchettio brioso sopra la nuca … stavo viaggiando, viaggiando attraverso un’immane sala, verso il paese in cui le stalle sono piene di cavalli, e io ne slegherò uno e cavalcherò fi no al fi ume per abbeverarlo … Lì ci saranno delle barche rosse su cui raggiungerò remigando la sponda opposta. Sui tetti mi attenderanno, pronti a decollare, dei biplani con i quali mi librerò nell’aria … al di sopra delle case e dell’acqua … e quando mi chiameranno per mangiare, atterrerò accanto al camino e scenderò in casa con una scala a pioli. Gli aerei che immaginavo erano quelli corti e panciuti che al luna-park usavano per fare le acrobazie, quelli monoposto con la cabina aperta … uno di loro, rosso, porterà il mio nome … mi ci farò un mucchio di belle gite, sorvolando stagni e sentieri di ghiaia nei parchi … Con me lì accanto al fi nestrino, il treno procedeva più velocemente che se l’avessi lasciato solo … Fuori ormai non c’era altro che verde e a momenti qualche albero pareva voler addirit-tura irrompere barcollando in corridoio, ma naturalmente non poteva. Ormai le gambe mi si erano intorpidite a forza di stare lì in piedi, e gli occhi … Quando il sole cominciò a tramontare … enorme tunica rossa … ritornai nello scompartimento.

Vati sedeva accanto al fi nestrino, ovviamente senza fare nulla tranne osservare e dormicchiare. Mamma era ancora comple-tamente fuori di sé … il viso e il collo arrossati, si agitava irre-

2 «Come viaggiamo veloci»3 In realtà il testo sloveno della canzone recita correttamente: «Mica Kovačeva, pila, nič plačala» che signifi ca «Mica Kovačeva ha bevuto, ma non ha pagato». [N.d.T.]

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