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numero 1 numero 3 numero 6 numero 4 numero 7 numero 2 numero 5 numero 8 rivista dell’associazione culturale di promozione sociale «il furore dei libri» - amici della biblioteca - anno iv - settembre/dicembre 2013 - quadrimestrale numero 9-10 il furore dei libri - editore ISSN 2282-8044 IL FURORE DEI LIBRI numero 9-10 2013

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∏In Questo Numero

Raccontare la storia Narrare il fantastico Liliana De Venuto Susanna Daniele

Speciale «Parole per strada - Terra mia»

A braccetto fra i guai umaniSandro Disertori

La biblioteca di Antonio RosminiRenato Trinco

Strumenti da leggere, strumenti da guardareDiego Cescotti

Nicotiana TabacumGiuseppe Maria Gottardi∑

conversazioni bibliofile – libro chiama libro – rinvenimenti – biblioteca mon amour lo scaffale – il mestiere di scrivere – musicobibliofilia – il furore del rock

e [tra libro e gioco] – libri di confine – parlando di libri – topi di biblioteca andar per biblioteche – promuovere lettura – promuovere cultura

notizie dal furore – l'ultima pagina

numero 1

numero 3

numero 6

numero 4

numero 7

numero 2

numero 5

numero 8

rivista dell’associazione culturale di promozione sociale «il furore dei libri»- amici della biblioteca -

anno iv - settembre/dicembre 2013 - quadrimestrale

numero 9-10

il furore dei libri - editore

ISSN 2282-8044

IL FU

RO

RE

DE

I LIBR

Inum

ero 9-102013

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 1

2editoriale

4Narrare la storiaLiliana De Venuto

14Raccontare il fantastico

Susanna Daniele

20Speciale

«Parole per strada Terra mia»

32A braccetto

tra i guai umaniSandro Disertori

Sommario

40La biblioteca di

Antonio RosminiRenato Trinco

44Strumenti da leggere

strumenti da guardareDiego Cescotti

52Nicotiana Tabacum

Giuseppe Maria Gottardi

Rubriche

68conversazioni bibliofile

J.Lemaitre, Les Vieux Livres

Giuseppe Maria Gottardi

72libro chiama libro

A Cheap BibliophileDavid Cerri

75RinvenimentiIncerto Autore,

De rerum iacturaStefano Tonietto

Articoli

80biblioteca mon amour

Un raro commento garbiano

Fabio Casna

84lo scaffale

Gabriele D’AnnunzioItalo Bonassi

92il mestiere di scrivere

Il peggior amico dell’autore

Gregory Alegi

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2 2013/9-10 IL FURORE DEI LIBRI

95musicobibliofiliaUn Tristano di guerra

Federica Fortunato

100il furore del rock

B. Springsteen & J. Steinbeck

Livio Bauer

113E

Leggere, giocare, imparare

Francesca GarelloCaccia al tesoro...

Livia Alegi

117libri di confine

I confini dei vecchi mondiPeter Disertori

120parlando di libri...

Colori e memoriaAnna Maria Ercilli

122topi di biblioteca

Scambio equo e solidaleRossella Saltini

123andar per biblioteche

La biblioteca dei Cappuccini

Giacomo Radoani

128promuovere lettura

La comunità che apprende

Adriana PedrazzaPrologo

Livio Bauer

131promuovere cultura

speciale concorsoLa Vallagarina

in prosa e in versi

137notizie dal furore

Eventi del Furore Per la prima volta con la RdF

143l’ ultima pagina

Stephane Hessel Carlo Andreatta

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 3

Editoriale

N umeri 9 e 10.Dicono che nella vita di un periodico ci deve essere

almeno un numero doppio, nel nostro caso il numero 9-10 coincide con la fine del primo lustro di vita della nostra Rivista e abbiamo pensato di celebrarlo con una copertina che rias-sumesse tutti i numeri finora usciti.

Scorrendo i personaggi che identificavano il tema principale (nel senso che era trattato dal primo degli articoli) si può cogliere la li-nea editoriale che ha distinto in questi anni la rivista del Furore dei Libri: indagare i mondi della lettura, dal thrilling del numero 0 al-le narrazioni di storia e di fantasia di questo stesso numero; condi-videre le scoperte che la passione di leggere ci permette di fare, sia-no le pagine ritenute perdute o inesistenti di un libro sulle streghe (n. 6), siano le parole morte della nostra civiltà (n. 2); assaggiare i nuovi sapori della scrittura con gli autori collettivi presentati sul n. 1 o immergersi nell’esperienza di un articolo a bivi, il primo mai ap-parso su una rivista italiana (n. 3); appassionarsi alle vicende umane di artisti noti attraverso i loro epistolari (n. 5). E ancora: ri-scoprire l’endecasillabo in un poema di più di 37.000 versi in otta-ve: l’Olimpio da Vetrego (n. 4).

Che almeno una di queste copertine vi potesse intrigare tanto da farvi aprire il fascicolo, e che almeno uno delle decine di articoli di ogni numero fosse di vostra soddisfazione e di gradimento cultura-le, è l’impegno che ci siamo dati. A voi giudicare se ci siamo riusciti.

Renzo Galli

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Narrare la storia

Riflessioni sulla scrittura di storia in Trentino

di Liliana De Venuto

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«Io presento questo scritto come una

storia, o se preferite come una favola, in cui il lettore potrà trovare esempi da

imitare o da scartare»

Cartesio, Discorso sul metodo

N on è infrequente che lo studioso di storia, impegnato in ricerche

di archivio per far luce su una serie di avvenimenti o su un personag-gio, quando si accinge a traspor-tarne le notizie per iscritto, ceda alla tentazione di rinforzare i dati documentali, generalmente aridi e scheletrici, con apporti soggettivi al fine di vivificare persone ed eventi. Vi è spinto da quegli echi che la lettura dei documenti lascia nella sua mente: immagini vaghe, emozioni e impressioni sensoriali, che finiscono a volte per dare corpo a una figura, a un volto a una voce, quasi; di qui il passo ad arricchire le gesta del protagonista di sentimenti ed emozioni, a vi-vificarlo come fosse persona realmente presente, è bre-ve.

L’autore, di conseguenza, attrezza la sua penna attin-gendo dalla letteratura e dalla narrativa in particolare mezzi espressivi più duttili: scompagina quindi, se-condo proprie esigenze inventive, la successione og-gettiva degli eventi facendo ricorso a flashback e anti-cipazioni; introduce dialoghi in funzione rappresenta-tiva e drammatica; ricorre a un’idea centrale o a un plesso di sentimenti per legare insieme fatti e dare ad essi un senso. La storia si fa in tal modo “fabula”, dota-ta di intrinseche finalità, che lo scrittore consegna ai lettori non senza un intento d’insegnamento. Non di-ceva Cartesio a conclusione del preambolo generale al Discorso sul metodo «Io presento questo scritto come una storia, o se preferite come una favola, in cui il let-tore potrà trovare esempi da imitare o da scartare»? E,

se anche non mira a immediate fi-nalità didattiche, la “novella” servi-rà a intrattenere: per una ragione o per l’altra si è sempre nel cerchio magico segnato da Scheherazade, che ogni notte raccontava una sto-ria al sultano Shahriyar “per non morire”.

Intersecatasi con la letteratura d’invenzione, la ricostruzione delle vicende realmente accadute pro-durrà un testo che, a seconda di co-me vengono dosati i due elementi – quelli documentali e quelli sogget-tivi – si configurerà come un’esposi-

zione storica letterariamente elaborata o un vero e proprio racconto di fiction.

Si conoscono esempi illustri di “storia rielaborata” che hanno dotato la letteratura di un genere di grande fortuna: il romanzo storico. Sull’argomento, preso nel suo insieme, si è sviluppata un’ampia e illustre saggisti-ca, che ha considerato tanto la produzione classica quanto quella moderna, fino alle propaggini del post-moderno (Margherita Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno, Lecce 1999); e ne ha esaminato le varie forme, com-prese quelle del romanzo “neostorico” (Giuliana Ben-venuti, Il romanzo neostorico italiano. Storia, memoria, narrazione, Roma 2012).

Considerata l’ampiezza di tale saggistica, non sembra opportuno affrontare il tema da questa angolatura; può essere invece di qualche utilità la riflessione su alcuni aspetti di esso con uno sguardo alla produzione trentina e a quegli autori che sono pervenuti alla scrittura del rac-conto a sfondo storico a partire da ricerche d’archivio.

narrare la storia

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N on mancano nell’ambito culturale della nostra regione opere storico-letterarie che meritano la qualifica di “romanzo storico”.

Si distinsero in questo campo i fratelli Agostino e Car-lo Perini, studiosi versati in varie discipline, fra le quali quelle storiche. Attingendo a fonti della storiografia trentina e di quella germanica, pubblicarono intorno alla metà dell’Ottocento racconti e romanzi, sullo sfon-do delle vicende del Principato fra tardo medioevo e prima età moderna. Agostino scrisse vari racconti: Fi-liberta Madruzzo, I signori di Gresta, Emma Delmonte, e un romanzo, Matilde di Nomi; Carlo compose I castellani del Trentino nel secolo decimo-quarto.

La figlia di Agostino, Car-lotta, seguì le orme del padre e dello zio nel comporre ope-re letterarie e nel condivider-ne l’ispirazione patriottica e romantica. Perciò scrisse can-ti in versi endecasillabi, nei quali popolarizzò figure e momenti della storia trentina, privilegiando le giovani don-ne vittime degli intrighi dei potenti. Emma dal Monte, Filiberta Madruzzo, Clara Particella sono al centro dei suoi componimenti più ispirati, svolti in versi di tono alto e colto: rispettiva-mente la prima è l’eroina della cantica I Bellenzani; le altre due sono invece le protagoniste di L’ultimo Ma-druzzo.

Alla fine dello stesso secolo Pietro Alessandrini, ispi-randosi alle opere dei Perini, scrive – o riscrive secon-do la propria sensibilità – Nostra di Gresta Castelbarco e Cornelia di Pergine.

Più variegata si presenta la produzione novecente-sca per sensibilità e orientamento ideologico. Nella prima metà del secolo si contano L’amante del cardi-nale (Claudia Particella) di B. Mussolini, romanzo

“d’appendice”, pubblicato a puntate sul giornale socia-lista «Il Popolo» nel 1910, e Irene d’Arco di Filippo Brunatti, uscito nel 1930.

S ebbene queste opere appaiano lontane dalle propensioni ed esigenze del lettore di oggi, una rilettura potrebbe offrire l’occasione per svilup-

pare alcune considerazioni sulla loro qualità e sulla ideologia ispiratrice, inevitabile riflesso del clima poli-tico coevo. A una rapida scorsa il blocco ottocentesco

appare permeato dalle idee li-bertarie del grande romanzo di quel secolo: affermazione dei diritti di scelta individua-li; preminenza degli affetti amorosi connessi alla volontà e alle inclinazioni del singolo; odio per il tiranno e per gli oscuri raggiri di corte che, nel caso del Trentino, s’identifica con la curia vescovile. Da ri-levare anche l’amore per le ve-dute paesaggistiche, che ven-gono tratteggiate con gusto romantico e neogotico; si leg-ga – per fare qualche esempio – il racconto I signori di Gre-

sta di Agostino Perini, là dove si raffigura il lago di Sant’Andrea come fosse lo scenario dei deliri di dolore e di morte della protagonista, la nobile Nostra di Ca-stelbarco.

Più strettamente attinenti alla situazione politica lo-cale sono lo sguardo verso la “patria” Italia e l’attesa della “redenzione” del Trentino dall’assoggettamento al “signore straniero”: molte ragioni erano dietro il mise-ro stato del Principato, non ultima l’ “infermo dominio dei vescovi” (I castellani del Trentino nel secolo decimo-quarto). Le vicende di Cornelia di Pergine, al centro di due romanzi comparsi nell’arco di appena un trenten-nio, servono egregiamente a “mettere in scena” questo plesso di sentimenti, giacché l’esaltazione dei membri

• ...il blocco ottocentesco appare permeato dalle

idee libertarie del grande romanzo di

quel secolo

liliana de venuto

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della famiglia Bellenzani, quali campioni di fedeltà alle libertà comunali, serve a far maggiormente risaltare gli intrighi messi in atto dai Tirolo-Asburgo per dominare sul Principato e, di contro, la subalternità ad essi dei vescovi trentini.

Questi sentimenti e idee erano d’altra parte condivi-si dai lettori, come confermano le sottolineature a leg-gera matita qua e là nelle pagine dei libri durante la let-tura, poste non a caso, ma nei punti salienti dove si ma-nifestano le idee e i giudizi dell’autore sugli avvenimen-ti e sui personaggi storici. Si vedano le note e le postille del lettore di I castellani del Tren-tino nel secolo decimoquarto di Carlo Perini (edizione del 1879, esemplare della Biblio-teca dei cappuccini di Trento, segnatura c-186 c 193), il quale – dopo aver segnato a matita i passi più partecipati del ro-manzo – nell’ultima pagina bianca del libro scrive: «Finito di leggere alle 5 ½ pom[eridiane] dei 30 aprile 1916, vigilia della mia parten-za pel servizio militare sotto le armi austriache! Mentre i Fra-telli combattono alle porte di Trento, per redimerla! Sil-vio Conci». L’intervento del lettore, tracciando con i suoi rilievi e chiose un parallelo “testo nel testo”, con-ferma ulteriormente il nesso inscindibile fra finzione letteraria e realtà – libro e vita – che si verifica nell’espe-rienza di lettura, anche di quella dei romanzi storici.

N ella produzione novecentesca questo in-treccio di idee e assetto politico si fa forse meno evidente. Se nel romanzo del Mus-

solini gli orientamenti dell’autore per le posizioni so-cialiste e anticlericali “incombono” ancora sulla trama e sui personaggi in modo pressante, nel romanzo del

Brunatti, Irene d’Arco, essi sono meno avvertibili a fa-vore di una maggiore “libertà” inventiva. L’autore mo-stra di apprezzare maggiormente il sentimento amoro-so nei suoi variegati aspetti fino a quelli prossimi al corpo e ai sensi; rivela spiccato gusto per l’avventura e le situazioni picaresche; tende infine a vivacizzare i ca-ratteri femminili, non confinandoli nei tradizionali comportamenti di passività, ma conferendo loro dina-mismo e inventiva quando dovevano contrastare le de-cisioni maschili a loro svantaggiose. Conserva ancora,

tuttavia, quale retaggio della tradizione ottocentesca, quel-la “presa di distanza” dal mondo nobiliare, cui fa da contrappeso la non celata “simpatia” per i personaggi “popolari”: guardaboschi, paggetti, guardiacaccia insie-me con le loro figlie e mogli; così come mantiene il gusto per le descrizioni paesaggisti-che, che – sparse qua e là – abbelliscono il testo con ve-dute montane e lacustri della zona gardesana tratteggiate con tono idilliaco.

Nei romanzi apparsi ai no-stri giorni – di cui si fanno soltanto alcuni nomi: La ro-sa su la spada di Maria Pellegri Beber, edito nel 1969 e ristampato nel 1989 col nome La rosa e la spada, Il ca-stello di Praga di Roberto Pancheri e Tre punti di rosso di Luisa Gretter Adamoli – l’ispirazione si fa ancora più libera, sì che non è facile accostare sotto una medesima etichetta autori molto diversi fra loro.

Per una possibile differenziazione fra essi si possono prendere in considerazione i rispettivi percorsi forma-tivi e le loro scelte stilistiche: se la Pellegri Beber e la Gretter Adamoli si caratterizzano per un’originaria vo-cazione letteraria, qualificandosi l’una quale autrice di testi per il teatro e per l’infanzia, l’altra per racconti di

• ...nella produzione

novecentesca questo intreccio di idee

e assetto politico si fa forse meno evidente

narrare la storia

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finzione e poesie, Roberto Pancheri giunge al racconto storico seguendo il cammino inverso: dalle ricerche di archivio alla storia rielaborata.

I l nome più celebre che viene in mente in propo-sito è Umberto Eco, saggista e semiologo, che nel 1981 pubblicò Il Romanzo della rosa; a lui si

può accostare – per percorso creativo e vicinanza di tempi – Laura Mancinelli, anch’essa saggista e filologa; questa pubblicò l’anno successivo I dodici abati di Chal-lant col seguito di altre rielaborazioni letterarie di sto-ria – Il miracolo di Santa Odilia e Gli occhi dell’impera-tore – che insieme formano la cosiddetta “trilogia me-dievale”. Nei loro romanzi lo sfondo – tempi e spazi – è quello del Medioevo, mentre la struttura narrativa si serve di espedienti letterari tipici del romanzo moder-no, precisamente del “romanzo giallo”, fra cui quell’iro-nia cosciente, che rende queste produzioni un piacevo-le divertissement.

Roberto Pancheri potrebbe essere accostato appunto a questi autori per l’iter percorso: dagli studi storici e di storia dell’arte egli è pervenuto alla rielaborazione nar-rativa delle conoscenze acquisite, utilizzando quegli

espedienti retorici indicati in apertura del discorso. La diversità dei percorsi – o forse un’intima ispirazio-

ne – spiega le scelte stilistiche compiute dai tre autori riguardanti tanto le forme narratologiche – sequenze temporali, fisionomia delle dramatis personae e loro contrapposizione in eventuali conflitti – quanto le scel-te linguistiche del racconto diretto e delle parlate dei vari attori.

Se il Pancheri si attiene – ancorché inconsapevol-mente – al principio della congruità storica, attribuen-do ai protagonisti idee e parole verosimili dal punto di vista della corrispondenza con l’effettiva realtà, le due su nominate autrici si mostrano meno sensibili a que-sto aspetto: danno maggiore rilievo ai risvolti affettivi delle vicende e inventano situazioni che obbediscono più alle ragioni del sentimento – di quello amoroso so-prattutto – che a quelle della storia vera; indulgono a movenze e situazioni che possono richiamare il rac-conto edificante, nel caso di La rosa e la spada, o il ro-manzo sentimentale nel caso dei romanzi della Gretter Adamoli. ❧

Liliana De Venuto

bibliografia

G. Lukács, Il romanzo storico, Torino, Einaudi, 1972

c. GinzburG, Postfazione a N. Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità

nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1984

G. Duby, Il sogno della storia, Milano, Garzanti, 1986

r. biGazzi et al., “I racconti di Clio. Tecniche narrative della storiografia”, in Atti del convegno di

studi Arezzo, 6-8 novembre 1986, Pisa, Nistri-Lischi, 1989

L. Fava Guzzetta et al., L’età romantica e il romanzo storico in Italia, Roma, Bonacci, 1988

M. Moretti (a cura di), “Storia narrativa, storia narrazione. Tavola rotonda con Hayden White”, in

Ricerche di storia politica, I, 2009, pp. 69-94.

liliana de venuto

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da Pietro Alessandrini, Cornelia di Pergine – Romanzo storico Secolo XIV, Borgo Valsugana, Tip. Marchetto, 1891

Al momento in cui comincia questa storia, una fanciulla dalle forme elette e dai capelli biondi come l’ oro ed un giovine cavaliere passeggiano lungo il viale om- broso del giardino attiguo alla signorile dimora situata verso il colmo d’ un pog-

gio che ha nome Moretta, poco lunge dalla vetusta borgata di Pergine. Le movenze della fanciulla appariscono mirabili per compostezza.La bocca sorride ingenuamente e l’ occhio celeste, specchio fedele di un’ anima innocente,

si volge limpido alla fronte del giovane e splendente di tanta dolcezza ed espressione, da non lasciar dubitare quale sia il legame che li tiene uniti in sì dolce famigliarità.

Prima di attendere al loro colloquio, sarà opportuno riferire chi fossero i due amanti.La gentil donzella era la figlia di Adriano discendente dai signori di Pergine, i quali sino

al secolo XII dominarono più da feroci feudatari che da dinasti nell’ antichissimo Castello di stile longobardo che torreggia ancora abbastanza conservato sulla cresta del Colle Te-gazzo, a ridosso di quell’ amena borgata.

Orfana in tenera età, ultima erede d’ un vistoso patrimonio, se il dolce riso delle carezze materne non avea rallegrato la sua infanzia, ebbe però la fortuna d’ essere circondata dal-le cure più che materne d’ una vecchia zia, la quale, sebbene avesse ricevuta una rigida educazione nel monastero delle clarisse che esisteva a Trento, pure era di modi pieni di squisita gentilezza, e in un dignitosi. Tuttavia nei momenti in cui le si porgeva l’ occasione di soccorrere chi n’ avea bisogno, diveniva l’ umile monachella tutta dolcezza, tutta bontà. E non è a dire com’ ella avesse il cuore aperto ad ogni affetto generoso.

Il giovane che camminava a lato della graziosa fanciulla era figlio unico di Gaudenzio, signore di Povo, uomo di eletto ingegno, e giureconsulto di vaglia. I Trentini, come perito nella dottrina forense, lo salutavano principalissimo, i consoli ricorrevano sovente a’ suoi consigli, pei quali mostrava tutti il lumi di uno spirito eccellente. Disinteressato com’ era, prestava volonteroso l’ opera sua nel cercare il pubblico bene anche come paciere nelle con-troversie, specialmente a favore dei poveri, quando non si aggirava pei monti occupato ai diporti della caccia, di cui era appassionatissimo e assai valente.

Donna Massenza, alla quale tredici lustri di età non aveano per anco ammorzato il brio de’ suoi occhi, e ser Gaudenzo erano legati da molti anni in amicizia, resa più stretta in-quantoché egli da molto tempo avea assunto l’ incarico di amministrare la vistosa sostan-za dell’ orfana Cornelia, per cui non è a meravigliare se ricambiavansi frequenti visite. Ogniqualvolta donna Massenza si portava nel castello del signore di Povo... [pagg. 5-6]

narrare la storia

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La posizione dei trentini già tanto critica per l’ improvvisa occupazione della Città e pel subentrato dominio dell’ ingordo straniero che assorbiva con prepotenza gli affa-ri d’ una terra non sua, disponeva arbitrariamente degli antichi diritti nonché dei

beni appartenenti al principato, quella posizione, ripeto, resa ancor più insopportabile per le estorsioni dei gabellieri e per le angherie della soldatesca, andò a peggiorare di gran lunga collo svilupparsi d’ un pestifero contagio che importato da alcuni Vascelli mercantili provenienti da Costantinopoli, dopo aver messo lievito in Sicilia e nella Toscana, dopo aver infierito nella Lombardia e nel Veneto, andò serpeggiando ora in un paese ora in un altro, finché arrivò ad apportare la costernazione e lo squallore anche nella città di Trento.

Infatti correva il giugno dell’ anno di grazia 1348 quando la malignità dello spaventoso mor-bo cominciò ad apportare la moria nelle topaie, nei tuguri delle famiglie più misere del popolo e nelle luride abitazioni degli ebrei che stanziavano per entro i quartieri più sucidi ed angusti della Trento di quell’ epoca. Sul finire dello stesso mese, la fatale malattia, si diffuse rapidamen-te e infuriò con terribile veemenza in ogni luogo della città mietendo vittime anche nelle case dei benestanti e nei palagi di quelle famiglie agiate e ragguardevoli che, nelle angosce del dub-bio, non aveano ancor risolto di fuggire al flagello col cercare altrove un più sicuro soggiorno.

L’ agitazione, il terrore, la confusione pe’ gli orrori apportati dalla fiera calamità erano al di là di quanto si potrebbe immaginare.

L’ andare e venire continuo di portantine, di lettighe, di barelle a cui si dava braccio per tra-sportare al Lazzaretto i colpiti improvvisamente dalla peste che si contorcevano gemendo sulle vie, nelle piazze, entro le chiese ove il popolo si affollava a calca, ovvero per raccogliere i lan-guenti e i moribondi levati, talvolta strappati forzatamente dalle loro abitazioni, il cigolio dei carretti che giravano ovunque, finché ricolmi di cadaveri ignudi venivano scaricati senza ese-quie entro le ampie fosse scavate nei cimiteri delle pievi, i fuochi prescritti qua e là dalle com-missioni sanitarie, sempre accesi e pronti a distruggere i cenci, i panni, le robe infette, la cam-pana che ad ogni istante suonava a morto, tutto questo lugubre, miserando spettacolo faceva mesto contrasto col mormorio delle voci confuse ai gemiti e ai pianti misti ai compassionevoli lamenti di quanti imploravano per misericordia, sovente indarno, i conforti spirituali, o le cure pietose, dei parenti, dei vicini, dei medici o di altri funzionari. Per lo imperversare della pesti-lenza le officine eran chiuse, ogni industria scemata e poco meno che perduta, cosicché la città e tutto il circondario non offrivano che tracce profonde della desolazione e della morte.

Ma la storia veritiera degli orrori apportati dal fiero e micidiale morbo bisognerebbe indovi-narla, qualora non si trovasse la narrazione contemporanea lasciataci per avventura da quel canonico Giovanni Da Parma che imparammo a conoscere nel settimo capitolo del presente racconto1.[pagg. 140-41]1 - L’ originale è in lingua latina e noi dobbiamo la traduzione a C. Perini che la riporta ancor più estesa nei Castellani del Trentino.

liliana de venuto

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Un pittore veneto alla corte di rodolfo ii

I l romanzo breve Nel castel-lo di Praga di Roberto Pan-cheri può essere conside-

rato un esempio di racconto stori-co letterariamente rielaborato.

L’autore, studioso di storia dell’arte, ha raccolto in articoli e monografie i risultati delle pro-prie ricerche sulla produ-zione pittorica e scultoria del periodo che va dal ma-nierismo al classicismo, non trascurando i contesti storici che ad essa fanno da sfondo e cornice.

Seguendo il filo condut-tore della genesi di un’ ope-ra d’arte – l’Adorazione dei magi, che l’artista veneto Paolo Piazza, alias frate Cosmo, di Castelfranco Veneto (1560-1620) dipin-se nella capitale boema per l’imperatore Rodolfo II di Asburgo – ne coglie i mol-teplici aspetti di creazione culturale, e insieme di pun-to d’incontro delle vicende personali del committente e dell’e-secutore.

I protagonisti della narrazione sono quindi due, il pittore e l’im-peratore Rodolfo II di Asburgo; ciascuno di essi si muove lungo i fili del proprio destino, e nei luo-ghi assegnati loro dal fato: il Vene-

to e Praga. L’autore, grazie ai pro-pri studi sulle accademie e le corti europee, ne disegna il profilo, se-guendo le tracce delle loro più profonde pulsioni: la ricerca della sicurezza e della “copertura” per l’artista; la brama dell’accumulo e della conoscenza per il sovrano.

Paolo Piazza si formò nelle bot-teghe di Paolo Veronese e di Pal-ma il Giovane, avviandosi alla professione di pittore in un’età non felice per la creatività artistica e per gli equilibri degli assetti so-ciali e politici europei. «La pittura veneziana – si legge nel libro – era

in mano ai figli e ai nipoti dei grandi»: Tiziano, Veronese, Bas-sano e da ultimo Tintoretto; a questa splendida generazione era succeduta una genia di continua-tori, «che dissipavano senza rite-gno il buon nome dei loro padri e congiunti, mascherando a fatica la

propria mediocrità». Il giovane apprendista ten-

tò la fortuna dapprima nella sua terra d’origine, la Marca trevigiana, poi a Venezia, senza tuttavia ottenere alcun riconoscimento. La scarsezza di committenza e una crisi e-sistenziale lo portarono a chiedere accoglienza ai frati cappuccini del convento del Redentore nella Giudecca. Qui fu accolto e prese il nome di frate Cosmo.

Ai primi del Seicento fu in-viato quindi, per disposizione dei superiori, nel monastero della famiglia dei cappuccini, appena eretto nella periferia di Praga sotto la direzione di

fra’ Lorenzo da Brindisi e dallo stesso governato; gli era stato affi-dato l’incarico di dipingere la vol-ta della chiesa conventuale, titola-ta a Maria Vergine degli Angeli.

Venezia e Praga sono dunque i poli geografici della vicenda, colte nelle luci corrusche dell’incipiente

narrare la storia

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età barocca. La Regina dei mari si mostrava ormai col volto di un’i-nesorabile decadenza: si aveva la sensazione che un’inevitabile «ro-vina materiale delle cose» incom-besse sulla città, e che per ogni dove si aggirasse, con «la sua fac-cia da teschio», la trista figura del patrizio Zuane Mocenigo, il dela-tore di Giordano Bruno (e forse di Pietro da Massafra, per la famiglia cappuccina fra’ Fabiano) all’In-quisizione. Bastava una frase mal detta, un atto inconsulto per de-stare sospetti forieri di nefaste conseguenze.

In questa situazione rovinava-no l’aspettativa di sicurezza e, in-sieme, l’aspirazione alla tranquilli-tà dell’anima, giacché, nel clima di diffidenza che si era istaurato nel-la città, «per le autorità civili e re-ligiose eretico poteva essere chiunque». Timoroso e incerto, l’aspirante pittore pensò dunque di chiedere “protezione” a una fa-miglia di religiosi nella speranza che ne avrebbe ricavato “copertu-re” ideologiche e commesse di la-voro.

Non meno sicura di Venezia e-ra Praga, anche se in modi e per ragioni differenti. La capitale boe-ma viveva gli anni febbrili prece-denti la Guerra dei trent’anni; tempi inquieti per la presenza di sette religiose in opposizione, che rendevano incandescente il clima che vi si respirava. Bastava un nul-la, perché divampasse un incen-

dio dalle proporzioni inimmagi-nabili, come in effetti avvenne. Hussiti, cattolici, luterani e utra-quisti si fronteggiavano, pronti a confliggere fra loro non solo con dispute teoriche, ma anche con proditori attacchi d’armi, attribui-ti immancabilmente dai respon-sabili alla parte avversa.

Sopra tutti regnava l’imperato-re Rodolfo II, figura che negli ec-cessi geniali e nelle stravaganze ri-dondanti racchiudeva e anticipa-va molti aspetti della civiltà secen-tesca: la smania collezionistica, ad esempio, che lo spingeva a racco-gliere intorno a sé le meraviglie della natura e delle arti, ma anche il desiderio di penetrare i segreti delle leggi che governano il mon-do e quelli insondabili che presie-dono alle creazioni artistiche. Per-ciò si circondava di artisti nonché di maghi e alchimisti, spesso di ciarlatani, ma anche di astronomi di chiara fama, quali Giovanni Keplero e Tycho Brahe. Numerosi furono i pittori che lavorarono per sua committenza e, tra essi, fra’ Cosmo da Castelfranco.

Questi dipinse per lui l’Adora-zione dei magi, una tela alta venti piedi di composita ispirazione quanto alla fattura: un impianto scenografico di ascendenza vene-ziana, dove confluiscono elementi di chiaro gusto barocco, quali la tavolozza cromatica eccentrica e figure capricciose di esotica ap-partenenza, copia di oggetti visti

nella Wunderkammer del Castello imperiale. Con la loro intrusione l’artista anticipava un genere, che nel nuovo secolo avrebbe incon-trato un ampio successo: la pittura delle vanitas.

Commistione ibrida, è eviden-te, lontana dalle auree leggi della pittura classica, ma significativa di una cultura e di un gusto che pro-cedeva «per addizione»: la ridon-danza piaceva agli uomini dell’età che si apriva, come la ricerca di i-nusitate combinazioni di spezie e di tecniche culinarie piace ai com-mensali amanti di mense abbon-danti. La ricerca dell’eccesso, a ben vedere, non rispondeva sol-tanto a una tendenza del gusto, ma rappresentava un mezzo col quale uomini di libero sentire po-tevano occultare pensieri eccen-trici e propensioni centrifughe, senza tuttavia negarli.

L’imperatore, evidentemente soddisfatto dell’opera del Piazza, gli chiese di dipingere nella cap-pella del castello scene raffiguran-ti il paradiso e l’inferno. L’occasio-ne offrì in tal modo all’artista di raffigurare, nel ciclo figurativo delle regioni infernali, i personag-gi considerati eretici dai cattolici, da Simon Mago a frate Ochino, il vicario dell’ordine cappuccino, che nello scandalo generale era passato alla fede luterana.

La tela dell’Adorazione dei magi non rimase nella capitale boema, trasmigrò a Vienna al declinare

liliana de venuto

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del sec. XVIII e approdò, per vie ignote, nella chiesa di Sant’Egidio a Gumpendorf, un sobborgo del-la città; di essa si dimenticò perfi-no chi ne fosse l’autore, fino a quando nel 1998 lo stesso Rober-to Pancheri lo identificò nel Piaz-za e, in un articolo dal titolo Pao-lo Piazza pittore rudolfino edito nella rivista «Arte Veneta» (n. 57, 2 (2000), pp. 42-50), ne attestò la paternità.

L’importante scoperta fu pro-babilmente all’origine della ste-sura del romanzo; alla sua rea-lizzazione hanno contribuito documenti di vario genere, co-me richiedeva la varietà stessa degli argomenti implicati. Quali fonti immediate d’informazione, si possono considerare gli anna-li e le cronache della famiglia cappuccina, diverse agiografie e perfino le carte di alcuni proces-si criminali celebrati nella Sere-nissima; quali testi remoti di ri-ferimento, si devono richiamare i numerosi trattati di pittura – a cominciare dalle Meraviglie dell’arte ovvero Le vite degli Illu-stri Pittori Veneti e dello Stato di Carlo Ridolfi – le biografie di artisti, i cataloghi e i compendi d’arte, che furono per l’autore i testi fondamentali di formazio-ne.

Quando questo bagaglio di co-noscenze affiora, le pagine del romanzo acquistano spessore e forza persuasiva.

Riguardo alla tecnica compo-sitiva, il Pancheri non si è limita-to a operazioni di “taglia e incol-la” dei contenuti documentali, ma ha applicato le regole della narrativa più sopra indicate, al fi-ne di conferire plasticità dram-matica a persone e avvenimenti reali; in primo luogo l’assunzione di un “punto di vista”, col quale sistemare i fatti. Tale focus narra-tivo si può identificare nel moti-vo della “dissimulazione”: arte che permetteva di «dimenticarsi della verità» e di vivere fra gente che pensava diversamente, pur serbando integro nel fondo dell’a-nimo il nucleo più autentico delle verità personali. Teorizzata da Torquato Accetto nella prima metà del Seicento, la dissimula-zione, detta “onesta” in quanto consentita, costituiva una scelta obbligata per molti uomini che ebbero la ventura di vivere nei se-coli della Controriforma, quando le angustie di una società chiusa e perfettamente controllata impe-divano ai singoli di prendere fu-ghe liberatorie.

Quest’arte è forse oggi meno menzionata a livello di comuni-cazione corrente, anche se non è meno praticata in diversi contesti della realtà sociale, giacché da questa non sono scomparsi del tutto i meccanismi della censura e della esclusione. [l. d. v.]

roberto Pancheri Il passaggio dalla composizione propria-mente saggistica alla narrazio-ne letteraria si è avuto dappri-ma con il libro-inchiesta Il gioca-tore di diabolo – apparso a Roma in due edizioni presso la casa editrice Il filo, 2008, 2011 – nel quale egli ha ricostruito la vi-cenda del furto dell’Indifferente di Watteau avvenuto nel Louvre l’anno 1939; in seguito con il ro-manzo La Venere di Hayez, usci-to per l’editrice Curcu & Geno-vese nel 2010. In questo l’autore, prendendo lo spunto dalla commissione del quadro omo-nimo al celebre pittore venezia-no da parte del conte Girolamo Malfatti, ultimo esponente di un antico casato trentino, si sof-ferma principalmente sulla mi-steriosa modella del dipinto: la ballerina Charlotte Chabert, in vero non nota alle cronache te-atrali del tempo, come si precisa nella nota introduttiva al ro-manzo. Fa da sfondo storico al-la vicenda la città di Trento di primo Ottocento, ancora tutta racchiusa nelle sue mura di ori-gine medievale. Il lavoro gli è valso, nello stesso anno della stampa, il premio “Mario Solda-ti” per la narrativa, conferito an-nualmente dal Centro Pannun-zio di Torino. Pancheri ha da ultimo pubblica-to nel 2012, sempre per la Curcu & Genovese, il racconto Nel ca-stello di Praga; nel 2013 l’opera si è aggiudicata il secondo posto, per la narrativa edita, del Pre-mio Letterario Casentino, confe-rito dal Centro Culturale Fonte Aretusa di Arezzo.

narrare la storia

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di Susanna Daniele

Raccontare il fantastico

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raccontare il fantastico

D al bianconiglio al gat-tonero, dall'unicorno al mostro marino, dal-

la vergine morente al vampiro, dalla casa infestata da inquietanti presen-ze al mistero della camera chiusa, il Fantastico è forse il più grande con-tenitore delle rappresentazioni oscure, strane, terrificanti che agita-no da sempre l' animo umano. Esi-ste quindi una trasversalità del fan-tastico che non appartiene a un solo periodo storico o a una particolare forma letteraria. Non traccerò quindi un excursus della letteratura fantastica italiana dell' 800 ma cercherò di coglierne le caratteristiche fondamentali e di capire la ragione per la quale in Italia ebbe scarso seguito. Nell'ultimo paragrafo tenterò di individuare un nesso fra fantastico e giallo.

Origini di un genereNelle mappe antiche, quando si doveva rappresenta-

re una terra sconosciuta, si raffigurava un essere mo-struoso oppure si scriveva: hic sunt leones. Era un mo-do per rappresentare il terrore del non-conosciuto. La letteratura fantastica, proprio perché espressione di uno dei più forti sentimenti umani, la paura, ha anti-chissime origini. Alcuni critici le hanno intercettate nei racconti di fantasmi di Plinio e Petronio; tutti sono concordi nel sostenere che è nella seconda metà del Settecento che i semi del Fantastico cominciano a ger-mogliare. Settecento secolo dei Lumi e della Dea Ra-gione, secolo delle grandi scoperte scientifiche e dell' applicazione alle tecniche che migliorano il lavoro umano, ma anche secolo in cui cominciano a fare ca-

polino le teorie del mesmerismo, dell' ipnotismo, dell' esoterismo, senza dimenticare la curiosità nei confronti dell' occultismo.

Il racconto fantastico, così come lo concepiamo noi, nasce in Ger-mania fra la fine del ' 700 e l' inizio dell' ' 800, e la forma breve è consi-derata fin da subito la forma ideale perché permette di mantenere la tensione per tutto il tempo della lettura.

I temi in parte sono anticipati nel romanzo “gotico” inglese della seconda metà del Sette-cento e costituiranno poi la fonte che alimenterà tutto l' immaginario fantastico dei Romantici, forti della ri-scoperta del medievalismo e delle tradizioni e leggen-de popolari. I racconti fantastici della prima metà dell' Ottocento prenderanno il nome di “racconti alla Hoffmann”.

Il debito del racconto romantico nei confronti del racconto settecentesco francese, secondo Calvino, è duplice: il gusto del “meraviglioso” da una parte e lo stile ironico e tagliente dei contes philosophiques di stampo voltairiano. Scrive Calvino nell' introduzione all' antologia Racconti fantastici dell' Ottocento: “…il suo tema è il rapporto tra la realtà del mondo che abitiamo e conosciamo attraverso la percezione, e la realtà del mondo del pensiero che abita in noi e ci comanda. Il problema della realtà di ciò che si vede … è l' essenza della letteratura fantastica”1. L' uomo sente il bisogno di percorrere nuovi sentieri della conoscenza che riguar-dano la realtà esterna ed interna.

Nasce il tema del doppio, dello specchio che ritrae 1 - Vol. 1, Milano, Mondadori, 1983, p. 5.

...noi siamo della stoffa di cui sono fatti i sogni;

e la nostra piccola vita

è cinta di sonno

Shakespeare, La tempesta, IV (158-160)

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susanna daniele

Altro, il non visibile. Nascono anche i temi, del Diver-so che improvvisamente irrompe mostrando un aspet-to terrorifico della realtà, fino a quel momento scono-sciuto o semplicemente ignorato.

La forma letteraria preferita è quella del racconto breve o short story che da quel momento ha avuto grandissimo successo. In Inghilterra prenderà il nome di gothic novel, in Francia avremo i contes fantastiques, gli Stati Uniti conosceranno le short story di Poe e Hawthorne che, peraltro, non godranno di fama pari a quella che conferì loro l' Europa. È stato lo stesso Poe a teorizzare i motivi della preferenza verso la forma bre-ve: per lasciare nel lettore un' emozione profonda la storia deve essere letta in un' unica sessione. La tensio-ne, la suspense, non può essere tenuta alta a lungo.

Concezione moderna, ancora condivisa da chi scrive racconti di horror, gialli o noir.

È Poe, scoperto, tradotto e diffuso da Baudelaire a partire dal 1848, il maestro indiscusso di un genere che passando dalla Francia si affermerà in tutta Europa.

Classificazione del racconto fantasticoLa critica del ' 900 ha cercato di definire i confini del-

la letteratura fantastica, come gli antichi cartografi, creando delle classificazioni. Mi limiterò a ricordarne alcune.

Calvino, nell' introduzione ai Racconti fantastici dell' Ottocento, suddivide i racconti contenuti nella rac-colta in due categorie: quelli classificati all' interno del “fantastico visionario” che appartengono alla prima parte del secolo XIX, e i racconti del “fantastico quoti-diano”, cronologicamente appartenenti alla seconda parte del secolo.

I primi raccontano “ciò che si vede”, ovvero mettono in primo piano una suggestione visiva. Così apparizio-ni spettacolari e sconvolgenti turbano gli animi dei let-tori. Si tratta dei racconti di Hoffmann, Scott, Balzac, Hawthorne e Gautier.

Nella seconda metà del secolo invece il “fantastico quotidiano” è quello del caposcuola Poe, ma anche quel-lo di Dickens, Maupassant, Bierce e James; è un fantasti-co meno spettacolare ma proprio per questo forse anco-ra più terrorizzante: il lato oscuro è tutto interiore.

Edgar Allan Poe fu maestro in tutte e due queste clas-sificazioni: alla prima appartiene Il crollo della casa degli Usher e alla seconda Un cuore rivelatore.

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Nel complesso, è l' Ottocento a regalare i grandi “clas-sici” della letteratura fantastica: dal Frankenstein di Ma-ry Shelley, al Dottor Jekyll e Mister Hide di Stevenson, a Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu, vampiro femmina che precorre la nascita del vampiro Dracula di Stoker.

E in Italia?Il genere fantastico nacque in ritardo di decenni ri-

spetto ai paesi del Nord Europa, e si afferma, anche se marginalmente, a partire dagli anni ' 60 del 1800. Poe fu conosciuto in Italia attraverso la traduzione francese del 1848 di Baudelaire, suo grande estimatore. Sono i giovani della Scapigliatura lombarda e piemontese, co-me Arrigo e Camillo Boito e Igino Ugo Tarchetti, a rac-cogliere il testimone di un genere letterario in un' Italia in fase di raggiungimento dell' Unità nazionale in cui gli intellettuali e gli scrittori si dividevano fra Classici e Romantici e riflettevano sulla questione della neces-sità di una letteratura come impegno civile. A questo

si aggiunge anche la scarsa dimestichezza della lingua inglese da parte degli intellettuali italiani che non permette loro di entrare subito in contatto con le no-vità della letteratura anglosassone.

Leopardi stesso, nei Pensieri, affermava che nessun popolo crede meno agli spiriti degli Italiani e anche Alessandro Manzoni lasciava i fantasmi agli scrittori nordici, facendo prevalere nel suo romanzo una forma di realismo moderato, frutto di amore per il vero o al-meno per il verosimile. Possiamo concludere che al Romanticismo italiano è mancata la componente “go-tica” tipica del Romanticismo tedesco e anglosassone.

Con il tramonto della stagione della Scapigliatura l' esperimento del fantastico italiano non si estingue ma, come un fiume carsico, riemerge in autori consi-derati appartenenti ad altre correnti letterarie. Soltanto per citarne alcuni dei più conosciuti, Luigi Capuana, Giovanni Verga, Federico De Roberto, Salvatore Di Giacomo, Vittorio Imbriani, Antonio Fogazzaro, Ma-

raccontare il fantastico

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tilde Serao, Jarro, Emilio De Marchi. In particolare Luigi Capuana, nella sua lunga esperienza di novellie-re, tratterà il racconto fantastico in tutte le sue declina-zioni e Imbriani è considerato dalla critica un Gadda ante litteram per la sperimentazione linguistica.

L' esplosione del Fantastico avverrà nel ' 900 e attra-verserà tutti i generi letterari incontrandosi con le teo-rie psicanalitiche che in certo modo aveva intuitiva-mente anticipato. Dal Fantastico discende il poliziesco in tutte le sue forme e la fantascienza, entrambi gene-ri che bene rappresenteranno la destabilizzazione dell' Io, l' esperienza angosciosa e il prevalere delle for-ze oscure che hanno permeato il ' 900.

I “Misteri”Un filone letterario popolare che attecchì anche in Ita-

lia fu la serie dei cosiddetti “Misteri”. A dispetto del no-me, non ha niente a che vedere con la categorie del Fan-tastico. Si tratta di una forma di letteratura popolare a sfondo sociale che arriva in Toscana tramite le traduzio-ni di romanzi francesi considerati archetipi del genere popolare: I misteri di Parigi di Eugene Sue (1848), Il fab-bro del convento di Ponson Du Terrail (1873) e Il conte di Monte-Cristo di Alexandre Dumas père (1846). È “para-letteratura d' invenzione”, molto popolare anche perché pubblicata a puntate su giornali e riviste. Affronta i gran-di temi sociali del momento: l' estrema indigenza delle classi lavoratrici, la spaventosa condizione minorile, la contrapposizione netta fra gli onesti e i malvagi. Sono viaggi attraverso le “classi pericolose”, nei bordelli, nelle galere, nei bassifondi delle città. Ha un messaggio uma-nitario e moralista; non manca mai il finale consolatorio perché il Bene trionfa sempre. L' iniziale portata sociale del romanzo francese arriva in Italia molto edulcorata.

Dopo il 1860 in Toscana e a Napoli si assiste a un fiori-re di romanzi genericamente intitolati “I misteri”. Fran-cesco Mastriani, autore de I misteri di Napoli dice che “la smania d' imitare le cose francesi … fe' piovere Misteri da tutte le parti”.

Anche Collodi si cimentò ne I misteri di Firenze. Sce-ne sociali del 1857 tradendo la finalità moraleggiante

iniziale perché la sua cifra è quella dell' ironia. Argo-menta che scrivere “misteri” a Firenze è impossibile, poiché tutti sanno vita, morte e miracoli di tutti. L' ope-ra unisce alla parodia del genere dei “misteri” una ama-ra critica della società fiorentina, moralmente e politi-camente decaduta. “…se i vostri Misteri non sono mi-steri…; se il vostro romanzo non è un romanzo perché il romanzo sociale, a detta vostra, non può metter erba a Firenze; …si potrebbe almeno sapere …cosa inten-dete di fare con questo lavoro? Questo è un mistero: di-rò di più: questo è il solo mistero che si trovi realmente nei miei Misteri di Firenze…”.

Che Collodi, peraltro, non ignorasse alcuni temi cari al fantastico orrorifico lo si può notare dalla lettura di Pinocchio. Tutti abbiamo presente la figura del buratti-no che fugge dai suoi assassini cercando ospitalità nella casina bianca al limitare del bosco. Dalla finestra si af-faccia una bambina-fata che parla senza muovere le labbra: “Sono tutti morti, anch' io sono morta e aspetto la bara che venga a prendermi”.

Fantastico e gialloLo scrittore argentino Borges in un capitolo di Oral

dedicato al racconto poliziesco indica in Poe il caposti-pite degli autori di polizieschi con I delitti della rue Morgue. Auguste Dupin, primo detective della storia, è uno straniero, un gentiluomo francese molto strava-gante, che esce di notte per passeggiare nelle strade de-serte di una Parigi immaginaria. Il personaggio di Du-pin, che vive con un amico io narrante delle storie, è l' archetipo di personaggi fortunatissimi della letteratu-ra poliziesca di tutti i tempi come Sherlock Holmes e padre Brown. “Poe – scrive Borges – non voleva che il genere poliziesco fosse un genere realista, voleva che fosse un genere intellettuale, un genere fantastico… dell' intelligenza, non soltanto dell' immaginazione…”. Dupin quindi risolverà i delitti con il solo ausilio dell' intelligenza. La commistione fra fantastico e giallo continuerà ad esistere nella produzione di grandi auto-ri anglosassoni come Wilkie Collins, Charles Dickens, R.L. Stevenson.

susanna daniele

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Fra gli italiani va senz' altro ricordato come primo scrittore di polizieschi d' ambiente il napoletano France-sco Mastriani, autore de Il cadavere scomparso pubblica-to nel 1953 e riedito nel 2011 nella nuova collana Gialli Rusconi.

Altre origini ottocente-sche del poliziesco si pos-sono individuare in alcune opere di Jarro (alias Giulio Piccini), scrittore e giorna-lista amico di Carlo Lo-renzini, che crea la figura dell' abilissimo commissa-rio Lucertolo e pubblica una serie di quattro ro-manzi fra il 1883 e il 1884: L' ' assassinio nel Vicolo del-la luna, Il processo Bartel-loni, I ladri di cadaveri, La figlia dell' aria.

La figura del protagoni-sta, commissario Lucer-tolo, potrebbe essere pa-ragonata a quella di un Vidocq nostrano. Unisce elementi rocamboleschi a notevoli capacità prati-che. È, infatti, abilissimo nei travestimenti e scassinatore provetto e, allo tempo stesso, profondo conoscitore dell' animo umano ed

esperto chimico. L' assassinio nel Vicolo della luna è una vicenda avventurosa in cui l' identità dell' omicida si confonde con quella della vittima, dando luogo a un' originalissima trama densa di colpi di scena. Il ro-manzo si ambienta nei primi decenni dell' 800 in una

Firenze misteriosa come le ombre che s' annidano nei suoi vicoli.

Nel 1883 il piemontese Cletto Arrighi (alias Car-lo Righetti) dava alle stam-pe i noir La mano nera e Un suicidio misterioso. Ne La mano nera si narrano le vicende di un' organizza-zione criminale il cui in-tento è distruggere i “ric-chi” e il “capitale” per mez-zo di furti e omicidi. È un romanzo che usa in modo sapiente le tecniche della suspense e dell' intrigo, ma è al tempo stesso uno spaccato sociale della città e dell' epoca.❧

Susanna Daniele

BibliografiaRacconti fantastici dell’Ottocento, a cura di Italo Calvino, Milano, Mondadori, 1983Notturno italiano, 2 voll., a cura di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo, Editori Riuniti, Roma, 1985Fantastico italiano, a cura di Costanza Melani, BUR, 2009Enrico Ghidetti, Il sonno della ragione, Editori Riuniti, 1987Jorge Louis Borges, Oral, Editori Riuniti, 1981Giovanni Falaschi, Racconti fantastici dell’Otto e Novecento, Paradigma, 1988Ottocento nero italiano, Narrativa fantastica e crudele, a cura di Claudio Gallo e Fabrizio Foni, Nino Ara-gno editore, 2009

raccontare il fantastico

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20 2013/9-10 IL FURORE DEI LIBRI

con interventi di MariaLuisa Mora – Giovanna Sirotti – Lucia Debiasi – Stefano Tonietto III B Linguistico - Liceo «Rosmini» di Rovereto – II B Classico - Liceo «Marchesi» di Padova

Parole per strada 2013

Terra mia

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 21

Anche quest’anno con il tema “Terra mia” Il Furore dei Libri promuove l’interesse ed il piacere verso la lettura stimolando negli au-

tori invitati la consapevolezza che chi legge possa ar-ricchire le proprie conoscenze pensando “al plurale”, condividendo saperi e culture, con l’obiettivo ultimo di permettere al lettore di comprendere meglio se stesso e i propri sentimenti.

L’antologia, con i suoi 101 racconti brevissimi, vuol raggiungere tutti i lettori, sia quelli che amano legge-re molto, sia quelli che per vari motivi leggono meno.

Si propone inoltre alle diverse età ed è anche per questo che tra i propri autori adulti e professionisti nasconde dei giovanissimi che hanno scoperto il piacere della scrittura.

Non dimentica nemmeno i lettori di altra nazionali-tà e per loro propone un bel gruppo di scrittori di altro idioma, dando così ai cittadini di Paesi Terzi l’opportu-nità di partecipare pienamente alla vita della nuova comunità in cui son venuti a trovarsi.

Per un doveroso tributo alla nostra terra Trentina abbiamo invitato i figli dei nostri emigranti a scrivere il loro racconto sia in italiano che nella lingua del Pa-ese dove vivono. E qui le sorprese non sono mancate e lasciamo ai lettori il piacere della scoperta.

Tutto questo ha comportato un grande ed impegnati-vo lavoro alla redazione ed alla giuria, formata da ele-menti di diverse età ed esperienza dislocati in mezza Italia. Tra di essi abbiamo i ragazzi di due classi di isti-tuti superiori, un bibliotecario, una giornalista, due in-segnanti, la redazione di una casa editrice, un direttore di biblioteca, un assessore all’istruzione, un rappresen-tante de Il Furore dei Libri.

Tante persone collaborano al progetto di Parole per Strada ed è con tanto affetto che ringrazio il Direttivo, la Commissione organizzatrice e gli Autori, che ormai sento tutti amici.

Ringrazio inoltre le Istituzioni che con il loro contri-buto economico hanno permesso che questo progetto continui nel tempo ed è grazie anche a loro se Parole per strada è giunta alla quarta edizione.

MariaLuisa Mora

Non è impresa semplice la scrittura di un racconto breve. Occorrono spiccate capa-cità di sintesi, di rapida delineazione dei

soggetti e di sicura eliminazione del superfluo, occor-re una forte padronanza linguistica che eviti ogni vi-zio stilistico.

Un buon racconto è “soprattutto privazione”, sug-gerisce, confida nel lettore per completare i particola-ri tralasciati, suscita emozioni. Tutto un non-detto che genera forte complicità tra l’autore e il lettore indotto a completare, a sua discrezione, quanto solo accennato.

L’incipit stesso, tralasciando introduzioni esplica-tive, fa entrare, ex abrupto, in medias res, come dice Calvino.

Così come la conclusione può essere una non-fine, oppure aprire a infinite soluzioni: corrispondenza in-quietante con la mancanza di certezze e il disorienta-mento dell’uomo d’oggi.

Ancor più, se il racconto deve catturare l’attenzione di chi cammina!

Parole per strada lancia questa sfida: dare gambe alle parole perché rincorrano il passante e lo catturino in-vogliandolo a leggere.

Giovanna SirottiAssessore all’Istruzione e alla Condivisione dei saperi

Comune di Rovereto Membro della Giuria di Parole per strada

Presidente de Il Furore dei Libri

parole per strada 2013 - terra mia

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22 2013/9-10 IL FURORE DEI LIBRI

A settembre di questo anno ho incontrato il Furore dei Libri e il Concorso Parole per strada. Con gentilezza sono stata convinta

a partecipare, con la mia classe, in qualità di giurati, al concorso letterario.

È stata questa un’esperienza che ha arricchito la mia persona e mi ha fatto crescere professionalmente.

Ho sempre amato insegnare letteratura italiana no-nostante le molte difficoltà incontrate soprattutto a causa dello scarso interesse e motivazione che molti studenti di oggi dimostrano nei confronti della mate-ria. Anziché scoraggiarmi questa è stata per me una sorta di sfida. Il mio scopo è stato, ed è tuttora, quello di cercare di far capire come, attraverso la lettura gli stu-denti possano arricchire la loro cultura personale, con-solidare buone capacità e competenze linguistiche, ac-quisire una capacità critica e un’autonomia di pensie-ro e, non da ultimo, sentirsi, per una volta protagonisti.

Parole per strada mi ha permesso di fare tutto ciò.La consapevolezza che la scuola italiana sta viven-

do un momento delicato, la convinzione che la scuo-la deve essere antropocentrica, il mio personale timo-re di “addormentare gli alunni” mi hanno spinta ad ac-cettare la sfida.

Il lavoro è stato impostato in modo da sviluppare l’autonomia di lettura e di analisi, il confronto e la di-scussione, e, non da ultimo, la responsabilità di emet-tere un giudizio. Credo che tutto ciò li abbia arricchiti e li abbia fatti sentire partecipi di una bellissima espe-rienza culturale.

Grazie Furore dei Libri!

Lucia DebiasiDocente al Liceo “Rosmini” di Rovereto Membro della Giuria di Parole per strada

I l tema di quest’ anno, Terra mia, si presta ma-gnificamente alla metafora. Certo, in molti di questi racconti c’ è la terra nel senso più lettera-

le del termine: la campagna, sfondo frequente di un’ in-fanzia mitizzata, e insieme marca di appartenenza a generazioni ormai al tramonto. Il mondo rurale, da cui pure tutti proveniamo, appartiene alla memoria di chi ha vissuto gli anni arcaici tra le due guerre, quelli di privazione tra secondo conflitto mondiale e dopoguer-ra, fino alla ricostruzione e al boom economico che ha accelerato la fine del mondo agricolo ancestrale.

Mondo arcaico e arcadico, la campagna compare in questi racconti sovente attraverso l’ immagine dell’ albe-ro, emergenza ineludibile nella memoria di un’ infanzia a contatto con la natura, per quanto ostile e dura, ricorda-ta oggi con nostalgia. Da quest’ Arcadia rurale si deve fug-gire per la fame, per la miseria, per la mancanza di pro-spettive di lavoro: l’ emigrazione appare così sullo sfondo di molti racconti.

La guerra – quella mondiale per gli scrittori italiani, quelle balcaniche o africane più recenti nell’ esperienza di alcuni narratori stranieri – è insieme ricordo epocale e mo-mento traumatico di rottura. La guerra talvolta segna la fine del paesello d’ origine, talvolta la fine della Patria stes-sa. L’ emigrazione dai Paesi africani o asiatici o dell’ Est eu-ropeo diventa – nella prospettiva del lettore italiano – im-migrazione; e il grande tema virgiliano del dulcia linqui-mus arva si conferma eterno, universale.

Ma, come detto al principio, molti autori di questi racconti (talvolta bozzetti, talaltra mere considerazio-ni che esulano dalla forma narrativa) hanno scelto di interpretare Terra mia in chiave metaforica; e piace ri-cordare l’ albero solitario del racconto omonimo: in un cerchio che si chiude, si torna alla natura dell’ infanzia, alla campagna, da dove eravamo partiti… Da dove tutti siamo partiti.

Stefano ToniettoDocente al Liceo Classico “Marchesi” di Padova

Membro della Giuria di Parole per strada

parole per strada 2013 - terra mia

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 23

Quando ci è stato proposto di partecipare al con-corso “Parole per Strada” come giuria, entusia-sti abbiamo subito accettato poiché ci è sembra-

ta un’esperienza nuova e diversa dalle altre. Essendo a-bituati ad essere noi giudicati abbiamo colto l’occasione per capire cosa si prova a stare dalla parte di chi valuta.

Ci siamo resi conto che giudicare è più difficile di quanto si possa pensare, infatti abbiamo incontrato al-cune difficoltà poiché dare giudizi implica una gros-sa responsabilità. Anche l’organizzazione non è stata semplice dato che le opinioni erano molte e abbastan-za contrastanti.

Ma nonostante questo è stato soddisfacente riuscire a gestire tutto da soli, senza aiuti da parte dell’insegnante.

È stato bello vedere come i partecipanti hanno inter-pretato in modi diversi il tema di quest’anno, riferendo-si alla propria terra d’origine, altri ad un punto fermo della loro vita, quali un oggetto o una persona. La let-tura dei racconti è stata scorrevole e piacevole e alcuni che ci hanno particolarmente coinvolto, ci hanno por-tato a dibattiti e discussioni in classe.

Siamo comunque convinti che sia stata un’esperienza molto positiva e costruttiva che ci ha aiutato a miglio-rare la nostra capacità critica e organizzativa; per que-sto alla domanda: “Lo rifareste?” risponderemmo all’u-nanime “Sì!”.

Erzana: Un racconto che mi ha particolarmente colpito è “L’albero solitario”, dove un uomo racconta la sua vita, paragonandosi ad un albero, che “ha visto morire la spe-ranza di un verde futuro in cui affondare le radici” e che dopo aver già dato tutto non ha più nulla da offrire, ma che nonostante ciò, è riuscito a trovare un posto al sole dove stabilirsi: la sua terra. Questo racconto richiama una realtà purtroppo presente e diffusa al giorno d’oggi, e anche se consapevole di questo fatto, leggere questo racconto mi ha comunque impressionato. Andrea: Tra i racconti che più mi hanno colpita, c’è “Se-polti vivi”, in cui il protagonista Nadir lascia la propria pa-tria in cerca di fortuna. Il finale non è specificato, ma si ri-esce a capire che non ha un lieto fine e, aggiungendoci l’ot-tima fruibilità, posso affermare che ha avuto un forte im-patto sulla mia sensibilità. Rachele: Nonostante la varietà di racconti, alcuni mi hanno trasmesso maggiore emozione poiché da questi

trapelava con più sentimento l’amore e il rispetto per la propria terra. Giulia: Nonostante il racconto “Briru” non sia piaciu-to a molti, mi ha colpito per il suo finale triste e mi ha dato la consapevolezza che ci sono persone nel mondo che sono alla ricerca di uno spiraglio che possa salvarli dalla crudele realtà in cui vivono. Caterina: Uno dei racconti che più mi ha colpito ed emozionato è “14 agosto 1914, venerdì” in cui l’autore ri-esce a farmi rivivere emozioni che il personaggio prova, descrivendo l’abbandono forzato della propria terra. Un uomo costretto a lasciarla per salire su un treno, non sa-pendo quale sia la destinazione, consapevole solo del fatto che segnerà la fine della propria vita. Carolina: Personalmente mi ha molto commossa il racconto “Clandestino”, in quanto il protagonista espri-me le sofferenze delle sue speranze deluse, affrontando il problema della mancanza di lavoro, che proprio in Italia colpisce molti giovani. Nel brano infatti egli si paragona ad un cane randagio, il quale le sere viene morso dalla nostalgia e che con il passare del tempo sparge il suo cuore in ogni parte del mondo. Jessica: Mi ha colpito molto il racconto intitolato “Il pratosangiovanni” nel quale l’autore, con grande fruibi-lità, ha definito la sua terra attraverso una semplice im-magine in cui dei ragazzini facevano della birra con del-la liquirizia; un particolare ricordo della sua infanzia in perfetta attinenza al tema.

Erica Amistadi – Giada Andreolli – Andrea Bisoffi – Marta Bottesi – Emily Calabri – Carolina Cestarollo – Giulia Ciaghi – Giuseppe Francesco D’Amato – Martina Demozzi – Beatrice Francesconi – Erzana Hallidri – Jessica Martinelli – Denise Pancot – Alice Prandi – Layla Ulivieri – Caterina Viesi – Rachele Zambelli – Giorgia Zenatti

Classe 3 B Liceo Linguistico “Rosmini” Rovereto

parole per strada 2013 - terra mia

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24 2013/9-10 IL FURORE DEI LIBRI

parole per strada 2013 - terra mia

I sedici ragazzi e ragazze che hanno accet-tato di leggere e valutare i racconti fanno tutti parte della classe 2 B del liceo classi-

co “Concetto Marchesi” di Padova: frequentano il quarto anno e quindi stanno entrando uno do-po l’altro nella maggiore età.

Essi sono stati selezionati su un gruppo più ampio di 27 studenti, o, per meglio dire, si sono autoselezionati: infatti il primo criterio propo-sto dal docente per l’ammissione alla giuria era il semplice desiderio di farne parte. Un’esperien-za nuova per tutti, visto che a scuola sono soli-tamente oggetto di valutazione (temi, verifiche, versioni, test ed elaborati vari) e non giudici at-tivi di produzioni altrui, se si eccettuano le “ana-lisi del testo” inevitabilmente somministrate loro dai docenti in vista dell’esame di Stato. L’impe-gno è stato necessariamente casalingo, in quanto non era possibile né opportuno, con buona par-te della classe non partecipante, utilizzare le ore curricolari per organizzare e seguire il lavoro; si-milmente, il lavoro è stato condotto in modo in-dividuale, senza particolari momenti di condivi-sione di pareri e giudizi. In pratica, ogni studente ha lavorato come singolo giurato, in base ai pro-pri gusti e alla propria esperienza di lettore, ben-ché il giudizio espresso dal gruppo sia stato poi sintetizzato in un’unica tabella. [s.t.]

«Sono rimasta molto soddisfatta di aver par-tecipato a questa iniziativa. Leggere (e valuta-re) questi brevi racconti è stata senza dubbio un’ esperienza interessante e il tema “Terra mia” si è rivelato molto più profondo e ricco di spunti di quanto avrei mai immaginato». [Laura Piva]

Andrea Agbariah – Luca Barin – Elena Bortolato –

Rebecca Ciriolo – Beatrice Fenato – Diletta Filippi –

Giulio Fornaciari – Lorenzo Iannuzzi – Elena Lucchetta –

Alberto Michielon – Laura Piva – Orysya Ratalska – Sofia

Testa – Giulia Tiberio – Martina Tripaldi – Catalina Turuta

Classe 2 B Liceo classico “Concetto Marchesi”

Padova

TuTTi gli AuTori di PArole Per sTrAdA - TerrA miA

gregory Alegi – liviA Alegi – meriAm Al-ghAjAriAh

giorgio AnAsTAsio – AndreA Angiolino – WAllAce ArmAni

FAbio bAldi – rossellA bAldi – livio bAuer – elenA beloTTi

Febe – mArgheriTA berlAndA – iTAlo bonAssi – luigi brAsili

roberTo cAPrArA – viTTorio cArATozzolo – giusePPe cArmeci

cArlA cAseTTi – mATTeo cermusoni – dAvid cerri

mATiAs cimAdon rAmonA corrAdo – diAnA crisPo

nives crisToForeTTi – PelAgio d’AFro – livio dAlPiAz

dAvide dAniele – susAnnA dAniele igor de Amicis

mArcello de sAnTis – mArgheriTA de simone

PATriziA debicke – mArTinA dei-cAs – giAn lucA del mArco

emAnuele delmiglio – dAnielA desTeFAni – giorgio diAz

PeTer diserTori – sAndro diserTori – dAnuTA dobkoWskA

dorinA dumbrAvA – AnnA mAriA ercilli – ornellA FAiT

gAbriele FAlcioni – guido FAlqui-mAssiddA – lidiA FiliPPi

gilberTo gAgliArdi – dAvide gAlATi – FrAncescA gArello

kArin gelTen – vAnessA gioliTTi – giusePPe goTTArdi

mArco guArnieri – luigi guicciArdi – inPAginA

norberTo julini mArisA lAnzeroTTi – gordiAno luPi

PAolA mAlcoTTi – cArlA mAnnArini – giAcomo mAnzoni

Angelo mArenzAnA – TiziAnA mArgoni

gilio donATo mArinello – cATerinA rosA mArino

miriAm mArino – nAdiA mAriz – cArlo mArTinelli

mAriA grAziA mAsciAdri – riTA mAzzon – mArTA minervino

ArmAndo mondin – noemi nAPPo – FAbio novel

rAhmA nur – gloriA odorizzi – lAurA oregliA

riccArdo ozog FrAncesconi – luisA PAcherA

morenA PedroTTi – mArineTTe PendolA – snezAnA PeTrovic

biAgio ProieTTi – giuliAnA rAFFAelli

giorgio rAgucci brugger – michelA rigoTTi

rossellA sAlTini – emmA sAPonAro – sArciTAnA

giovAnnA sArTori – mArco sAvArese – bArbArA scovoli

cATiA simone – mirTA slomP – AbdelmAlek smAri

Andrey josè TAFFner-FrAgA – AnnA TAvA – giorgio Tosini

diAnA ungureAnu – AdelinA vAlcAnover – mArco vAllArino

lAurA vignAli – viTTorio vulcAn – dAvid Wilkinson

Fulvio zAnoni – PAolo ziino – AnTonio Angelo zurlo

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 25

parole per strada 2013 - terra mia

Meriam Al-Ghajariah

Plurale

Terra mia: dove il nonno di mio nonno di mio nonno piantò questi ulivi.Terra mia: conquistata con il sangue degli e-

roi e protetta da alti bastioni.Terra mia: profumi di casa e suoni chiari della

mia lingua.Terra mia: percorsi lungo piste che solo io cono-

sco, e solo la sete e il sonno mi sono limite.Terra mia: comprata a prezzo vantaggioso da

un manipolo di ambiziosi incapaci.Terra mia: l’alta scogliera che abbraccia il

porto da cui partire alla conquista dei mari.Terra mia: dove scorre il mio sudore e guada-

gno il mio pane.Terra mia: il mio orto, le piante curate con a-

more sul balcone quando le gambe non posso-no portarmi più lontano.

Terra mia: il profilo delle montagne che cir-condano la mia valle.

Terra mia: novecentomila ettari e due miliar-di di fatturato.

Terra mia: quella che si appoggia sulle mie ossa, sotto la lapide che ricorda il mio nome.

Terra NOSTRA: rubata, lacerata, sfruttata. Unica e indivisibile. Amata.

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parole per strada 2013 - terra mia

Igor De Amicis

Verso casa

Russia, 24 dicembre 1941Benedetto Rinolfi si svegliò di soprassal-to. Il fragore delle esplosioni risuonava

nel vecchio magazzino. Le pareti spoglie tremava-no e la terra sembrava voler sprofondare.

Un altro bombardamento. Si guardò intorno, i suoi compagni si stavano al-

zando veloci e raccoglievano le loro cose: gavette, zaini, coperte.

L’aria era gelida e il vento tagliava la faccia. Davanti a loro un’immensa distesa bianca di ghiac-cio e neve. Dietro di loro l’Armata Rossa che avan-zava inesorabile. Alcuni cadevano in silenzio e altri in silenzio avanzavano. Nessuno aveva la forza di fermarsi, chiedere, aiutare. Dovevano solo andare avanti. Verso ovest. Verso casa.

Benedetto guardava il bianco sconfinato della neve e pensava al verde delle sue colline, ai lunghi filari di alberi che coprivano l’orizzonte, alla terra grassa e profumata dei suoi campi. Voleva tornare a casa. Doveva tornare a casa. Dalla sua famiglia. Si strinse ancora di più nel lungo cappotto militare. Un passo dopo l’altro fissando il bianco.

Il vento crebbe di intensità. Arrivò la tempesta.

Italia, 25 aprile 1991Benedetto Rinolfi fissava il verde delle colline.

Lunghi filari di alberi circondavano l’orizzonte. Si chinò depositando la piccola cassa di legno nella terra grassa e profumata dei suoi campi. Si solle-vò con decisione, forte dei suoi venticinque anni. Un lieve sorriso si dipinse sul suo volto. Guardò la piccola cassa nell’abbraccio di quella terra morbi-da e accogliente.

“Bentornato a casa nonno!”

Andrea Angiolino

Tornerò di sicuro

Terra mia, ti penso sempre. Anche ora che siamo in pausa in fondo al campo. Con die-ci minuti scarsi per tirare il fiato prima di tor-

nare a raccogliere verdura, la schiena piegata che fa male da morire e il caporale che urla di fare più in fretta, ma con delicatezza per non guastare nulla.

Chi è nato qua mi guarda dall’alto in basso, e non è solo una metafora: sono più slanciati di noi. E ci disprezzano, anche se andando indietro nel tempo i nostri antenati sono gli stessi. Nati dove sono nato io: i loro trisavoli erano “terricoli” quan-to me, per usare il nomignolo con cui ci chiama-no oggi i marziani. Che sono tutti, ovviamente, di-scendenti da coloni terrestri.

Hanno fatto il possibile per far somigliare questo pianeta alla Terra, cominciando secoli fa da mari e atmosfera. Ce n’è voluto di tempo. Era un deserto, ora è un giardino per ricchi: ma si vede che è co-struito, sa proprio di falso. Io sono venu to a servir-ne i padroni scappando dalla Terra vera, devastata e ipersfruttata. In cambio ottengo qualche soldo da mandare alla famiglia rimasta a casa e sguardi obli-qui in cui leggo solo commiserazione o disprezzo.

Alzo gli occhi. In questo periodo la Terra è vici-na, si vede bene a occhio nudo: sembra una dop-pia stella vista da qua, lei azzurra e la luna più pic-cola accanto. Ancora qualche anno di risparmi per scampare alla miseria e me ne tornerò al mio pia-neta, questo è poco ma sicuro. Per quanto maltrat-tato e povero possa essere. Amara Terra mia, ama-ra e bella.

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 27

parole per strada 2013 - terra mia

Pelagio D’Afro

Colori

La mia terra ha un colore diverso da tutte le altre terre, e io non sapevo perché.La prima volta che ho sentito dire “Che

strano colore ha questa terra” avevo nove anni.“Ma ha il colore della terra” dissi; e il musungu

dalla pelle rosa rispose: “La mia terra è bruna, que-sta è rossa.”

È rossa, la mia terra. Chi non l’ha mai calpesta-ta non può sapere com’è. È polverosa sotto il Sole che la secca, fangosa sotto la pioggia che la bagna, e il suo colore resta sui vestiti e sulle scarpe. E ci vuole tanto lavoro per far tornare le scarpe bian-che come quelle che indossai il giorno in cui mi laureai in medicina. Per poi tornare nella terra dal-la quale ho visto fiorire i padiglioni dell’ospedale che dirigo: baracche dalle tinte viola, indaco e blu come i petali assetati della mia terra.

Ma impastati alla mia terra ci sono minerali gial-li e petrolio nero, più importanti dei tanti colori del mio ospedale.

E la guerra rende più della terra.E ora, legato con tutti gli altri davanti al muro

viola del padiglione operatorio, in attesa dell’urlo incolore del kalashnikov, finalmente so perché la mia terra ha questo colore.

Perché la mia terra è terra d’Africa, rossa come il nostro sangue che vi si mescola, intrisa delle grida delle vittime e dei carnefici.

So long, musungu. È su questa terra rossa e su questo sangue rosso che voi tutti prosperate nelle vostre terre brune.

Davide Galati

Anniversario

L’ uomo aveva i capelli bianchi, era sedu-to al tavolino del bar e guardava la neve cadere. L’interno era piccolo e raccolto,

sulle pareti di legno le ballerine di Degas. Socchiuse gli occhi, poi avvertì il suo profumo.

— Ciao, – disse lei appoggiando i guanti sul tavo-lo e togliendosi il cappotto – è molto che aspetti?— No. – mentì lui osservando i fiocchi di neve che le cadevano dai capelli ricci e soffermandosi sui suoi occhi profondi.— Bugiardo. – sorrise lei.— Mi piace stare qui ad aspettarti.

Si sedette con un sorriso accogliente.Lui guardava con dolcezza le piccole pieghe che

la pelle, col tempo, aveva fatto sul suo viso. La ren-devano ancora più affascinante.

La cameriera li fissò da lontano. Venivano o-gni anno, l’otto dicembre, solo quel giorno. Lei era davvero una bella signora, molto elegante. Lui un po’ sovrappeso, ma con un certo fascino. Stavano lì un paio di ore, ordinavano sempre le stesse cose e parlavano, parlavano... parlavano.

Guardandoli capivi che si volevano bene davvero.

Lui scoppiò a ridere. Lei si illuminò. Gli occhi di lui divennero tristi, ma solo finché lei non gli strin-se la mano. Risero ancora e continuarono a parla-re e il tempo perse significato. Poi lei si alzò e si ri-mise il cappotto. La baciò con passione, poi lei u-scì e lui la guardò allontanarsi nella neve.

La cameriera si avvicinò per pulire e si lasciò sfuggire: — È davvero una bella signora...— Sì, è la mia casa... il mio punto fermo... la mia terra... è mia moglie! – rispose sorridendole.

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28 2013/9-10 IL FURORE DEI LIBRI

parole per strada 2013 - terra mia

Danuta Dobkowska

Która ziemia?

Moje życie stało się dramatem, potrzebna jest zmiana kierunku. Nie słuchałam rad rodziców. Mój ojciec grzmiał: “Musisz

skończyć szkołę i założyć rodzinę!”. Wiedziałam, że jeśli nie zrealizuję planów, rodzina

oddali się ode mnie. Coś mi mówiło, aby nie słuchać się ich.

Spakowałam się i wyruszyłam poznawać świat. Potrzeba uczucia przenosiła mnie z miejsca na miejsce jak bączek, wąchałam życie i ziemie innych na-rodów, osiągałam przyjaźń, rzeczy materialne i już likwidowałam wszystko, aby żyć od nowa. Czułam się jak wieczny cudzoziemiec, sierota, przyczepiona do kawałka nieba, co może spaść z chwili na chwilę.

Dziś mój zmęczony cień wraca do tych dróg, gd-zie śpiewałam do utraty tchu, zagubiona między przyszłością i przeszłością.

Sylwetka i twarz postarzały się. Pamięć osłabła. Rozmowy z dawnymi przyjaciółmi są obce. Język ojczysty nie kleci się. Z miast nieżywych wznoszą się wyrzuty sumienia. Przytrzymuję obiema rękoma pozostałe życie, zadając sobie pytanie: która ziemia?

Żegnam kraj, gdy samolot startuje. Moje łzy rozpraszają się i realizują układankę tego rozproszone-go życia. Wnet łączą się ujawniając, że moja ziemia to ten ogródek warzywny w Trentino pod naturalnym ka-miennym murem, w którym rośliny i zwierzęta dzielą się dobrocią.

Słońca i deszczu. Życie zamienia się tu w taniec: dżdżownice przekopują ziemię, żaby śpiewają w chór-ze, kot poluje na jaszczurki, w nocy urzędują ślimaki.

Tutaj czuję się szczęśliwa, zanurzona w lekturze książki.

Danuta Dobkowska

Quale terra?

C i vuole una sterzata; la mia vita è diventata un dramma. Ero disubbidiente. Mio padre tuona-va: “Devi finire gli studi e farti una famiglia!”.

Sapevo che, se avessi fallito, sarei stata cacciata, ma qualcosa mi diceva di non ascoltarli.

Ho fatto le valigie e sono partita alla scoperta del mondo. Il bisogno di amare mi faceva girare come una trottola, annusavo le vite e le terre degli altri, conquistavo le cose e un giro di amici, per poi rico-minciare. Mi sentivo un’eterna forestiera, un’orfana, aggrappata al pezzo di cielo che può franare da un momento all’altro.

Oggi percorro la strada dei canti smarriti por-tando in giro un’ombra stanca a ritroso fra il futu-ro, passato immediato o remoto sedimentato. Il cor-po e il viso si sono consumati. La memoria vacilla. I discorsi dei vecchi amici sono estranei.

La mia lingua madre è oramai sgrammaticata. Salgono i rimorsi dalle città dei morti. Stringo a due mani la vita che resta chiedendomi: quale terra?

Dico addio quando l’aereo decolla. Le mie lacri-me si disperdono come un patchwork di vite sospe-se; per quanto polverizzate, ritrovano l’unità nel ri-velare che la mia terra è un piccolo orto nel Trentino, adagiato ad un muretto a secco dove le piante e gli animali si dividono i favori del sole e della pioggia.

La vita si trasforma in danza: i lombrichi scavano la terra. Le rane cantano in coro, la mia gatta caccia le lucertole, con il buio osano le lumache.

Qui mi sento felice, immersa nella lettura di un libro.

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 29

parole per strada 2013 - terra mia

Francesca Garello

Tre chili

S ono tre chili, più o meno. Stanno tutti in soli sedici centimetri di diametro e quindici di al-tezza. Non è una cosa molto ingombrante da

trasportare, magari non comodissima se si va lon-tano, e soprattutto se si va di fretta.

Io sono andata via di fretta. Non ho portato mol-to di più con me, d’altra parte, quindi non è che mi abbia dato tutto questo disturbo. Avevo le mani ab-bastanza libere. Era il ’38.

C’è voluto più impegno, semmai, nel trovargli o-gni giorno un bicchiere d’acqua e proteggerlo dal freddo e dalle scosse del viaggio, che non è stato né corto né comodo.

Ogni tanto ho temuto che non ce la facesse.Non sembra, ma il basilico è una pianta delica-

ta. È talmente diffuso che nessuno ci fa caso se una pianta muore: se ne trova facilmente un’altra, si svuota il vaso e la si rimpiazza con una nuova.

Ma io ci tengo a questa pianta, a questo vaso. Sul retro della casa avevo un piccolo orto. La

terra la presi lì e la misi nel vaso perché il basilico volevo tenerlo sul davanzale della finestra, in mo-do da averlo sotto mano mentre cucinavo.

Un vaso piccolo. Circa tre chili di terra.Così stava al riparo anche quando soffiava il

vento, che dalle nostre parti è molto freddo.Anche adesso il basilico sta sul davanzale, un

altro. Sta abbastanza bene, nonostante tutto. Potrei metterlo in giardino, forse. In America tut-ti hanno un giardino, e sono sicura che al basilico piacerebbe.

Però mi spiacerebbe buttare la terra del vaso. È tutto quello che resta di casa mia.

Norberto Julini

Le noci di Al Mansura

Al piccolo Geries piacevano le noci, ma la sua famiglia era povera, le noci costava-no troppo.

Un giorno vicino ad un villaggio abbandonato sui monti della Galilea con i ragazzi più grandi si imbatté in un noce che ne aveva lasciate cadere una gran quantità. Geries tornò a casa fiero di por-tare un dono prelibato ed inatteso.

Papà Sa’ed invece lo rimproverò:— Dove le hai prese? Ti ho detto di non rubare, mai!— Le abbiamo trovate nel bosco e tutti ne hanno prese sotto l’albero – rispose Geries spaventato.— Quale albero? – insistette il padre. – Portami a vedere.

Appena vide l’albero Sa’ed tornò precipitosa-mente a casa, aprì la finestra, buttò le noci.— Perché l’hai fatto? – chiese la moglie.— Erano noci di Al Mansura – rispose Sa’ed e si chiuse in un silenzio cupo.— Che cosa ho fatto di male? – chiese Geries al-la mamma. — Nulla, ma devi sapere che quelle noci un tempo erano nostre, noi veniamo da Al Mansura.

Là c’era la mia terra e la mia casa. I soldati ven-nero un giorno a dirci che dovevamo venire via e di non prendere nulla, soltanto di chiudere la porta a chiave. Saremmo tornati presto, dissero.

Invece il giorno dopo arrivarono i bulldozer e distrussero tutto.

Oggi ad Al Mansura c’è un parco naturale e i re-sti delle case sono segnalati come “ruderi romani”. Geries accompagna i pellegrini. Si rifiuta di paga-re il biglietto d’ingresso, spiega da lontano la storia della sua famiglia e del suo popolo che aspetta il ri-torno a casa. Ha ancora la chiave: la tiene appesa al muro come una croce.

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30 2013/9-10 IL FURORE DEI LIBRI

Rahma Nur

Le radici nascoste in me

V edevo solo nuvole bianche, soffici, un so-le accecante; il rumore continuo dell’ae-reo che mi trasportava. Avevo solo cin-

que anni, se avevo paura di volare non me lo ri-cordo; forse in quel momento la curiosità e la no-vità erano le uniche sensazioni che occupavano il mio cuore e la mia mente, non avevo coscienza di dove andavo, né da dove venivo. Non c’era un pa-rente, una mamma, ad accompagnarmi in questo volo.

La mia unica “amica” era una hostess gentile, bionda, bellissima ai miei occhi di bimba africana, che ogni tanto veniva a controllare se stavo bene, se avevo bisogno di qualcosa: ma in quale lingua comunicavamo? La lingua universale dei gesti, la lingua di una donna e di una bimba, l’essenziale.

Le mie radici erano state strappate bruscamen-te dalla terra che mi aveva vista nascere, ora me le portavo dietro, nascoste dentro di me ma al-lo stesso tempo visibilissime per chiunque: erano lì nella grana delicata e liscia della mia pelle, nei sof fici ricci che contornavano il mio viso, nelle parole che a stento uscivano dalla mia bocca per timore e timidezza in una lingua che presto avrei dimen-ticato, nel cibo che aveva riempito il mio piccolo stomaco nei primi anni della mia vita.

Quelle stesse radici, di lì a poco, sarebbero sta-te accolte da una nuova terra, fertile ma dura allo stesso tempo; avrebbero faticato ad aggrapparsi al terreno ma non a trovare nutrimento: la storia, la lingua, i sapori, le idee avrebbero subito iniziato il loro cammino vorticoso nella mia anima.

W axaan u jeeday caad cad, fudeed, qo-rax indhaha kaa cawireeyso, dha-waaq, aan istageen oo ka socdo da-

yaaradda i waddo.Waxaan jiray shan sano kaliyo, haddan ka cabsa-

naayi dulitaanka ma aan xasuusto, lakiinse waqti-gaas, ku dimisteeyda waxaas cusub waxeey ila a-haayeen wax wadnaheeyga xil saarayo, iyo ma-skaxdeeyda ma aan garaneynin, meesha aan u jee-do iyo meeha aan ka imid. Dulitaankaan wax aan wahashanaayo hooyo iyo waalid ahaan ma ila socon.

Wax aan saxiib iyo wahal ahaan u haastay waxey aheed gabadha ka shakheeydo dayaaradda ‘ho-stess’, oo aad u macaan, qurax badan tima cas in-dhabeega gabar yar oo afrikan ey ila muuqatay oo mar allale iga soo kor meereysay. Luqadda aan i-sla hadleyni ayaa dhibaato leheed, midda kaliyo luqadda summada.

Waddanka aan ku dhashay kuna soo koray, a-yaa leyga soo cirib tiray, hadda wey ila socotaa, dhaxdeeyda ayeey ku kharsoontahay xil darradas ley galay. Qof kastana akhoonsan karto hadduu i daawado korkeeyga jilacsan ayeey ka muukhataa timaheeyga fud fudud oo wijigeeyga salaaxayaan, hadallada oo afkeeyga yar xishoodka iyo cabsida ka soo baxaayeen, oo waqti dhaqsi leh aan ku ilaa-wi doono. Cuntada oo caloosheyda yar buuxiday, sanadaha yaranteeyda oo nolosheyda iyo xididda-da aan ka soo as asmay si deg deg, dhul aan gara-neynin ayaa i soo dhaweyndoono oo aad u adag la qabsigiisa. Isla waqtigaasna aan aad u dhibtoon do-ono. Lakiinse aan ku dheef heli doono, sheekada, luqadda, dhedhenka, fikradda dhaqsi nolosheyda la qabsan doonto.

Rahma Nur

Xididdada dhaxdeeyda ku qarsoon(Traduzione in somalo di Angelo [Abdiaziz] De Luca)

parole per strada 2013 - terra mia

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 31

Снежана Петровић

ЗЕМЉА КОЈЕ ВИШЕ НЕМА

Умрла је моја Земља. Умрла је од рана задобијених у последњем рату. Преживела је многе нападе страних непријатеља, али

није могла да преживи грађански рат.Имала је све оно што чини лепом једну Земљу:

прекрасно море, високе планине, језера и бање, реке и речице међу таласастим брдима, шуме пу-не дивљачи... Њени становници су били добри људи, разних националности, менталитета и ве-ра, којима је била заједничка љубав према Земљи у којој су рођени, у којој су одрасли и коју су гра-дили. Они нису желели рат. Рат који је унишио њихову земљу изазвали су светски моћници.

Та земља више не постоји. Када је о њој било речи, говорили су «бивша», као када умре чо-век што се каже «покојни». Њено име је брзо иш-чезло, не помиње се више. Замењено је именима њених шест Република. Морала сам да одлучим којој ћу припадати, али то је било немогуће: моји родитељи су били различитих националности, рођена сам у једној, одрасла у другој а удала сам се у трећој Републици, а волела сам ту Земљу - целу.

Када је умрла отишла сам, као многи који су о-стали без Ње. Мене је усвојила Италија. Она је као добра маћеха, али никада неће моћи да ми замени Земљу мог порекла, као што нико не може да заме-ни мајку које више нема.

Snežana Petrovic

Il paese che non c’è più

Il mio paese non c’è più. È morto per via delle fe-rite riportate nell’ultima guerra. È sopravvissu-to a molte invasioni straniere, ma non è soprav-

vissuto alla guerra civile.I suoi cittadini erano brava gente di nazionalità e

mentalità diverse, ma uniti dall’amore per il paese in cui erano nati e cresciuti. La guerra che ha distrutto il paese non era voluta da loro, era pianificata e pro-vocata dai potenti del mondo.

Questo paese non c’è più. Per un periodo davanti al suo nome si scriveva “ex”, come davanti al nome di una persona morta si usa il “fu”. Dopo breve tempo il suo nome è scomparso del tutto, sostituito dai nomi delle sue Repubbliche.

Mi trovavo costretta a sostituire il mio paese con una delle Repubbliche, proclamate Stati indipenden-ti, ma si trattava di un’impresa ardua, perché i miei genitori erano di nazionalità diverse, io stessa sono nata in una Repubblica, cresciuta in un’altra e mi so-no sposata in una terza; e le amo tutte quante. Alla fi-ne me ne sono andata, come molti altri, orfani come me dal paese d’origine: sono stata adottata dall’Ita-lia. È una brava matrigna, ma non potrà mai sostitu-ire una mamma, una mamma che non c’è più.

parole per strada 2013 - terra mia

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di Sandro Disertori

A braccetto tra i guai umani

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 33

È pacifico come questa mia pre-messa dai toni

piuttosto drammatici ab-bia veramente tutti i titoli per venir considerata tale. In effetti nei nostri cervel-li ha già preso posto fisso, da tempo, un' altra ulte-riore conferma di questo, ancora più grave: il modo pazzesco con il quale stia-mo gestendo il nostro de-stino e quello della stessa terra che ci alimenta. Og-gi l' uomo, una volta anco-ra, ha perso per strada gran parte dei principi etici che si era faticosa-mente costruito e fissato dentro di sé, durante un innumerevole ordine di gene-razioni. In pratica, disfattosi ora di freni morali, rite-nendoli d' inciampo al proprio personale benessere fi-sico, oggi sta di nuovo vivendo nell' egoismo più asso-luto e continua a utilizzare la propria esaltante prepara-zione scientifica, anziché per il bene generale, soprat-tutto pro domo sua, pur intuendo vagamente che, così facendo, il risultato ultimo sia già destinato a essere la negazione di ciò che egli ha sempre cercato di ottenere.

Anziché un essere libero, l' egoismo e la conquista della ricchezza ad ogni costo, forse in parte per colpa della mela di Eva, lo stanno trasformando una volta di più in un semplice schiavo delle proprie brame e, di conseguenza, degli stessi successi tecnici che, usati sen-za criterio, stanno rischiando di portarlo all' annichili-mento.

I o ritengo per contro, e contro ogni apparente logica, che quasi certamente e per nostra fortu-na tutto questo non avverrà. Come avvenuto

molte volte nel passato, giungerà in tempo qualcuno o

qualcosa che sarà in gra-do di rimescolare con de-cisione le carte e ci salve-rà, anche se talora non lo meriteremmo.

Mi sembra ora inevita-bile che debba venire per forza il momento nel qua-le saremo costretti a leg-gere e ad interpretare in modo diverso e molto più equilibrato la storia del- l' Umanità nei suoi corsi e ricorsi. Essa ci aiuterà a riflettere con nuovo spiri-to sui nostri problemi e dare un assetto più logico alle nostre vite. Avremo così scoperto per mano della storia, soprattutto di

quella comparata, che lo spirito umano ha potuto ben-sì continuare a cercare la ricchezza e il potere ma mai al prezzo del suo auto-annichilimento.

Sarà allora proprio essa storia a mettere in luce come l' uomo però resti tendenzialmente pronto a partecipa-re come protagonista al Paradiso Perduto di Milton, ma anche a passare subito dopo, commosso ma mai contrito, al Cantico degli Animali di frate Francesco.

Offro un esempio degli innumerevoli a disposizione.

S ono anni che tutti parlano dello scadimento dei rapporti umani, del concetto di famiglia e della educazione dei figli, mal concepita e, in ogni ca-

so, male condotta. Bene. Circa venticinque secoli fa, il già citato Plato-

ne, nell' ottavo libro della propria monumentale opera La Repubblica, scandalizzato del decadimento dei co-stumi del proprio Paese, si era rivolto ai propri con-cittadini con queste poche frasi, tanto severe, ammo-nitrici e sempre all' ordine del giorno, oltre che divi-natrici:

...che la situazione attuale tanto miserevole, soprattutto se inquadrata nel grande affresco della storia umana, possa considerarsi inedita, direi proprio di no. In ogni caso anche se in parte lo fosse, limiterebbe al settore de-cisivo ma limitato del progresso scientifico e tecnico che, in effetti, nei due ultimi secoli si è ingigantito con legge esponenziale, con tutte le possibili conseguenze, utili o dannose che ne possano derivare.In un brillante caleidoscopio fatto di mal governo e di scandali grevi di assoluto cinismo, spinti da un amaro cupio dissolvi, ci sembra di essere saliti inermi su un treno senza freni e manovratore che stia sul punto di schiantarsi, a folle velocità, contro gli edifici della pro-pria stazione terminale. A conferma e come immediata riprova della realtà di tale situazione e del grave perico-lo incombente, è sufficiente accendere, a caso, il televisore

e guardarlo per un paio di minuti. È quanto basta per capire

il perché.

a braccetto tra i guai umani

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sandro disertori

Quando un popolo divorato dalla sete di libertà, si tro-va ad avere a capo dei malaccorti coppieri che gliene ver-sano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati reprobi e accusati di voler togliere la libertà.

Ed avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito uomo senza carattere, servo: che il padre impaurito, finisce per trattare il figlio come suo pari e il figlio non ha più reverenza né timore dei genitori, che il maestro non osa rimproverare gli sco-lari e li adula e costoro si fanno beffa di lui: che i giovani pretendono gli stessi diritti e la stessa considerazione dei vecchi e questi per non parere troppo severi, danno ra-gione ai giovani.

L' anima dei cittadini si fa insofferente all' estremo, sì che dove venga caso di sottomissione qualsiasi, se ne sde-gnano e non ammettono di ubbidire.

E finiscono col non curarsi più né delle leggi scritte, né di quelle non scritte, al fine di non avere più riguardo né rispetto per nessuno.

In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannide.

Infatti ogni eccesso suole apportare l' eccesso opposto tanto nelle stagioni, quanto nelle piante e nei corpi e massimamente poi nei reggimenti politici.

Non si può negare come queste considerazioni sulla Grecia dei suoi tempi, vere allora, si adattino così bene al nostro tempo da sembrare scritte ieri sera.

Platone aveva 23 anni quando, nel 404 a.C., si conclu-sero le cosiddette guerre del Peloponneso fra Sparta ed Atene, iniziatesi nel 431 a.C. Due anni prima della sua nascita, già nel pieno di quel conflitto, la peste si era portata via Pericle, il vero artefice forse degli anni del massimo splendore di Atene e della civiltà greca, a sua volta madre di quella occidentale e mediterranea. Il grande filosofo quindi aveva vissuto la sua prima giovi-nezza in uno dei periodi più difficili e bui della Grecia,

momentaneamente in declino, con l' inevitabile scadi-mento generale dei costumi e con il trionfo di una cor-ruzione generalizzata che un quasi trentennale conflit-to aveva inevitabilmente favorito. Le sue amare conclu-sioni sono quanto mai centrate. Tito Lucrezio Caro nel De rerum natura le aveva riproposte raccontando, da par suo ed in versi latini splendidamente aulici, gli or-rori, l' atmosfera, la miseria morale di quei decenni.

Q ualcosa di simile e con gli stessi miserevoli ri-sultati è stato rivissuto, nel XVII secolo, da quasi tutta l' Europa centrale, stretta dalle spi-

re di un' altra Guerra ufficialmente di religione, ma in realtà per ben altre ragioni, durata trent' anni esatti. Anch' essa fu accompagnata da un' epidemia di peste altrettanto spaventosa, magistralmente ricordata nel-la sua drammaticità dal nostro Manzoni, nel suo ca-polavoro.

Da sottolineare che Schiller nella Trilogia del Wallen-stein e Brecht nella toccante opera teatrale Madre co-raggio e i suoi figli (Mutter Courage und ihre Kinder), hanno entrambi confermato oltre venti secoli dopo, le affermazioni preoccupate di Platone sulla crisi politica e morale del suo Paese, usando quasi le stesse parole e soprattutto gli stessi toni.

Con questi due esempi arcinoti è evidente come non si possa seriamente sostenere che noi, oggi, solo per il fatto di essere riusciti a calpestare il suolo della luna, siamo diventati migliori o peggiori dei cacciatori prei-storici che ci hanno preceduto sul pianeta e, tanto me-no, che siamo diversi dai contemporanei di Platone, di Socrate e, più tardi, dal valoroso generale italiano Pic-colomini e dal suo capo Wallenstein, entrambi affasci-nanti protagonisti della Trilogia schilleriana.

Quindi è chiaro come, a cicli alterni quasi fissi e spes-so perfino prevedibili per estrapolazione, l' uomo sia in grado di comportarsi da saggio, da eroe e da uomo d' ordine, ma anche, presto o tardi, di ripiombare nella bestialità più nauseabonda invocando, a propria giusti-ficazione, le ragioni più insensate e sempre le stesse.

Queste due facce tanto inquietanti della sua natura

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a braccetto tra i guai umani

spesso trasformano il suo spirito in una specie di Giano bifronte. A questo proposito è esemplare una sconvol-gente risposta che Wallenstein un giorno diede al pro-prio monarca Ferdinando d' Austria, nel bel mezzo del-la Guerra dei trent' anni. Ferdinando era il capo supre-mo dello schieramento cattolico contro quello della ri-forma. Vista come conflitto di religione, in realtà era scoppiata per ragioni commerciali e soprattutto per se-te di dominio, come era successo oltre due millenni prima con la guerra di Troia, ufficialmente scatenata per riprendersi Elena, rapita da Paride, ma scatenata invece solo per ragioni commerciali.

L' imperatore Ferdinando intendeva inviare oltre dieci-mila uomini in Boemia con-tro i protestanti e su questo aveva chiesto il parere a Wal-lenstein che rispose con la massima calma: “Quel paese, Maestà, è troppo povero per essere in grado di mantenere sul suo territorio, senza reagi-re, un numero così imponente di soldati”. E concluse: “Sarà invece possibile realizzare e onorare questo vostro dise-gno, con successo garantito, e con la massima sicurezza, in-viandone centomila”.

Come si vede, il cinismo degli inevitabili sedicenti pa-droni del Pianeta di ogni tempo è rimasto sempre tale e quale.

R itorniamo per un momento all' Atene post-

periclea di Platone. Dal grande genio ateniese pos-siamo sapere, ad esempio, i

sistemi con i quali veniva gestita allora, con deplorevo-le debolezza, l' educazione dei figli. Egli mette in luce uno dei classici tratti della natura assai mutevole del ca-rattere umano, la quale se in apparenza sa cambiare di faccia, in realtà non è in grado di modificare le sue ra-dici e i suoi istinti più elementari. Se confrontassimo la nostra quotidianità con quanto succedeva allora ad Atene sarebbe arduo trovare differenze di un qualche rilievo. Anche certe nostre madri, le italiane soprattut-to, anziché cercare di capire i problemi dei propri figli e cercare di collaborare con la scuola per risolverli assie-me, arrivano al punto di aggredire gli insegnanti che

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osino bocciarli magari perché poco adatti allo studio, perché maleducati o, ancora peggio, perché portati a comportarsi da bulli, dentro e fuori le aule scolastiche. Non agivano forse allo stesso modo i genitori ateniesi, ottenendo gli stessi miserevoli risultati lamentati allora da Platone?

È un fatto che oggi, co-me sempre succede ovun-que, mentre uomini di grande spessore intellet-tuale ed umano cercano di creare, spesso fino al proprio sacrificio, un mondo migliore e degno di essere vissuto con one-stà, con coraggio ed an-che col sangue, figuri pri-vi di scrupoli riescono a rendere così complicato il percorso terreno del prossimo e tanto irto di paletti da renderlo im-pervio e, al limite, spesso impraticabile.

A nche Cicero-ne, nel primo secolo a.C.,

aveva denunciato aperta-mente Catilina nelle sue celebri orazioni ricordate con quel nome, come il classico esempio di ogni nefandezza dal quale guardarsi, dipingendolo come prototipo della violenza e della corruzione, quest' ulti-ma inevitabile generatrice della prima. Ma Catilina era poi tanto diverso dagli squallidi malfattori che mac-chiano la nostra era? Quante volte e quanti di noi, da allora, hanno rivolto le stesse invettive, dapprima timi-damente dentro di sé, poi a gran voce, sull' agorà, il pro-prio vibrante Quo usque tandem abutere, homo, patien-

tia nostra verso chi sta governando la Cosa pubblica in modo ignominioso?

Quante volte nella storia dell' umanità si è ripetuto come un gioco rituale nel quale, tolti di mezzo alla fine i colpevoli diretti ed indiretti di tanti guai, essa si è ben

presto rigenerata, ma sempre pronta a ripiom-bare, dopo un po' , nella corruzione e nella confu-sione morale e spirituale più totale!

Fra gli altri esiste anche un altro pericolo sempre latente che grava minac-cioso sul genere umano come foriero di altri guai. Si tratta della sistematica inattesa comparsa sul ris-soso palcoscenico della commedia umana di un altro tipo di protagonista della vita pubblica, altret-tanto nefasto. Si tratta del cosiddetto uomo della provvidenza. Questi vi si installa, in forza del pro-prio dannato carisma, e finisce per dominare la scena per periodi anche molto lunghi, proponen-do le dottrine più affasci-nanti sedicenti apporta-trici di ordine e di benes-

sere, in realtà maledettamente false. Forse la peggiore di esse in assoluto è quella secondo la quale gli uomini sono tutti uguali e quindi in diritto di esigere, senza di-stinzione di merito e di qualifica ed in modo automati-co, uguale trattamento e medesimi privilegi per tutti. Tale principio, molto invitante in sé, tuttavia non adat-tabile per la stessa natura dell' uomo, in breve viene pertanto imposto colla forza dal fanatismo del dittato-

sandro disertori

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re e sostenuto ciecamente sia dall' idealismo acritico dei suoi seguaci, inconsapevoli sostenitori di inesistenti verità rivelate, sia da abili profittatori.

Oggi parrebbe però che, se non tutto il pianeta, per lo meno il cosiddetto mondo occidentale risulti vaccina-to in questo senso, tuttavia non è detto che tale sciagu-ra una volta o l' altra non si ripeta. Come è successo moltissime volte nel passato, è da temere che essa, pur-troppo, si ripresenti nel futuro, opportunamente am-mantata con altre sgargianti livree.

Per meglio rendere l' idea, mi permetto di proporre, con qualche pertinenza, un paio di prove indirette, sot-tolineandole con alcune piccole e grandi verità. Per far-lo voglio utilizzare, anche per alleggerire il presente scritto forse un po' pesante, l' arguta ed ironica penna di Anatole France, premio Nobel della Letteratura de-gli anni Venti del secolo scorso.

Traggo quindi alcuni suoi giudizi, pregni di sottile ironia, da un suo straordinario romanzo, assai spirito-so, realistico ma paradossale, arricchito dalla colossale cultura generale dell' autore. Esso ha per titolo Les opi-nions de M. Jérôme Coignard (Le opinioni del signor Ge-rolamo Coignard).

M. l' abbé Coignard è appunto il personaggio nato dalla feconda fantasia di Anatole France e da lui prefe-rito fra i tanti altri, come lo è stato Don Chisciotte, al-trettanto mitico, per Miguel de Cervantes. È presentato come un uomo di età, ma felice e assolutamente disa-dorno di inutili orpelli tanto da risultare spesso sciatto e mal lavato. Gustoso ammiratore delle grazie muliebri e professore di eloquenza, egli è un ubriacone del tipo rabelaisiano ma anche raffinato buongustaio.

L' abate Coignard era già apparso come l' impareggia-bile protagonista di un precedente romanzo altrettanto famoso di Anatole France, La Rôtisserie de la reine Pédauque, il cui miniuniverso era composto dalla detta rosticceria, dal Petit Bacchus, il cui nome chiarisce su-bito la sua funzione, e dalla libreria A l' image sainte Ca-therine. Se i primi locali erano due sacrari dell' alimen-tazione fisica, il terzo era quello dello spirito e delle buone letture. Erano tutti e tre allineati lungo la Rue

Saint-Jacques, all' ombra protettrice della chiesa, anco-ra esistente, di Saint-Benoît-le-Bétourné (lo stordito).

Dopo trascorsi burrascosi tanto gustosi quanto di-scutibili, l' unica occupazione dell' abate si era ridotta nell' insegnare il latino di gran livello, l' alta filosofia e, in generale, le scienze a Jacques Tournebroche, il figlio del rosticciere, chiamato così perché addetto al noioso funzionamento del girarrosto. Dei suoi spiedi, sempre carichi di sugosi polli, di anatre e di piccioni, l' abbé Coignard, considerandoli a saldo del proprio incarico, era uno dei più assidui utilizzatori finali, come lo sa-rebbe definito oggi, con la sua ripetitiva e noiosa elo-quenza patavina, l' avvocato di Berlusconi.

E cco come Anatole France nel prologo del suo citato romanzo, se così lo si può definire, rias-sume il pensiero storico-filosofico dell' immagi-

nario abate sulla reale natura dell' uomo e, soprattutto, sul perché del suo comportamento, sempre così mute-vole ed imprevedibile, prendendo quale spunto, direi assolutamente pertinente, la Rivoluzione francese:

«In effetti niente quanto la filosofia dell' Abbé Coi-gnard risulta meno simile a quella di Rousseau. La pri-ma è improntata a bonaria ironia. È leggera ed indul-gente. Sempre fondata sulle umane debolezze essa è, tut-tavia, solida alla base. Alla seconda invece fa difetto del dubbio felice e di un leggero sorriso. Poiché essa si poggia sul principio non realistico della bontà originale dei no-stri simili, finisce quindi per ritrovarsi in una posizione equivoca di cui essa stessa non riesce a vederne tutto l' aspetto comico.

È la dottrina di gente che non sa ridere e che pertanto fi-nisce per tradire, col cattivo umore, il proprio imbarazzo.

Tuttavia questo sarebbe ancora il meno, perché in real-tà una tale dottrina riconduce l' Uomo alla Scimmia per poi inalberarsi, quindi veramente a sproposito, quando essa poi si veda costretta a constatare come la Scimmia sia tutt' altro che un essere virtuoso. Per questo motivo, tale dottrina si fa crudele ed assurda.

a braccetto tra i guai umani

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Lo dovemmo constatare recentemente (afferma l' abbé Coignard), allorché uomini di Stato (francesi) vollero applicare il “Contratto Sociale” (di Rousseau) alla migliore delle Repubbliche.

Robespierre venerava la memoria di Rousseau. Egli avrebbe immediatamente qualificato l' Abbé Coignard come un cattivo soggetto. Io invece, dal mio canto, non mi porrò il problema se Robespierre sia magari stato an-che un mostro. E, in effetti, egli davvero non lo è stato. Pur essendo tuttavia un uomo di rara intelligenza e di specchiati costumi, era anche sfortunatamente un otti-mista, in quanto credeva nella Virtù.

Sia pure con le migliori intenzioni, uomini di Stato di siffatto temperamento, producono ogni danno possibi-le. In effetti, quando ci si metta in testa di voler gover-nare la gente, non bisognerebbe mai perdere di vista co-me essa sia sostanzialmente formata da malevole scim-mie. Forse solamente su queste basi l' uomo politico, al-la fine potrebbe risultare di essere stato davvero umano e costruttivo.

La vera follia della Rivoluzione fu proprio quella di vo-ler imporre la Virtù sulla Terra. Quando, tutto conside-rato, si vogliano perfino trasformare gli Uomini in esseri buoni e saggi, moderati e generosi, si è poi fatalmente co-stretti ad ucciderli tutti.

Robespierre credeva nella Virtù: creò il Terrore.

Marat credeva nella Giustizia: chiese duecentomila teste.

Mr. l' Abbé Coignard è, al contrario, fra tutti i grandi spiriti del XVIII Secolo, colui i principi del quale si con-trappongono in maggior misura a quelli della Rivoluzio-ne (francese). Egli, infatti, mai avrebbe sottoscritto una sola riga della “Dichiarazione dei Diritti dell' Uomo”, proprio a causa della eccessiva ed iniqua separazione fra l' Uomo ed il gorilla, di cui essa è permeata.»

Se devo dire la verità, pure io riterrei che un qualche dubbio su un' adesione senza riserve allo spirito dell' af-fascinante Dichiarazione dei diritti dell' uomo in effetti sia sorto, come successe a me, anche a moltissimi altri.

Nella letteratura e nella storia parlata e scritta, infatti, su questo argomento troviamo conferme molto vistose.

M a torniamo a noi.Anche nel passato più remoto dell' uo-mo, e questo fino ai nostri giorni, trovia-

mo tanti esempi altrettanto probanti su tutto questo che, in fondo, non è che il racconto della lunga, compli-cata tenzone condotta senza respiro dall' umanità fra il bene e il male. A volte epica, in altre tragica in tutte le possibili varianti, con essa l' uomo ha sempre cercato di imporre, devo dire con disdicevole arroganza, la pro-pria ingombrante e maleducata presenza sul pianeta.

La storia del XX secolo, con le sue luci e le sue spa-ventose ombre, è forse ancora troppo attuale, avendola dovuta subire sulla nostra stessa pelle, per poterne par-lare con autentica obbiettività.

Anche in questo caso, come nel passato in altri casi simili, sono ben pochi i sopravvissuti che ne possano parlare con la dovuta freddezza. C' è stato solo un po-eta, molto impegnato politicamente, il quale, a mio avviso, in soli quattro versi è riuscito a riassumere quelle vicende in modo tacitiano, anche se non pro-prio del tutto. Tuttavia con l' ' ultimo verso, egli se non altro è riuscito a mettere sull' avviso, con evidente sconforto, il proprio Paese sull' eventualità, senza un robusto colpo di timone, di arrivare al peggio. Inten-do parlare del drammaturgo tedesco Berthold Brecht.

Ecco uno dei suoi più famosi moniti nel quale egli paragona la Germania a Cartagine e alla possibile stes-sa ingloriosa fine senza ritorno di quest' ultima. Per for-tuna il suo Paese ha tenuto subito debito conto della minaccia esistente in quell' ultimo verso ed è corso ai ri-pari in tempo utile.

Eccolo:

Das grosse Khartago fürhte drei Kriege. Es war noch mächtig nach dem ersten, noch bewohnbar nach dem zweiten. Es war nicht mehr auffindbar nach dem dritten.

sandro disertori

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 39

Leggete la Rivista del Furore!i l f u r o r e d e i l i b r i e d i t o r e

•ISCRIVETEVI o RINNOVATE•regallico

(La grande Cartagine condusse tre guerre.Essa era ancora potente dopo la prima,ancora abitabile dopo la seconda.Non era più rintracciabile dopo la terza.)

Q uando la Germania, per molti versi del tutto simile a Cartagine, essendosi resa conto, dopo la Seconda Guerra mondiale, di aver superato

largamente i limiti del proprio delirio di grandezza, è tornata alla ragione. In tal modo ha reso inutile lo stret-to assedio dei vincitori che la serrava e che la stava sof-focando, mostrando finalmente, una volta per tutte, di aver ripudiato i suoi sogni insani e le violenze che l' ave-vano fino allora imbestialita. Pertanto, tempo una ge-nerazione, essa, dopo aver lavorato e pagato duramen-te, è riuscita ad ottenere in Europa quella supremazia che aveva cercato invano di ottenere con le armi, in due guerre mondiali bagnate da torrenti di lacrime e di sangue. Parrebbe, e questo lo sperano tutti, che essa ab-bia fatto tesoro, anche se in ritardo, di un profondo pensiero, anche se poco ricordato, di Camillo Benso di Cavour, che bene si adatta al suo caso: “Appena si sia instaurato uno stato d' assedio, reale o inventato che sia, saranno i più incapaci a comandare”.

Devo dire che non molto dissimile è stato anche il comportamento dei giapponesi. Abbandonata la vio-lenza e la sete di potere per le quali aveva finito per bec-carsi le due prime bombe atomiche prototipo, speria-mo anche ultime, su due delle loro città, sono giunti al-la libertà e al successo, che in fondo meritavano, otte-nuti però col lavoro e con il rispetto per se stessi e per i

diritti degli altri.

La mia conclusione personale sull' attuale pes-simismo che ci sta pervadendo, a causa della crisi profonda nella quale siamo piombati e

che sta portando l' umanità a non credere più in un si-curo futuro di lavoro e di pace sociale che rischia di portarla ad una mortale resa senza condizioni, tuttavia resta ancora quella che ho già accennata all' inizio: de-cisamente ottimistica. Sono certo che la crisi morale e materiale quale viviamo oggi, dovuta alla nostra stessa natura che non cambierà mai, verrà superata, come è già avvenuto molte volte nel passato. Superata che sia, per un verso o per l' altro, dopo un po' noi ci mettere-mo, come sempre, di nuovo nei guai.

Ci sarà però sempre un qualcosa di non ben definito che, a un dato momento, sotto spoglie ogni volta diver-se e più adatte, si farà disponibile ed in grado sia di ri-mettere le nostre cose a posto sia di riportare il nostro treno sul giusto binario e via di questo passo, in modo ripetitivo.

Questo strano giochetto, malauguratamente, risulta poi essere il nostro unico e normale modo di conviven-za sociale: sarà inoltre sempre anarchico, da cicala, e condotto sempre con le stesse regole, o quasi.

La sua durata avrà una fine quando noi o lo stesso pianeta, o forse insieme, scompariremo o avremo pre-so altre strade delle quali non abbiamo abbastanza fan-tasia per prevederne la natura e le sembianze.❧

Sandro Disertori

a braccetto tra i guai umani

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di Renato Trinco

La biblioteca di Antonio Rosmini

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la biblioteca di antonio rosmini

V arcando la soglia di casa Rosmini si ha la sensa-zione di entrare in un’al-

tra epoca; oltrepassando la porta della biblioteca se ne ha la confer-ma. La visione d’insieme è di gran-de effetto: un’elegante stufa in maio-lica bianca spicca per imponenza e le dorate decorazioni, le policrome tarsie del pavimento e gli stucchi del soffitto racchiudono gli alti scaf-fali lignei che, rivestendo tutte le pareti, ospitano i 16.000 volumi co-stituenti il nucleo storico della bi-blioteca.

All’epoca in cui visse Rosmini i li-bri erano sistemati in altre stanze dell’edificio, solo dopo la fine del primo conflitto mondiale furono raccolti negli attuali spazi1.

Fra i propositi del giovane Anto-nio vi era quello di provvedere al ri-ordino della casa, ed in particolare della biblioteca. Quest’ultimo pro-getto doveva trovare attuazione sul-la base di un particolare criterio de-corativo delle stanze a seconda dei libri in esse collocati: di ordine do-rico con iscrizioni greche quelle de-stinate a contenere libri scientifici; di ordine ionico con iscrizioni lati-ne per gli spazi dedicati alle Lettere;

1 - Giovanni Tiella, La casa natale di Antonio Rosmini, edito a cura del Comune di Rovereto, Rovereto 1946, pp. 20-21.

infine di ordine corinzio con iscri-zioni italiane per le Arti. Anche sof-fitti e pavimenti avrebbero dovuto seguire i medesimi principi orna-mentali, in coerenza con le destina-zioni delle sale. Tale proposito ri-mase tuttavia solo un ambizioso di-segno nella mente del grande filo-sofo2. Ciò nondimeno è giunta fino ai nostri giorni una raccolta di vo-lumi e stampe di pregevolissimo valore, formatasi grazie alla passio-ne, alla dedizione e al vero amore per la conoscenza dapprima di Ambrogio Rosmini, zio del nostro, che incrementò il primitivo fondo paterno, successivamente dello stesso Antonio ed in parte minore anche di suo padre Pier Modesto.

Nella cultura del Settecento il li-bro rappresentava, soprattutto per le classi più agiate, un oggetto da collezione, uno strumento per ap-pagare una vasta curiosità enciclo-pedica come nel caso di Ambrogio (1741-1818), la cui vita sarà segnata dai libri, che scandirono tutta la sua esistenza di intellettuale, raffinato collezionista di stampe, pittore per diletto e architetto3.2 - Giovanni Tiella, La casa natale di Antonio Rosmini, op. cit., pp. 24, 22; Ierma Sega, Antonio Rosmini - La casa natale, ed. Via della Terra, Rovereto 2006, p. 43.3 - Stefano Ferrari, Le raccolte di un curioso, in “Le collezioni di stampe e di libri di Ambrogio Rosmini (1741-1820)”, a cura dell’Accademia

La passione per i testi iniziò in Ambrogio in età giovanile, fin dalla sua esperienza universitaria ad Innsbruck, dove si iscrisse alla fa-coltà di Filosofia, per proseguire poi gli studi ad Urbino e quindi a Roma, giungendovi non ancora ventenne, con l’intento di intra-prendere la carriera artistica, fre-quentando l’Accademia Capitolina del Nudo di San Luca. Fu proprio durante la permanenza a Roma, importante tappa del “Gran Tour” culturale europeo e meta dei viag-giatori stranieri desiderosi di am-mirare le opere d’arte dell’antichità, che Ambrogio iniziò a comperare i primi volumi nonché numerose stampe. I libri acquistati furono di vario genere, non solo di carattere artistico, ma anche architettonico, letterario, storico e giuridico, sia italiani che stranieri, compresi nu-merosi volumi di autori francesi. Durante il soggiorno romano rac-colse inoltre svariate stampe costi-tuenti il nucleo iniziale di quella collezione, che Ambrogio incre-mentò costantemente fino a posse-dere non meno di ventimila inci-sioni di vario tipo, della quale oggi ne rimane purtroppo solo una pic-cola parte.

Roveretana degli Agiati 1997, La Grafica, Mori 1997, p. 14.

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Nel 1763 egli fece definitivamente ritorno a Rovereto dopo un’assenza durata circa sette anni, continuan-do però a coltivare la passione per i libri e per l’arte, con oculatezza ed intelligenza, non lesinando denaro ed energie, ma senza compromette-re il patrimonio della famiglia per ampliare la biblioteca4.

Analoga passione per i libri fu an-che di Antonio (1797-1855) trasmes-sagli dallo zio, il quale, avendo intui-to le attitudini e le incli-nazioni del nipote, lo as-secondava, permetten-dogli ancora in giovanis-sima età di attingere ai molti e bei volumi della sua biblioteca, tanto che il futuro filosofo arrivava a preferirli a quelli scola-stici. Un giorno il suo precettore don France-sco Guareschi sorpren-dendo il giovinetto, or-mai dodicenne, ricurvo sul grande tavolo ottago-nale, intento a leggere la Summa Teologica di San Tommaso, lo riprese severamente, perché non stava svolgendo i compiti di gram-matica che gli erano stati assegnati, apostrofandolo dicendo: «Son forse libri per Voi codesti?»5.

Crescendo, crebbe con lui la pas-sione bibliofila; ne è un esempio 4 - Stefano Ferrari, Le raccolte di un curioso, in “Le collezioni di stampe e di libri di Ambrogio Rosmini (1741-1820)”, op. cit., pp. 14-29; Ierma Sega, Antonio Rosmini - La casa natale, op. cit., pp. 22-25.5 - Guido Rossi, La vita di Antonio Rosmini, Arti Grafiche Manfrini, Rovereto 1959, p. 47.

l’acquisto fatto durante gli studi uni-versitari a Padova della preziosa bi-blioteca appartenuta alla decaduta, ma un tempo illustre, famiglia vene-ziana Venier. Non disponendo del denaro necessario, egli cercò in tutti i modi di convincere suo padre ad as-secondarlo in questo affare, facendo opera di persuasione sulla madre e sul suo professore don Pietro Orsi.

In una lettera inviata a Pier Mode-sto e datata 3 gennaio 1818 egli scrive-

va: «Non ho novità da raccontare, fuorché una, che la letteratura e i bei studi interessa. L’illustre famiglia ve-neziana Venier che tanta ebbe parte negli affari della Repubblica, decadu-ta e ridotta a mali passi, fu costretta a vendere la Biblioteca per una freddu-ra. Che posso dire? Deh, che libri! Che edizioni rarissime! Che preziosa sup-pellettile, che raccolta di libri! Quante fatiche e quante spese a raccorli! Quel che è più, li comprò un libraio qui di Padova. … Io vi giunsi il primo a ve-

derli dopo tratti dalle casse; e ne fui stupefatto. … Io però non ho potuto far a meno di pregare il libraio che non mostri a nessuno quei libri prima che io non abbia qualche risposta da casa mia». Lo stesso giorno indirizzò uno scritto alla mamma ed un altro a don Pietro Orsi. Alla prima si rivolse con parole piene di affetto: «So che Ella mi vuole bene. Or adesso me ne poterebbe dare un grandissimo segno. Io poterei acquistare per 800 fiorini

una Biblioteca bellissima. Per altro qual più bella occasione per adoperare i suoi denari, per rendere a questo mondo contento un figlio che nulla ha in cuore salvo l’onore di Dio e la prosperità dei suoi amati genitori?». Al se-condo riservò un tono supplichevole: «Si tratta d’acquistare una Bibliote-ca. Ho scritto al signor Padre, ma non pregando-lo direttamente. Ella veg-ga d’incoraggiare mia

Madre e so che Ella ha una grande au-torità e forza sopra di lei. Da bravo usi la sua eloquenza: io non ne dubito. … Ella sa quello che Ella medesima m’impose: cioè fare una Biblioteca che faccia onore alla nostra città, e più che sia utile a tutti gli amici»6. I genitori si mostrarono sensibili alle richieste del figlio, il quale poté comperare l’agognata raccolta di libri.

6 - Ierma Sega, Antonio Rosmini - La casa na-tale, op. cit., pp. 33, 34; Guido Rossi, La vita di Antonio Rosmini, op. cit., pp. 143, 144.

renato trinco

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Fra le curiosità della biblioteca di casa Rosmini vi è una particolare collezione di Bibbie, di varie epo-che e in varie lingue che annovera ben 61 edizioni diverse: in latino, in italiano, in latino/italiano, in ebrai-co, in greco, in francese, in latino/tedesco ed in inglese7. Il motivo di tale raccolta sta nel fatto che Anto-nio Rosmini riteneva la Bibbia il li-bro più importante in assoluto.

Fra le opere degne di nota si trova la già citata Summa Teologica di San Tommaso, la cospicua letteratura straniera, i volumi del Petrarca, del Boccaccio, di mons. Della Casa, la Rerum Italicarum Scriptores di Lu-dovico Antonio Muratori del 1723 in 28 volumi, lo Statuto di Rovereto: Statuta Roboretana Civilia et Crimi-nalia del 1737, con firma autografa di Ambrogio Rosmini, ed ancora i vo-lumi di architettura di Andrea Pozzo del 1708 scritti in latino con tradu-zione tedesca in caratteri gotici.

Altre preziosità bibliofile si rin-tracciano nell’appartamento di An-tonio, occupato precedentemente dallo zio Ambrogio, in particolare nello studio dove sono collocati, in modo speculare sulle pareti oppo-ste, quattro armadi fatti costruire da Antonio stesso. Sulle cimase di ciascuno spiccano a lettere dorate le parole che ne rivelano il contenuto. Due riportano la scritta Enchiclo-paideia e contengono i 253 volumi dell’Encyclopédie Methodique di Denis Diderot e Jean B. D’Alembert,

7 - Ierma Sega, Antonio Rosmini - La casa na-tale, op. cit., p. 34.

edizione Padova 1788, che riprende l’Enciclopedia Illuminista France-se, edita a Parigi nel 1752. Gli altri due armadi sono adibiti: uno alla Lexica, cioè ai vocabolari, tra i qua-li spicca quello della Crusca ed il Forcellini, mentre il secondo è riser-vato alle Ephemerides, le più belle raccolte delle riviste dell’epoca8.

I volumi dell’Enciclopedia furo-no acquistati da Antonio dal libraio veronese Simone Occhi nei primi anni dell’Ottocento. Egli conosceva quest’opera per averla avuta in pre-stito dall’amico Uzielli e ne era ri-masto tanto impressionato, al pun-to da voler opporre a questa, un’En-ciclopedia cristiana, impresa che non vedrà mai completamente la luce9.

In camera da letto, in un grande armadio di fondo, recante sulla ci-masa la dicitura Philosophia, custo-diva i libri considerati necessari agli studi filosofici e a lui così cari tanto da portarli sempre con sé, una volta lasciata definitivamente Rovereto, nei vari trasferimenti. Oggi in quel-lo spazio è collocato l’archivio stori-co della famiglia.

Infine nella stanza dove Antonio nacque, il 24 marzo del 1797, sono conservati in una vetrinetta, assie-me ad alcuni indumenti personali, anche i tre tomi della prima edizio-ne (nota come la Ventisettana) de I 8 - Renato Trinco, Il beato Antonio Rosmini, in “Le Tre Venezie - Rovereto città della Pace”, Mensile anno XVI - n. 107 - 2009, Eurosprint srl Quinto di Treviso 2009, p. 73; Ierma Sega, Antonio Rosmini - La casa natale, op. cit., pp. 78, 79.9 - Guido Rossi, La vita di Antonio Rosmini, Arti Grafiche Manfrini, Rovereto 1959, p. 163.

Promessi Sposi di Alessandro Man-zoni, edita da Vincenzo Ferrario di Milano, con una chiosa autografa dello stesso Rosmini: «per dono dell’autore – Antonio Rosmini p.».

Una copia della seconda edizione dello stesso volume edita nel 1840 dalla Tipografia Guglielmini e Re-daelli di Milano, è conservata presso il Centro Studi Rosmini di Stresa e riporta una dedica autografa di Alessandro Manzoni che dice: «Non perché Rosmini mi legga, né mi rileg-ga, ma perché vedendomi fra i suoi li-bri, si rammenti qualche volta dell’au-tore». A Stresa si trovano anche i preziosi incunaboli di casa Rosmini, qui trasportati prima dell’inizio del-la “grande guerra” che tanto devastò Rovereto.

Ancora oggi nelle sale della bi-blioteca Rosmini si respira quel profumo, quella temperie culturale che caratterizzò il XVIII e il XIX se-colo e non si può che rimanere stu-piti di fronte ad un patrimonio li-brario di così grande interesse sto-rico, con libri che vanno dal Cin-quecento fino ai primi decenni dell’Ottocento, messo a disposizio-ne della città, degli studiosi e di co-loro che hanno interesse a cono-scerlo. È infatti possibile consultare in loco i singoli volumi, rivolgen-dosi alla Biblioteca Rosminiana, che occupa, a piano terra del palaz-zo, alcuni locali aperti giornalmen-te al pubblico.❧

Renato Trinco

la biblioteca di antonio rosmini

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Strumenti da leggere strumenti da guardare

di Diego Cescotti

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strumenti da leggere

C osì viene presentato nell' edi-zione italiana il fortunato racconto di Patrick Süskind,

il quale mette al centro proprio quell' ingombrante e paradossale strumento che sembra fatto appo-sta per scatenare, in chi ci ha a che fare, dubbi di ogni tipo, problemi identitari, laceranti conflitti interio-ri, senza escludere la possibilità di un contrastato amore. Strumento importante, anzi indispensabile in ogni tipo di compa-gine («ci sono orchestre senza primo violino, senza fiati, senza timpani e trombe, senza tutto; mai senza contrab-basso»), è al tempo stesso impossibilitato per sua natu-ra ad emergere («Nessuno può notare un contrabbasso, udire un suo assolo»). Chi dunque sceglie di affrontare tutti i disagi immaginabili per cavar fuori da quella ma-teria ostile le tracce di un' anima sonora non può essere che «un frustrato, uno sconfitto nell' animo e nel fisico».

Le contraddizioni che questo voluminoso arnese re-ca in sé sono subito evidenti. Il suono che emette è così grave e ciangottante da far pensare a un vecchio bron-tolone o a un dio crucciato; ma al tempo stesso la sua forma lo qualifica come «il più femminile degli stru-menti, così pieno di curve e bisognoso di abbracci» – sempreché si convenga di rimanere nei termini delle taglie forti. Difficile, in ogni caso, qualificare tenerezza quella che è piuttosto una lotta corpo come non avvie-ne per nessun altro strumento. E poi non è bene met-tersi in urto con i cugini violinisti e violoncellisti, che per lunga tradizione reclamano a sé, forse non a torto, il monopolio degli abbracci e degli scambi di amorosi sensi. Perché va detto che esiste tutto un sostrato di im-maginario erotico che si accompagna a questi oggetti vibranti mai del tutto innocui e anzi fragili, preziosi, volubili e dispettosi, bisognosi di cure assidue, vendi-cativi se li si trascura o li si tradisce con altri prototipi. Se poi allo scrittore tedesco fosse venuto in mente di creare un contraltare dialettico altrettanto stuzzicante, avrebbe potuto mettere in rapporto il suo contrabbasso

con un ottavino, che è il più piccolo strumento dell' orchestra e quello che ha il suono più penetrante, tan-to da spiccare perfettamente nel bel mezzo di un fortissimo generale. Anche il mondo degli strumenti ha le sue ingiustizie.

Quanti inconvenienti invece nel contrabbasso! Pesante, scomodo da trasportare, difficile da domare, og-getto d' ironia e di sbeffeggio, susci-

tatore di sentimenti di amore-odio, «vampiro da cui la-sciarsi possedere»… Nei casi migliori può diventare una sorta di confidente con cui intrattenere un dialogo intimo: e questa di cercare nel proprio strumento un' anima palpitante non è una stravaganza da senti-mentali ma una cosa sempre avvenuta in tutte le epo-che. Ancora nel 1781 il severo Carl Philipp Emanuel Bach era arrivato a comporre un affettuoso rondò dal titolo «Un addio al mio clavicordo Silbermann» quando gli era occorso di separarsi dallo strumento prediletto.

Ciò che non manca sicuramente al contrabbasso è l'attitudine teatrale: e difatti il testo di Süskind si pre-sentava in origine come un monologo destinato alle scene. Edgar Degas, proponendosi di ritrarre uno scor-cio dell' orchestra dell' Opéra, ne ha effettisticamente stilizzato il riccio e parte del manico all' interno di una variegata accozzaglia di legni e archi. E Giovanni Bot-testini, uno dei pochi compositori che abbiano osato elevarlo ad un impensabile ruolo solistico, ne ha fatto quasi un personaggio da opera buffa italiana. Qualcu-no però ha parlato anche di azione ' spiritualizzatrice' , sicché nemmeno a lui l' ingresso agli Olimpi sembre-rebbe precluso.

Quanto detto basta a far rilevare due cose: prima che quella di Süskind è la pagina letteraria che in modo più diretto e puntuale di qualsiasi altra eleva uno strumen-to musicale a protagonista e alter ego; poi che egli stes-so, per l' obiettivo narrativo che si era prefisso, non avrebbe potuto fare una scelta migliore. È pur vero che anche altri prototipi large-size come il basso-tuba o il

«In uno spazio lontano da un mondo che gorgheggia stupidità e fragore, un uomo racconta se stesso attraverso il rapporto col suo stru-mento: il contrabbasso: uno stru-mento che, per sua natura, costringe il musicista ad un ruolo musicale prevalentemente secondario».

Patrick Süskind (Il contrabbasso, Longanesi 2006)

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diego cescotti

controfagotto sarebbero andati bene allo scopo, ma senza possedere un' uguale specificità antropomorfica. Il legno di cui il contrabbasso è fatto lo rende più anti-co, più ' romantico' rispetto al metallo degli altri due compari, e anche più fragile, quindi più umano. In un momento estremo di rabbia o di pazzia lo si potrebbe fracassare con discreta facilità, sfondarlo, sfasciarlo, gettarlo nel fuoco; ma provatevi a distruggere un gro-viglio di cilindri, ritorte e pistoni di ottone nichelato.

D etto questo, riconosciamo che la letteratu-ra non ha certo trascurato i tanti altri cam-pioni della vasta famiglia strumentale, co-

me sarà capitato di riscontrare a una qualsiasi persona di normali letture. Sarebbe bello sapere se qualcuno di quei lettori metodici dall' istinto catalogatorio abbia mai tenuto nota di tutte le narrazioni in cui ciò avvie-ne. Ora farebbe comodo ai nostri scopi; ma in man-canza si può, senza troppo sforzare la memoria, ricor-dare qualche particolare significativo. In primo luogo sembra accertata una certa predilezione letteraria per il violino, dunque per la melodia spiegata e l' attributo lusinghevole, tentatore del suono. Come tale il violino è messo nelle mani di personaggi diversi ma tutti piut-tosto interessanti come Truchačevskij, Zeno Cosini, Gerda Arnoldsen-Buddenbrook e Sherlock Holmes. Più raramente, ma assai efficacemente, può aversi un complesso di strumenti: il quartetto d' archi, ad esem-pio, che viene interpretato come un universo a sé stan-te ovvero un microcosmo in cui si concentrano senti-menti estremi di odio-amore, solidarietà-rivalità, gelo-sia-abnegazione. Una buona conoscenza di questo or-ganismo affascinante e problematico (si danno casi di quartetti eccellenti i cui componenti non si sopporta-no) si trova nelle pagine del romanzo Una musica co-stante dello scrittore indiano Vikram Seth nonché in Il Quartetto Rosendorf di Nathan Shaham, dove la storia dei quattro concertisti si mescola al dramma della que-stione ebraica. Sono letture consigliabili e oltretutto dei rari esempi in cui lo specifico musicale è trattato con sicura competenza.

I l romanzo borghese, dal canto suo, non può pri-varsi del pianoforte, emblema di ogni salotto che si rispetti. Alla tastiera si esercita soprattut-

to la quota femminile della famiglia. Emma Bovary è tra queste, e con lei chissà quanti altri personaggi ora dimenticati che affollano le pagine di Balzac e di tanti autori di quell' epoca, fino ad arrivare ai casi più recen-ti di Elfriede Jelinek (La pianista), Wladyslaw Szpil-man (Il pianista), Nina Berberova (L' accompagnatri-ce), Paola Capriolo (Il pianista muto), tutti molto cono-sciuti anche perché in gran parte fatti propri dal cine-ma. Clavicembali, spinette e arpe si immaginano facil-mente nei romanzi del Settecento. Per Marianna Guil-lonk, la Perla di Labuan, Emilio Salgari ha immaginato un piccolo harmonium portatile dalle qualità assai se-duttive: un oggetto raro e impensabile in quelle selvag-gerie malesi. E c' è da scommettere che nel ricco fonda-co della narrativa dickensiana non debba mancare al-meno una figura di bizzarro e simpatico vecchietto che soffia nel suo flauto (il flauto è abbastanza spesso acco-stato a personaggi dall' indole erratica). Intanto altri ar-chi si sono aggiunti di recente: Il violino di Auschwitz, di Maria Anglada Angels, La lezione di violino di Lucia Drudi Demby e anche una Violoncellista di Michael Krüger: dove gli strumenti si fanno tramiti di vicende esistenziali inquietanti e tragiche.

E qui arriviamo a un dato di fatto difficilmente contestabile che emerge da quanto appena esposto: le persone di cui si racconta la diretta

compromissione con la musica hanno tutte, poco o tanto, qualcosa di speciale, di anormale, magari di pa-tologico, talora di eversivo, spesso di morboso, come se il commercio con la musica comportasse di per sé una condizione psichica stravolta o anche solo una peri-gliosa e invidiabile libertà di spirito. Appare pressoché impossibile, nella maggior parte delle narrazioni, ve-der dissociata la condizione di eccellenza intellettuale richiesta dall' esercizio dell' arte da un qualche squili-brio interno; la stessa componente di ipersensibilità ri-conosciuta come peculiare ai musicisti è spesso assimi-

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strumenti da leggere

lata senza sconti alla nevrosi: una convinzione che a due secoli dal romanticismo è ancora dura a morire. È come se l’arte dei suoni, ormai immemore degli afflati mistici di chi la voleva essenzialmente atto d’ascesi, fos-se ora degradata a emanazione diabolica il cui influsso si esercita attraverso forme di irretimento e smodatez-za, egocentrismo iper-narcisistico e sperdimento an-nullante. Già nelle più antiche civiltà la musica aveva molto a che fare con i mondi proibiti, e lo stesso Orfeo dei Greci, prima di essere nobilitato a cantore sublime, era qualcosa di molto vicino al negromante e allo scia-mano.

D a qui ad annettere alla pratica musicale qualcosa di torbido o perverso, il passo è breve, come ben illustra la ricca filmogra-

fia sull' argomento. Nella convenzione cinematografica, affidare il consumo di musica (colta) a figure di assas-sini seriali, criminali nazisti e depravati a vario titolo è diventato quasi un cliché. Se proprio si vuol darne una rappresentazione più morbida, la si mette in riferimento a personaggi falliti, repressi, impotenti, deviati. Ricor-diamo tutti L' arancia meccanica che accostava in orrido binomio l' ultra-violenza a Beethoven. Anche l' Anthony Perkins di Psycho aveva sul piatto del grammofono la sinfonia Eroica. E non sono che i casi più famosi. Se ne deriva che il riferirsi alla musica e a chi la pratica in ter-mini di normalità, integrità e buona salute psicofisica è cosa che non giova all' interesse di un racconto.

I l guaio aggiuntivo è che il cinema e le arti perfor-mative, diversamente dalla letteratura che può solo suggerire e alludere lasciando ampi margini

di indeterminatezza, si trovano a dover risolvere in ter-mini visivi il cruciale problema di rendere plausibile l' aspetto tecnico del suonare. Anche per il teatro una ca-sistica esaustiva sarebbe desiderabile: limitiamoci a ri-cordare l' esempio di Casa di bambola di Ibsen, nel punto in cui Torvald Helmer accompagna al pianoforte la mo-glie Nora che balla una tarantella sfrenata: momento di falsa allegria che in realtà veicola presagi funesti.

M a in realtà nel teatro di prosa è più facile che si richieda agli attori di cantare. Gli strumenti furoreggiano nel cinema, e

purtroppo in questo uso ed abuso si assommano i più grandi e imperdonabili orrori estetici. Lo strumento che sembra prevalere sullo schermo è il pianoforte, as-surto a simbolo tout-court della musica: importante, autorevole, efficace e con simulazione abbastanza sem-plice per qualsiasi attore (basta non inquadrare le ma-ni, ovvero sostituirle nell' inquadratura con quelle di un pianista vero). Anche il violino fa il suo bell' effetto, ma è difficilissimo da rendere in una rappresentazione ve-ritiera: già la posizione imposta al ' suonatore' , con la testa esageratamente piegata di lato e la spalla sinistra alzata (perché poi?), rimanda una sensazione di rigi-dezza veramente sgradevole. Il violoncello piace molto per la sua naturale ' coreografia' , tanto più se suonato da una giovane donna dalla capigliatura fluente (si ve-da per questo Hilary and Jackie di Anand Tucker, bio-grafia romanzata di Jacqueline du Pré, non priva di ri-svolti morbid); ma anch' esso è irto di problemi nella sincronia del gesto. Tutti gli strumenti ad arco sarebbe-ro da evitare accuratamente nella rappresentazione fil-mica perché nessun attore può essere realmente in gra-do di far scorrere l' arco perpendicolarmente alle corde (operazione che appare semplice solo a chi non l' ha mai provata), per di più rimanendo in sincronia con la musica che si sente sotto. Se impugnare l' arco si rivela un' impresa ardua, praticamente impossibile risulta il coordinamento dell' arcata con il fraseggio; e non par-liamo nemmeno della mano sinistra vagante sulla ta-stiera nel modo più irrazionale ma per lo più lasciata assolutamente inchiodata a brandire il manico. Del re-sto, anche chi suona la chitarra dovrebbe ricordarsi di metter giù un accordo ogni tanto.

C omprensibilmente il cinema privilegia gli stru-menti più spettacolari alla vista, quelli che com-portano gestualità ampie ed espressioni soffer-

te. Per questo funziona male l' oboe, che costringe l' ese-cutore a una postura innaturale delle labbra e delle

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diego cescotti

guance: chi ha ancora in mente il film Anonimo vene-ziano, ricorda che il maldestro attore non faceva nem-meno il gesto di respirare; né tanto diversamente anda-vano le cose in Mission di Roland Joffé. Il Carlo Verdo-ne di Io e mia sorella è l' oboista più improbabile che si possa immaginare, ma almeno ha il merito di non at-teggiarsi a genio e anzi di dare di sé l' immagine dimes-sa e provinciale di una persona qualsiasi che fa il musi-cista quasi per caso.

I l saxofono si giova simpaticamente della forma di grande pipa ed è una presenza familiare in molti film. Anche il flauto traverso ha una resa

interessante per via della posizione asimmetrica impo-sta al suonatore. Potrebbe funzionare bene il clarinetto, ma francamente non ricordo esempi filmici probanti al riguardo; e così vale per il corno e il trombone a tiro, che pure avrebbe molte chances con il suo gioco avanti e in-dietro della coulisse. Gli ottoni in genere funzionerebbe-ro meravigliosamente per via dello sfolgorìo delle loro superfici tirate a lucido. E privilegiatissima sarebbe l' ar-pa, nel fasto delle sue quarantasette corde e dei suoi sette pedali: strumento arcaico, esotico, peculiarmente fem-minile e di sicura seduzione, ma decisamente al di là di ogni possibilità attoriale appena decente. Ugualmente impagabile l' organo, che più di tutti mette in movimento il corpo del suonatore nella multipla gestione dei ma-nuali, della pedaliera e dei registri in frequente alternan-za. Il cinema lo ha banalizzato riservandolo alla caratte-rizzazione di atmosfere gialle, situazioni delittuose e cir-costanze sinistre. Strano destino per lo strumento chie-sastico per eccellenza. Vero è che per la sua mole impo-nente e per la sua meccanica complessa può facilmente incutere un certo timore. E il pieno volume di un grand orgue riverberato nelle volte di una cattedrale gotica è addirittura qualcosa di terrificante.

S e molti, come s' è visto, sono gli esempi che il ci-nema può offrire, ciò che tutti li accomuna è l' inverosimiglianza della resa. Non si ricorda un

solo film in cui uno strumento sia suonato con una

qualche parvenza di precisione: e non si dice solo del moto delle mani o delle braccia ma prima ancora della mimica del volto, della direzionalità dello sguardo, del respiro, della concentrazione, del rispetto dei tempi na-turali di suoni e pause: in una parola dell' armonia ge-nerale del corpo che presiede al fatto di stare nella mu-sica. Ciò avviene perché probabilmente le modalità di ripresa non lo consentono o perché l' attore non è uno strumentista e fa quello che può, e chi lo guida ne sa ancora meno di lui e ha deciso di non perdersi in mi-nuti particolari di realismo rappresentativo. Tuttavia alcune trite convenzioni che ingombrano il campo po-trebbero essere utilmente eliminate in quanto prive di ogni riscontro con la realtà. Nessun direttore al mondo sale sul podio battendo la bacchetta sul leggio, eppure trovate un solo esempio cinematografico in cui questo non avvenga. Così come è difficile pensare di star suo-nando in concerto e al tempo stesso fissare insistente-mente altre persone nella sala o mostrare di avere il pensiero a tutt' altre cose (è l' equivalente di quando si vede uno guidare l' automobile mentre tiene lo sguardo girato da un' altra parte). L' attacco di un' esecuzione non può arrivare all' improvviso, senza un minimo di preparazione interiore, uno sguardo d' intesa, un cenno qualsiasi, anche solo un respiro. Sono momenti vuoti di azione ma straordinariamente carichi di tensione, che accomunano come per un segreto convergere delle singole volontà l' intera compagine, grande o piccola che sia e che sarebbe bello vedere riprodotti in qualche modo. Se poi ci vien fatta vedere una prova, è evidente che non si ha la minima contezza di come essa si debba svolgere: tutt' al più, se qualcosa non va, si ritorna da capo senza ragione, in un continuo vacuo ripetere le stesse cose. Altre volte viene mostrato un concerto pubblico che si conclude incomprensibilmente su un movimento intermedio della Sonata o della Sinfonia o che comincia direttamente dall' ultimo. Gli applausi del pubblico sono per lo più fuori posto, e se qualcuno commenta l' esecuzione lo fa immancabilmente in mo-do iperbolico: mai una critica, una riserva, un apprez-zamento divergente come dovrebbe accadere in qualsi-

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strumenti da leggere

asi pubblico pagante. Ma questo si spiega: nella finzio-ne filmica il concerto equivale a un rito sacro: e si può forse dir male di una messa? Se poi è necessario alla narrazione che qualcosa vada storto, si fa fare al con-certista di turno un errore di tale madornale elementa-rità che non ci si aspetterebbe nemmeno da un princi-piante. E d' altronde come rappresentare un errore di intenzione o di espressività? In tal modo però si fa pas-sare l' idea che l' errore, in musica, sia solo di tipo tecni-co, mentre tutti sanno che un concertista degno del no-me le questioni tecniche se le è già messe tutte dietro le spalle, e se gli capita di sbagliare non lo farà mai in mo-do così scontato. Avvalorare l' errore come fatto di pura manualità è una cosa particolarmente fastidiosa per-ché banalizza immediatamente l' essenza musicale e l' estrema sottigliezza e complessità delle sue compo-nenti stilistiche.

La totale incomprensione di cosa sia un' esecu-zione musicale sfiora a volte livelli di massi-ma assurdità. Si è arrivati a vedere (in Vier

Minuten di Chris Kraus) una giovane ribelle (ma de-scritta come talentuosissima pianista) ' studiare' i brani mettendo le dita su una tastiera da lei disegnata sul ta-volo della prigione in cui è rinchiusa, per poi eseguire quel pezzo magistralmente su un vero pianoforte. Cosa ci si vuol dire con questa trovata? Che suonare il piano-forte è una mera questione di digitazione, un autono-mo sincronismo di giunture, e non conta nulla la cura del suono e il controllo di tutti i parametri tecnico-sti-listici in gioco e meno che mai il possesso di una cultu-ra storica. Con questa logica, una qualsiasi dattilografa ha buone possibilità di ambire alla carriera pianistica. Per altro verso non occorrerà soffermarsi troppo sull' infelice Helfgott e la sua titanica lotta per suonare da perfetto esagitato il diabolico «Rach3» (in Shine di Scott Hicks): vera epitome della peggiore platealità ap-plicata alla musica. The Piano invece è il titolo poco originale di un film super premiato di Jane Campion dove lo strumento, già statico ornamento da salotto, viene malamente scarrozzato per i mari del Sud e nella

sua nuova improbabile sede darà origine a non poche tortuosità sentimentali. L' avvolgente sound di Michael Nyman fa la sua parte nello stendere un' agglutinata pa-tina sentimentale sulla vicenda non priva anch' essa di qualche incongruenza.

La tromba è forse lo strumento che dà la resa visiva più convincente perché non richiede particolari prestazioni gestuali: difatti lo

Zampanò de La Strada risulta abbastanza accettabile, anche se – diciamolo – nell' insieme della filmografia felliniana le sequenze con strumenti (invero non po-che) sono piene di approssimazioni. In questi casi la ri-sposta all' obiezione è sempre la stessa: le storie di Felli-ni non vogliono essere realistiche, vi prevale la dimen-sione onirica. Benissimo; ma quei poveretti che in Pro-va d' orchestra si ingegnano a mettere insieme il pezzo non sono credibili neanche per un minuto perché, ad onta della loro evidente goffaggine, la musica che suo-nano (registrata in studio da una vera orchestra) ha e non può che avere una resa impeccabile, rendendo del tutto incomprensibili le escandescenze del direttore-dittatore che trova errori dappertutto. Il film si pone anche come una ingenua antologia di luoghi comuni sugli strumenti d' orchestra e sul rapporto che con essi hanno i relativi suonatori, tutti rientranti sotto la specie di una disarmante mediocrità umana. Prova d' orchestra è nei fatti un film cattivissimo, oltreché tra i più imbaraz-zanti quanto a resa visivo-musicale.

F ederico Fellini rappresentava una tipica fi-gura di intellettuale italiano: brillante e ge-niale in molti aspetti della cultura ma del

tutto disarmato nei confronti dell' arte dei suoni. Egli stesso ammetteva di non saper dare un senso alla mu-sica, di sentirla ostile, inafferrabile, pericolosa tanto più quanto essa si mostrava attraente e seduttiva. Sostan-zialmente ne aveva paura. Se poi i suoi film sono rima-sti famosi anche per l' apporto musicale è perché ha avuto la grande fortuna di imbattersi in Nino Rota, che capiva le sue intenzioni prima ancora che lui gliele

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esplicitasse, ed era capace di arrangiargli in quattro e quattr' otto i motivi più giusti che si possano desiderare.

P er il suo penultimo film, L' Intervista (senza Rota, ormai), la produzione aveva ingaggia-to un gruppetto di suonatori da utilizzare in

una sequenza; ma questi, arrivati alla loro postazione, non avevano trovato alcuna musica sul leggio. Non era proprio stata scritta. Quando si trattò di girare la scena, Fellini andò lì e cercò di rimediare al loro imbarazzo canticchiando un motivetto rimasticato (qualcuno so-stiene essersi trattato di una danza dallo Schiaccianoci di Čajkovskij, remoto ricordo della scena delle terme di Otto e mezzo), illudendosi che quei professionisti abituati a suonare da uno spartito cogliessero al volo il suo labile suggerimento e lo improvvisassero lì per lì senza nemmeno il tempo di un accordo, di una prova qualsiasi. Il grande regista non si sapeva capacitare del perché fosse così difficile mettere in attuazione una ri-chiesta per lui così banale. Alla fine è rimasta una sce-na agitata da un gran turbinare di coriandoli mossi da potenti ventilatori e una musica di sottofondo presso-ché inudibile: del resto il montaggio l' aveva ridotta a un brandello di pochi attimi.

La conclusione è che i cineasti sensibili alla musica e soprattutto dotati di vera compe-tenza in materia si contano sulle dita di una

mano. Tanto più vanno salutati con simpatia certi pro-dotti della vecchia industria di Hollywood come il più che noto Some Like It Hot di Billy Wilder, dove Tony Curtis e Jack Lemmon, in veste di jazzisti, offrono una prova convincente di scioltezza e di buona coordina-zione quando sono chiamati a (fingere di) suonare il saxofono e il contrabbasso. Purtroppo la musica classi-ca, a differenza dell' altra, porta su di sé la condanna di dover essere raffigurata attraverso pose ieratiche, sguardi fatali e un complessivo gigioneggiare che ser-virebbe, secondo gli intenti di alcuni, a drammatizzare il momento, renderlo nobile e importante, con il risul-tato però di far apparire tutto maledettamente falso.

E questo è l' altro errore capitale in cui il cinema tanto spesso cade.

U no dei paradossi della musica è quello di pre-sentarsi sotto l' apparenza di entità astratta, in-visibile, impalpabile, e al contempo di richie-

dere, per la sua stessa esistenza, l' azione ben concreta di un mediatore umano che ha l' ufficio di agire su strumen-ti all' uopo creati, mettendone in vibrazione con arte con-sumata le componenti materiali. Tutto questo lavorio di tasti premuti, corde sfregate, tubi soffiati può disturbare l' utente ' puro' , abituato ad un ascolto ad occhi chiusi da cui si ripromette di cogliere le tracce recondite di un per-corso elevato, eminentemente spirituale. Qualcosa di quell' atteggiamento di concentrazione ed estraniazione lo si trova riprodotto in certe stampe o dagherrotipi dell' Ot-tocento laddove, attorno ad un pianista intento alla sua opera, gli occupanti del salotto borghese si raccolgono co-me per la celebrazione di un rito d' iniziazione. Se il piani-sta in questione era Franz Liszt non si trattava dell' atteg-giamento giusto, o perlomeno non lo sarebbe stato se il concerto si fosse svolto in una grande sala pubblica. Era stato proprio Liszt a fissare le regole del moderno recital quale è arrivato fino ai nostri giorni, e soprattutto a im-porre per il pianista la visione laterale. Prima di lui il pia-nista dava le spalle al pubblico, dimodoché quest' ultimo perdeva la possibilità di vedere il tracciato ideale dal pezzo musicale tradursi nella mimica sensibile di chi lo esegui-va. La ' musica poetica' , ossia di contenuto, che Liszt perse-guiva come proprio fine estetico avrebbe perso molto del suo significato se depauperata di questa lettura di secon-do livello offerta dall' intero corpo dell' autore-esecutore che la sostanziava e le dava forma coerente. Che egli fosse particolarmente attento a questi aspetti esteriori lo si de-duce dalla sua stessa bellissima figura eretta, nobile, ispi-rata, i lunghi capelli ricadenti sulle spalle, la cappa di vel-luto che gli ricade attorno.

P rima di lui, e in maniera più esuberante, Nic-colò Paganini era stato suscitatore di entusia-smi deliranti anche per il messaggio che arri-

diego cescotti

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vava dalla sua figura nervosa, segaligna, scomposta e quasi intenta a una danza grottesca, quale ci arriva da certe sorprendenti silhouettes che ne accentuano il tratto di stregone, di mago, di spiritello. Il suo violinismo, che non si sarebbe potuto immaginare espresso in forme classicamente sobrie, era trascendentale nel senso che oltrepassava di molto i limiti comuni dello strumento, e questo trasumanare accentuava la morbosità attorno al-la sua figura, che era facilmente interpretata come dia-bolica (il violino, si sa, ha questa lontana taccia che non è mai riuscito a scrollarsi di dosso). La musica era agli al-bori della sua parabola romantica e tutto portava a que-sti eccessi di esteriorizzazione e spericolatezza, divenuti ormai abituali presso i cantanti rossiniani, le orchestre di Berlioz, i virtuosi della tastiera che a schiere gareggiava-no in infuocate competizioni.

I l secolo Ventesimo ha sancito che l' ascolto ispira-to non è il modo migliore per recepire il fenome-no musicale, ed Igor Stravinskij, preoccupato di

tenere il fatto musicale sotto stretto controllo razionale senza più smarrimenti e sviamenti mentali, si diceva dif-fidente nei confronti dell' ascolto con la testa tra le mani perché la componente visuale favoriva la perfetta com-prensione del brano, ne era anzi la parte integrante. Pos-siamo essere del tutto d' accordo con lui se poniamo men-te alla sua Sagra della primavera, specie per quanto ri-guarda il timpanista, che viene spesso collocato in una postazione elevata e centrale, direttamente in linea col di-rettore. Non c' è dubbio che soprattutto nell' ultima parte di questo pezzo (Danza dell' eletta) un solo errore del per-cussionista manderebbe a rotoli l' intera orchestra. È dun-que necessario che lo jeu de résistance richiesto da questa pagina esaltante sia condotto in perfetto stato di lucidità tra i due poli opposti della compagine strumentale, che devono agire in assoluta intesa, quasi come in collega-mento ipnotico.

Lo strumentalismo novecentesco ha preso un abbrivio addirittura impetuoso con l' opera generosa e fiduciosa di Paul Hindemith, già

concertista di viola e viola d' amore, ma anche conosci-tore e praticante di quasi tutti gli strumenti, a cui ha de-dicato almeno una Sonata, oltre a scrivere sette Kam-mermusiken per diversi organici, concepite in ideale analogia con i Concerti brandeburghesi. Di stile neo-bachiano si parla infatti riguardo alla sua musica, an-che e proprio per via di quell' approccio pragmatico e ' artigianale' alla materia che si manifesta nella grande solidità dell' insieme, nell' inflessibile nervatura ritmica, nel controllo rigoroso di tutte le componenti. Nella sua musica si ritrova tutto l' antico piacere fisico del suona-re insieme e anche quell' ineffabile senso di confidenza affettuosa verso il proprio strumento che è sempre sta-ta propria di chi, professionista o dilettante, svolge questo compito con coscienza. Per questo la sua musi-ca è idiomatica come poche e quindi spesso idonea al campo didattico; e se può essere abbastanza impegna-tiva, non costringe mai l' esecutore ad alcunché di for-zato o di stravagante.

O ggi, a cinquant' anni dalla sua scomparsa, pos-siamo riconoscere a Hindemith di aver costi-tuito un argine contro l' aridità dello sperimen-

talismo puro, ponendosi nel solco di un nuovo umane-simo. A livello più diretto, egli si era posto il compito di rimediare al grande sfacelo del suo Paese operando una ricostruzione culturale che tenesse conto delle me-morie storiche nazionali sedimentatesi nei secoli, dai canti dei Minnesänger ai corali luterani, dal concerti-smo dei Collegia Musica al complesso delle forme so-natistiche prodigiosamente fiorite nel periodo classico.

Più vicina a noi spicca la straordinaria esperienza delle Sequenze di Luciano Berio, che in numero di quattordici esplorano, per ciascuno degli strumenti trattati, soluzioni timbriche inimmaginabili, modifi-cando completamente l'approccio allo strumento da parte dell'esecutore e al tempo stesso il processo per-cettivo dell'ascoltatore, che ora si pretende quanto mai aperto ed evoluto.❧

Diego Cescotti

strumenti da leggere

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Nicotiana Tabacum

di Giuseppe Maria Gottardi

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G ironzolando per gli affasci-nanti meandri della Dor-dogna, nella splendida re-

gione dell’Aquitania, nel sud della Francia, sostammo, inevitabilmen-te invogliati da antiche reminiscen-ze letterarie, nella bellissima città di Bergerac. Quivi, percorrendo le an-guste ma straordinarie stradine che fecero conoscere al Mondo il miti-co signor Cyrano, avemmo anche il felice incontro con il più bel museo dedicato all’erba per tutti i mali: al Tabacco.

Situato nella maison Peyrarède al n. 10 della via Ancien Pont, que-sto museo ripercorre, con una ricca esposizione, la storia sociale e cul-turale del tabacco nel tempo e nelle civiltà.

Oltre agli affascinanti mate-riali esposti, tra cui una collezione dal valore quasi inestimabile di ca-lumets degli Indiani d’America, es-so offre, per il nostro particolare fu-rore, una splendida biblioteca su questo tema di più di 3.000 volumi, dove, sull’antichità dei molti, abbiamo lasciato umide ma invisibili tracce della nostra pas-sione.

Ovviamente, al termine della visita, non ci la-sciammo sfuggire uno dei 2.000 esemplari dell’opera di Bernard Clergeot, il conservatore di questo museo.

G razie alla dovizia d’informazioni storiche che ci danno queste due opere parleremo di que-sto Tabacco che, nel bene e nel male, fa parte

del nostro patrimonio culturale. Infatti, questa pianta è eminentemente culturale; essa ha accompagnato e tuttora accompagna l’uomo nei suoi bisogni religiosi, alimentari, terapeutici, politici, sociali ed anche psi-cologici.

Rifiutare questa visione com-porta usare, all’opposto, gli stessi termini di paragone.

Il tabacco è sul banco degli ac-cusati a partire dal 1986, ma questa contestazione era iniziata ancora all’inizio quando, scoperto da Cri-stoforo Colombo, esso venne intro-dotto in Europa.

Le “Autorità” (medici ed eccle-siastici) si trovarono subito in con-trasto. Se per i primi il tabacco era quasi un’erba santa, sacra, divina, per gli altri esso rappresentava l’er-ba di Satana, un’erba infernale, dia-bolica.

Comunque sia, il tabacco, alla stessa stregua della vite, del mais e del caffè è una conquista dell’Umanità e la sua diffusione e i suoi modi d’im-piego esprimono le diverse civiltà e la loro Weltanschauung.

Così in America numerosi miti associano il tabacco al sacro e gli sciamani-guaritori se ne servivano

a fini terapeutici. Simbolo del legame tra gli uomini e gli dei, esso ebbe anche una valenza politica. Basti pen-sare al ruolo giocato presso le popolazioni dell’est in America del nord, dal calumet fumato in comune, scambiato durante le discussioni; una specie di sigillo sociale fra compagni, addirittura salvacondotto in al-cuni casi. In altri casi il tabacco era segno dell’autorità di un capo; questo si osserva tra gli Aztechi ed i Sioux. Le pipe indiane furono di estrema varietà, spesso mol-to simili al tomahawk, la scure peraltro introdotta dagli uomini bianchi; dalle pipe tubolari proto-storiche, ai fornelli irochesi a becco d’uccello, alle pipe barocche dei Micmac, degli Tlinglit e Haïda della costa nord-ovest.

Al contrario, in Africa, il tabacco divenne oggetto di baratto durante l’epoca del commercio degli schiavi

Con questa pipa sacra camminerete sulla Terra, poiché la Terra è vostra Progenitrice e vostra Madre, ed essa è sacra. Ogni passo mosso sopra di Lei dovrebbe essere come una preghiera. Il fornello di questa pipa è di pietra rossa; esso è la Terra. Inciso nella pietra e ri-volto verso il centro c’è questo vitello di bisonte che rappresenta tutti i quadru-pedi che vivono su vostra Madre. Il cannello della pipa è di legno e rappre-senta tutto quello che cresce sulla Ter-ra. E queste dodici penne che pendono qui dove il cannello si incastra nel for-nello, vengono da Wanbli Gleska, l’A-quila Chiazzata, e rappresentano l’a-quila e tutti gli esseri alati dell’aria. Tutti questi popoli e tutte le cose dell’u-niverso si uniscono a voi che fumate la pipa, tutti mandano le loro voci a Wa-kan-Tanka. Quando pregherete con questa pipa pregherete per e con ogni cosa.

Hepaka Sapa (Alce Nero)

Nicotiana tabacum

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e consumato in pipe e fornelli sempre più grandi a se-conda del grado d’importanza del suo proprietario.

Nel vicino Oriente, il narghilé, una pipa ad acqua di origine egiziana, diventa una pratica collettiva rispet-tosa però delle classi sociali. Alla stessa origine si rifà il chibouk turco.

In Europa oltre la pipa, nei cui modelli si sono sbizzar-riti anche grandi artisti, fiorirono le tabacchiere, i sigari ed infine le sigaret-te. Al contrario degli al-tri continenti, in Europa l’uso del tabacco è più le-gato a connotazioni in-dividuali che rivestono la sfera della identifica-zione, dell’iniziazione, della affermazione so-ciale senza dimenticare la sfera sessuale.

Non c’è nulla da fare: il tabacco non è una pianta indifferente. Esso ci stimola, ci allieta, ci degrada. Il rapporto con questa pianta si esprime in mille modi: etnico, psicologico, so-ciologico, economico, ecc.

M a cos’è il tabacco?È una pianta del genere Nicotiana cha fa

parte della famiglia delle Solanacee come la patata, il pomodoro, la melanzana e il peperone. Sono piante annuali a fusto erbaceo e ne esiste una sessantina di specie diverse. Essa si divide in tre sottogeneri: Rustica che comprende nove specie; Tabacum, sei e che sono tutte originarie dell’America del Sud; il terzo sottogene-re Petunoide comprende quarantacinque specie origi-

narie dell’America del Nord, del Sud, dell’Australia e delle Isole del Pacifico.

Lo stato attuale delle conoscenze storiche archeo-bo-taniche ritiene che l’uso di fumare, masticare ed anche bere il tabacco sia stato inizialmente praticato sul con-tinente americano. È comunque accertato che gli abo-rigeni australiani masticavano, in tempi remoti, foglie

della varietà Nicotiana Suaveolens.

Recentemente un nuovo enigma si è posto con la scoperta di tracce di Nicotiana L. sulla mummia di Ramses II.

Questa specie non è stata ancora definita.

Benché qualcuno ab-bia ipotizzato la presen-za di pipe in argilla fin dalla prima delle grandi civilizzazioni messica-ne, quella degli Olmete-chi [1200-900 a.C.], i primi seri scavi archeo-logici riguardanti il ta-bacco vennero effettuati da Porter Muriel Noé nel 1948 nella regione messicana dell’Hausteca.

Il materiale scoperto consiste essenzialmente in pipe angolari in ar-

gilla di cui, alcune, sono antropomorfe o zoomorfe. La datazione cronologica oscilla tra il 1100 e il 1200

dopo Cristo.Per una succinta storia del tabacco facciamo ora rife-

rimento a Giuseppe Mauro con la sua Monografia del Tabacco, Napoli, Stabilimento Tipografico di R. Ghio, In S. Teresa agli Studi, 1866. Nello stesso testo è presen-te anche una interessante e curiosa Sinonomia del Ta-bacco.

giuseppe maria gottardi

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STORIA DEL TABACCO

Intra gli svariati scrittori v’ha divergenza, per al-tro non sensibile, di opinione sulla origine della in-troduzione dell’uso del tabacco; noi, tra tutte, ci at-teniamo in que-sto breve cenno storico, alla più accreditata tradi-zione.

L’ardito scopri-tore del nuovo mondo, il Co-lombo, dava il nome di tabacco a questa pianta che trovava nel 1494 [1492-1493] in Tabaco, la più piccola delle Iso-le nelle Antille; o più verisimil-mente in Taba-sco provincia del Messico.

Ciò che destò meraviglia pro-fonda negli Spa-gnuoli, era il ve-dere tra le labbra di quelli abitatori talune foglie sec-che, accartocciate, che accese all’estremo mandava-no un fumo denso ed aromatico. Questo piacque al loro gusto, e l’imitarono.

Relativamente poi all’epoca della introduzione del tabacco in Europa, si stima dai più, che l’Ammira-glio Spagnuolo Cortes nel 1510 ritornando da’ suoi

viaggi nel Nuovo Mondo, facesse un presente di

gran quantità di foglie secche di questa pianta al suo Monarca Carlo V; di poi, nel 1518 Francesco Her-mandez fecesi a spedire al suo governo in Portogal-

lo semi e piante di tabacco.

L’odore, ed il gusto di siffatta pianta piacque tanto al Gran Priore di Lisbo-na, che avendo-ne di continuo fatto elogio lus-suosissimo, fece in quei luoghi acquistare al ta-bacco il nome di Erba del Gran Priore. Un dì, l’ambasciadore di Carlo IX pres-so la Corte di Portogallo, Gio-vanni Nicot, re-cossi a visitare l’Orto botanico di Lisbona. Quel direttore, il cele-bre Damiano di Goes, fece a lui

dono di questa esotica pianta, e di buona quantità dei suoi semi, come pure d’una scatola di foglie di tabacco disseccate e ridotte in polvere. Immanti-nente l’Ambasciadore si premurò di fare invio di quel dono alla sua Regina Caterina dei Medici, la quale divenutane entusiasta, ne protesse l’uso non solo, ma volle che se ne fosse pur in Francia intro-

Nicotiana tabacum

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giuseppe maria gottardi

dotta la lavorazione; è per questa regia simpatia e protezione che fu colà chiamato il tabacco Erba del-la Regina.

Nel 1560 il Cardinale di S. Croce, Nunzio Aposto-lico presso la Corte medesima del Portogallo, sor-preso pur egli dal grato odore che tramandava il fu-mo di questa nuova pianta, ne inviava alcune al Pontefice in Italia, il quale ne commise la coltiva-zione ai Frati, che d’essa facendo uso grandissimo, ne estesero la coltura nei loro orti; e nelle province meridionali hawi tuttora una specie di tabacco, che era usata con predilezione dai Frati, la quale chia-masi Erba santa.

Finalmente Walker, favorito della Regina Elisa-betta, introdusse la pianta del tabacco in Inghilter-ra; ma per la inclemenza di quel clima non ha potu-to giammai avere colà una rigogliosa vegetazione.

Qualcuno, come Munay, mette in dubbio l’origi-ne di questa pianta, non attribuendola all’America, poiché dice, la cognizione della stessa si ebbe in Oriente circa un secolo prima della scoverta dell’A-merica, essendo in Persia e nelle Indie dai Sacerdo-ti usata per fumo, e dagli Augurii facevasi simil-mente uso di questa foglia, anco per fumo, affin di esaltarsi nelle loro vaticinazioni; ed apprestavasi colà pur come farmaco in varie malattie cutanee.

Giovanni Menandré asserisce di poi, che gli anti-chi isolani dell’America ritenevano essere il tabacco un talismano acconcio a sedare qualunque tempe-sta pur furiosissima, e quando vedevano imperver-sare il mare, ed alta una burrasca, immantinente fa-cevansi a spargere grossa mano di polvere di tabac-co nelle onde. In generale una virtù soprannaturale essi attribuivano a siffatta pianta, che stimandola prodigiosa, la impiegavano con fede religiosa in ogni maniera di pericolo o fatto ardito, affin di vin-cerlo con sicurezza, e con mezzi oltre gli umani. Es-si, per esempio, ne aspergevano la terra pria di dar

cominciamento ad una battaglia; la bruciavano

nel fuoco Sacro in onore dei loro Idoli, affin di cal-marne l’ira nei casi di calamità pubbliche, ed aspi-randone in simigliante emergenza il fumo, stima-vano le loro colpe perdonate; ecco dunque la ragio-ne per la quale osservasi varietà di opinione tra i di-versi Autori sulla sicura e vera origine della pianta Tabacco. Certo si è che i primi a farne stima ed uso furono gli Spagnuoli e Portoghesi per essere stati i più arditi navigatori e scopritori del nuovo mondo.

In sul cominciamento della sua introduzione in Europa si ebbe il tabacco fanatici passionati, e quin-di larghi apologisti, ed all’opposto pur violenti de-trattori. Questa pianta novera anche nella sua storia il gran pensiero e la grande cura che si dettero alcu-ni governi nel moderarne o vietarne assolutamente l’uso nei loro Stati. Giacomo primo d’Inghilterra, la cui tempra violenta di natura, e l’avventatezza dei modi son troppo note nella storia di quella grande Nazione, con suo speciale editto vietò assoluta-mente l’uso del tabacco ai suoi popoli. Amurat IV colpito dalla irriverenza di taluni suoi famigliari che si permettevano fumare nella Reggia, ne proi-biva chicchessia l’uso.

Nelle Russie l’uso del tabacco per fumo si slargò tanto, che non eravi persona la quale non amasse fumare, e fin le donne in aurate pipe aspiravano il fumo di questa foglia; e siccome ogni abito descrive la sua scala di progresso, giungendo sino al fanati-smo ed all’eccesso, così la pipa non si lasciava in quelle regioni gelide neanco in letto, e perché dal caldo del fumo ne traevano gratissimo un calorico al corpo assiderato, e perché avendo il tabacco la proprietà narcotica era assai acconcio a generare il sonno; – da siffatta eccedente abitudine nacquero inconvenienti spessamente seriissimi, poiché so-venti volte quei cittadini restando incoscienziosa-mente preda di profondo sonno, la pipa abbando-nata incendiava le coltri, e da queste l’incendio pro-pagandosi, ebbero a lamentarsi non poche vitti-

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me umane e distruzione di edifizi. Quel Governo, sistematicamente dispotico, osservando con ira i non lievi danni che procedevano dall’uso del ta-bacco per fumo, comminava severissime pene, tra cui leggevasi pur quella di cinquanta colpi di basto-ne contro chiunque, niuno eccettuato, non avesse saputo scompagnarsi dalla condannata abitudine di fumare la foglia tabacco. Affin di afforzare con logiche ragioni, ed onestare provvedimenti che aveano tutta la fisonomia della violenza e dell’arbi-trio, i governi che si fecero a proibire l’uso del ta-bacco per fumo, ogni cura si dettero nel far pubbli-care opuscoli da distinti medici dei loro Stati, con i quali costoro tutta la vigoria dell’ingegno e della propria dottrina impiegarono per dimostrare il danno sensibile, profondo, che alla salute dell’uo-mo recava l’uso del fumo del tabacco, quasi dichia-randolo potentissimo un veleno. Il tempo però, grande operatore di prodigi, perché scopritore del vero, e distruttore gagliardissimo dei pregiudizii e degli errori umani e sociali, è surto gigante a dimo-strare che l’uso, o non mai l’abuso, di questa foglia per fumo reca vantaggi non pochi alla salute, ed al vivere dell’uomo. Il fumo del tabacco corregge ed attutisce talune tensioni dello stomaco. È un pre-servativo contro i mali che procedono dall’umidità atmosferica che si è obbligati talune volte di assor-bire, quindi i navigatori, e gli uomini che sono ob-bligati in virtù del loro mestiere a vivere nelle cam-pagne, ed a coltivarle, utile grandissimo traggono per la loro salute dall’uso del fumo del tabacco. È ancora un preservativo per il mal di denti. È un compagno nell’isolamento. Fuga l’ozio, e con esso la noia. È un mezzo per distrarre l’animo dagli an-gosciosi pensieri che possono per avventura trava-gliarlo. Nei trasporti di violenta ira, spessamente quel fumo opera come un calmante sui nervi. Non pochi, ed in ispecie nella età avanzata della vita, o

quando la tempesta di alcuna passione ci bolle

nel petto, veggono nelle ore solitarie della notte, ore tremende in che i più tristi pensieri si dan con-vegno e si aggruppano per torturarci la vita, il son-no disertarsi affatto; – ebbene, il fumo del tabacco lo richiama, lo mette sulle nostre ciglia, e ne procu-ra quel riposo che è l’obblio dei mali, la calma dello spirito, il compenso alle forze affralite del corpo. Concentra l’animo alla meditazione, e lo rende atto a lavori intellettuali, per i quali stimavasi non esse-re la mente affatto disposta. Dopo non brevi fatiche durate, il fiuto del tabacco in polvere risveglia le fa-coltà dell’ingegno, e traendolo da quel torpore in cui si cade per fralezza, ad esso ridona tutta la pri-sca energia, rendendolo di nuovo acconcio a conti-nuare un lavoro, che senza l’ausilio di quel fiuto, si era forse obbligati a differire. Il dottore Ruefz di Strasburgo dice ancora che il tabacco toglie alcune volte il luogo di alimento alla vita umana; ciò, egli soggiunge, risulta dagli sperimenti fatti da molti viaggiatori, ed all’uopo si fa a raccomandarne l’uso agli uomini d’arme. Insomma il tabacco ha per sé il più eloquente argomento che siavi al mondo; il fat-to. – Certa cosa egli è che l’Universo oggi fuma e fiuta non solo, ma il consumo del tabacco cresce a dismisura, e tutto il mondo certamente mal non vi-ve pel tabacco, poiché se ciò fosse, il suo uso sareb-be menomato, e forse anco distrutto, poiché il prin-cipio della propria conservazione è sovrano, e radi-cato sin dal nascere nel cuore dell’uomo; ed invece noi vediamo che se ne aumenta e propaga la consu-mazione, in ispecie presso le nordiche regioni, i cui abitatori fan mostra di sana vita, robustezza di cor-po, e speciale longevità.

In effetti, guardato l’uso del tabacco sotto il pun-to di vista igienico, leggiamo nelle opere pubblicate da Fawler, dotto e noto medico inglese, che il ta-bacco sia farmaco giovevolissimo nelle idropisie, ed all’uopo egli non si rimane dall’indicarne in lun-ghissimo novero gli svariati e numerosi successi

Nicotiana tabacum

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ottenuti impiegandolo nella cura di detta seria in-fermità, e ne svolge con precise e minutissime par-ticolarità tutti i fenomeni che presenta prima di compiersi la guarigione, dicendo, che esso produce dapprima una vertigine, la quale cessata, succedo-no immantinenti abbondanti evacuazioni ed emis-sioni di urine, per i cui meati si scaturisce quella quantità di siero che ristagnandosi nel corpo dell’uomo produce il morbo ferale. – Il Dottore Hurteaux medico della Manifattura dei tabacchi in Parigi accerta che nelle epidemie coleriche del 1836 e 1854, gli operai addetti a quello stabilimento furo-no i meno flagellati da quel morbo in ragione degli altri cittadini, essendone stati inviati all’Ospedale nel periodo più fervente del 1836, appena cinque uomini, e diciotto femmine. – Ed in sostegno di quanto il detto medico asserisce relativamente a Parigi, uno dei più antichi e distinti applicati alla Manifattura dei tabacchi di Napoli assicura che nello stesso anno 1836, quando il morbo asiatico più infuriava in questa città, in detta Manifattura erano contagiati appena nove uomini e venti don-ne, di cui succumbettero quattro dei primi e dodici delle seconde. – Noi possiamo ancora certificare, che nella seguente epidemia del 1854 i morti non sorvanzarono il numero di due, e nell’ultima inva-sione del 1865, comunque mitissima in riguardo al-le precedenti, pure in ragione delle proporzioni serbate dal rapinare del morbo in tutta la popola-zione, lievemente fu offesa la famiglia dei lavorato-ri nella fabbrica di Napoli, poiché in un numero di circa 3500 individui non si è lamentato che solo un morto, e pur dubbio, essendo stato parere di varii professori, che quello attacco procedea più da affe-zione tifoidea, che dal morbo asiatico. M. Poirson, infine, medico della facoltà di Parigi commenta l’uso della Nicotiana in tutte le malattie sierose, e specialmente nel male dei denti; e per lo scorbuto

si fa a raccomandarla caldamente ai marinari, ri-tenendola salutare medela, acconcissima ad allon-tanare, per quanto sia possibile, questo morbo, che sviluppa con frequenza nelle lunghe navigazioni. Noi, quando parleremo delle proprietà di questa pianta, ne svolgeremo le virtù salutari con più spic-ciolato novero.

Fra gl’infiniti luoghi di produzione si distingue l’America, che ne ha formato uno dei suoi princi-pali rami d’industria, divisa in tre grandi regioni distinte per tre qualità diverse di foglie, cioè 1° la Virginia, al Sud; 2° tutto l’Ovest (Kentuky Tenessé Missauri); 3° il Maryland con una parte dell’Ohio del Nord orientale fino al Messico, rappresentante le qualità, forte, mezzana, e dolce; ed apparisce dal-le Statistiche di quella Nazione ascendere approssi-mativamente il suo prodotto ad oltre quint. 2,300,000.

Il prodotto eccede poi tanto il consumo interno, che ne avvanza da venderne più della metà, e per conservare il credito alla produzione tiene a sé leg-gi provvide che ne sorvegliano la coltura e l’espor-tazione. Ad alcuni potrebbe sembrare strano ed esorbitante questo nostro calcolo; ma noi rispon-diamo di aver attinte tali notizie dal rinomato eco-nomista M. Block nella sua relazione del 1852.

La quantità poi del tabacco che si consuma in Europa non si può con precisione ben determina-re; ma per dire alcun che su questa importante no-zione, ci siam fatti a riscontrare scritti di chiari Au-tori e giornali Statistici per quanto ci sia tornato possibile, e dalle notizie tolte da coloro che abbia-mo stimato meglio informati, benché nulla di pre-ciso e sicuro avessimo potuto raccogliere, pare as-sai probabile che la cifra ascendesse presso a poco a quint. 5,017,000, dei quali un terzo e forse più si esporta dall’America e dall’Asia, e gli altri due terzi sono prodotti Europei in proporzioni diverse, cioè

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SINONIMIA DEL TABACCO

Noi troviamo utile descrivere tutti i nomi che sono dati al tabacco dai differenti popoli, ed in diverse epoche.

Garzia du Jardin e Maugnenus assicurano, che il vero nome di questa pianta presso gl’Indiani è pi-cielt.

Al Paraguay, ove il tabacco pare che vi abbia esi-stito in tutti i tempi, è conosciuto presso i Guaranis sotto il nome di pety, che sarebbe il medesimo di petun impiegato per distinguere sulle coste delle Amazzoni le piante del Brasile. Questi due nomi per effetto della maniera come vengono pronuncia-ti indicano perfettamente il rumore che producono le labbra allorché lasciano scappare il fumo del zi-garo o della pipa.

Noi apprendiamo da Alfredo Demersay le diver-se denominazioni colle quali viene designato il ta-bacco in Africa, e nell’Oceania.

Pety, tabacco, d’onde il nome di petygua mensile di cui si servono per ingoiare o sorbire il tabacco; petynguara bevitore di tabacco; apetymbù che esprime l’azione che consiste a cacciare il fumo del tabacco dalla bocca e dalle narici. Questi vocaboli sono in uso presso i Guaranis del Paraguay.

Nel Brasile si nomina petun o petum. Costatando la sua antichità dalle Indie occidentali, Pison il pri-mo che ha ben descritto le piante del Brasile, ha da-to a questa pianta il nome di petume o tabacum. Se-guendo il dizionario della lingoa geral pubblicato nel 1795, questa pianta è designata sotto il nome di pytyma. Pytyma cui è il nome del tabacco in polve-re, e la voce pytyma tyba esprime la coltura.

Gli abitanti di Nicaragua lo nominano ynpoqueto.Si nomina ancora:Dai Messicani Quavhyelt, quauhietl o quauryell;Dai Caraibi: Secondo Laborde Y-oculi; Da Breton Youli; Da du Tertre Yoli.

Nella Gujana Tamoui;In Haïti Cozobba o Cazoba;Nella Virginia Uppuvoc;Presso i Mandigues Siré.

L’alterazione della parola tabaco ha prodotto le se-guenti denominazioni:

Presso gli Esquimali Tawac;Dai Bramini la pianta è denominata Ou-baco;Dagli abitanti delle Filippine E-baqué;Da quelli delle Caroline Tammako;Nel Ceylan il tabacco trinciato Kapada;Nel Bengala Tumac;Nell’Indostan Tambaca, o Bujjirbhang.

Dagli altri popoli viene denominato:Nel Maryland Oroonoko;In Alemagna e Danimarca Toback;Dagl’Inglesi Tabacco e snuff;Dagli Arabi Dukan;Dai Giapponesi Bujjerbhang, e Tumbroeo;Dai Chinesi Sang-yen;Nella Cocincina Thuoc;Dagl’Indiani Tuwbaku;Dagli Spagnuoli e Portoghesi Tabaco;Dagl’Italiani Tabacco;Dagli Olandesi e Polacchi Tabak;Dai Malesi Tambracu;Dai Russi Tiotion;Dai Circassi Zchichir;Nel Sanscrito Dhumrapatra e Tamrakoota;Dai Tartari Tamer e Tutun;Dagli Arabi e Turchi Tuttun;Dai Greci Kαπνό

Nicotiana tabacum

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giuseppe maria gottardi

una gran parte della Germania e dell’Olanda, parte poco minore della Russia, Austria ed Ungheria, poi del Levante e dell’Algeria, ed in quantità consimile dell’Italia, e minore degli altri Stati.

Si calcola la somma totale d’imposta sui Tabac-chi in Europa a circa 550,000,000 di lire. Certo che ove è più grande la coltivazione si osserva più familiare il consumo, e di conseguenza maggiore il contrabbando. Vi è chi asserisce che la Germa-nia ricavi una tassa personale eguale al consumo di Kil. 5 di Tabacco a testa per ogni maschio sopra ai 18 anni, nel Belgio similmente di Kil. 4½; in Olanda e Danimarca di 4, e nell’Austria di 3½; questi calcoli li crediamo molto dubbi. Pare poter-si asserire che tale imposizione indiretta conside-rata come dazio d’importazione ed esportazione, o altrimenti come privativa, dia un profitto al Re-gio Erario di circa lire 4 per testa, secondo l’esten-sione dell’uso più o meno diffuso. È da notare eziandio che queste cifre possono variare, anzi va-riano a causa del gran contrabbando che ovunque grandeggia, e che moderare si può, ma non mai intieramente estirpare, come in prosieguo a suo luogo si parlerà con molta specialità. Per esempio citiamo per ora l’Inghilterra, la quale non ostante l’inibizione della coltura, e le sue severissime pene d’importazione, è costretta soffrire anche il con-trabbando, molto però di meno di quello che si sperimenta nei luoghi di produzione della nostra Europa.

Cosa strana, dice Demersay, che durante l’antica denominazione del tabacco, si diffuse per l’Univer-so quella che un tempo fu adottata dagli abitanti del Paraguay e del Brasile. In alcuni Dipartimenti della Francia, e specialmente i Bretoni, disegnano il ta-bacco ancora sotto il nome di betum o betun.

In Francia, atteso il carattere che distingue quella Nazione, questa pianta ha ricevuto diversi nomi

che interessa descrivere. Nel 1556 Andrea Thevet

fu il primo ad importarla dandole nome di Erba angoulmoisine, da quello della provincia francese ove furono eseguiti i primi tentativi della coltura di questa pianta.

Dopo quattro anni l’erba angoulmoisine senza alcun dubbio non era ancora pervenuta a quella Corte, allorché Giovanni Nicot la fece conoscere, ed a proposta del Duca di Guisa, fu chiamata Ni-cotiana, in ricordo di Nicot che l’aveva inviata dal Portogallo.

Più tardi, siccome dicemmo, la Regina Caterina de’ Medici si dichiarò protettrice di questa pianta, ed i cortigiani non mancarono di denominarla erba della Regina, e perciò il tabacco per qualche tempo conservò questo nome.

Di poi Giacomo Gohori, al quale si deve una pic-cola opera sul tabacco, cercò far prevalere il nome di Medicea o Caterinea in omaggio del nome e co-gnome della Regina, e con lo scopo ancora di fare accettare e nel contempo adottare alla Corte il suo libro; a quale oggetto egli s’indirizzo al Medico e Chirurgo Botal, unico borghese che avea accesso al Louvre. Il detto Dottore prese la cosa in particolare considerazione, ed egli racconta come il libro fosse presentato alla Regina madre del Re, a cui era stato dedicato, associandosi nella presentazione ad un altro dotto Medico a nome Vigor suo antico amico, per conoscere se sarebbe gradita a sua Maestà la proposta del nome; ed essendo stato accettato ne fu pubblicato il discorso, e quindi venne adottato il nome di Medicea.

Qualche memoria del tempo riporta ancora che il gran Priore di Francia della casa di Lorena facea smodato uso del tabacco, e la sua avidità era tale da consumarne ottantuno grammo per giorno; e sic-come era l’epoca che il tabacco principiava a met-tersi in uso, coloro che ne prendevano, nell’entusia-smo del loro neofitismo, assegnarono al tabacco il nome di erba del gran Priore, e per qualche tempo

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Nicotiana tabacum

ebbe l’onore di una tale nomenclatura, siccome ab-biamo di fuga pur altrove cennato.

Gli esaltati amatori di esso nella Spagna denomi-narono il tabacco panacea antartica; erba per tutti i mali; senza dubbio a causa della virtù che credeva-no in esso riconoscere. Lo chiamarono ancora Er-ba Santa Sacra, o divina, perché al dire di Brunet, certe persone credevano che essa aveva la facoltà di renderli sani e puri qualora ne usavano con mode-razione, e come moderativo della concupiscenza, e correttivo degli umori del corpo che turbano gli organi dei sensi stimolanti della voluttà.

Il Cardinale di S. Croce Nunzio in Portogallo, e Tornabuono Legato Apostolico in Francia furono i primi ad introdurlo in Italia, e perciò fu chiamato Erba di Santa Croce, o Erba Santa.

Altri Autori lo chiamarono Erba baglossa antarti-ca, ed i nemici accaniti la denominarono Giusquia-mo del Perù, col fine di farla riguardare come pianta nociva, discreditandola presso i consumatori.

Oviedo nel libro XI Capitolo V della sua Storia dice, che nelle Isole Spagnuole, ove a’ suoi tempi il tabacco vegetava in abbondanza, gli abitanti lo chiamavano perebeçenue, ma dalla descrizione che ne fa sembra a Garzia du Jardin che si rapporti allo giusquiamo nero.

Infine è dovuto agli Spagnuoli, che lo conobbero i primi, il nome di tabacco, tratto al dire di molti autori da Tabago piccola Isola delle Antille, o da Tabaco provincia del Yucatan ove essi l’incontraro-no per la prima volta, o pure da Tabasco Città del Messico. Ferdinando Denis poi ci fa leggere una lettera piena di erudizioni con la quale si sforza a provare che il nome di tabacco è nato da Tabacco, nome che gli abitanti di S. Domingo danno alle lo-ro pipe primitive.

Dall’altra parte Cristoforo Colombo prima di ab-bordare a Tabago aveva di già disbarcato sulla

spiaggia di Cuba nel 1492. L’istoria di questo

grande uomo ci dice positivamente che esso inviò esploratori nell’Isola di Cuba, i quali incontrarono nel cammino uomini e donne indiane che aveano in bocca un piccolo tizzo acceso, composto di una sorta di erba d’onde ne aspiravano il fumo, e preci-samente questi piccoli tizzi, zigari o pipe, avevano il nome di tabagos.

Bartolomeo de Las Gazas scriveva nel 1527: «Gl’Indiani hanno un’erba da cui ne aspirano il fu-mo con delizia; quest’erba è situata in una foglia secca a fazione di quei moschettoni che fanno i bambini in occasione della Pasqua. Seguita col di-re, che gl’Indiani l’accendono da una delle estremi-tà e succhiano ed inghiottono dall’altra estremità il fumo che aspirano col loro fiato, il quale produce in essi un assopimento in tutto il corpo, degene-rando poi in una certa specie di ebbrezza. Essi allo-ra asseriscono che non sentono più la fatica. Questi moschetti o tabagos com’essi li chiamano sono in uso presso tutti i nostri coloni; e volendo reprimere questi cattivi costumi, essi rispondono essere im-possibile potersene allontanare. Io non so qual gu-sto, e qual profitto vi possano trovare».

Infine noi troviamo utile presentare la figura e la descrizione del primitivo istrumento al quale il ta-bacco deve il suo nome.

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Gl’Indiani delle coste dell’Isole fra gli altri vizi ai quali sono dediti, ve n’è uno più cattivo, cioè quello di prendere dei frantumi di una certa erba ch’essi chiamano tabaccos allorché vogliono uscire fuori di sensi, e questo appunto lo fanno col fumo e pro-fumo della suddetta erba, la cui pianta è somi-gliante a quell’alberetto che in Castiglia si chiama volgarmente Veleno, altrimenti detto anebane o giusquiamo che raccolgono in certe ceste. I princi-pali abitanti hanno dei piccoli bastoni vuoti, molto politi e ben fatti, della grandezza circa di un palmo, e della grossezza di un dito piccolo della mano, a cui sono unite due piccole cannette che terminano in una, come precisamente è qui dipinta, tutta di un pezzo, e che situano alle loro narici, mentre l’al-tra estremità semplice resta piena di erba che fuma bruciando. Essi bruciano ancora le foglie della

medesima erba molto frammischiate ed invilup-pate, ricevendo in tal modo il vapore del fumo due tre ed anche più volte fino a che non cadono in un sopore e dimorano distesi per terra perdendo il sentimento, e restano per lungo tempo addormen-tati di un sonno grave e pesante; e quelli che non possono avere questi piccoli bastoni fanno uso di un tubo con una cannella di rosa, a mezzo del qua-le istrumento aspirano questo profumo detto ta-bacco.

Come si vede, la voce tabago o tabacco è cono-sciuta molto avanti dell’Isola che più tardi prese il consimile nome, e per conseguenza è più probabi-le che il nome Spagnuolo fosse preso dall’istru-mento o dalla materia di cui i naturali si servivano per fumare.

giuseppe maria gottardi

LA RIVISTA DEL FUROREGIOVA GRANDEMENTEALLA SALUTE MENTALE

DEI SUOI LETTORI

Il grande successo della Nicotiana con libero consu-mo durò tuttavia per poco tempo perché, già nel 1604, iniziarono violente proibizioni da parte dei Governi. Per prima l’Inghilterra con Enrico VIII; il Giappone nel 1607-1609; l’Impero Ottomano nel 1611; l’Impero Mogol nel 1617; Svezia e Danimarca nel 1632; la Russia nel 1634; Napoli nel 1637; la Sicilia nel 1640; la Cina nel 1642; gli Stati della Chiesa sempre nel 1642.

Riguardo a quest’ultimo governo si fa riferimento al-la Bolla di Papa Urbano VIII che puniva con scomuni-ca chi avesse l’ardire di prendere tabacco, in qualsiasi modo, nelle chiese. Questa scomunica fu rinnovata con Papa Innocenzo X nel 1650; nel 1681 da Papa Inno-cenzo XI e nel 1690 da Papa Innocenzo XII, ma Bene-detto XIII, lui stesso grande tabaccone, nel 1724 revocò le scomuniche.

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Nicotiana tabacum

IL TABACCO NEI LIBRI

B enché, come abbiamo visto, il tabacco abbia fatto la sua comparsa in Europa fin dal 1510 con Cortes, occorre attendere il 1564 perché

esso venga descritto in maniera esauriente. In alcune rappresentazioni precedenti da parte di Dodœns (1554) e Mattioli (1563) il tabacco appare tra le solanacee sotto forma di un misterioso ed indefinito giusquiamo.

Il primo autore è quindi il medico e agronomo fran-cese Jean Liébault nato a Digione nel 1535 e morto a Pa-rigi il 21 giugno del 1596. Nel suo Agriculture et Maison Rustique edito dal suocero stampatore Charles Estien-ne nel 1564 e più volte ristampato fino al 1570 dedica, per primo, un lungo capitolo al tabacco. Lo definisce: «la prima tra le erbe medicinali a motivo delle sue virtù

uniche e quasi divine». Descrive la Nicotiana Rustica L. considerata come un petum femminile, opponendola alla Nicotiana Tabacum da lui definita maschile. Cono-scendo Nicot sarà lui che proporrà di chiamarla nico-tiana in onore di colui che per primo l’aveva introdotta in Francia.

Nel 1569, Mathias L’Obel (1568-1616) e il suo collabo-ratore Pierre Pena (1520/35-1600/05) pubblicheranno un’importante opera di botanica e medicina: Stirpium Adversaria Nova nella quale definiranno il tabacco: «Indorum Sana Sancta Sive Nicotiana Gallorum».

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Nel 1571 Nicolò Monardes di Siviglia (1500-1578) pubblicò un’opera dal titolo: Secunda Parte de las Cosas que traen de las Indias nella quale fece sintesi delle co-noscenze e leggende sul tabacco. Al già ricco catalogo del Liebault, Monardes aggiunse: «i morsi velenosi, le affezioni di petto di qualsivoglia natura, la cefalea, le tu-mefazioni, il reumatismo, il male di denti, i raffredda-menti, le congestioni, i mali di ventre, la stitichezza, i cal-coli renali ecc.», in verità, tutte le malattie in cui il fred-do fosse ritenuto la causa primaria. Per quanto riguar-da il tabacco, questo libro divenne il punto di riferi-mento per i medici che parteggiavano per il tabacco e per tutti gli altri botanici o medici che scriveranno sul tabacco nel XVI e XVII secolo.

Jacques Gohory [alias Orlande de Suave o Leo Sua-vius], nato a Parigi il 20 gennaio 1520 ed ivi morto il 15 marzo 1576, fu il primo a dedicare un testo esclusiva-mente al tabacco. Nella sua opera Instructions sur l’Her-be Petum dite en France l’Herbe de la Reyne, ou Medicée propose di abbandonare il nome di Nicotiana e di so-stituirlo con quello di Medicea in onore della Regina Caterina.

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Nicotiana tabacum

La prima importante monografia sul tabacco venne alla luce a Leyda nel 1622 grazie all’impegno di Johan-num Néander (1596-1630) di Brema. Quest’opera mo-strò per la prima volta tre tavole nelle quali si vedevano degli Indiani d’America al lavoro in una piantagione di tabacco europea.

Ma ormai i tempi sono maturi e le conoscenze bota-niche vanno facendo consistenti progressi.

Un’opera capitale nella storia della botanica è quella del francese Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708) nato ad Aix-en-Provence. I suoi Eléments de Botanique ou Méthode pour connaître les plantes sono il primo esempio di classificazione metodica che aprirà la stra-da al grande Linneo. Per il tabacco egli classifica tre so-le specie.

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Dopo la confusione del XVI secolo ed i tentativi di classificazione del Tournefort, un anno prima della morte di quest’ultimo, il 23 maggio 1707, nasce a Råschult in Svezia Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi. Infatti la L., posta spesso a seguire delle indicazioni di nomenclatura bi-nomiale nei cataloghi di specie, identifica il cognome dello scienziato.

Nel suo testo fondamentale Species Plantarum (Stoc-colma, 1753), egli distingue quattro specie nel genere Nicotiana: Tabacum, Rustica, Paniculata, Glutinosa.

Per la Petunoide si dovrà attendere il 1837.

La strada era aperta e, a Linneo, succedette lo scozze-se Georges Don (1798-1856) che nel 1832 pubblicò il suo A General system of gardening and botany nel quale propose una classificazione tassonomica delle specie di Nicotiana che rimase valido fino al 1954 quando Tho-mas Harper Goodspeed imporrà la sua speciale classi-ficazione (ancora oggi insuperabile) determinata dai caratteri morfologici delle specie, dalla loro distribu-zione geografica, dai caratteri citologici e dal compor-tamento dei loro cromosomi. Sarà lui a suddividere il genere Nicotiana in tre sottogeneri, contando infine sessanta specie.

È comunque indispensabile ricordare il nostro Ora-zio Comes (Monopoli, 1848 - Portici, 1917), botanico

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sublime, per i suoi studi sulla fitopatologia del tabacco. Condusse delle sperimentazioni decisive nel Giardino Botanico di Portici e nell’Istituto Sperimentale dei Ta-bacchi in provincia di Salerno. Le sue opere sul tabacco sono celebri: Monographie du genre nicotiana compre-nant le classement botanique des tabacs industriels, Na-poli 1899; Histoire, géographie, statistique du tabac: son introduction et son expansion dans tous les pays depuis son origine jusqu’à la fin du 19. siecle, Napoli 1900.

Infine, non possiamo dimenticare lo splendido lavo-ro di William Bragge: Bibliotheca Nicotiana; a catalo-gue of Books About Tobacco ecc., le cui prime sessantun pagine di bibliografia storica sono un’autentica miniera d’oro.

Ai giorni nostri la battaglia contro il tabacco è un fiu-me in piena. Nessuno, con tute le fascine al cuert, può pensare di riproporre un uso terapeutico di questa pianta e nemmeno pensare a suoi possibili benefici. Le ricerche mediche attuali ne sconsigliano il consumo a tutti i livelli.

Tuttavia, nel profondo, rimane un unico dubbio: per-ché Dio o la Natura, a seconda della credenza di cia-scuno, ha creato o sviluppato una pianta così buona a fumarsi?

State in salute… se potete.❧

Giuseppe Maria Gottardi

Nicotiana tabacum

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Conversazioni Bibliofilea cura di Giuseppe Maria Gottardi

giuseppe Maria gottardi

J. Lemaitre, Les vieux Livres

G li otto volumi gia-cevano separati in mezzo ad un

miscuglio eterogeneo di romanzi fantasy di varia natura. Erano come dei pesci fuor d’ acqua. Non era certo quello il loro po-sto. Erano già miei, appe-na li vidi.

Sei di essi godevano di un’ ottima rilegatura che si rivelò, grazie alla micro-scopica etichetta, opera della Petite Fusterie Librai-rie H. Robert di Genève. I dorsi portavano un cartel-lo in pelle con scritte dora-te: j. lemaitre – les contemporins.

Il settimo, giustificato dal fatto di essere uscito in edizione tre anni do-po, era a sua volta rilegato ma di ben altra fattura pur mostrando un mal-destro tentativo di copiare i fratelli, ed il cartello di colore diverso riportava: lemaitre – les contemporans.

Tutte e sette queste rilegature

contenevano l’ opera omnia, appar-sa in vita di Jules Lemaitre – Les Contemporains. Études et portraits littéraires il grande accademico francese e tutte, come possiamo os-servare, avevano le scritte sul car-tello sbagliate.

Per il prezzo di sette euro, che mi guardai bene dal discutere, ebbi co-

me aggiunta l’ ottavo li-bro; un’ ulteriore opera del Lemaitre: En Marge des Vieux Livres non rile-gata ma nella sua preziosa carta giallina.

Benché il Lemaitre ab-bia raggiunto un suo po-sto nella storia letteraria francese grazie proprio ai suoi studi e ritratti dei suoi Contemporanei, è nell’ ottavo libro che io cercavo materia per i miei pazienti lettori.

Da diverso tempo, in-fatti, avevo incontrato dei riferimenti di questo au-

tore alla bibliofilia, ma non mi era stato possibile rintracciarne il testo.

Ed ora eccolo qua, ma, prima di presentarvelo è necessario fare una piccola premessa.

Nei primi nove numeri della no-stra bellissima Rivista (ma si accet-tano anche opinioni discordanti) abbiamo sempre presentato qualsi-

Non so saziare la brama di aver libri, avvegnaché già molti, e forse più del bisogno io ne possegga. Ma avvien de’ libri, quello che di tutte le cose: più ti vien fatto cer-cando trovarne, e più l’ avidità d’ averne altri ti punge: anzi ne’ libri v’ è alcun che di singolare. L’ oro, l’ argento, le gemme, le ricche vesti, i marmorei palagi, il terreno ben colto, le dipinte tele, il bardato corsiero ed altre cose delle sì fatte dànno un piacere per dir così muto e superficiale: i libri ti recano un interno diletto, parlano teco, ti consi-gliano, e a te per certa viva e penetrante familiarità si congiungono. Né di sé stesso soltanto istilla un libro ai suoi lettori amicizia, ma i nomi eziandio di altri gli sug-gerisce, e l’ un dell’ altro ingenera il desiderio.

Francesco Petrarca, vol. III, Lett. XVIII (1325-1374)1

1 - Francesco Petrarca – Delle cose Familiari libri ventiquattro, Lettere varie libro unico, ora la prima volta raccolte e volgarizzate e dichiarate con note da Giuseppe Fracassetti. Felice Le Monnier, Firenze, 1863, Vol. Primo, p. 460.

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conversazioni bibliofile

asi testo straniero con la sua traduzione. Qualcuno però (abbiamo ricevuto qualche osservazione in merito) ha avanzato l’ obie-zione che non è sempre utile averla e che forse, laddove essa non presenti grosse dif-ficoltà (per esempio un testo in lingua ur-du), sarebbe forse più bello lasciare spazio alle conoscenze linguistiche dei nostri esi-mi lettori.

Per questo motivo l’ articolo del Lemaitre viene presentato nella sua lingua originale. Tuttavia, qualsiasi richiesta, scritta o per e-mail che ne richieda la traduzione, verrà e-vasa dalla Redazione.❧

Giuseppe Maria Gottardi

françois Élie Jules leMaitre, nato a Ven-necy il 27 aprile 1853 e morto a Ta-vers il 5 agosto 1914, fu scrittore e critico drammatico francese. Pro-fessore di Retorica al liceo di Havre, conferenziere alla Scuola superiore di Algeri nel 1880, incaricato di let-teratura francese alla Facoltà di Let-tere di Besançon nel 1882 e profes-sore in quella di Grenoble nel 1883. Collaboratore della “Revue bleue” e del “Temps”, si fece un nome come critico drammatico nel “Journal des Débats”. Le sue critiche vennero rac-colte ne: Le Contemporains (7 se-rie: 1886-1899) e nelle Impressions de théâtre (10 serie, 1888-1898). Nel 1884 rinunciò all’ insegnamento per consacrarsi in toto alla letteratura. Venne eletto all’ Académie française il 20 giugno 1895.

jules lemaitre

Les vieux LivresLecture faite à l’ Académie française

Messieurs,Il me semble que tous les collectionneurs – à moins que l’ objet de

leur manie ne soit décidément absurde – sont respectables à quel-que degré. Ils combattent et retardent, sur un point, l’ universelle et inévitable destruction. Ils sauvent et conservent du passé, et du pas-sé choisi.

Mais j’ estime que, parmi eux, celui qui s’ attache aux vieux livres est particulièrement bien inspiré. Car il ne conserve pas seulement, comme les autres collectionneurs, un objet, d’ art (c’ est ici la reliure qui, si elle est belle, est œuvre de l’ esprit autant que de la main): il conserve encore ce qui fut, par la lettre imprimée, l’ expression di-recte de l’ esprit. Il lui arrive même, par l’ heureuse réunion de ces trois choses; vieille reliure armoriée, texte important, provenance il-lustre, de posséder et de sauvegarder des fragments d’ histoire triple-ment vivante.

Il y a quelques années, passa dans une vente l’ exemplaire, aux ar-mes de Richelieu et annoté par lui, des Sentiments de l’ Académie sur le Cid; une autre fois, ce fut l’ exemplaire d’ Esther offert par Ra-cine à Mme de Maintenon, avec dédicace autographe. Oh! Ne dites pas: «Qu’ est-ce que cela nous fait?» Quelle âme bien située et, par conséquent, respectueuse de l’ Académie, quelle âme amoreuse de Racine et intéressée par la jolie aventure de Saint-Cyr resterait froi-de devant ces deux livres, en songeant à qui ils ont appartenu, par qui ils ont été offerts, par qui ils ont été feuilletés, et quelle main, se posant sur leurs pages; conduisit la plume d’ oie dont ils ont enten-du le petit cri et senti l’ égratignure, il y a deux cent soixante-dix et deux cent vingt ans?

Mais ce sont là joyaux exceptionnels pour amateurs opulents. Il est des trésors plus accessibles et qui ont encore leur charme: par exemple, un bon vieux livre classique; contemporain de l’ auteur; en bonne condition, avec del bonnnes marges et reliure du temps, en maroquin s’ il se peut.

Certes, je ne dis pas de mal des splendides reliures d’ aujourd’ hui. Elles sont extrêmement ingénieuses. Ce sont parfois de vrais

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petits tableaux en mosaïque. On y met des lis, des iris, des chardons, des profils de femmes et des têtes de morts. L’ exécution est plus parfaite qu’ elle ne fut jamais. Même quand le décor ne consiste qu’ en filets, fers ou plaques, cela est d’ une netteté, d’ une exactitude à laquelle les doreurs de jadis n’ atteignaient point.

Mais, le dirai-je? Une des choses qui me touchent dans les beaux dessins des antiques reliures, c’ est que jamais ils ne sont d’ une géométrie irréprochable; toujours quelque tremblement ou quelque hésitation des lignes nous rappel-le et nous rend présente la main vivante et mobile de l’ ouvrier qui les exécuta. Joignez que le temps assourdit délicieusement les ors et qu’ il donne aux peaux, surtout aux rouges et aux vertes, des tons d’ une douceur, d’ une ri-chesse, d’ une somptuosité à demi éteinte, d’ un fondu et, si je puis dire, d’ une onction que nul artifice ne saurait imiter.

Et ce n’ est pas tout: le contenu de ces vieux livres y sem-ble bien meilleur que dans une réimpression moderne. Je songe surtout, ici, à certains textes du second rang, qui sont curieux, qui ont jadis paru beaux, qui ont encore leur prix, mais dont la lecture, dans une édition d’ aujourd’ hui, est tout de même un peu laborieuse. Eh bien, lisez-les dans un volume, sur du papier et dans des caractères qui leur soient contemporains, la lecture, vous en deviendra facile. Ce se-ra comme si l’ aspect et le toucher du vieux livre vous incli-nait à l’ état d’ esprit des ancêtres pour qui ces moralités et ces histoires furent écrites. Les locutions aujourd’ hui vieil-lies vous surprendront moins, et vous entrerez plus aisément dans le genre d’ affectation ou de pédantisme pro-pre au temps où ce bouquin vénérable fut imprimé. J’ irai plus loin: je crois que les grands écrivains eux-mêmes ga-gnent à être lus dans une édition de leur âge.

Que sera-ce dans la première édition, dans l’ édition ori-ginale!

Ici, un homme sensé pourra dire: «Je comprends que l’ on recherche les vieilles reliures au même titre que les vieilles assiettes. Avec les vieilles reliures, d’ ailleurs, on fait de très jolis buvàrds… Mais qu’ est-ce qu’ une édition origi-

nale a de si excitant? En quoi la première édition d’ un

ouvrage classique diffère-t-elle de la deuxieme et des sui-vantes, sinon par une date sur le titre? Et cette différence justifie-t-elle des écarts de prix qui vont comunément à quelque centaines d’ écus?»

Ah! Messieurs, que voilà des propos superficiels! J’ espère pour vous que, si vous aviez entre les mains l’ édition origi-nale du Cid, d’ Andromaque ou de l’ École des femmes, vous sentiriez bien autrement. A coup sûr, vous entreriez en méditation et vous vous diriez:

– Ainsi, les caractères imprimés sur ce papier jauni sont les premiers, – les premiers! – qui aient traduit aux yeux tel chef-d’ œuvre du génie humain. Ils sont les premiers où Corneille; Racine, Molière, aient reconnu leur pensee de-venue visible, et détachée d’ eux-mêmes. Auparavant, ces œuvres n’ existaient que sur des feuilles manuscrites dispa-rues et sous le front de leurs auteurs. J’ en tiens dans mes mains la première expression matérielle, publique et dura-ble. J’ assiste, pour ainsi parler, à leur naissance, qui fut un moment auguste de l’ histoire littéraire.

Ah! Ces yieux feuillets sont pleins de vie… Le veille, on ne les connaissait pas… Un jour, ils ont paru tout à coup, sous leur modeste et solide habit de veau ou de vélin; dans la boutique de Bárbin, au Signe de la Croix; ou de Ribeu, à l’ Image saint-Louis, sur le perron de la Sainte-Chapelle. Tel bourgeois plein de prud’ homie, tel gentilhomme oui telle dame, – habillés comme on les voit encore aujourd’ hui dans les pieces du repertoire, – ont aperçu à l’ étalage le vo-lume tout neuf et l’ ont acheté trente sols. Mme Sévigné peut-être ou Mme de Lafayette l’ a fait demander par son laquais, ou bien, passant par là, est descendue de sa chaise ou de son carrosse et, après avoir échangé avec Barbin quelques phrases obligeantes, elle a acheté elle-même son exemplai-re, – un exemplaire pareil à celui que je tiens, celui-là même peut être, – et remontée dans sa voiture, elle s’ est mise à le feuilleter, en attendant la fin d’ un de ces embarras de rues décrits par Despréaux…

Mais, Messieurs, à une âme véritablement éprise, l’ édi-tion originale vulgaire ne suffit encore pas. Jadis, vous le sa-vez, l’ impression d’ un ouvrage, même de proportions

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modiqués, durait généralement de longs mois. On n’ était pas pressé. Les ouvriers imprimeurs étaient, pour la plu-part, assez ignorants. En outre, les auteurs n’ étaient pas très attentifs à la correction de leurs épreuves, ou même s’ en re-mettaient à leur libraire. On tirait d’ abord quelques exem-plaires. L’ auteur y jetait les yeux, et y découvrait des fautes, qu’ il faisait corriger dans le reste du tirage.

Vous direz: «Ces exemplaires corrigés valaient donc mieux, et ce sont ceux-là qu’ il faut avoir.» Et vous répéterez de faciles railleries sur l’ amateur qui achète à prix d’ or, quand il peut le rencontrer, l’ exemplaire avant les cartons, «l’ exemplaire avec la faute.»

Messieurs, la manie de cet amateur n’ est peut-être pas si absurde. Il se dit que trouver et tenir l’ exemplaire fautif, qui est vraiment le premier, c’ est faire une petite conquête de plus sur le passé, c’ est se rapprocher encore un peu de l’ heure émouvante où la pensée de l’ auteur s’ est exprimée pour la première fois par des signes typographiques.

Et je ne parle point des cas où des corrections et des sup-pressions importantes et significatives ont été faites en cours de tirage, si bien que les exemplaires tirés d’ abord sont réellement beaucoup plus intéressants que les autres, – comme il est arrivé, par exemple, pour les Pensées de Pa-scal ou pour le Don Juan de Molière. Ici, mon amateur d’ exemplaires avant les cartons n’ a presque plus besoin d’ être justifié.

Mais l’ homme sensé reprendra: «Ces textes primitifs et complets, vous les trouverez à moins de frais dans quelque édition moderne. Vos plaisirs, en somme, sont plaisirs de pure imagination.»

Assurement; mais vous m’ accorderez qu’ ils sont inno-cents, et qu’ ils ont même leur noblesse. Ils impliquent cer-tains sentiments ou certaines dispositions fort louables: re-spect, curiosité, don de sympathie. Et, si ce sont plaisirs d’ imagination, celui qui se les crée est donc, lui aussi, à son rang, un modeste inventeur de voluptés chastes, une ma-nière de poète.

Et enfin, à supposer que sa manie s’ amortisse un jour, il ne sera jamais complètement déçu, s’ il prend la peine de

lire ce qu’ il a collectionné. Ces bouquins, qu’ il recherchait principalement à cause de leur date ou de leur habit, ce sont des livres dont le texte vaut par lui-même: et ainsi la collection rare pourra bien être, par surcroît, la plus sub-stantielle des bibliothèques.

Je ne veux pas donner dans ce paradoxe banal, que les derniers venus n’ ont rien trouvé de nouveau, et que tout a été dit depuis qu’ il y a des hommes. Il est toujours vrai que tout a été dit: mais ce n’ est jamais tout à fait vrai. Il est pos-sible que plusieurs écrivains du XIX° siècle aient été d’ une intelligence plus souple et plus étendue que les classiques, et il est possible que certains autres aient eu une sensibilité plus affinée. Je crois, en tous cas, qu’ ils ont singulièrement développé, enrichi et nuancé le contenu des livres d’ autre-fois… Mais il demeure fort probable qu’ avec Corneille, Ra-cine, Molière, La Fontaine, avec Rabelais, Montaigne, De-scartes, Pascal, Bossuet, La Bruyère, on a déjà toutes les re-marques essentielles sur la nature humaine, sur l’ homme religieux, l’ homme politique, l’ homme social. Et il faut avouer que ces réflexions, ces peintures, même ces lieux communs, ayant rencontré là, pour la première fois, une expression à peu près parfaite, gardent une fleur, une sa-veur, une plénitude, une grâce ou une force qu’ on n’ a guère retrouvées depuis. Il n’ est donc pas déshonorant de s’ en contenter, et il est, au surplus, délicieux d’ y revenir par le plus long, j’ entends après avoir joui des enrichissements ajoutés par les âges récents à ce trésor primitif et essentiel.

Et alors c’ est une volupté complète de goûter, dans les dessins et les tons de la reliure que tant de mains ont ma-niée et polie, dans la couleur et le grain du papier, dans la date du privilège du roi, dans la forme des caractères typo-graphiques, dans les sentiments ou les pensées que ces ca-ractères expriment aux yeux, dans le tour même et l’ accent de ces pensées et de ces sentiments, – et dans tout cela à la fois, – le charme mystérieux du passé.

conversazioni bibliofile

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Libro chiama libroa cura di David Cerri

david Cerri

A Cheap Bibliophile*

C ome molti dei nostri lettori – almeno così mi immagino – anche chi scrive è un appas-

sionato bibliofilo; non nel senso che dedichi molto tempo e un bel po’ di denaro (difettando l’ uno e l’ altro) alla sua passione, ma ingegnandosi di trarre il massimo profitto da quelle occasioni di “affari” che possono ca-pitare: insomma un bibliofilo a buon mercato. “Affari” questi, beninteso, non in termini economici, trattando-si di transazioni che per principio non devono superare qualche diecina di euro (altrimenti che gusto c’ è), ma per la peculiarità della scoperta e l’ in-teresse dell’ oggetto.

Si potrebbe già qui obiettare sulla definizione di un libro come oggetto, ma tant’ è, certamente non intendo diminuirne l’ importanza, ma sempli-ficare le cose. Capita allora di trovarsi in giro, soprattutto in vacanza, quan-do la mente è più libera e vi è maggio-re possibilità di perder tempo impol-verandosi nella disagevole consulta-zione di scaffali; e, date le mie prefe-renze (e la capacità che mi attribuisco

senza modestia di ben comprendere la lingua inglese scritta), la vacanza è spesso nel Regno Unito, ed è lì che ho avuto le maggiori soddisfazioni.

Da molti anni frequento con una certa assiduità Londra, ed in partico-lare il quartiere di Chelsea, dove pos-so godere con la famiglia dell’ ami-chevole disponibilità di un alloggio per brevi soggiorni, e camminando camminando per quelle strade calme e pulite (e siamo ad un passo dal cen-tro città), costeggiando quelle case dove apparentemente (quasi) a nes-sun architetto contemporaneo è ve-nuto in mente di inserire sue creazio-ni multipiano accanto a bassi edifici del ‘ 700 (si capisce la mia anglofilia, vero?), già parecchio tempo fa ho scoperto uno di quei posticini da non consigliare agli amici, per paura che diffondano troppo la voce. Quasi in fondo a King’ s Road (a World’ s End, appunto) c’ è dunque questa piccola libreria di libri di seconda mano (tan-ti) e di antiquariato (meno), con il suo bravo settore di prime edizioni. Dalle prime visite, devo dire, il fasci-

no è un pochino scemato, e solo per-ché l’ attività si è ammodernata; ha il suo sito internet, e soprattutto è più pulita ed ordinata, indubbiamente gravi difetti per chi ama l’ odore della carta invecchiata e dei volumi polve-rosi.

Qualche scoperta di questi anni: la prima edizione U.S.A. (1950) di The Family Moskat di Isaac Bashevis Sin-ger; quella inglese (1959) della trilo-gia di Samuel Beckett Molloy-Malone Dies - The Unnamable; quella dei rac-conti di Sean O’ Faolain The Heat of the Sun (1966); Two lives di Vikhram Seth (2005); anche comics, come l’ in-superabile antologia di The Far Side di Gary Larson. Così, insomma, ogni visita a Londra deve concludersi (non iniziarsi, perché c’ è di mezzo il desi-derio sicuramente infantile di lasciar-si le cose migliori per ultime) con una passeggiata su King’ s Road, dopo es-sersi lasciati un po’ di spazio nelle va-ligie (rigorosamente sottoposte al re-gime delle compagnie low cost, quin-di ai minimi termini; e c’ è da consi-derare che quasi sempre sono già o-

* Un bibliofilo a buon mercato

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libro chiama libro

berate da almeno una prima edizione firmata dall’ Autore di un’ opera di narrativa contemporanea appena u-scita, che una libreria –dal 1797– co-me Hatchard’ s offre immancabil-mente in Piccadilly: tra le mie ultime scelte Pulse e The Sense of an Ending di Julian Barnes, Solar di Ian McE-wan, A Man of Parts di David Lodge).

In quel buchetto non c’ è solo narra-tiva, ma anche antiche enciclopedie, libri di storia, cinema, religione, grammatica e lingua in genere; tutto ciò spesso è occasione per consolida-re la mia predilezione per quella civil-tà (che senz’ altro sbaglio ad idealizza-re, ma che ci volete fare…).

Come quando nel settore Reference ho trovato un volumetto del ’54, che riuniva due opere esemplari di Sir Er-nest Gowers, Plain Words e The ABC of Plain Words, sotto il titolo della pri-ma1. Magari tornerò altrove su questo tipo di opere, ma – parlando prima dell’ Autore – diciamo anche qui che Sir Gowers è un esempio di grand commis di Stato, integerrimo servito-re della Regina in diversi campi dell’ attività pubblica (per dirne solo due, durante la seconda guerra mon-diale fu commissario regionale per la difesa civile per la zona di Londra, e successivamente presidente della commissione reale sulla pena di mor-te, esperienza dalla quale trasse un’ o-pera lodata nientemeno che da H.L.A. Hart che, per chi non lo cono-scesse, è stato uno dei più grandi filo-sofi del diritto del secolo scorso).

1 - E. Gowers, The Complete Plain Words, London, Her Majesty’ s Stationery Office, 1954.

Il motivo del mio particolare ap-prezzamento consiste nel constatare come quantomeno sin dagli anni Quaranta in Gran Bretagna fosse ben presente la necessità che il linguaggio dell’ amministrazione pubblica fosse plain, cioè semplice, comprensibile a tutti; perché l’ opera è diretta proprio agli officials, ai funzionari pubblici, affinché nella loro attività si esprima-no in termini immediatamente di-sponibili agli interlocutori, utilizzan-do la lingua inglese scritta come “uno strumento del proprio ufficio”. E a dire il vero, non è al Novecento che si de-ve far risalire questa consapevolezza, ma a molto prima: Gowers pone ad epigrafe una citazione da un testo della seconda metà del Seicento, se-condo la quale “Come se le parole semplici, utili e comprensibili istruzio-ni, non fossero altrettanto buone per l’ esquire, o per chi avesse ricevuto in incarico dal re, così come per chi regge l’ aratro”.

Se non è spirito democratico que-sto, cos’ altro? Lo scopo dell’ opera è chiaramente espresso dall’ autore nel-la prefazione quando premette che essa non ha la pretesa di essere una grammatica della lingua inglese, ma di indirizzare “la scelta e la composi-zione delle parole in un modo tale da trasferire quanto più esattamente pos-sibile un’ idea da una mente ad un’ al-tra”.

Si capirà bene quale interesse tali affermazioni possano rivestire per chi è un giurista, ed un giurista prati-co; e del resto l’ ambito entro il quale si muove l’ opera è il medesimo, tanto

che un capitolo – sia pure in forma di digressione – è dedicato proprio al Legal English, e contiene molte inte-ressanti osservazioni, come quella sulla distinzione tra il linguaggio de-gli atti legislativi od amministrativi e quello dei consulenti legali privati. Il primo è infatti dettato dalla necessità di evitare ogni ambiguità, e quindi può apparire più pedante, ripetitivo, perché il suo scopo è proprio quello di immaginare “ogni possibile combi-nazione di circostanze alle quali le sue parole possano applicarsi ed ogni con-cepibile errata interpretazione che po-tesse derivarne, e di prendere quindi o-gni conseguente precauzione”. Alla ba-se di tutto c’ è la considerazione che “le parole sono uno strumento imper-fetto per esprimere concetti complicati con certezza” e che quindi ogni sforzo va impiegato nella direzione di otte-nere chiarezza.

Un altro grande inglese – John Lo-cke – aveva dedicato una parte del suo “Trattato sull’ intelletto umano” giusto all’ “abuso delle parole”, nel quale si devono probabilmente trova-re le radici delle posizioni di Gowers: così quando scrive che “essendo il principale scopo del linguaggio nella comunicazione quello di essere com-preso, le parole non funzionano bene a quel fine… quando una parola non suscita nell’ ascoltatore la stessa idea presente nella mente di chi parla”2. Non sono banalità: tutto quanto ho scritto poco sopra avrà sicuramente

2 - J. Locke, Of the Abuse of Words, estratto da An Essay Concerning Human Understanding (1689), London, Penguin Books, 2009.

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suscitato nel lettore un impietoso confronto con la nostra realtà (e pro-babilmente oggi anche un lettore in-glese farebbe analoghe considerazio-ni sul rispettivo stato della cosa pub-blica). Nonostante qualche ammire-vole sforzo (come le periodiche cir-colari, ed i manuali, anche regionali, sulle tecniche di redazione degli atti legislativi) né il nostro legislatore, né la nostra magistratura, né gli avvoca-ti (che però, sia detto contemporane-amente a loro merito e disdoro, tal-volta sono consapevoli di voler sem-plicemente confondere le acque) rie-scono nella maggior parte dei casi a farsi capire contemporaneamente dall’ inviato del re e dal contadino. È vero che non si può semplificare ciò che semplificabile non è (quante con-troversie comportano l’ uso di lin-guaggi strettamente giuridici di setto-re, o più propriamente tecnici), però che almeno si crei la consapevolezza che chiarezza (e concisione) siano e-lementi strutturali ed essenziali del linguaggio giuridico dovrebbe essere presente a chiunque si avvia ad una delle professioni forensi (includen-dovi quella del redattore delle leggi, che poi spesso è di fatto un magistra-to od un avvocato); ma così non è, a partire dalle aule universitarie per proseguire fino alla pratica professio-nale, ed anche se le categorie stanno

cercando di porre rimedio a queste lacune.

Perdonata la digressione sulla di-gressione, torno per concludere alle speranzose ricerche dell’ “occasione” che giustifichi il rischio che al check in aeroportuale si accorgano del sovrap-peso; ebbene quest’ estate ho aggiun-to un nuovo gioiello alla mia collezio-ne di librai dell’ usato: un altro picco-lo antro, sotto il castello di Edimbur-go, sulla West Port nella città vecchia, che ha meritato il soprannome di Soho per la combinazione di vecchie librerie e locali di striptease (una li-breria porta a porta con un club di lap dancing reca in vetrina questo slo-gan “per sole 2 sterline e mezzo un li-bro ti siederà in grembo [lap] per tut-ta la notte”), e che ospita dal 2008 il West Port Book Festival.

Vale la pena di citare qualche riga della presentazione sul sito internet, che mette in guardia il visitatore dai molteplici pericoli che vi si annidano: dagli scaffali sovraccarichi che si la-mentano “come alberi di una nave a vela durante la tempesta”, ai tappeti consunti e “quasi-orientali” che pos-sono ingannare l’ occhio (e il piede), fino al devastante calore che può far generare fenomeni di combustione spontanea dei libri in vetrina sotto il “torrido sole scozzese” (fenomeno che probabilmente, considerate le or-

dinarie condizioni climatiche di quei luoghi, l’ appassionato proprietario più che scongiurare, evoca…). In una brevissima incursione, dopo una fati-cosa giornata turistica, mi è stato possibile soltanto reperire – nel solito settore – un volumetto titolato The Book of Ignorance3, dedicato a sfatare una serie di luoghi comuni e verità consolidate con semplici notazioni scientifiche, in quello spirito un po’ eccentrico tipico degli inglesi, e nota-re l’ arguzia dei numerosi post-it ap-piccicati dal libraio sui volumi, con i suoi personali commenti; e, successi-vamente, lasciarmi andare ad un ac-corato rimpianto per aver seguito il saggio consiglio della coscienza (che aveva comparato l’ ormai scarso peso del portafoglio con quello notevolis-simo della valigia che mi aspettava l’ indomani) di non acquistare una prima edizione rilegata dell’ ultimo romanzo di Zadie Smith, N.W., con tanto di lunga dedica dell’ Autrice a tale Helen (il cui nome sia consegna-to ad eterna ignominia per essersi ri-venduta l’ opera così affettuosamente consegnata).

Ma, non amo che le rose che non colsi, no?❧

David Cerri3 - J. Lloyd-J. Mitchinson, The Book of Ignorance, London, Faber and Faber, 2006.

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Rinvenimentia cura di Stefano Tonietto

stefano tonietto

Incerto Autore, De rerum iactura

Tra le innumerevoli divinità del pantheon romano, singolare è certamente Eiectatio (per i Greci Σφιγή), la dea dello “iettare”, gettare il malocchio su qualcosa o qualcuno. Nume temuto, cui si sacrificavano chiodi di ferro, rametti di corallo rosso e genitali di ariete, ma che ha lasciato scarsissime tracce nella letteratura latina, per l’ ovvia tendenza a non nominarla esplicitamente. Tanto colpisce l’audacia di questo poeta visionario che osò sfidare la mentalità comu-ne, portando agli uomini l’audace messaggio razionalistico e antisuperstizioso della filosofia: la sfortuna non è frut-to di malevolenza umana, come predicavano le caste sacerdotali, ma è connaturata alle cose, “nulla nasce dal nulla, solo la jella riesce a nascere dal nulla”.

“La cosiddetta questio-ne omerica appare come una banale

sciarada da ‘ Pagina della Sfinge’ di fronte all’ enigma rappresentato da quest’ opera”. Così Raurich von Wi-lamowitz-Peppermint7, primo edi-tore del De rerum iactura, sconcer-tato anch’ egli, nella sua teutonica razionalità, dalla massa veramente enorme di ostacoli che questo clas-sico minore della poesia didascali-ca frappone alla comprensione da parte del lettore moderno.

La prima delle incertezze relative a questo testo pertiene all’ identità dell’ autore. I principali codici8 re-

7 - Incerti Auctoris De Rerum Iactura libri qui supersunt, ed. Raurichus von Wilamowitz-Peppermint, in aedibus Teubnerii, Lipsiae 18997.8 - Il Mediceus 564 del sec. X (M), così chiama-to perché appartenuto alla biblioteca del medi-co condotto di Campolongo Parmense, e il Kenyanus 112/B (K) altresì detto Oblongus per-

cano la seguente intestazione: In-certi auctoris de rerum iactura liber I infel(iciter) incipit. Elementi inter-ni al testo che rivelino qualcosa di più non ve ne sono. Si aggiunga che l’ opera non è citata in modo espli-cito da alcun autore precedente ad Isidoro di Siviglia (VII sec.), il qua-le, dal canto suo, si guarda bene dal citarla in modo esplicito. Dobbia-mo dunque rassegnarci ad utilizza-re fonti tarde, la principale delle quali è una glossa umanistica a margine di un volgarizzamento duecentesco di un’ epitome redatta attorno al Mille del sunto d’ età ot-toniana d’ una traduzione longo-barda degli indici del Chronicon breviarium di Tecnezio (circa 550 d.C.). Il testo, noto anche come Vi-ta Cotidiana, dal nome dell’ umani-

ché scoperto dallo studioso Mbongu Oblongu nell’ abbazia cistercense di Nairobi.

sta olandese Willelmus Cotidius o Quotidius che la trascrisse nel 1502, prima della distruzione causa un incendio del volgarizzamento di cui sopra, è il seguente9:

Incertus Auctor poeta nascitur, qui postea re familiari amissa, relic-tus ab uxore, invisus principi, pro-pria se manu interficere non potuti.

(Nasce il poeta Incerto Autore, il quale in seguito, avendo perso il patrimonio familiare, essendo sta-to lasciato dalla moglie, risultando odioso all’ imperatore, non riuscì ad uccidersi di propria mano.)

Avremmo così il nome del poeta, Incerto Autore10, e alcuni dati relati-

9 - Corpus glossariorum aetatis humanisticae, MMCCXXXIV, 23.786.10 - Vale appena la pena di menzionare le recen-ti teorie del Babbalucci (“Excerpta Philologica”, XXI (2003), pp. 3-6), il quale, mosso da eccessi-

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vi alla sua biografia; dati che, nel loro insieme e singo-larmente, non escludono, anzi, inducono fortemente a sospettare che si tratti proprio dell’ autore del De rerum iactura.

Purtroppo il dato cronologico è carente, in quanto non sappiamo a quale anno della cronaca tecneziana fosse stata apposta la glossa in questione. Si è tentato di

vo ed anzi infantile entusiasmo, vorrebbe attribuire ad Incerto Autore testi latini come l’ Octavia del corpus tragico senecano o greci come il Reso pseudoeuripideo e il trattato anonimo Del sublime.

identificare il princeps cui Incerto sarebbe stato inviso, ma con scarsi risultati7.

Gens e famiglia di Incerto sono ignote, a meno di non voler dare retta ad una notizia di Escremenzio (De vitiis illustribus) secondo cui il padre sarebbe stato un Ignotus Miles e la madre una certa Certa (mater semper Certa est…, XII, 34).

Il testo del poema non fornisce chiare indicazioni circa la patria dell’ autore8; si può invece dedurne il livello culturale (bedauerlich, se-condo lo Heinsius).

Evidente è comunque l’ influsso ideologico che sul poeta ebbe la scuola filosofica di Dannunzio, lo Stocasticismo, che divinizzava l’ Aty-chia (sfortuna) ed in polemica con il materialismo epicureo sosteneva che “gli dèi esistono, poiché ce l’ han-no con noi” (fr. 2 Diels-Krantz).

Pur senza nominarlo, anzi, Incer-to Autore riteneva Dannunzio il proprio maestro, elogiandolo quale genio imperituro anche per i detta-gli più bizzarri della sua vita privata, quale l’ uso di dormire in una bara (feretro recubans in acerbo, I, 143).

Scarse le notizie sulla vita del po-eta, ancor più scarse quelle relative alla morte: sappiamo solo che, fe-dele fino all’ estremo al suo fato, egli non riuscì nemmeno nel suici-dio, ultima soddisfazione di un perseguitato dalla mala sorte quale egli, certamente, fu.❧

Stefano Tonietto7 - Valgimigli pensava a Caligola, notoriamente superstizioso e dunque portato a considerare Incerto un vero menagramo.8 - Estremamente dubbia è l’ interpretazione dei celebri versi dal proemio al libro II: Padua me genuit, sum Patavinus, Patavi / nascor, Patava urbs Medoaci ad arva me dedit (II, 13-4).

rinvenimenti

L’unica imagine rimasta di Incerto Autore. La notevole somiglianza con il poeta Angustus (vedi “Rinvenimenti” sul n. 8 della RdF) è dovuta all’usanza dell’ epoca di ri-ciclare busti di personaggi non più di moda cancellandone il nome e sostituendolo con quello del nuovo acquirente. La scultura infatti doveva “non imitare il reale ma raffigu-rarne l’ essenza spirituale”.

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rinvenimenti

Breve antologia del De rerum iactura

Il poema consta di tre libri in esametri; risulta quindi ben lontano dalle ambiziose intenzioni dell’ autore (triginta volumina pandi, I, 43). Si ag-giunga che anche dei tre libri superstiti sopravvi-vono appena singoli frammenti non collegati tra di loro7, e si avrà il quadro di un’ opera perseguita-ta dalla mala sorte.

Il proemio del primo libro enuncia solenne-mente quale sarà l’ ardua materia del canto:

Magna sed ingeniis tam formidata maiorumut latuere diu, nec dicere fertur adhuc fas,ecce, insane, canam animo linguaque furenti,spretus omen, nomen fati: iuvat ire per atra. (I, 1-4)8

(Cose grandi, ma tanto temute dagli ingegni degli avi che a lun-

go rimasero nascoste, e che nemmeno oggi, si dice, è lecito rife-

rire, ecco che io, o pazzo che sono, canterò con animo e linguag-

gio invasato, sprezzando il presagio e il nome del fato; mi piace

andare per i neri ***)

Dopo una lacuna imprecisabile, veniva una ben strana invocazione agli dèi: in sostanza, Incerto intona una preghiera alle divinità della sfortuna affinché… non lo assistano:

O mala Sors, Iactura, adversaque numina, fatapessuma, omnia, o, totiens contraria nobis:carminibus, quaeso, a nostris ite faventes. (I, 13-15)(O Sorte malvagia, Iattura, Numi avversi, Fati pessimi, in-

somma, o voi, tutte le cose che ci sono contrarie! Vi prego,

siate favorevoli, e allontanatevi dai miei carmi!)

7 - L’ archetipo da cui entrambi i codici derivano fu appena imposta-to dall’ amanuense, il quale aveva numerato in via preliminare tutte le righe di ogni libro, ma si era poi limitato a trascrivere gruppi di versi staccati, lasciando vistose quanto inemendabili lacune. Conosciamo dunque la numerazione esatta di ogni verso del testo frammentario a noi giunto.8 - Verso 4: cfr. Ovidio, Met., XV, 147; Manilio, I, 13.

Un’ opera del genere va intrapresa col massimo possibile di auspici favorevoli:

tantae molis opus si tempto tempore tali.Attamen aggredior pede dextro, neque sinistro (I, 20-21)(*** se tento un’ opera di tal mole in un periodo del genere.

Tuttavia mi accingo, col piede destro, non col sinistro.)

Doveva seguire la celeberrima dimostrazione dell’ esistenza degli dèi, cardine del poema: l’ acca-nimento costante e attento nei confronti dell’ esse-re umano (attestato da continue e gravi sciagure, grandi e piccole) è evidentemente dovuto ad un disegno preordinato di entità superiori onnipo-tenti. Del complesso ragionamento ci rimane solo l’ enunciato fondamentale:

Esse igitur numen quoddam divosque necessest. (I, 234)(È perciò necessario che esistano una qualche divinità e gli dèi.)

Eppure, l’ umanità è innocente:

Quippe per adversas nos res iactemur inulti. (I, 287)9

(Invero siamo sbattuti, innocenti, tra le avversità.)

Osservare i guai altrui può sembrare piacevole, ma prima o poi la sciagura toccherà anche al com-piaciuto spettatore:

Fluctibu’ Neptuni magna spectare per arva10

vexatas puppes, stans celso in litore, tantumextra discrimen salvus, quam saepe delector.At dum intueor, pendentium ecce ruina

9 - Verso giudicato spurio o corrotto dal Blitzkrieg.10 - Cfr. Livio Andronico, Odusia, fr. 23.

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rinvenimenti

saxorum, pedibus moles prolabitur ingenset rapidissima me mergit de more sua vi7.Quos mirabar, nunc inversa vice delecto:derident rari nantes me in gurgite vasto. (I, 566-573)(Quanto spesso mi diletto ad osservare, dall’ alto di un’ eccelsa

scogliera, standomene in salvo, fuori da tanto pericolo, il tra-

vaglio delle navi tra i flutti sulle grandi distese di Nettuno!

Ma, mentre guardo attentamente, ecco che franano le rocce

malferme, una gran massa crolla sotto ai miei piedi e in pochi

istanti con la sua violenza mi travolge: come al solito! Ora,

mutata la sorte, allieto coloro che osservavo: rari naufraghi

mi deridono nel vasto gorgo.)

La Sfortuna può colpire gli umani in qualun-que manifestazione della loro vita; ma partico-larmente sensibile è il suo intervento in ambito erotico:

Nonne vides quotiens careas tentigine nervumtunc ubi formosam amplecteris ullam anhelus,audax atque aries tibi desit limine in ipso?haec sequitur rabies, lis, accedunt clamores,undique concurrunt servi, fit magna querela.Adde quod affertur de te mala fama per urbem:saepe sub aeria resonabis porticu aspre. (I, 709-715)(Non vedi quante volte ti vien meno il turgore del nerbo al-

lorquando abbracci, anelante, una bella donna, e l’ audace

ariete ti vien meno proprio là sulla soglia? A ciò segue la rab-

bia, la lite; monta su un casino, da ogni parte accorrono i ser-

vi, ne nasce una grande contesa. Aggiungi che ti si diffonde

una cattiva fama per la città, e che sotto gli spaziosi portici il

tuo nome spesso risuonerà in termini spiacevoli.)

Incerto arriva persino alla formulazione, con due millenni d’ anticipo, di qualcosa di molto si-mile alla famosa “Legge di Murphy”:

7 - Così emenda il Wolfsschanze il tràdito more suavi (“secondo la piacevole usanza”).

Quod male ire potest, ea non bene itura necessest. (I, 724)(Ciò che può andar male, necessariamente non andrà bene.)

La condizione umana, per Incerto, dipende però anche dal comportamento individuale e collettivo:

Iactamus nostri similes nec non iactamur ab illis. (I, 801)(Infliggiamo travagli ai nostri simili e ne riceviamo da loro.)

Il tormento dell’ arduo tema affrontato emerge anche dal proemio (purtroppo mutilo) al secondo libro:

Pelaga permultos numquam temptata per annosaggredior demens incerta e litore pinu. (II, 1-2)(Mari profondi mai sperimentati da lunghissimo tempo io af-

fronto, pazzo che sono, dalla spiaggia [partendo] con nave in-

sicura.)

La trattazione si fa sempre più ardua:

paulo peiora canamus (II, 123)(Cantiamo argomenti un po’ peggiori.)

L’ unico frammento del proemio al terzo libro, privo del principio e della fine, ribadisce la perico-losità del tema scelto:

sidera, caeligenum semper vitanda vehiclis,Gorgon in lapidem ut conversura videntes.Quod nefas effari, ego canto; siste, viator8. (III, 5-7)(*** astri, che i veicoli dei nati nel cielo [gli dèi] sempre devo-

no evitare come se vedessero la Gorgone pronta a trasformar-

li in pietra. Ciò che non è lecito dire, io canto; fermati, viandante.)

8 - Lo Schickaneder suppone qui un errore del copista, e sposta que-sti versi subito dopo i primi quattro del primo libro: a parer suo si ot-terrebbe, in questo modo, un senso compiuto.

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rinvenimenti

Dal libro terzo, dedicato ai remedia, alcune delle soluzioni pratiche consigliate contro la jella:

Sunt quis ligna iuvant, qui gaudent tangere ferrum,quive viri suadent genitalia corpora7 tangi. (III, 444-445)(Ci sono di quelli che si giovano del legno, altri che amano toc-

care il ferro, e coloro che consigliano di toccare le parti genita-

li del maschio.)

Non doveva mancare un accenno alle piante dotate di virtù apotropaiche:

7 - organa nel codice K.

florentis cytisi numerans bis bina *** (III, 588)(del fiorente trifoglio contando le quattro [fogliette].)

L’ opera si chiudeva con la descrizione della peste di Atene, supremo esempio di sfortuna e monito per l’ umanità arrogante, eccessivamente fiduciosa nel progresso scientifico. La si può leggere ancora nel VI libro del De rerum natura di Lucrezio, il qua-le non si peritò di appropriarsene in toto senza cita-re la fonte: altro esempio della mirabile sfortuna che perseguitò, in vita e in morte, il nostro Autore8.

8 - Il Panzerkraftwagen e il Volkssturm, isolati, sostengono che Incerto Autore si sarebbe appropriato del brano lucreziano sulla peste, e non viceversa; ma è ipotesi ormai screditata.

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Biblioteca mon amourQuesta rubrica è a disposizione della Biblioteca civica «G.Tartarotti» di Rovereto

fabio Casna

Un raro commento garbiano

Negli ultimi numeri della Rivista la rubrica “Biblioteca mon amour” si è occupata principalmente di opere a stampa (incunaboli e cinquecen-tine) ed è quindi parso opportuno spostarci per una volta verso una ti-pologia libraria differente ed unica:

parliamo appunto del libro manoscritto.

La Biblioteca Tartarotti possiede poco più di una ventina di codici “medie-

vali”, e proprio su uno di questi vo-gliamo soffermarci per qualche più approfondita analisi.

La Biblioteca Tartarotti venne fondata nel 1764 dopo che il Comu-ne di Rovereto acquisì la biblioteca privata di Girolamo Tartarotti scomparso nel 1761. Nel primo nu-cleo della biblioteca si trovarono anche nove codici posseduti dal Tartarotti e descritti in un primo inventario realizzato dopo la morte dell’intellettuale roveretano.

Fra questi nove manoscritti, nell’inventario sotto il numero 8 viene così descritto l’odierno Codi-ce 3: «Sonetti e componimenti di Dante Alighieri … scritto sopra la canzone “Donna mi prega” di Guido Cavalcanti fatto per maestro Dino del Garbo di Firenze, dottore di me-dicina e volgarizato per m. Jacopo Mangiatroja, notaio e cittadino fio-rentino (8° in membrana, cod. exi-miae pulchritudinis)»1.1 - Cito l’inventario da Rinaldo Filosi, I mano-

Il codice fu successivamente de-scritto da Hermann nel 1905 e quin-di da Benvenuti nel 1908. Solo negli ultimi anni si è tornati a descrivere i codici della Biblioteca Civica di Rovereto: dapprima nella tesi di laurea di Mariella Brugnolli (1995-1996) e successivamente nei nume-rosi cataloghi di manoscritti allesti-ti con il patrocinio della Provincia Autonoma di Trento.

Fondamentale in tal senso è il ca-talogo realizzato da Adriana Paoli-

scritti della Biblioteca di Girolamo Tartarotti, in «Navigare nei mari dell’umano sapere». Biblioteche e circolazione libraria nel Trentino e nell’Italia del XVIII secolo, Atti del convegno di studio (Rovereto, 25-27 ottobre 2007), a cura di Giancarlo Petrella, Provincia Autonoma di Trento-Soprintendenza per i beni librari e archi-vistici, Trento 2008, pp. 255-263: 259.

ni (I manoscritti medievali di Trento e provincia, 2010), dove il codice in questione (n. 147 del catalogo) vie-ne descritto accuratamente (anche se non esaustivamente, poiché manca una tavola completa del ma-noscritto con incipit ed explicit di tutti i componimenti poetici)2.

Prima di soffermarci sul contenu-to del codice stesso, che lo rende particolarmente interessante, è ne-cessario descrivere in maniera più attendibile e tecnica il manoscritto. Per non appesantire troppo il di-scorso traiamo la descrizione, breve ed essenziale, dall’introduzione che correda l’edizione critica delle rime dantesche curata da Domenico De Robertis: «Membr., mm. 195 x 124 (Iª c. decurtata in basso di ca. 5 cm), di cc. I (incollata alla copertina), 62, I´, tutti quinterni con richiami + I f., numeraz. mod. a lapis 1-61 e ult. c. n. n.; scritto da una sola mano, comprese le rubriche, e in corpo as-

2 - I manoscritti medievali di Trento e provincia, a cura di Adriana Paolini, con la collaborazione di Marina Bernasconi e Leonarda Granata, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Impruneta (Fi) 2010.

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sai ridotto il commento delle cc. 52v-61v, della medesima, d’inchio-stro più chiaro, varianti ai testi; due note di mano del sec. XX (nella pri-ma si arguisce dalla Vita di Girola-mo Tartarotti di Costantino Loren-zi che il cod. era appartenuto al pri-mo; nella seconda si cita il Beschrie-bendes Verzeichnis der illuminierten Handschriften – in Osterreich di F. Wickhoff, I: Die illumin. Handschr. in Tirol, beschrieben von J. Herzmann, Leipzig 1920, p. 231), bianca la c. 62. Versi in col.; iniziali ad oro con fregio a meandri su fon-do azzurro alle cc. 1r, 15r, 45v, le al-tre iniziali e segni paragrafali az-zurri. Legatura ant. (sec. XVIII) in cartone rivestito di pergamena, ta-glio blu. DANTE OPERE MSS. Ri-me di Dante (della Vita Nova e can-zoni); versi forse del copista; canzo-ni di Leonardo Bruni e di Guido Cavalcanti col commento di Dino del Garbo volgarizzato da Iacopo Mangiatroie, sonetto conclusivo anon.»3. Pur volendo tralasciare la tavola del manoscritto per rendere più agevole il discorso, devo sottoli-neare un aspetto che viene trascu-rato dalla scheda di De Robertis re-lativo alla possibile datazione del codice: esso infatti dovrebbe risali-re alla metà del XV secolo (come si desume dalla scheda della Paolini), ma non ci sono indizi certi che pos-sano dimostrare la data di confe-zione del pezzo manoscritto. Infatti

3 - Dante Alighieri, Rime, a cura di Domenico De Robertis, 1: I documenti, Le lettere, Firenze 2002, p. 628.

la datazione si basa esclusivamente su ipotesi circa il materiale, la carta e soprattutto la scrittura utilizzata dal copista.

Dalla descrizione fatta da De Robertis si evince che la maggior parte

del codice è dedicata alle rime dan-tesche, poi compaiono due canzoni di Leonardo Bruni e infine la can-zone di Guido Cavalcanti Donna

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me prega con il commento di Dino del Garbo, non in latino, ma volga-rizzato.

L’interesse per questo codice non deriva quindi dalla presenza di nu-

merosi componimenti danteschi (su cui non ci soffermeremo, per ri-mandare invece ai magistrali e plu-riennali studi di De Robertis e di recente all’edizione commentata

curata da Claudio Giunta, che rap-presenta la summa di tutto ciò che è stato scritto sulle rime di Dante), né tantomeno dalle due canzoni di Le-onardo Bruni sulla felicità e in lode di Venere4, ma sulla presenza del commento garbiano volgarizzato.

Sulla canzone Donna mi prega di Guido Cavalcanti si sono accapi-gliati numerosi studiosi dall’anti-chità ad oggi in cerca della più “giu-sta” interpretazione. Non possiamo quindi in poche righe cercare di ri-assumere un dibattito ormai seco-lare. In linea sintetica ha scritto Emilio Pasquini: «il cardine della poesia cavalcantiana, e insieme la liquidazione risolutiva del patrimo-nio stilnovistico, vanno ravvisati nella canzone Donna me prega, per-ch’eo voglio dire, nella quale si anni-da pure il segreto del configurarsi di Guido come spirito scettico e ir-religioso. […] Gli studi di Nardi e di Gilson, di Kristeller e di Maria Corti, hanno provveduto a collo-carla storicamente entro una fitta circolazione di idee, tra Bologna e Firenze, in un ambiente di medici e filosofi dal quale escono il Giacomo da Pistoia che dedica a Cavalcanti la Quaestio de felicitate (scritta a Bologna, sul modello del De sum-mo bono di Boezio di Dacia) e in-sieme il primo commentatore di Donna me prega, quel fiorentino Dino del Garbo la cui Enarratio in Guidonem de Cavalcantibus de na-

4 - Per il testo delle due canzoni si veda Lirici to-scani del Quattrocento, a cura di Antonio Lanza, I, Bulzoni, Roma 1973, pp. 331-335.

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tura venerei amoris ci è trasmessa proprio da Boccaccio. Che la can-zone cavalcantiana sia stata preco-cemente oggetto di veri e propri commenti, è una riprova di come già i contemporanei ad essa annet-tessero il valore di un trattato dal si-gnificato universale, meritevole di una glossa non meno che i testi ca-pitali dell’Aristotele latino (il De anima e l’Etica nicomachea) o lo stesso poema dantesco. […] Caval-canti […] non si limita a una gene-rica variazione sul materiale ormai collaudato nel solco del De amore di Andrea Cappellano, né tanto meno a ormeggiare le più sicure ac-quisizioni stilnovistiche, ivi com-prese certe prese di posizione dell’Alighieri. Al contrario, Guido, […] provvede a innestare la teoria dell’amore sulla scientia de anima, costruendo uno schema concettua-le degno di un trattato filosofico e adibendo un lessico tecnico, speci-fico di un sistema di pensiero com’è appunto l’aristotelismo radicale (non senza quelle punte di esalta-zione “mistica” dell’energia intellet-tuale che hanno prodotto deforma-zioni esegetiche della canzone in senso latamente neoplatonico […])»5. Già da questa breve pano-ramica, attraverso le parole di Pa-squini, si può comprendere la com-plessità interpretativa del componi-mento poetico: è proprio per que-sto che spesso la canzone fu accom-5 - Emilio Pasquini, Il «Dolce stil novo», in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, I: Dalle origini a Dante, Salerno, Roma 1995, pp. 649-721: 699-701.

pagnata nei manoscritti che la ri-portavano da un commento espli-cativo. Ecco allora spiegato il moti-vo di tanto interesse rispetto a que-sto codice.

Del volgarizzamento del com-mento garbiano esistono infatti, a mia conoscenza, solo tre mano-scritti: il codice roveretano, il Ma-gliabechiano VII.1076 e il Lauren-ziano XLI.20. Il testo fu edito per la prima e unica volta nel 1813 dal Cic-ciaporci, ma si tratta di stampa scorrettissima che non tiene nem-meno conto del codice di Rovereto. Quindi ci si augura che veda presto la luce una nuova edizione critica di questo tassello di critica cavalcan-tiana6. Il Mangiatroja spesso nel suo lavoro di traduzione/interpre-tazione però cade in errore e travisa il latino di Dino del Garbo e questo fatto fu già ravvisato dall’unico stu-dioso che dedica un brevissimo saggio a questo argomento: J.E. Shaw, The commentary of Dino del Garbo on Cavalcanti’s Canzone d’a-more compared with the italian translation (in “Italica”, 12 [1935], pp. 102-105).

A conclusione di questi ap-punti sul codice 3 ripor-to alcune considerazioni

di Armando Petrucci circa la tipo-logia libraria di questo manoscritto che possono far immaginare l’uso e

6 - Spero di poter al più presto giungere al ter-mine del lavoro di edizione e commento del vol-garizzamento che avrebbe dovuto essere oggetto – nelle mie intenzioni – della tesi di laurea in Filologia italiana.

la destinazione di questo libro: «nell’ultimo quarto del secolo [XV] sempre più spesso i codici “cortesi” di lusso assumono un formato assai piccolo, si tratta in genere di libri membranacei eseguiti con somma accuratezza, abilmente scritti in umanistica posata o corsiva e gene-rosamente ornati o miniati. Per la più parte questi codici contengono testi di autori classici latini privi di commento o di note e sono prodot-ti nei maggiori centri della cultura e della produzione libraria italiana del tempo: a Firenze, a Milano, nel Veneto, a Roma, a Napoli. Si tratta evidentemente di esemplari di lus-so, destinati all’uso privato di lettu-ra di personaggi socialmente e cul-turalmente eminenti, alla conser-vazione in biblioteche signorili pri-vate o principesche. A volte questi codicetti, così preziosi e lussuosi, così riccamente miniati, contengo-no anche testi volgari poetici; ma, quando ciò accade, si tratta sempre di un tipo particolare, anzi unico di testo: si tratta, cioè, delle Rime e/o dei Trionfi del Petrarca»7. Per una volta, di fronte all’onnipresente Pe-trarca, nella scena culturale italiana del Quattrocento, ha vinto il Dante non della Commedia ma delle più policrome e impegnate rime.❧

Fabio Casna

7 - Armando Petrucci, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana, 2: Produzione e consumo, Einaudi, Torino 1983, pp. 499-524: 523.

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italo bonassi

Gabriele D’Annunzio

Lo scaffalea cura di Italo Bonassi

C onfesso che non c’è nulla di più complesso ed arduo che entrare nella poesia e con-

temporaneamente nel personaggio D’Annunzio.

Comprendere l’uomo D’Annun-zio è comprenderne anche il poeta, di cui è un tutto imprescindibile. Non si può amare D’Annunzio co-me poeta e insieme detestarlo come personaggio, ritenendolo un esalta-to, un mitomane, un istrione. D’An-nunzio è quello che è stato, il tipico prodotto di un’epoca, diciamo pure eroica, esaltante, con un Risorgi-mento alle spalle, la ricerca di un posto al sole in Libia e in qualche altra Colonia africana, una conti-nua sfida con un’Europa piena di fermenti nazionalistici e coloniali-stici, e con imperi multinazionali e multietnici come quello austro-un-garico alle prese con tentativi scis-sionistici. In Italia il poeta più ama-to era senz’altro Carducci, e trionfa-va una corrente patriottica artisti-co-letteraria come il futurismo, l’e-

saltazione dell’uomo e della civiltà della macchina.

Il paganesimo storico del Car-ducci divenne il paganesimo sen-suale di Gabriele D’Annunzio: egli volle fare della sua vita un poema, una rappresentazione eroica e pa-gana. Riuscì così a riempire del suo nome un vasto periodo della storia italiana, pur rimanendo in uno splendido isolamento, lontano dal-le correnti letterarie di allora (come il post-romanticismo, la scapiglia-tura, il crepuscolarismo, il futuri-smo, l’avanguardismo). Un nome non solo come poeta e scrittore, ma

anche come figura civile, nella vita pubblica, nella guerra, nell’impresa di Fiume e pure nella vita monda-na, superando per vicende avven-turose e stile di vita perfino il famo-so George Byron.

Gli aggettivi che gli sono stati af-fibbiati dai critici sono tra i più sva-riati e fantasiosi: barbaro, ferino, raffinato, visivo, lussurioso, panico, eroico, musicale. Ma nessuno ha mai messo in discussione la straor-dinaria liricità dei suoi versi, la loro più profonda adesione a ciò che s’intende poesia.

E un poeta eroico e pagano, pro-fetico e vaticinante, l’interprete po-etico del Superuomo, non poteva di certo passare alla storia senza un cognome nobile e altisonante, non poteva firmarsi con il cognome as-sai ridicolo di Gabriele Rapagnetta. I suoi tanti avversari contestarono il fatto che lo avesse trasformato in D’Annunzio. Ma suo padre, Fran-cesco Paolo, aveva in realtà due co-gnomi: D’Annunzio quello vero,

Barbaro, ferino,

raffinato, lussurioso,

panico, eroico.

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originario della sua famiglia, al quale era stato aggiunto in seguito all’affiliazione da parte di uno zio benestante il comico cognome di Rapagnetta. Quindi D’Annunzio in verità si chiamava Gabriele D’An-nunzio Rapagnetta.

Però nessuno poteva contestargli di trascurare il secondo cognome, quello dello zio di suo padre.

Il mio segreto, ha scritto D’An-nunzio, è una sensualità rapita fuor de’ sensi. E il grande critico France-sco Flora ha aggiunto che nell’arte dannunziana bisogna stabilire cri-ticamente il significato della mate-ria (e quindi della lussuria che tutta la assomma), e farne momenti di un dramma, il cui senso, per sé stesso, si urta contro il canto, e la pa-rola ha i momenti in cui si fa divina e trascende la bruta materia su per l’aereo cielo della poesia. Ma la lus-suria dannunziana è stata definita impassibile, d’una gelidità lunare nel suo senso perennemente ebbro: comunque lussuria della parola im-maginifica, raffinata, tutt’altro che volgare come in certi scrittori alla Moravia o poeti alla Dario Bellezza. Ed è soprattutto nella sua poesia, più che nei romanzi o nelle trage-die, che si rivela lo straordinario uso della parola, che molti hanno definito divina. Tutta la sua vita fu un bilico tra il poema da vivere e il poema da cantare.

Ma anche nei momenti “lussu-riosi” della poesia dannunziana c’è un raffinato senso lirico, in cui la parola si forma sulla materia lussu-

riosa con un sentimento elementa-re di gioia che, nell’atto di chiarirsi in parole, indugia in una larvale malinconia. E la parola malinconia è voce frequente nelle pagine dan-nunziane.

Quello che è certo è che un poeta come D’Annunzio, che l’intelligen-tia nostrana ha cancellato o quasi, per puri motivi politici, in qualsiasi altro Paese sarebbe considerato una gloria nazionale. Il grande poeta statunitense Ezra Pound in Ameri-ca era stato messo al bando e getta-to in prigione, e poi costretto all’esi-lio. Ma tutte le antologie di tutto il mondo hanno continuato a dargli un posto preminente nella lettera-tura mondiale. Nessuno ha mai di-scusso il poeta Ezra Pound. Questo non è avvenuto in Italia, dove addi-rittura D’Annunzio è stato a torto

considerato un fascista. Dimenti-cando che Mussolini lo teneva a di-stanza, temendolo, nel suo splendi-do isolamento di Gardone. Fra chi era stato a quei tempi davvero un fascista cito Giuseppe Ungaretti, Pirandello, Marinetti, Curzio Mala-parte, Moravia, Montanelli, e anche il primo Benedetto Croce.

Ricordo come esempio un aned-doto capitato proprio al Vittoriale, quando Mussolini, in uno dei rari incontri col poeta, dopo aver dovu-to fare anticamera, se lo vide appa-rire in pantofole e vestaglia, per poi sentirsi apostrofare con la velenosa battuta: Salve, o lesto fante! (Musso-lini aveva fatto il militare nella fan-teria, come bersagliere. Era stato cioè un fante lesto, veloce: come si sa, i bersaglieri andavano di corsa, a piedi o in bicicletta). Non solo, ma anche i gerarchi che seguivano Mussolini ebbero la loro parte: D’Annunzio, puntando contro di essi il dito disse: Fur fanti anch’essi? (ossia: furono anch’essi dei fanti?).

Questo, per poter inquadrare D’Annunzio nella sua giusta di-mensione di uomo. Al massimo, si può dire che sarebbe stato ancor più grande se avesse scritto di me-no, data la sua davvero enorme produzione.

Un altro particolare tipicamente dannunziano è la sua strategia pub-blicitaria, sia nella sua attività di poeta che in quella di uomo d’azio-ne e anche di grande amatore. La famosa Isadora Duncan ebbe un giorno ad esclamare: D’Annunzio è

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capace di dare a ciascuna donna la sensazione che essa sia al centro dell’universo!

Le donne che lo amarono, anche le più famose, finirono con l’essere da lui lasciate: la Duse, che lui seppe sfruttare abilmente usandola come grande interprete delle sue opere, Maria Hardouin dei Duchi di Gal-lese, Barbara Leoni, Alessandra Ru-dini Carlotti (che per disperazione si fece suora), la contessa Giuseppi-na Mancini (che finirà pazza per le vie di Firenze), Natalia de Golou-beff, Romaine Brooks, Maria Gra-vina Cruyllas, ecc.

Un altro eloquente esempio dell’abilità di D’Annunzio di farsi pubblicità, lo abbiamo quando, uscita da poco la sua raccolta di po-esie Primo vere, che ebbe un grande successo, fece diffondere la notizia della sua morte, poi smentita con la contemporanea uscita della secon-da edizione. Quest’abilità pubblici-taria seppe esercitare per tutta la vi-ta, a prescindere dal fatto che nono-stante ciò è stato davvero un grande poeta. I suoi discorsi erano sapien-temente trascinatori, un delirio di massa che neppure Mussolini pote-va permettersi, ma che aveva dalla sua una claque imponente. L’orato-ria del Duce era quella di un capo-popolo, piuttosto rozza e semplice, di una banalità declamatoria, quella di D’Annunzio era raffinata, colta: per lui la parola si faceva gesto, eb-brezza d’azione. Tra l’oratoria dei due un abisso: impetuosa, demago-gica e grezza l’uno, costruita con sa-

piente arte letteraria l’altra. E D’An-nunzio d’altronde considerò sem-pre il Duce un grezzo populista e un cattivo imitatore di idee, di at-teggiamenti, di imprese, oltre che uno sfruttatore inadeguato dei mo-di e dei toni della propria oratoria. L’oratoria di Mussolini era tutta in-tesa a suscitare il cosiddetto delirio di massa con poche parole definite scultoree dai suoi esegeti. Quando nel corso della guerra di Spagna Franco conquista Barcellona ben sorretto dalle truppe italiane inviate da Mussolini, questi arringa la folla accorsa a Piazza Venezia con queste parole: La parola d’ordine dei rossi era: No pasaran! Siamo passati. Ed io vi dico che passeremo!

Quando i rapporti con la Francia si fanno delicati, il Duce ricorre all’insulto volgare, che piace tanto alla massa: Ai nostri vicini d’Oltral-pe noi diciamo che non sappiamo che farcene di fratellanze, di sorel-lanze e di cuginanze bastarde!

Quale differenza con la sapiente e trascinante capacità oratoria di D’Annunzio, che sa ricreare la po-tenza aggressiva di uno spettacolo di entusiasmo e di delirio!

Famoso il suo discorso alla folla, un capolavoro di oratoria da lui te-nuto a Quarto, presso Genova, s’u-no scoglio, il 5 maggio del 1915, e che praticamente spinse l’Italia alla guerra dichiarata 20 giorni dopo.

La gioia di vivere di D’Annunzio si identificava in una miracolosa capacità di canto: nessun poeta ha così prodigiosamente mutato la pa-

rola in musica. D’Annunzio giunge dove il Carducci, con tutte le sue pretese paniche e pagane, non riu-scì mai ad arrivare. La trasgressione inventiva, in lui, trasforma le cose della natura in funzione della paro-la, cui dà la dignità nella volgarità e nella disfatta dell’esistenza. Il suo è il culto dell’edonismo verbale, della libidine delle parole godute come suoni e bevuti come musiche.

Fresche le mie parole nella sera / ti sien come il fruscio che fan le foglie / del gelso ne la man di chi le coglie… // Laudata sii per il tuo viso di perla, / o sera, e pe’ tuoi grandi occhi ove si tace / l’acqua del cielo… // Dolci le mie parole ne la sera / ti sien come la pioggia che bruiva / tepida e fuggiti-va, / commiato lacrimoso de la pri-mavera… (La sera fiesolana)

Si può anche detestare il virtuosi-smo stilistico e la raffinatezza del pensiero, ma non è vero che D’An-nunzio sia tutto qui: non è vero che l’esuberanza panica sia in lui solo suggestione carnale e faunesca. D’Annunzio è anche il grande auto-re di tragedie come la Francesca da Rimini, la Gloria, la Gioconda, La fi-glia di Iorio, La fiaccola sotto il mog-gio, e soprattutto delle Laudi del cie-lo, del mare, della terra e degli eroi, col suo capolavoro, Alcione.

Un libro, questo, che da solo è il concentrato di tutta la poetica di D’Annunzio, e che fa di lui un vero poeta, anzi un Vate.❧

Italo Bonassi

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Pastori

Settembre, andiamo! È tempo di migrare.Ora in terra d’Abruzzo i miei pastorilascian gli stazzi e vanno verso il mare:scendono all’Adriatico selvaggioche verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fontialpestri, che sapor d’acqua natiarimanga ne’ cuori esuli a conforto,che lungo illuda la lor sete in via.Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,quasi per un erbal fiume silente,su le vestigia degli antichi padri.Oh voce di colui che primamenteconosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral camminala greggia. Senza mutamento è l’aria.Il sole imbionda sì la viva lanache quasi dalla sabbia non divaria.Isciaquio, calpestio, dolci romori.Ah, perché non son io co’ miei pastori?

La sera fiesolana(solo la parte iniziale)

Fresche le mie parole ne la serati sien come il fruscio che fan le fogliedel gelso ne la man di chi le cogliesilenzioso e ancor s’attarda a l’opra lentasu l’alta scala che s’anneracontro il fusto che s’inargentacon le sue rame spogliementre la Luna è prossima alle sogliecerule e par che innanzi a sé distenda un veloove il nostro sogno si giacee par che la campagna già si sentada lei sommersa nel notturno geloe da lei beva la sperata pacesenza vederla.Laudata sii per tuo viso di perla,o sera, e pe’ tuoi grandi occhi ove si tacel’acqua del cielo!Dolci le tue parole ne la serati sien come la pioggia che bruivatepida e fuggitiva,commiato lacrimoso de la primavera,sui gelsi e su gli olmi e su le vitie su i pini dai novelli rosei ditiche giocan con l’aura che si perde,e su ‘l grano che non è biondo ancorae non è verdee su ‘l fieno che già patì la falcee trascolora,e su gli olivi, sui fratelli oliviche fan di santità pallida i clivie sorridenti…… … …Laudata sii per la tua pura morte,o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitarele prime stelle!

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La pioggia nel pineto

Taci. Su le sogliedel bosco non odoparole che diciumane, ma odoparole più nuoveche parlano gocciole e foglielontane.Ascolta. Piovedalle nuvole sparse.Piove su le tamericisalmastre ed aspre,piove sui piniscagliosi ed irti,piove su i mirtidivini,su le ginestre fulgentidi fiori accolti,su i ginepri foltidi coccole aulenti,piove su i nostri voltisilvani,piove su le nostre maniignude,su i nostri vestimentileggieri,su i freschi pensieriche l’anima schiudenovella,su la favola bella

che ierit’illuse, che oggi m’illude,o Ermione.

Odi? La pioggia cadesu la solitariaverdura,con un crepitio che durae varia nell’ariasecondo le frondepiù rade, men rade.Ascolta. Rispondeal pianto il cantodelle cicaleche il pianto australenon impaura,né il ciel cinerino.E il pinoha un suono, e il mirtoaltro suono, e il gineproaltro ancòra, stromentidiversisotto innumerevoli dita.E immersi,noi siam nello spiritosilvestre,d’arborea vita viventi:e il tuo volto ebroè molle di pioggiacome una foglia,e le tue chiome

Si dice che a volte basti una sola poesia per definire grande un poeta. Se fosse così, basterebbe la splendida Piog-gia nel pineto, forse la più letta e la più famosa, così piena di omofonie e onomatopèe, di assonanze, allitterazioni, anafore, e vari espedienti tecnici di grande effetto, che danno alle voci e ai suoni di un bosco una straordinaria varietà di sensazioni. L’esile ed evanescente trama basata su una semplice passeggiata in una pineta assume in D’Annunzio un qualcosa di fantastico e arcano, parole e versi come musica, tutto un gioco onomatopeico di scro-sci di pioggia, di gracidii di rane, di fruscii di fronde e di erbe, di una fresca vita arborea risvegliata dalla pioggia.

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auliscono comele chiare ginestre,o creatura terrestreche hai nome Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo,delle aeree cicalea poco a pocopiù sordosi fa sotto il piantoche cresce;ma un canto vi si mescepiù rocoche di laggiù sale,dall’umida ombra remota.Più sordo e più fiocos’allenta, si spegne.Solo una notaancor trema, si spegne,risorge, trema, si spegne.Non s’ode voce del mare.Or s’ode su tutta la frondacrosciarel’argentea pioggiache monda,il croscio che variasecondo la frondapiù folta, men folta.Ascolta.La figlia dell’aria,è muta; ma la figliadel limo lontana,la rana,canta nell’ombra più fonda,chi sa dove, chi sa dove?E piove su le tue ciglia,Ermione.

Piove su le tue ciglia neresì che par che tu pianga,ma di piacere; non bianca

ma quasi fatta virente,par da scorza tu esca.E tutta la vita è in noi fresca,ardente,il cuor nel petto è come pescaintatta,tra le palpebre gli occhison come polle tra l’erbe,i denti negli alveolison come mandorle acerbe.E andiam di fratta in fratta,or congiunti, or disciolti(e il verde vigor rudeci allaccia i malleoli,c’intrica i ginocchi),chi sa dove, chi sa dove!

E piove su i nostri voltisilvani,piove su le nostre maniignude,su i nostri vestimentileggieri,su i freschi pensieriche l’anima schiudenovella,su la favola bellache ierim’illuse, che oggi t’illude,o Ermione.

Nella belletta

Nella belletta i giunchi hanno l’odoredelle persiche mézze e delle rosepasse, del miele guasto e della morte. Or tutta la palude è come un fiore lutulento che il sol d’agosto cuoce, con non so che dolcigna afa di morte.Ammutisce la rana, se m’appresso.Le bolle d’aria salgono in silenzio.

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Gabriele D’annunzio

12 marzo 1863 Nasce a Pescara.

1879 Ancora convittore al Collegio

Cicognini di Prato, pubblica la sua prima

raccolta in versi, Primo vere.

1881 Compiuti gli studi ginnasiali,

si iscrive alla facoltà di Lettere di Roma,

dove si trasferisce.

1882 Pubblica la seconda raccolta

di versi, Canto novo, e, subito dopo, un

primo libro di racconti, Terra vergine.

1883 Sposa la duchessa Maria Har-

douin di Gallese, dopo una fuga chiac-

chierata a Firenze, ed entra nella élite so-

ciale. Da Maria avrà tre figli.

1887 Conosce Barbara Leoni, il suo

“grande amore”, che durerà cinque anni,

e alla quale dedicherà il romanzo in ver-

si Elegie romane e il romanzo Il Trionfo della Morte.

1888 Si ritrasferisce in seguito a di-

savventure finanziarie in Abruzzo, a

Francavilla, nella casa dell’amico pitto-

re Michetti, e qui pubblica il romanzo Il Piacere. Si lega inoltre sentimentalmen-

te con Barbara Leoni.

1891 Si trasferisce a Napoli, dove col-

labora a diversi giornali con Matilde Se-

rao, alla quale dedica il breve roman-

zo Giovanni Episcopo. A Napoli cono-

sce la principessa Maria Gravina Cruyllas

Anguissola, dalla quale avrà due altri fi-

gli, e rompe definitivamente con Barba-

ra Leoni.

1892 Esce il romanzo L’innocente.

1893 Pubblica il Poema paradisiaco.

1894 Esce il romanzo Il trionfo della morte. Venuto in contatto con la filosofia

di Nietzsche, ne abbraccia l’idea del supe-

ruomo, a cui si ispira in diverse opere.

1894 Inizia il travagliato e focoso

rapporto con la grande attrice Eleonora

Duse, e, da lei ispirato, pubblica diverse

tragedie e opere teatrali, tutte aventi la

Duse stessa come prima donna.

1896 Affitta nel frattempo a Setti-

gnano (Firenze) una villa, che battez-

za La Capponcina, accanto alla villa La Porziuncola, della Duse.

1896-1900 Pubblica Le Vergini del-le rocce (romanzo), La città morta (ro-

manzo), Il fuoco (romanzo). Va nel frat-

tempo in crociera da Ancona a Venezia,

e naufraga. Si salva a fatica.

1897 Viene eletto nel collegio di Or-

tona in una coalizione di Destra.

1898 La città morta viene recita-

ta a Parigi, interprete la celebre Sarah

Bernhardt.

1899-1909 Pubblica La Giocon-da (1899), La Gloria (1900, interpre-

ti la Duse ed Ermete Zacconi), la Fran-cesca da Rimini (1901), La figlia di Io-rio (1903), La fiaccola sotto il moggio (1905), La nave (1909), Fedra (1909).

1900 Passa alla Sinistra, dopo le can-

nonate di Bava Beccaris a Milano e le

dure repressioni sociali. La tragedia La Gloria si ispira alle forti tensioni sociali di

tale periodo, ed è un atto d’accusa contro

il governo Crispi. Alle elezioni, si ricandi-

da con la Sinistra, ma non viene rieletto.

1903 Conosce la contessa Giu-

seppina Mancini (la Giusini), di cui

s’invaghisce.

1903-1904 Pubblica la sua opera

drammatico-poetica fondamentale, Le Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, il cui Libro III, Alcyone, vie-

ne considerato il suo capolavoro. Mero-pe, il Libro IV delle Laudi, viene inizial-

mente censurato e sequestrato, perché

troppo antiaustriaco. In esso così viene

ad esempio definito l’imperatore d’Au-

stria Francesco Giuseppe: L’angelica-to impiccatore / l’angelo della forca sempiterna.

1904 Rompe definitivamente con

la Duse, che, prima di morire, distrug-

gerà tutto il ricco epistolario tra lei e

D’Annunzio.

Rompe anche con la Mancini e si uni-

sce sentimentalmente con la contessa

russa Natalia de Goloubeff, e contem-

poraneamente frequenta la pittrice rus-

sa Romaine Brooks.

1909 La Capponcina viene posta

sotto sequestro giudiziario, perché, rot-

to con la Duse, non aveva più i soldi per

mantenerla e neanche per continuare il

tenore di vita cui era abituato. Inizia in

questo periodo la sua passione per l’ae-

ronautica e l’automobilismo.

1910 Persa la villa La Capponcina,

si trasferisce in Francia. Qui scrive il ro-

manzo autobiografico Forse che sì, for-se che no, dedicato al suo grande amo-

re per la Leoni, il breve romanzo La Leda senza cigno e, in francese, Il martirio di San Sebastiano, quest’ultimo con som-

mo scalpore perché ritenuto troppo

scandaloso e blasfemo.

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bibliografia essenziale

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angela tuMini, Il mito dell’anima: Magia e folklore in D’Annunzio, Lanciano, Carabba, 2004annaMaria andreoli, D’Annunzio, Il Mulino, Bologna, 2004Marilena giaMaMrCo, La parola tramata: progettualità e invenzione di D’Annunzio, Carocci, Roma, 2005renato MaMMuCCari, Dal naturalismo al simbolismo, D’Annunzio e l’ar-te del suo tempo, Marigliano, LER, 2005

1915 Rientra in Italia prima del-

lo scoppio della Grande Guerra e s’im-

pegna in una tournée di comizi nazio-

nalistici e interventisti, di pretto sapo-

re antiaustriaco, con folle quasi ocea-

niche, mettendosi in rotta col Gover-

no Giolitti, che era filoaustriaco e neu-

tralista. Pronuncia a Quarto un memo-

rabile discorso durante l’inaugurazione

del Monumento ai Mille, in cui incita la

folla a chiedere l’entrata in guerra dell’I-

talia. Grazie anche alle sue orazioni, so-

prattutto ad una famosa affidatagli dal

Governo Salandra, gli interventisti han-

no la meglio, e l’Italia dichiara la guerra.

D’Annunzio si arruola, combatte sul

Carso e partecipa a imprese incredibi-

li sul mare (nel 1916 l’audace Beffa di Buccari, un porto di Fiume difeso dal-

la flotta austriaca e da lui violato di not-

te con un MAS) e anche in cielo (il fa-

moso volo su Vienna, nel 1918, per get-

tarvi migliaia di manifestini tricolori

con stampato l’invito alla resa). Dopo la

guerra, si fa portavoce dei reduci e par-

la della vittoria mutilata, della decisio-

ne (Progetto Wilson) delle potenze vin-

citrici di cedere la città di Fiume – che in

un plebiscito aveva scelto quasi per la

totalità di passare all’Italia – al neo co-

stituito stato slavo.

1919 D’Annunzio parte da Ronchi

dei Legionari (Monfalcone) e con un

piccolo esercito di reduci marcia su Fiu-

me, la occupa militarmente e vi istitui-

sce la Reggenza, assumendo il titolo di

Comandante della Repubblica demo-

cratico-socialista del Quarnaro.

1920 Fiume, con un altro plebiscito,

si autoproclama Stato Libero del Quar-

naro, e rifiuta di diventare jugoslava.

Dopo un lungo assedio da parte del-

la flotta italiana (24-28 dicembre 1920),

che, su ordine del Governo Nitti, spa-

ra sulla città, in obbedienza al Progetto

Wilson, con diversi feriti e case distrutte

(lo stesso D’Annunzio viene ferito), Fiu-

me ammaina la bandiera del Quarnaro,

D’Annunzio cede i poteri alla comunità

fiumana e se ne torna in Italia.

Gli Alleati ora sono finalmente con-

vinti dell’italianità di Fiume, e Fiume di-

venta italiana, entrando con l’Istria nel-

la nuova regione, capoluogo Trieste, la

Venezia Giulia (1921).

1921 D’Annunzio, deluso dai politi-

ci, si ritira nella sua villa di Cargnacco,

in quel di Gardone, sul lago di Garda,

e la trasforma, aggiungendovi la prua

della nave militare Puglia. Diventa così

una villa-nave unica nel suo genere, col

nome augurale di Vittoriale. Il Vittoriale

è la sua ultima dimora. Qui vive come in

un eremo in solitario e sdegnoso esilio

dorato, snobbato da Mussolini e dal fa-

scismo, che vedono in lui un potenzia-

le concorrente politico. Ormai ha quasi

smesso di scrivere, e fa una vita di una

seraficità ardente da San Francesco.

1935 Esce il suo ultimo lavoro, Cen-to e cento e cento pagine del Libro se-greto, e compone una farsa in versi

contro Hitler, mai pubblicata.

1 marzo 1938 Muore nella sua vil-

la-vascello di Gardone.

1939 Esce, postumo, Solus ad so-lam, una sorta di autobiografia dedica-

ta all’unica donna che abbia veramente

amato, la Giusini, con tutti i particolari

della tragica fine della donna che, bru-

talizzata dal marito geloso, dopo una

lunga attesa di Gabriele, bloccato con

la macchina in panne a Bologna, credu-

tasi abbandonata, colta dalla follia, se

ne va disperata di notte per Firenze, su-

bendo anche l’onta di essere violentata

da due loschi figuri.

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Il mestiere di scriverea cura di Gregory Alegi

gregory alegi

Il peggior amico dell’autore

“I l grafico è il peggior ne-mico dell’autore.” Ricordo bene quando lo scoprii.

Stavo lavorando a una rivista – anzi, un numero unico – che presentava una serie di problemi. Tra questi, la grafica. Il cliente aveva chiesto pro-poste (“creatività”) a diversi studi grafici, scegliendone con grande tra-sparenza uno che nessuno conosce-va. I problemi iniziarono non appena cercai di riempire la “gabbia” (come si chiama lo schema grafico) con gli articoli. Benché ridotti al minimo in fase di impostazione generale, in pa-gina proprio non ci stavano. Pur es-sendo stato dato grande spazio alle immagini, non erano previste dida-scalie. Fu allora che il grafico se ne uscì con «gli eventuali testi». Even-tuali? In una rivista? Dopo aver coin-volto la crema dei giornalisti specia-lizzati? Pagandoli pure bene? Avevo la bava alla bocca. Con molta pazien-za, lo spazio per le didascalie alla fine saltò fuori. Minime, però, perché se-condo il grafico la didascalia giusta per l’immagine di un’auto monopo-

sto rossa con un cavallino rampante nero sul fianco sarebbe stata “La Fer-rari di Schumacher”, mentre io vole-vo almeno un paio di righe descritti-ve. Era un dialogo tra sordi. Scoprii solo dopo che lo studio aveva espe-rienza soprattutto nel “packaging”, cioè le confezioni, e quindi ragionava in termini di pubblicità più che di contenuti. Ecco perché diventavano «eventuali» i testi che invece per il re-dattore erano il messaggio essenziale.

Per quanto estremo, il caso illustra l’importanza e la difficoltà del rap-porto tra forma e contenuto di una pubblicazione. Un buon progetto grafico invoglia alla lettura, valorizza il contenuto, ottimizza l’uso dello spazio e rende agevole l’impagina-zione. Come scrive John Lewis nel suo manuale di typography (cioè la grafica applicata all’impaginazione), i grafici dovrebbero “ricordare che il loro lavoro consiste nel comunicare, o almeno fornire un canale di comuni-cazione, tra autore e lettore” (Typo-graphy: Design and Practice, New York, Taplinger, 1976, p. 11). Quan-

do questo accade, il grafico è il mi-glior amico dell’autore e del lettore. In caso contrario, il libro sarà più brutto, a qualcuno verrà un esauri-mento nervoso o tutte e due le cose insieme. I casi di omicidio sono, per fortuna, molto più rari.

Prima di soffermarsi sul ruolo del grafico, vale la pena di ricordare che i normali contratti editoriali specifica-no che l’autore non ha alcuna voce in capitolo sull’impaginazione del pro-prio lavoro. Probabilmente i grandi autori hanno qualche diritto in più, ma per tutti noi la realtà è un’altra: spesso gli editori ascoltano più il gra-fico che l’autore. Prima ci si abitua, meglio si vive.

Il progetto graficoSotto il profilo estetico, è auspica-

bile una certa affinità tra il testo e il suo aspetto. Un saggio universitario non può essere presentato come un libro d’infanzia, così come una rivi-sta di auto non si può impaginare co-me una di giardinaggio. Dal punto di vista funzionale, ogni tipologia ha

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il mestiere di scrivere

caratteristiche specifiche: la rivi-sta illustrata deve prevedere non solo didascalie, ma anche box, grandi titoli, sottotitoli, rubriche; il saggio dovrà avere le note, non importa se a piè di pagina, fine capitolo o fine libro. È in base a questi vincoli (più considerazioni tecniche, che incidono sui costi) che il grafico crea il progetto, che sarà tanto più efficace quanto più è al servizio del contenuto e quanto più invisibile (o almeno trasparente) agli occhi del lettore. La prevalenza della grafica è giu-stificata quando il testo è secon-dario, ma allora più che di un li-bro si tratta di un album fotogra-fico, del catalogo di una mostra d’arte o dell’atlante stradale. Si può trasformare il testo stesso in grafica, ma la cosa ha senso solo per forme di scrittura sperimen-tali o d’avanguardia.

Per rendere il testo leggibile bi-sogna scegliere il carattere giusto (i “bastoni”, soprattutto se light, non sono adatti ai testi lunghi, per esempio; quelli con le “gra-zie” possono essere troppo neri e pesanti) ma anche saper trovare l’equilibrio tra il corpo (tradizio-nalmente espresso in “punti”) e l’interlinea. In molti casi per mi-gliorare la leggibilità basta au-mentare lo spazio tra le righe, senza aumentare il corpo; in altri serve un po’ di spazio bianco in-torno al testo, per farlo respirare. A proposito di bianco: esistono regole per costruire i margini

della pagina e la larghezza (“giu-stezza”) della colonna di testo.

Una volta creato il progetto grafico bisogna applicarlo. Que-sto è il vero esame: come l’assag-gio è la verifica della ricetta, così l’impaginazione porta inesora-bilmente alla luce i punti di forza o di debolezza del progetto. Se è ben fatto, sarà utilizzato centina-ia di volte: così fu per il progetto di Jan Tschichold (1902-74) per i tascabili Penguin.

In caso contrario sono guai. In un lavoro piuttosto ampio, con tempi piuttosto stretti, saltò fuori che in una pagina del libro non entrava la quantità di testo ne-cessario. Per far coincidere lo spazio disponibile con quello ne-cessario, i redattori si sobbarca-rono il compito di tagli mirati, in modo da salvare l’intelligibilità del testo; i grafici – si scoprì più tardi – provvedevano invece am-putando la parte finale, con un criterio puramente metrico.

Per evitare queste situazioni basta contare le battute, cioè le lettere, i segni di interpunzione e gli spazi bianchi del testo. Con la macchina per scrivere questo si faceva usando righe da 60 battu-te, 30 delle quali facevano una pagina (“cartella”). Oggi Word lo fa in automatico. Lo stesso si fa sul progetto grafico, impaginan-do un testo vero o simulato (il classico finto latino di Lorem ip-sum) e contando le battute totali di un certo numero di righe (per

quando l’artista aMa il testo

La nobile arte [di farsi dei nemici] è molto più che un divertimento grafi-co. È un libro concepito meravigliosa-mente. Benché Whistler fosse soprat-tutto un pittore, usava le parole con il rispetto di quanti amano usarle. Fu il primo grafico moderno a mostrare che l’arte tipografica è innanzitutto u-na questione di disporre le parole in modo che il loro senso diventi più chiaro, più acuto e più preciso.

Tecnicamente, la grafica di Whi-stler è interessante per il modo in cui faceva uso dei caratteri piuttosto ano-nimi di cui disponevano le tipografie commerciali e per come riusciva a su-perare la loro altrettanto indifferente qualità di stampa. Questo era l’esatto contrario del punto di vista di Wil-liam Morris e di gran parte dei succes-sivi stampatori delle tipografie priva-te, spesso ossessionati dal disegno dei caratteri e dai materiali sui quali stampavano. […]

Non c’erano due persone meno si-mili di James McNeill Whistler e Wil-liam Morris in quanto a simpatie e antipatie e nel proprio stile di vita. Ep-pure avevano almeno due cose in co-mune. Per questo non sorprende che per qualche tempo entrambi si siano interessati di grafica, e in particolare dell’aspetto dei propri libri.

John Lewis, Typography: Design and Practice, New York, Taplinger,

1976, p. 18

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esempio 15); a questo punto una semplice divisione fa ottenere il valo-re medio di battute per riga. Si conta-no quindi le righe in un certo nume-ro di centimetri (o in una colonna intera di lunghezza nota), che grazie a un’altra divisione danno le righe per centimetro. Il gioco è fatto: se in una pagina ci stanno 32 righe di 90 battute, il totale è di 2.880 battute. Questo vuol dire che un articolo di 10.000 battute richiederà tre pagine e mezzo, un saggio di 100.000 battute 34,7 pagine e un romanzo di 350.000 battute 121 pagine. Per ottenere gli ingombri totali bisogna aggiungere titoli, aperture e chiusure, illustrazio-ni. Con un rapporto testo-immagine di 1 a 1, per esempio, l’articolo occu-perebbe sette pagine. Se il progetto grafico non prevede pagine singole, è già chiaro che si dovrà tagliare (per stare in 6 pagine) o allungare (per portarle a 8). L’ideale è però prevede-re anche pagine singole, per conte-nuti redazionali (per esempio rubri-che brevi), per eventuali inserzioni pubblicitarie, per fronteggiare una tavola fuori testo o mille altri motivi.

L’autore non è un graficoIl grafico non è un redattore. O, più

esattamente, non è tenuto a capire niente di testi e contenuti. “Non mi

fare correggere le didascalie per telefo-no, perché non è il mio mestiere e poi le sbaglio”, mi diceva Dario Calì, con il quale abbiamo fatto riviste per an-ni. Aveva ragione, naturalmente. La scorciatoia si paga in correzione di bozze, quando bisogna prestare maggior attenzione per non lasciarsi sfuggire qualche strafalcione insidio-so. È anche vero che talvolta i grafici esagerano anche nel proprio settore specifico, per esempio rovesciando una foto perché “è meglio se guarda verso destra.” Poi però l’uomo ritrat-to porta l’orologio a sinistra, indossa una giacca con abbottonatura da donna e le scritte negli specchi si leg-gono dritte. Così come il piombo non è gomma, anche le immagini non sono solo colori e forme.

Attenzione però a dare al grafico o all’impaginatore tutte le colpe. Molte delle considerazioni sull’involuzione del processo produttivo (esternaliz-zazione esasperata del lavoro, con annessa precarizzazione delle profes-sionalità) già fatte parlando del re-dattore, si applicano anche a chi è chiamato a impaginare, spesso con tempi ristretti e continue richieste di cambiamento da parte del commit-tente o della redazione.

Ma è anche vero il contrario: l’auto-re (o il redattore) non è un grafico e, a

parti inverse, corre gli stessi rischi. Quando si chiede all’autore di mette-re in pagina i propri testi riempiendo uno schema già sviluppato (come nei template di Word o nei servizi di au-topubblicazione tramite internet), il rischio di inestetismi è molto alto. Come per il grafico, anche per l’auto-re saper manovrare un computer e un programma d’impaginazione non implica buon gusto, senso delle pro-porzioni, conoscenza delle regole ba-se. E saltano fuori i papocchi, pagine inguardabili che il lettore scorrerà in fretta o salterà senza leggerle.

Perché, sia chiaro, il risultato non dipende dal sistema tecnico usato, ma dalla cultura e sensibilità estetica: qualità che si possono imparare, ma che non vengono conferite dalla tec-nologia.

Si possono fare cose orrende con l’elettronica e pulite con macchina per scrivere e fotocopie, così come orrori con la stampante ad aghi e meraviglie con la fotocomposizione.

È per questo che il manovratore di computer è una maledizione (oltre che destinato a sparire, in termini professionali), mentre un grafico con solide basi e lunga esperienza è una risorsa.❧

Gregory Alegi

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MusicobibliofiliaRubrica a cura di Federica Fortunato e Diego Cescotti

federiCa fortunato

Un Tristano di guerra

“Seigneurs, vous plaît-il d’ entendre un beau conte d’ amour et de mort? …

Signori, vi piace ascoltare un bel rac-conto d’ amore e di morte? È quello di Tristano e di Isotta la regina. Ascoltate come con gran gioia, con gran dolore, essi si amarono, poi ne morirono lo stesso giorno, lui per lei, lei per lui”.

Riconoscete l’ inizio di quel ‘ ro-manzo simbolista’ di Joseph Bédier che dei multipli Tristani medievali è la sapiente e poetica riscrittura no-vecentesca. Sulle stesse parole del romanzo si apre l’ oratorio Le vin herbé di Frank Martin, con uno slancio vocale che subito si placa nella condotta piana accordale che è un tratto distintivo di tutta l’ opera.

Titolo e generatore dell’ oratorio, in un primo tempo il filtro d’ amore era stato pensato come protagoni-sta, sciolto dall’ ambivalente portato di passione e tragedia, emblema di un’ assolutezza del sentimento e della sensualità. Elemento moder-no, continentale, assente nelle pri-

me versioni celtiche, la bevanda ha introdotto una ‘ rivoluzione spiri-tuale’ nella leggenda, concentrando le pulsioni umane in un catalizzato-re esterno, garantendo la reciproci-tà della passione e rendendo dicibi-le, anzi celebrabile, ‘ la’ storia dell’ a-more radicale e totalizzante. Rove-sciata la tesi per cui la leggenda di Tristano e Isotta sarebbe all’ origine della concezione moderna dell’ a-more (Denis de Rougemont), nel suo Le philtre et l’ amour del 1969 Michel Cazenave denuncia come la lezione erotica del Tristano sia stata soffocata e vinta da un altro modo di intendere l’ amore, quello cortese della purezza, della tensione idea-lizzante o della colpa da espiare. Ed è quella autentica modernità che, attraverso Bédier, entra nell’ opera di Martin.

Quando Frank Martin comincia a comporre Le vin herbé / Der Zau-bertrank è il 1938 e siamo a Zurigo, città in cui due anni dopo presente-rà la prima versione, seguita nel

1942 da quella, ripensata e amplia-ta, che oggi conosciamo.

Commissionato da Robert Blum (noto compositore soprattutto di musica per film, all’ epoca impe-gnato nella promozione di musica antica e contemporanea) per il suo Madrigalchor Zürich, Le vin herbé si serve di un organico essenziale: 12 voci (tre per quattro registri), 7 archi (violini, viole, violoncelli, contrabbasso), pianoforte.

Nell’ oasi della Svizzera neutrale, durante gli anni di guerra Martin produrrà altri lavori per voce (soli e coro) con piccola orchestra in vari generi e su temi cha ondeggiano tra il favolistico e la meditazione sulla tragedia in corso: il balletto Das Märchen vom Aschenbrödel / La marcia di Cenerentola, lo ‘ spectacle dansé en plein air’ Ein Totentanz zu Basel im Jahre 1943, fino all’ orato-rio In terra pax allestito nel maggio del 1945.

Conoscendo il pensiero e l’ etica professionale (la ‘ responsabilità del musicista’ ) di Martin, è trasparente

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musicobibliofilia

un suo atto di opposizione alla bar-barie attraverso quest’ ultima incar-nazione della storia di Tristano e I-sotta. Anche l’ estrema lontananza dal modello wagneriano è un pro-gramma ideale oltre che artistico, se ricordiamo l’ appropriazione falsifi-cante che di Wagner stava facendo il nazismo. Nessuna magniloquen-za o concessione a languori o impe-ti romantici; “una sorta di Tristano visto dalle quinte del Pélleas debus-siano, ma con un senso di slontana-mento nostalgico ancora maggiore”, secondo l’ espressione di Stefano Leoni. Ma non è solo una questione di lingua e di stile; l’ utilizzo diretto del Roman de Tristan et Iseut di Bédier prova l’ assunzione di un’ ot-tica nello stesso tempo arcaica e modernamente atemporale, sia nel-la concezione della storia che nell’ organizzazione formale.

Un filtro di rinascitaIl libretto è opera del compositore

(probabilmente con l’ apporto della moglie, la flautista olandese Maria Boeke) che distilla passaggi dalle pagine di Bédier senza il minimo ritocco, ottenendo una sintesi agile di grande potenza drammaturgica.

Fra il Prologo e l’ Epilogo (esatta-mente il primo e l’ ultimo capoverso di Bédier) abbiamo tre parti divise in 18 quadri, rispettivamente 6, 5 e 7. La costruzione risulta compatta all’ interno di ogni parte, suddivisa in cellule narrative autonome e coe-renti come in un ciclo di affreschi medievale.

Della lunga storia Martin isola tre momenti nodali (Le Philtre, La forêt du Morois, La mort), recuperando alcuni accenni della storia pregres-sa: le imprese eroiche e cortesi di Tristano, la sua arte di cantore-arpi-sta, il viaggio verso l’ Irlanda nella navicella senza vele e senza remi, incontro alla rinascita e al destino.

Tutto si apre sull’ elemento sim-bolico fondamentale, il filtro: la preparazione, le raccomandazioni della madre di Isotta alla fedele Branghien, l’ atto inevitabile. “Colo-ro che ne berranno insieme si ame-ranno con tutti i loro sensi, con tutti i loro pensieri, per sempre, nella vita e nella morte”. Non solo è tematizzata la centralità del vin herbé, ma viene evocato l’ aspetto sensuale, imperio-so e totalizzante dell’ amore che pro-durrà; nel proclamare la potenza del sentimento se ne anticipa la conse-guenza e noi già pensiamo al quadro finale, quello delle due tombe allac-ciate da un rovo che nessuna violen-za umana può sradicare.

Sulla nave in rotta verso la Cor-novaglia, Isotta si dispera e rompe il vincolo del sillabismo con un meli-sma sulla parola “Chétive / Mise-ra!”; simile procedimento e sulla stessa parola si trova nella terza par-te, quando la tempesta marina sem-bra volerle impedire di raggiungere Tristano morente.

Diversamente che in Wagner do-ve tutto parte da un iniziale delirio di morte, un errore porta a condivi-dere il vino medicato (“No, non era vino: era la passione, era l’ aspra gio-

ia e l’ angoscia senza fine, e la mor-te”). Anzi, non un errore, ma un ri-to universale (il bere ospitale) e ini-ziatico (la bevanda sacra); e non un filtro d’ amore quale la fantasia dell’ orrido ha offerto per secoli, ma una pozione naturale (sia pure trat-tata con scienza e magia) di erbe e fiori mescolati al vino.

Il primo atto si conclude “quando cadde la notte” con l’ abbandono all’ amore su un disegno strumenta-le a grandi onde, cullante ed evoca-tivo. Privo dell’ invocazione iniziale con le sue allusioni tenebrose, origi-nariamente l’ oratorio si concludeva qui, sulla ‘ festa d’ amore’ ; una cele-brazione della potenza vitale ignara del dramma in agguato.

Se la prima e la terza parte costi-tuiscono il cuore del racconto con l’ eterna polarità ‘ amore-morte’ , quella centrale mette in scena il re Marco e l’ incontro nella foresta: i due amanti, dormienti e divisi dalla spada di Tristano, vengono rispar-miati dal marito di Isotta che, scam-biata la spada-diaframma con la propria, risveglierà gli scrupoli di lealtà di entrambi i protagonisti, portandoli alla decisione congiunta di separarsi.

“Séparés, ce n’ était pas la vie ni la mort, ma la vita e la morte ad un tempo”. Con questo avvio la terza parte contiene il ferimento mortale di Tristano, la sua richiesta di rive-dere Isotta la Bionda, il viaggio bur-rascoso di lei, la menzogna gelosa di Isotta dalle Bianche Mani, la doppia morte, il miracolo del rovo

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tra i due sepolcri. Martin non inse-risce quella frase di inarrivabile ma-gia amorosa: “Il nostro amore è di natura tale che voi non potete mori-re senza di me, né io senza di voi”. Ma il resto, nella necessaria contra-zione testuale, c’ è tutto. “Elle mou-rut auprès de lui pour la douleur de son ami”.

Un’ interpretazione atemporaleNella valutazione critica dell’ ope-

ra di Martin, Le vin herbé è conside-rato il momento di passaggio ad uno stile maturo dove i vari procedimen-ti si armonizzano, messi al servizio della meditazione sulla parola.

Con risorse volutamente scarne Martin costruisce un lavoro di grande compattezza stilistica e im-patto espressivo, passando da effetti sinfonici a linee solistiche sofistica-te con una miriade di sfumature di-namiche e timbriche. Senza il ricor-so a temi portanti, la divisione in quadri permette di sgranare ‘ nu-meri chiusi’ caratterizzati da toni e disegni aderenti al contenuto.

Pochi e brevi sono i passaggi solo strumentali; tutto è narrazione con-dotta principalmente dal coro che spesso si fa carico anche del discor-so interiore dei protagonisti. Rara-mente lavora al completo; da una a dodici, tutte le combinazioni di vo-ci si susseguono definendo ogni frase anche timbricamente, senza mai staccarsi dal principio dell’ o-moritmia. I solisti prendono la pa-rola staccandosi dal coro che di fre-quente li accompagna come forma

di commento. Di grande effetto è il procedere imitativo a quattro parti sulle parole della madre di Isotta: “Coloro che ne berranno insieme…”; poche battute, le uniche, in cui si deroga al procedere omoritmico.

Solistica o corale, la parola è ri-spettata minuziosamente nei suoi valori prosodici ed è accentuato il suo fluire di racconto arcaico; la melodia si muove su un sillabismo rigoroso, spesso vicina alla decla-mazione monocorde con lievi in-flessioni. Il cromatismo, diventato ormai linguaggio naturale, non in-ficia la sensazione di sostanziale diatonismo, accentuato da una con-dotta ‘ scivolante’ della polifonia che leviga le armonie più aspre attra-verso iterazione e progressive mu-tazioni accordali.

Apparentemente castigato sul piano timbrico, l’ insieme di archi e pianoforte fiorisce in una tavolozza sperimentale. Come avviene nell’ u-so caleidoscopico delle voci, anche gli strumenti acquistano corpo o si stemperano seguendo situazioni e stati emotivi. Gli archi sostengono il canto con la potenza di un’ orche-stra da camera, con effetti plastici di sapore organistico, con linee solisti-che obbligate; al pianoforte, solo o nell’ insieme d’ archi, è spesso affida-ta la sottolineatura dell’ elemento drammatico: sostegno armonico o-stinato, tremoli, lunghi passaggi per moto continuo.

L’ accompagnamento riflette il principio armonico della scrittura corale: con accordi perfetti usati in

successioni insolite (echi debussia-ni) o con gruppi dissonanti, le parti parallele evocano sonorità delle an-tiche polifonie: l’ organum e più spesso il falso bordone tipico ap-punto delle isole inglesi.

È stato spesso sottolineato l’ uso li-bero della tecnica dodecafonica in quest’ opera che diventerebbe così la prima rilevante prova di Martin nel-la grammatica schönberghiana. In realtà di questa si trova qualche spe-ziatura: si incontrano alcuni temi di 12 note, a volte usate in ostinato, ma senza le procedure previste dalla dottrina di Vienna. Nel 2° quadro dell’ ultima parte (quando Tristano “sentì che la sua vita se ne andava [e] volle rivedere Isotta”) al basso si pre-senta una serie completa, ma è più simbolo di una totalità profonda (il riassunto di una vita, di una storia) piuttosto che materiale da elaborare. Partecipa anzi ad un senso di fissità iconica a cui tutto il resto concorre: sillabismo, frequenti passaggi in u-nisono, procedere armonico coeso, accompagnamenti in ostinato, lun-ghi pedali.

Sono soprattutto questi pedali ad ancorare l’ opera ad una dimensione liberamente tonale. Il triplo ‘ si’ che sostiene il Prologo scivola quasi im-percettibilmente ad un accordo so-speso nelle ultime battute. E, in lon-tana analogia con quanto avviene nel Tristan und Isolde, ritorna a chiudere l’ Epilogo con un luminoso quanto i-naspettato accordo di si maggiore. Naturale soluzione per il congedo ot-timistico delle ultime battute:

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“Seigneurs, les bons trouvères d’ antan, … Signori, i buoni trovieri d’ un tempo Béroul et Thomas, e Monsignor Eilhart, e il maestro Gottfried, hanno raccontato questa storia per tutti coloro che amano, non per gli altri. Per mia voce vi mandano il loro saluto. Salutano chi è pensoso e chi è felice, i malcontenti e i desideranti, chi sta nella gioia e chi è nel tormento, tutti gli amanti. Possano trovare qui consolazione contro l’ incostanza, contro l’ ingiusti-zia, contro il dispetto, contro la pena, contro tutti i mali d’ amore”.

Un augurio all’ umanità in lutto, quindi, questa leggenda; letta se-condo un’ ottica solare, lontana dal-la mistica della morte, si rivela un inno alla vita, un esempio di armo-nia e, per ritornare a Cazenave, “di una vita totale dove fiorisce ogni possibilità dell’ essere […] l’ annuncio di un’ esistenza nuova, intrecciata, compatta e luminosa, …”. ❧

Federica Fortunato

Una registrazione dell’ opera è di-sponibile in 2 CD della Harmonia Mundi (2007). Online si trova una registrazione completa con lo stes-so Frank Martin al pianoforte. Sug-geriamo un’ occhiata al videotrailer dello spettacolo realizzato tra mag-gio e giugno del 2013 allo Staatso-per di Berlino con un’ inconsueta messa in scena: www.staatsoper-berlin.de/en_EN/repertoire/le-vin-herbe.861301.

frank Martin

Frenata dalla radicale prudenza di Calvino verso canto e strumenti, schiacciata fra tre nazioni per secoli protagoniste della storia musicale europea, nella percezione comune la Svizzera rimane ancora oggi un’area grigia. È vivo il ricordo dell’attività direttoriale e culturale di Ernest Ansermet, così come si è diffusa ovunque la pedagogia innovativa di Emile Jaques-Dalcroze; ma la pur copiosa produzione di molte altre figure di interesse (le opere sinfoniche di Hans Huber, per esempio, o le pagine pianistiche di Emil Frey) è poco o per nulla presente.

Frank Martin (1890-1974) è forse l’unico compositore elvetico di perdurante anche se non popolarissima fortuna. Oltre ad una ormai corposa discografia, vari studi in lingua tedesca, francese e inglese danno conto della sua statura di musicista e della posizione originale da lui occupata nel panorama del Novecento. Tuttavia anche per il più fortunato degli autori svizzeri non si trovano studi in italiano, a parte i profili biografici nei repertori enciclopedici e qualche saggio reperibile anche in rete1.

Eclettico è l’aggettivo generalmente usato per una definizione sintetica di Martin. Appartenendo alla generazione di Stravinskij, Hindemith e Bartók, è naturalmente immerso in quel turbinio di ricerche alternative al codice tradizionale con il suo corredo di sperimentazioni, incroci, assunzioni personali di nuove tecniche.

Martin si definisce orgogliosamente ‘svizzero’, erede sia della tradizione tedesca che di quella francese; senza dimenticare il mondo espressivo e valoriale calvinista (il padre era pastore). Nelle interviste e negli scritti Martin esibisce le sue profonde radici bachiane e riconosce il debito con Debussy e, in subordine, con molti altri autori. Attento studioso delle opere del passato e della contemporaneità, applica ed elabora con consapevolezza stili e tecniche compositive: atteggiamenti tardoromantici, impressionistici, neoclassici, così come arcaismi, modalità, politonalità e dodecafonia. Al contrario di uno spirito modellato da troppi influssi e per questo poco caratterizzato, Martin costruisce gradualmente una propria impronta, lavorando come un artigiano che sperimenti prodotti e procedure.

“Ogni regola ha come scopo l’arricchimento dello stile, ma […] l’obbedienza alle regole è soltanto una forma di eleganza, un piacere intellettuale che non ha nulla a che vedere con il valore”.

Emblematico è l’impiego della dodecafonia (di cui si trovano tracce in Le vin herbé); studiata in forma autodidattica dalla metà degli anni Trenta, questa è per Martin una delle organizzazioni possibili dei suoni temperati, spazio per un arricchimento sul piano melodico e per ingegnose strategie costruttive. Ma non deve essere un dogma, né come tecnica, né per le implicazioni ideali espresse dal suo codificatore, Arnold Schönberg.

Al di là della tecnica, Martin sente che ‘la responsabilità del musicista’ (titolo di uno dei suoi scritti) è quella già esplicitata con naturalezza da Franz Joseph Haydn: portare all’umanità «pace e consolazione».

“Quali che siano i movimenti dell’anima, dello spirito, della sensibilità che si manifestano in un’opera, e anche se il fondo è d’angoscia o persino di disperazione, l’arte deve inevitabilmente portare il segno di quella liberazione, quella sublimazione che una forma finita evoca in noi e che è, io penso, quello che si chiama bellezza”.

1 - Segnaliamo due analisi, testuale e musicologica, di particolare acutezza e scorrevole let-tura su Le vin herbé e il linguaggio di Martin: Maria Sofia Lannutti e Maria Caraci Vela in http://riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi/article/view/06-02-INT01/96

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Il Furore del Rocka cura di Livio Bauer

livio bauer

B. Springsteen & J. Steinbeck

I l sesto, l' undicesimo ed il tredicesimo disco di Spring-steen (considerando solo la

produzione nuova ed in studio) so-no le eccezioni alla regola di un suono pieno, orchestrale, composi-to, assicurato nella maggioranza dei casi dalla sua E-Street Band (due ta-stiere, sax e due chitarre oltre a quella di Bruce, nonché la sezione ritmica d' obbligo con basso e batte-ria, e spessissimo percussionisti, coriste, fiati e violino aggiunti).

Si tratta infatti di opere acustiche (contrapposte al suono estrema-mente elettrico ed amplificato che normalmente lo caratterizza) ed in solitaria.

Se Nebraska (1982) nasce da una profonda crisi esistenziale motivata dalla fine dei sogni giovanili (fu de-finito addirittura “folk sepolcrale”) ed è l' unico disco cui non seguì un tour live, e se Devils & Dust (2005) è un genuino prodotto cantautorale americano impregnato di echi country e folk, dedicato ai soldati a-mericani in Iraq, in The Ghost of

Tom Joad (1995) Springsteen si fa cantore dolente del disagio sociale: messicani immigrati clandestini, disperati lasciati indietro dalla rea-ganomic, ed in generale storie di povertà e miseria, di perdita di spe-ranze e valori. Queste tematiche so-no sempre state presenti in tutta la sua opera, e ne riflettono il perso-nale background umano e sociale, ma in questo caso costituiscono il tema esclusivo di tutto il disco.

Il punto di partenza, il motivo scatenante, è The Grapes of Wrath, 1939 (Furore nell' edizione italiana), capolavoro di John Steinbeck e ro-manzo-simbolo della Grande De-pressione americana degli anni ' 30, da cui già Woody Guthrie (1912-1967), padre di tutti i folksingers, trasse ispirazione per la sua Tom Jo-ad (dal nome del protagonista). Probabilmente è questo il medium che ha portato Bruce a conoscere il libro di Steinbeck, insieme all' omo-nimo, bellissimo film di John Ford del 1940, con Henry Fonda e John Carradine.

Va detto subito, infatti, che Springsteen (tutt' altro che un intel-lettuale) ha avuto sempre un rap-porto conflittuale con l' obbligo scolastico ed ha cominciato solo in età adulta ad accumulare letture si-gnificative, con l' entusiasmo ed il disordine del neofita. Non c' è dubbio comunque che la storia di Tom Joad l' ha colpito profonda-mente, inducendolo a trasporre le stesse tematiche su soggetti della sua contemporaneità, con vera par-tecipazione e profondo trasporto.

Un' altra fonte dichiarata è Journey to Nowhere, the saga of the new un-derclass (ediz. italiana Il Saggiatore 2005: Homeland, viaggio nella madre-patria americana) di Dale Maharidge (scrittore americano già vincitore del Pulitzer 1990), da cui nascono in par-ticolare due canzoni: Youngstown e The New Timer. Parte integrante dell' opera di Maharidge sono le foto-grafie, definite “agghiaccianti”, di Mi-chael Williamson. Il libro è stato ri-stampato negli USA nel 2011, con prefazione dello stesso Springsteen.

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Prima di The Ghost of Tom Joad, Bruce aveva concluso il suo percor-so umano ed artistico con la coppia di dischi del 1992. Dal ragazzo nato per correre (Born to Run, 1975) era passato al camminare come un uo-mo (Walk like a Man, da Tunnel of Love, 1988), fino alle gioie e le re-sponsabilità di una famiglia vera (Human Touch e Lucky Town, ap-punto). Aveva concluso la reunion con i fedelissimi della E-Street Band con il Greatest Hits del 1995, e rischiava di impantanar-si creativamente nella vita del borghese tranquillo ed appaga-to.

Perché in Springsteen vita ed arte sono sempre state felice-mente coincidenti: egli sarebbe stato semplicemente incapace di portare avanti una carriera ripe-tendo allo sfinimento le temati-che dei suoi hits giovanili, come fanno a tutt' oggi tante patetiche rockstar settantenni.

Ed allora ecco la stagione dell' impegno: nel 1993 compo-ne per l' amico regista Jonathan Demme il celeberrimo tema con-duttore di Philadelphia (film “sco-modo” sull' AIDS), vincitore sia del Grammy che dell' Oscar come mi-glior canzone, seguito da Dead Man Walking e Missing per altri due film “impegnati” dell' altrettanto a-mico, nonché fan sfegatato, Sean Penn.

E via con un disco difficile da fare e da ascoltare, senza concessioni al-la facile fruizione, né come testi né

come musica, e f*** off al mercato ed ai discografici. Incoraggiato da Lyle Lovett, grande cantautore te-xano (ed ex-marito di Julia Ro-berts) compone, produce, incide e finanzia un' opera che per sua stessa ammissione avrebbe potuto, in ca-so di clamoroso insuccesso, lasciar-lo sul lastrico. La Columbia non crede nel potenziale commerciale della nuova incisione, e la promuo-

ve poco e male; il suo produttore storico e mentore Jon Landau (non a caso assente dai credits) gli prono-stica un sicuro insuccesso. Il disco si piazza in effetti al suo meglio all' 11° posto nelle classifiche di vendita americane e Springsteen si trova a condurre il tour promozio-nale mondiale, acustico ed in soli-taria, in teatri da 3/5.000 posti. La stampa più trendy (Details, Q) lo stronca impietosamente e c' è chi calcola che l' autore di Born in the

USA (1984, 15 milioni di copie ven-dute, sette settimane al n° 1) avreb-be potuto incassare 150 milioni di $ se al posto del tour acustico avesse promosso il Greatest Hits (subito number one in tutto il mondo) con la riformata E-Street Band.

Però, però… il Village Voice e Rol-ling Stone definiscono The Ghost il lavoro di Springsteen più riuscito e coraggioso degli ultimi dieci anni,

gli viene assegnato il Grammy (equivalente ad un Oscar musi-cale) per il miglior album folk contemporaneo (“storie violente raccontate sottovoce” le definisce lui) ed il tour va avanti con cre-scente successo di pubblico e di critica, specialmente nella vec-chia Europa. Alla fine saranno in totale 129 concerti sold-out in tutto il mondo nell' arco di un anno e mezzo: più di due ore e 30' su un palco da solo, senza strumenti elettrici, con la sua vecchia Takamine ed un' armo-nica al collo in perfetto stile folksingin' , a demolire felice-

mente l' immagine di rockstar iper-trofica anni ' 80. Dal vivo stravolge anche numerosi dei suoi inni elet-trici in versione acustica, sofferta e scarna: applauditissimo. In apertu-ra ed in chiusura di concerto risuo-na il Tema Finale di C' era una volta il West di Ennio Morricone, musi-cista italiano venerato negli USA. Durante il tour scrive pure molte delle canzoni che saranno, quasi dieci anni dopo, su Devils & Dust. Io non ho potuto presenziare a nes-

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suna delle 5 esibizioni italiane (il 20.2.1996 fu perfino al Festival di Sanremo di Pippo Baudo: eseguì The Ghost of Tom Joad sottotitolata; fiammata di vendite in Italia nei giorni seguenti) ma ero a Bologna il 4 giugno 2005, per il Devils & Dust Tour, in un Palamalaguti torrido e gremitissimo (tra le 10 e le 12.000 persone): durante le esecuzioni non si sentiva volare una mosca e la ten-sione e l' emozione si tagliavano col coltello. Il piccolo grande uomo del New Jersey, in perfetta solitudine, camicia grigia e jeans stazzonati, con la sua chitarrina o seduto all' or-ganetto, al banjo o alla Rickenba-cker elettrica, armonica e pedale-tamburino da busker, ci ha stregati tutti per 150 minuti di fila. E la maggior parte dei presenti capiva poco o nulla dei testi, cantati ma più spesso biascicati, mormorati, sussurrati in strettissimo Jersey slang. L' ho visto almeno una dozzi-na di volte dal vivo, a partire dal mi-tico San Siro 21 giugno 1985, ma l' apparizione acustica di Bologna ' 05 resta uno dei ricordi più forti.

The Ghost Of Tom Joad (Co-lumbia, 1995), prodotto da Spring-steen stesso assieme al fido Chuck Plotkin e mixato da Toby Scott, si avvale in realtà, in diversi pezzi, dell' accompagnamento discreto di un paio di E-Streeters (Federici e Tallent) e di vari altri strumentisti, fra cui spicca la violinista Soozie Tyrell, che una decina d' anni dopo entrerà praticamente in pianta sta-

bile nella E-Street Band. Dodici canzoni e copertina orribile, forse la peggiore in un lotto già media-mente molto basso dal punto di vi-sta visivo.

The Ghost of Tom Joad. La title-track è una scabra ballata che dà il tono a tutta l' opera: voce dimessa (neanche l' ombra del Bruce toni-truante di Born in the USA), stru-mentazione essenziale, acustica e scarna, con sporadiche sciabolate di un' armonica lancinante.

È la storia di Tom Joad, antica ed attualissima, cruda, dura, oppri-mente. Vi si ritrovano brani di Steinbeck, frasi dal film di John Ford, sprazzi di disperata attualità a creare un' epica senza tempo dei re-ietti e degli ultimi: “Uomini cammi-nano lungo i binari / senza meta e senza ritorno / Elicotteri della poli-zia spuntano dalla collina / Una mi-nestra calda in un bivacco sotto il ponte / La fila per un letto fa il giro dell' isolato”.

Siamo alla pura sopravvivenza, umiliante ed avvilente perfino per lo spettatore distratto: “Famiglie dormono in macchina nel Sudovest / niente casa, niente lavoro, niente pa-ce, niente riposo”.

Ed ecco la botta ai potenti. Sarca-smo più che ironia: “Benvenuti nel nuovo ordine mondiale”. Amaro ri-ferimento alle manie di grandezza statunitensi spesso ripreso dallo Springsteen live anche attraverso l' amatissima Who' ll stop the Rain dei Creedence di John Fogerty. Bef-fardo il nuovo ordine mondiale, per

chi non ha dove andare ed intra-prende un viaggio senza speranza per la promised land di turno (auto-citazione: è il titolo di uno dei suoi maggiori anthems). “Coperto dai cartoni nel sottopassaggio / con un biglietto di sola andata per la terra promessa / hai un buco nello stoma-co e una pistola in mano / e dormi su un letto di dura pietra”.

Chiusura, citando Steinbeck, sull' addio di Tom Joad alla madre, autentica american prayer, univer-sale promessa di lotta, tenacia e speranza: “Ovunque un bambino appena nato piange per fame / dove c' è repressione e odio nell' aria / cer-cami, mamma, io ci sarò / Dovun-que qualcuno lotta per un posto do-ve stare / o un lavoro dignitoso o una mano pietosa / Dovunque qualcuno si batta per essere libero / guarda nei loro occhi, mamma, e mi vedrai”.

Il ruvido ritornello ci riporta pe-rò ai giorni nostri, ai fuochi sul bor-do delle autostrade, agli sconfitti accanto a cui sfrecciano indifferen-ti le nostre macchine… “L' auto-strada è viva stanotte / ma nessuno si illude su dove porti / Sono seduto là, alla luce dei fuochi da campo / con il fantasma del vecchio Tom Jo-ad”.

Il romanzo di Steinbeck, da cui tutto partì, il film di Ford, la canzo-ne di Guthrie, la ballata di Spring-steen: il cerchio si chiude.

Ma certo, visto il temperamento battagliero del nostro, non vanno dimenticate le frasi della Madre nel film di John Ford: “Siamo vivi. Sia-

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mo il popolo, la gente, che sopravvive a tutto. Niente può distruggerci. Nes-suno può fermarci. Noi andiamo sempre avanti”.

Straight Time. Charlie, uscito di prigione, tenta di cambiare vita e di farsi una famiglia. Ma il richiamo della wild side è troppo forte: “Nel buio, pri-ma di cena / a volte sento il prurito”, e quasi ineluttabil-mente ci ricasca: “Giù in cantina, un fucile da caccia ed un seghetto / sorseg-gio una birra e la canna da tredici pol-lici cade sul pavi-mento / Torno a ca-sa la sera e non rie-sco a togliermi l' o-dore dalle mani”.

Nessun romanti-cismo, solo fredda constatazione ed un senso di pena e di nausea…

Highway 29. Un onesto commes-so (che potrebbe essere benissimo il Charlie di Straight Time) conosce la donna sbagliata e con lei compie una rapina. Fuga in auto: “Il sole in-vernale passava attraverso alberi ne-ri / Mi dicevo che doveva trattarsi di qualcosa in lei / ma mentre guidava-mo scoprii che era qualcosa in me / qualcosa da tanto tempo fa / e qual-cosa che era lì con me adesso / sulla statale 29”.

La premonizione dell' inevitabile:

“Tutto ciò che vedevo erano neve, cielo e pini / Chiusi gli occhi e corre-vo / correvo e poi volavo”. E come non pensare al finale di Thelma e Louise (1991) di Ridley Scott…

Youngstown. Uno dei capolavori

non solo dell' album, ma di tutto il corpus della scrittura springstee-niana. Eseguita spesso dal vivo, ha goduto anche di un arrangiamento elettrico full band, con un furibon-do assolo di chitarra di Nils Lofgren, che ne arricchisce e valo-rizza la robusta, struggente, strut-tura musicale.

La storia vera di Youngstown, Ohio, polo industriale dell' acciaio da quasi due secoli, che subisce il declino, la crisi e l' abbandono col conseguente, inevitabile, scempio

sociale. “Costruirono un altofor-no… / e produssero le palle di canno-ne / che aiutarono l' Unione a vince-re la guerra / qui a Youngstown”.

Il padre del narratore lavora negli altoforni, “più caldi dell' inferno”,

così come il figlio, che tornato dal Vietnam riprende un lavoro “più che adatto per il diavolo”. Lavoro duris-simo dunque, ma so-stentamento della fa-miglia: “Carbone e cal-care / hanno nutrito i miei figli… / Quelle ci-miniere che si allunga-no come le braccia di Dio / in un bel cielo di fuliggine e argilla / qui a Youngstown”.

Il padre, reduce della seconda guerra mon-diale, osservando la rovina attuale, com-menta: “Questi ragazzi hanno compiuto ciò che

non era riuscito nemmeno ad Hit-ler” alludendo ai calcoli economici di pochi profittatori. “Queste fab-briche hanno costruito i carri e le bombe / che hanno vinto le guerre del nostro paese / Abbiamo mandato i nostri figli in Corea e nel Vietnam / e ora ci chiediamo per cosa sono morti”.

La chiusura degli stabilimenti, dettata da spietate logiche di profit-to: “La storia è sempre la stessa / Set-tecento tonnellate di metallo al gior-no / E ora, signore, mi dici che il

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mondo è cambiato / Ma io ti ho reso ricco abbastanza / …da dimenticare il mio nome / e Youngstown”.

Quasi come il disoccupato senza futuro di Johnny 99 in Nebraska (che chiedeva di essere ucciso), qui… “Quando morirò non voglio andare in Paradiso / Non farei bene i lavori del Paradiso / Prego che ven-ga a prendermi il diavolo / e mi por-ti nelle ardenti fornaci dell' inferno”.

Amarissimo, straziante epilogo di chi, anche nell' aldilà, non sa imma-ginare un' esistenza senza duro la-voro, e siccome l' unico che conosce è infernale…

Sinaloa Cowboys. Storia vera di due fratelli messicani, immigrati clandestini (ma il padre li avverte: “Figli miei… per ogni cosa che dà, il nord esige il suo prezzo…”), che dapprima svolgono per un tozzo di pane i lavori che gli hueros (i giova-ni americani) non vogliono fare, e poi, attirati dal facile guadagno, passano a gestire un laboratorio clandestino di metanfetamine del “cartello” di Sinaloa. Inevitabile la tragedia: sostanze chimiche perico-lose e instabili e mancanza di pre-cauzioni elementari portano al tra-gico scoppio in cui un fratello per-de la vita. L' altro, recuperati i quat-tro soldi accantonati, saprà (speria-mo) cambiare vita…

The Line. Secondo pezzo della Border Suite dopo Sinaloa Cowboys, ancora un richiamo a Nebraska (Joe Roberts, stavolta): là un poliziotto fa scappare il fratello delinquente, qui una guardia di frontiera si inteneri-

sce per una clandestina messicana e la lascia passare, ma un collega lo scopre… e sta zitto. Situazione sur-reale al confine USA-Messico, dove spesso Border Patrolmen e clande-stini sono amici, se non addirittura parenti…

Balboa Park. Terzo atto delle "storie di confine", disperato e squallido. Un altro clandestino, nel Balboa Park di San Diego (Califor-nia), tra droga, degrado, spaccio e prostituzione, si barcamena senza speranza di redenzione.

Dry Lightning. Una semplice sto-ria d' amore: deluso, naturalmente, visto il mood del disco. “Lei disse: nessuno può dare a un altro ciò di cui ha davvero bisogno”. “Bé, così ti stanchi di lottare / e non hai nemme-no più paura che sia finita / Ma non perderò il suo ricordo / e il dolce pro-fumo della sua pelle / C' è solo un fulmine senza nubi, all' orizzonte / Solo un lampo, e tu nella mia men-te”.

The New Timer. Ispirato, come Youngstown, dal libro di Maharid-ge, è un testo lungo e pieno, in cui l' accompagnamento musicale è quasi superfluo. Poco adatto, per-tanto, all' esecuzione live, raramente compare in concerto. Narra di un homeless senza nome, troppo vec-chio per sperare in un lavoro nuo-vo, che vaga per la nazione da un treno merci all' altro. Frank, compa-gno di peregrinazioni, lo introduce alla dura vita del senzatetto. “Ho la-sciato la mia famiglia in Pennsylva-nia / cercando lavoro sono finito sul-

la strada / …dal New Mexico al Co-lorado / dalla California al mare”.

Ogni tanto qualche lavoretto da bracciante, ma poi… “Ci hanno messi a dormire in una stalla / me ed un centinaio di altri come me”.

Non bastasse, un giorno, inspie-gabile e assurdo, ecco l' assassinio di Frank, suo unico amico. Forse qual-che balordo, forse uno sbirro trop-po zelante… “Gli hanno sparato fuori Stockton / il suo corpo abban-donato su una collina fangosa / Nul-la mancava, niente gli era stato ru-bato / qualcuno l' ha ucciso tanto per uccidere”.

Attonito, passa accanto ad una casa dove una famiglia sta cenando: “Una donna serve la cena in cucina / un ragazzo siede a tavola col suo vecchio / e io mi domando se manco a mio figlio / se si chiede mai dove sono”.

Ed eccoci al finale più nero di tut-ta la produzione springsteeniana. Non resta più nulla, neanche Dio. Solo rabbia cieca e voglia di vendet-ta. “O Gesù, pietà e misericordia / stanotte, mi spiace, non mi riempio-no il cuore / come potrebbero un buon fucile / e il nome di qualcuno da uccidere”.

Across the Border. Dopo la notte più oscura, come spesso in Spring-steen, un po' di serenità, gioia e speranza. Forse debitore della cele-bre Across the Borderline di Ry Co-oder, ecco il pezzo musicalmente più bello di tutto il disco. Sussurra-to, più che cantato, con infinita te-nerezza, da Bruce, l' armonica che

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piange, si conclude con un coro a bocca chiusa in levare che fa venire la pelle d' oca. Fantastico. Quarto ed ultimo brano della Border Suite, è una semplice, pulita, “banale” storia d' amore, che però a questo punto del disco ha un significato profon-do: sa di pacato ottimismo e di ri-scatto. È la sera prima del passaggio del confine: fra sogno e realtà un innamorato si rivolge alla “sua pic-cola”. Nella lunga intro parlata dell' esecuzione live [servirebbe un intero articolo solo per parlare del-le interminabili introduzioni di Bruce ai suoi pezzi, di volta in volta seduta psicanalitica, sfacciata bu-gia, pazza voglia di divertirsi…] ci-ta ancora le parole di Tom Joad alla madre della title track: nobile, co-raggioso messaggio di Steinbeck ai diseredati di tutti i luoghi e tutti i tempi.

Qualche verso dal testo della can-zone: “Domani la mia piccola ed io / dormiremo sotto cieli ramati / da qualche parte oltre il confine / …la-sceremo indietro dolore e tristezza… / …costruirò una casa per te / alta su una collina erbosa / …dove dolore e ricordi siano placati / …dolci fiori nell' aria / dorati pascoli verdi / ac-

qua fresca e limpida… / …fra le tue braccia / sotto cieli infiniti / cancelle-rò con un bacio il dolore dai tuoi oc-chi / laggiù oltre il confine… / sta-notte canteremo canzoni / e ti sogne-rò, amore mio / Domani il mio cuo-re sarà forte / e la grazia e la preghie-ra dei Santi / mi porteranno al sicu-ro fra le tue braccia / laggiù oltre il confine”.

Galveston Bay. Messaggio con-creto di speranza e tolleranza, que-sta canzone deve molto ad Alamo Bay del regista Louis Malle ed al li-bro di Morris Dee A season of justi-ce. È la storia tutta americana di Bil-ly e Le Bin Son, reduci del Vietnam, pescatori di gamberi nel Golfo del Texas. Sposati, un figlio Billy, una figlia Le, che ambedue “…baciano al mattino / prima di andare a but-tare le reti”. Un rigurgito xenofobo, la rabbia povera di chi si vede insi-diato il lavoro, li pone su fronti op-posti “…America agli americani / Se volete che se ne vadano, dategli fuo-co!”. Le Bin Son uccide due adepti del Klan mentre tentano di incen-diargli la barca-abitazione. Legitti-ma difesa, dice il giudice. Billy deci-de di farsi giustizia da solo, e aspet-ta Le impugnando un serramanico.

“La luna si nascose tra le nuvole / Le accese una sigaretta, il mare era cal-mo / Quando gli passò accanto, Billy rimise il coltello in tasca / Fece un so-spiro e lo lasciò andare”. Springsteen sente di non dover spiegare la scelta di Billy, umana, saggia, naturale. La scelta che troppo spesso viene di-sattesa. La più difficile, la più giusta. Quella che sempre dovrebbe essere fatta…

My best was never good enough. Il disco si chiude con un collage di detti popolari più strambi che sag-gi, sciorinati a mo' di filastrocca. Molti sono gli stessi del film Forrest Gump di Robert Zemeckis.

Forse Bruce vuole dirci di non cercare sempre a tutti i costi un si-gnificato profondo, nelle canzoni come nella vita. Meglio a volte se-guire l' istinto, come Billy…

Spiazzata la critica, che considera inspiegabile questa sterzata finale sul nonsense. E sembra di vedere il Boss sogghignare: “Ma devo spie-garvi sempre tutto? Volete pure i di-segnini?”.❧

Livio Bauer

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BIBLIOGRAFIA

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Discografia Essenziale Commentata

Born to run (Columbia, 1975, 3° in classifica). Dopo due dischi buoni ma ancora acerbi, con un gradevolissimo mood jazzy, ma che vendono poco, i discografici non avrebbero tollerato un altro falli-mento. Bruce e la E-Street Band nella formazione classica (Van Zandt-Clemons-Federici-Bittan-Tal-lent-Weinberg), con l' aiuto determinante di Jon Landau, dopo due anni di lavoro durissimo e mille ripensamenti, ai celeberrimi Record Plant Studios di New York sfornano il loro primo capolavoro. Pro-dotto dal trio Springsteen-Landau-Appel (la dispu-ta legale stava partendo), mixato da Jimmy Iovine, allinea otto classici, pezzi che delineano l' epica not-turna e giovane, elettrica e motorizzata di una gene-razione urbana delusa, ribelle ed arrabbiata. La title track è il pezzo più eseguito dal vivo: compare negli encore di (quasi) tutti i suoi concerti. E Jungleland, Backstreets, Tenth Avenue Freeze Out, Thunder Ro-ad, ancora oggi, dopo quasi quarant' anni, mancano di rado…

La 30th Anniversary Edition (Sony-BMG-Colum-bia, 2005) è il sogno di ogni fan, con un dvd di ma-king of ed un altro con l' intero concerto londinese all' Hammersmith Odeon del 18 novembre ' 75.

Darkness on the edge of Town (Columbia, 1978, 5° in classifica). Esce dopo un lungo (a quel punto della carriera) silenzio discografico dovuto alla que-relle giudiziaria con Appel. Opera cupa, oscura, pessimista, è secondo molti l' apice della produzione springsteeniana. Factory, la “vita” di un operaio, a spaccarsi la schiena dall' alba al tramonto, avrebbe potuto stare su The Ghost of Tom Joad. Badlands canta l' angoscia per un futuro che non sarà miglio-re di un presente di sudore e sacrificio. L' amore co-me rifugio (Prove it all Night), la mitica, irraggiun-gibile terra promessa (The Promised Land), la città

oscura (Darkness on the edge of town). Dieci brani, e non sbagliarne uno. Sempre ai newyorkesi Record Plant, produzione Landau-Springsteen-Van Zandt, in studio Plotkin-Iovine. Bruce compie trent' anni, è la fine dell' innocenza e dei sogni, celebrata con il miglior tour all-time della storia del rock: 118 con-certi, purtroppo solo in USA, in cui poesia, furia, potenza, entusiasmo, sofferenza, sudore e gioia, di un Artista, della Sua Band e del Suo Pubblico, si fondono in un unicum irripetibile.

Il cofanetto celebrativo The Promise (Sony-Co-lumbia, 2010) allinea 2 cd di outtakes preziosissime, un dvd con tutto il disco risuonato live, nella se-quenza originale, dalla E-Street Band nel 2009, un dvd di making of, e, finalmente, un terzo dvd col fil-mato completo del Live in Huston (Texas), dell' 8 di-cembre ' 78. Definitivo.

The River (Columbia, 1980, 2 LP, 1° in classifica). L' irrefrenabile bulimia creativa di Bruce lo porta a produrre addirittura un doppio LP di canzoni nuo-ve (cosa piuttosto inusuale ai tempi). Atmosfera gioiosa, spensierata, allegra anche se il disco si con-clude con la drammatica Wreck on the Highway, quasi un' anticipazione dell' atmosfera pesante del successivo Nebraska. Venti pezzi, produzione Springsteen-Landau-VanZandt. Mixato da Chuck Plotkin e Toby Scott ai Power Station Studios di NY. The River, Independence Day, Hungry Heart, The Price You Pay, Point Blank tra le più famose. Il tour promozionale (144 concerti, finalmente in modo organico anche in Europa, ma non in Italia) lo con-sacra a livello mondiale.

Nebraska (Columbia, 1982, 1° in classifica, incre-dibilmente!). All' apice del successo, a 33 anni, rea-lizza che la sua vita al di fuori della musica è pratica-mente inesistente. Assistito comunque sempre da u-

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na felice vena creativa, registra su un vecchio 4 pi-ste nella sua casa di Colts Neck (New Jersey) 10 pez-zi in modo grezzo ed artigianale (si avvertono di-stintamente gli scricchiolii della sedia su cui siede). Canzoni talmente anomale, desolate, spiazzanti che, nonostante svariati tentativi, non è possibile arran-giarle per la band. Nemmeno la reincisione solista in uno studio professionale convince appieno. Ed al-lora il colpo di genio di Jon Landau, e la perizia tec-nica del “solito” Plotkin, portano alla scelta radicale di pubblicare il nastro as it is.

Born in the USA (Columbia, 1984, 1° in classifi-ca). Presto archiviati i turbamenti di Nebraska, rea-lizza l' album perfetto: 12 brani, tutti successi anche come singolo, vendite stratosferiche, 160 date sold-out in tutto il mondo (Australia e Giappone com-presi). Prodotto da Springsteen-Landau-Plotkin-VanZandt, registrato da Toby Scott negli studi Po-wer Station ed Hit Factory di NY, mixato da Bob Clearmountain. Rivalutato nel tempo anche dai fans della prima ora, che non gradirono il clamore me-diatico, il suono inevitabilmente “pompato” degli stadi da 80.000 spettatori, lo stesso aspetto “musco-lare” di Bruce, che sembra in effetti sotto steroidi. Born in the USA, Downbound Train, No Surrender, Bobby Jean, I' m going down, Glory days sono grandi pezzi, che meritano un posto tra i suoi migliori. Trionfale il debutto italiano live a Milano, 3 ore ab-bondanti di musica per uno dei suoi show più cele-brati di sempre.

Live 1975-1985 (Columbia, 1986, 1° in classifica). Il tanto sospirato primo live di Springsteen è una parziale delusione per i seguaci più accaniti: non un concerto intero, magari del mitico Darkness tour, ma una mega-raccolta in ben 5 LP di 40 pezzi tratti da suoi concerti nell' arco di dieci anni. Troppo pre-senti le canzoni di Born in the USA rispetto ai perio-di precedenti, assenze clamorose (Jungleland su tut-

te). È comunque un prodotto validissimo per chi

vuole avvicinarsi al fenomeno Bruce-live, ma sve-la anche il lato più avido e compiacente del duo Lan-dau-Springsteen. Co-prodotto da Chuck Plotkin.

Tunnel of Love (Columbia, 1987, 1° in classifica). Accreditato al solo Bruce, anche se la E-Street Band è presente sia in studio che in tour. Registrato ai Thrill Hill Studios in New Jersey da Toby Scott, mixato da B. Clearmountain, produzione Springste-en-Landau-Plotkin, master di Bob Ludwig. 12 pez-zi, fu realizzato nell' intervallo tra la fine del primo matrimonio e la nascita del legame con Patti. Anco-ra un' opera dura e pessimista, divisa equamente tra canzoni acustiche ed elettriche. Thougher than the Rest, All that Heaven will allow, Spare Parts, Tunnel of Love, sono comunque brani memorabili. Del tut-to diversa l' atmosfera, gioiosa e romantica, del Tun-nel of Love tour, 86 date, che vede la nascita dell' a-more con la sua corista e susseguenti matrimonio e prole. Bruce è entrato definitivamente nell' età matu-ra.

The Ghost of Tom Joad è trattato ampiamente nel corpo dell' articolo.

Occorre invece segnalare Tracks (Columbia, 1998, 4 cd, 27° in classifica), prezioso cofanetto dedicato a-gli hardcore-fans con gran parte (ma non ancora tut-te) delle numerosissime canzoni “scartate” nel corso della sua ormai trentennale carriera, spesso perfetta-mente riuscite ma giudicate da Bruce estranee al mes-saggio ed all' atmosfera generale del disco in cantiere in quel determinato periodo. Sono ben 66 pezzi, mol-ti dei quali bellissimi e sospirati dai fan per decenni, dopo averli ascoltati su pessime, costosissime incisio-ni clandestine. Probabilmente solo Bob Dylan può vantare un archivio di outtakes più ricco e variegato. Anche stavolta non mancano le polemiche (più che mai fuori luogo) per qualche inevitabile, ma tutto sommato indolore, esclusione, e soprattutto per la de-cisione di sovraincidere ex novo alcune parti, andan-do a ledere, secondo i puristi, la genuina freschezza

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degli originali. Prodotto da Springsteen-Plotkin. Trionfale e festoso come non mai, il Tracks-tour, 132 date, festeggia degnamente il ritorno live ufficiale del-la E-Street Band dopo 14 anni.

The Rising (Columbia, 2002, 1° in classifica). La frustata dell' 11 settembre 2001 è terribile per l' Ame-rica come per Springsteen, che reagisce con immen-sa classe, usando tutta la sua influenza per lanciare un messaggio di rinascita e (sì!) di tolleranza. La sua risposta non cambia: affrontare virilmente violenza e dolore, cercando di gettare le basi per un futuro di pace. Prodotto e mixato da Brendan O' Brien, che influenza molto anche il suono, piacevolmente co-smopolita e terzomondista. Registrato ai Southern Track Recording di Atlanta (Georgia).

Empty Sky, Worlds Apart, The Fuse, Further on up the road, Mary' s Place, The Rising, …

120 concerti all around the world ne consolidano il successo e sanciscono il ritorno di Springsteen nel novero delle superstar “commerciali”.

We shall overcome-The Seeger Sessions (Colum-bia, 2006, 3° in classifica). La partecipazione ad un tribute-album in onore di Pete Seeger (venerando folksinger americano) gli fa conoscere ed apprezzare il repertorio di Seeger stesso nonché tutto un patri-monio di musica tradizionale comunemente etichet-tata come folk. Detto fatto, messa in freezer ancora u-na volta la E-Street Band e circondatosi di un validis-simo e cospicuo gruppo (ben dodici musicisti, tanto sconosciuti quanto bravi), sforna velocemente un di-sco fresco e godibile dalle sonorità completamente nuove, che anticipa in qualche modo l' esplosione del suono Americana, caratterizzato da strumentazione semiacustica, entusiasmo travolgente, ritorno alle ra-dici. 15 pezzi, prodotto da Bruce Springsteen, regi-strato ai Thrill Hill (NJ) dalla premiata ditta Scott-Clearmountain-Ludwig, è seguito da un tour di 56 date, la maggior parte in Europa (ben 8 in Italia!). La

tappa di Verona (Arena, 5.10.2006) resta per me

un altro ricordo indelebile.Bruce si preoccupò molto di distinguere l' imma-

gine e la musica di Pete Seeger dalle sue idee politi-che (è un comunista convinto).

Live in Dublin (Columbia, 2007, classifica non di-sponibile). Magnifico documento della penultima tappa del Seeger tour: a Dublino, dove molti dei pez-zi eseguiti nacquero, una band ormai rodatissima ed un Bruce senza inibizioni scatenano le danze al pri-mo pezzo e le chiudono dopo il 23°. Oltre al reper-torio delle Seeger-sessions diversi grandi classici springsteeniani rinascono più belli e forti dopo il “bagno irlandese”: Atlantic City, If i should fall behind, Highway Patrolman, Open all Night, Growin' up, Blinded by the Light… meraviglia. 2 cd ed un magnifico dvd da vedere e rivedere.

Wrecking Ball (Columbia, 2012, 1° in classifica). Un mix di E-Streeters e di musicisti delle Seeger-sessions, la produzione di Ron Aniello-Springste-en-Landau, gli studi Stone Hill (NJ), i tecnici Scott-Clearmountain-Ludwig: ed ecco un ottimo disco di classic blue-collar rock (rock proletario, per farla breve), ossia la musica che ha fatto grande Spring-steen. Estrema attenzione alle tematiche sociali, suono più pieno che mai (fiati, coristi aggiunti, violini, banjo, fisarmonica…), irish-rock, blues, folk. Realistico e sensibile, semplice e credibile, gioioso e pensoso: Bruce Springsteen, ancora una volta, al suo meglio.

The Wrecking tour: 135 concerti, ed altri 17 già pro-grammati nel 2014, insieme al nuovo cd High Hopes in uscita il 14 gennaio prossimo. Sempre più lunghi, intensi, sudati e forse un po' troppo fracassoni, clow-neschi, prevedibili. Ma quando poi si mette al piano e ti sciorina For You come fosse in una bettola sul porto prima della chiusura, ed una Racing in the Stre-et mai così nebbiosa e notturna, gli perdoni tutto, e torni a sorridere, a commuoverti, a ballare…

[L. B.]

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CENNI BIOGRAFICI E CRITICI

Bruce Frederick Springsteen nasce a Long Branch, New Jersey, il 23 settembre 1949, primogenito di Doug, di origini olandesi, e di Adele Zirilli, i cui ge-nitori emigrarono in Usa da Vico Equense (Napoli) a fine Ottocento. Virginia nacque poi nel 1950, Pa-mela (Pam), nota fotografa, nel 1962. Doug, che cambiava spesso lavoro, odiava due cose: i capelli lunghi di Bruce e la sua chitarra. Pertanto, nella ca-setta di Freehold, i contrasti erano all'ordine del giorno. Per fortuna Adele, che sostentava la fami-glia col suo lavoro di assistente legale, era di tutt'al-tra pasta, anzi fu lei stessa a regalare la prima chitar-ra al figlio, rinunciando subito ai sogni di vederlo un giorno avvocato. Neanche a scuola, dalle suore, Bruce seppe rendersi la vita facile. Preferiva abbe-verarsi, alla radio della mamma, al favoloso mondo musicale degli anni '60: soul, blues, rithm 'n blues, jazz, country, rock 'n roll, la british invasion. Come una spugna assorbiva gli elementi di quello che poi sarebbe stato il suo suono. Le prime band: Castiles, Steel Mill, Dr. Zoom & Sonic Boom, Bruce Spring-steen Band. Tutte tappe che lo porteranno al provi-no acustico con John Hammond, della Columbia Records, lo scopritore di Bob Dylan. Nel frattempo, dopo l'ennesimo cambio d'impiego di Doug, la fa-miglia si trasferisce in California, mentre Bruce re-sta nel New Jersey a coltivare il suo sogno. Il con-tratto con la Columbia, la nascita della mitica E-Street Band (per almeno due lustri, dal '75 all' '85, the best rock 'n roll band in the world), l'accordo-ca-pestro col suo primo manager Mike Appel, i primi dischi, l'esplosione di Born to run nel '75, il legame col manager-produttore-mentore di tutta una car-riera, il giornalista Jon Landau (sua la famosa frase: “…stasera ho visto il futuro del rock, ed il suo nome è Bruce Springsteen…”), la sfiancante diatriba legale con Appel, da cui uscirà solo due anni dopo, il ca-

polavoro Darkness on the Edge of Town, il successo mondiale, le copertine (in contemporanea) di Time e Newsweek, la tranquillità economica, l'ingresso trionfale nell'Olimpo delle rockstar nel 1985. Un matrimonio nato male, poi l'unione con Patti Scial-fa (ancora sangue italiano) che gli darà tre figli.

I tranquilli anni '90, i più opachi dal punto di vi-sta musicale, ne decretano però la definitiva matu-razione umana: è la fine (mai rimpianta, né dai fans né tantomeno dall'interessato) della rockstar-age e l'inizio della stagione dell'impegno, che sfocia nel toccante The Rising (2002), nato sull'onda della tra-gedia delle Twin Towers, e nell'appoggio esplicito a John Kerry prima e a Barack Obama poi. L'allarga-mento delle esperienze musicali, col temporaneo abbandono degli E-Streeters per dedicarsi a produ-zioni soliste, a dischi cantautorali, a riuscitissime ri-visitazioni della tradizione americana. La reunion coi vecchi pards, la perdita di Federici e Clemons, l' ottimo Wrecking Ball, l'ennesimo (doppio) giro del mondo on tour…

Tutte vicende ampiamente note. Ma perché Bru-ce Springsteen gode di un culto mondiale?

Bassino, bruttino, tutt'altro che eccelso sia come compositore che come chitarrista. Poco avvezzo a sottigliezze intellettuali. Ottimo cantante, sì, ma più di potenza che di classe.

Però è un Prisoner of Rock'n Roll a vita che sul pal-co dà tutto, è un performer di valore assoluto. Capi-sci al volo che è come te: lui crede davvero nel so-gno del rock. Dal trasporto wild & innocent dell'a-dolescenza/giovinezza al saggio, sommesso, corag-gioso, consapevole porsi della maturità.

Concerti estenuanti: tre, quattro ore. Caldo, fred-do o pioggia: importa nulla, il rito pagano deve compiersi, la catarsi dev'essere raggiunta, e nessuno sia lasciato indietro. Le parole non bastano: se pote-

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te, vedetelo in concerto. Non avrete bisogno d'altro per amarlo incondizionatamente.

Generoso: in ogni città in cui suona lascia, senza clamore, assegni a 5/6 cifre per le banche del cibo, i ricoveri dei senzatetto, le strutture per gli ultimi. Può permetterselo, certo, ma non ha mai dimenti-cato da dove viene lui stesso.

Ha rifiutato contratti milionari per l'uso delle sue canzoni a scopo commerciale-pubblicitario.

Mai toccato da storiacce di droga, pare invece e-stremamente sensibile al fascino muliebre…

Nel 1984 ha polemizzato aspramente con (l'allo-ra) onnipotente Ronald Reagan che voleva appro-priarsi elettoralmente della sua Born in the USA, stravolgendone il messaggio antimilitarista.

Non si contano le sue apparizioni a benefit-con-certs di ogni genere, come pure i premi ed i ricono-

scimenti ottenuti in quasi 50 anni di carriera.E non chiamatelo Boss: detesta il nomignolo af-

fibbiatogli fin da ragazzo, forse a causa della ma-nia di perfezione che lo affligge sia in sala di regi-strazione che nella preparazione degli eventi live (i suoi soundcheck sono spesso dei mini-concerti, per lunghezza ed intensità).

Praticamente di ogni suo concerto, da quarant'anni a questa parte, sono disponibili registrazioni clande-stine. Esistono etichette specializzate sui suoi bootleg-live e si contano nell'ordine delle migliaia le pubblica-zioni che lo riguardano, in ogni lingua del mondo.

Qualcuno ha detto che l' umanità si può dividere in due categorie: chi ha assistito ad almeno un con-certo di Bruce Springsteen, e chi non c'è mai stato…

[L.B.]

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JOHN STEINBECK

Nato a Salinas (California) nel 1902, visse un' infanzia tranquilla coi genitori e le tre sorelle, inna-morandosi dell' ambiente e dei paesaggi marini e rurali delle sue origini. Volle sempre e solo “fare lo scrittore”, e fin da giovanissimo iniziò a scrivere poesie e racconti. Seguì i corsi di Letteratura In-glese e Scrittura Creativa presso la Stanford University, inter-rompendoli però spesso per de-dicarsi a lavori occasionali e temporanei e facendo esperien-ze che poi avrebbe usato nelle sue storie.

Abbandonati definitivamente gli studi, cercò fortuna letteraria a New York, principale polo cul-turale statunitense, ma dovette ben presto rientrare in Califor-nia, deluso e amareggiato.

Il lavoro di custode gli lasciava molto tempo per scrivere, e nel 1929 pubblicò finalmente il pri-mo dei suoi numerosi romanzi.

Nel ' 30 si sposò, ma la coppia dovette ricorrere al sostegno eco-nomico della famiglia Steinbeck.

In quello stesso anno conobbe il biologo marino e filosofo Edward Ricketts, che ne influen-zò molto il pensiero e l' opera. Su di lui Steinbeck modellò tutta u-na serie di personaggi che alla scienza del “Dottore” univano il “saper vivere” del filosofo.

Alcuni suoi romanzi (I pascoli del cielo, Al Dio sconosciuto) ini-ziano finalmente a vendere bene, legati come sono all' atmosfera del post-crisi economica, con storie rovinose e tragiche.

Con Pian della Tortilla (1935), acquistato da Hollywood come

molti altri suoi scritti, inizia per Steinbeck l' era del successo e del benessere. Seguono, fra gli altri, Uomini e topi (1937) e Furore (1939), sempre centrati su tema-tiche di denuncia sociale.

Non è però, quella di Steinbeck, solo denuncia estremista e pro-vocatoria di un' America in rovi-na, ma vi è sempre umana com-passione, partecipazione sincera alle vicende della sua gente e

grande, sereno amore per le am-bientazioni rustiche e le persone semplici, memoria dei luoghi in cui era cresciuto.

Ormai baciato dal successo ini-zia a viaggiare (Europa, Africa), divorzia e si risposa nel ' 42 (avrà due figli).

Esce La luna è tramontata, di ambientazione bellica, e nel ' 43 è in Europa come inviato spe-ciale del New York Tribune, ri-manendo sconvolto dagli orrori della guerra, che narra sempre “dal basso”, dal punto di vista quotidiano dei soldati semplici, senza eroismi, ma impegnati es-senzialmente a sopravvivere.

Nel dopoguerra la sua stella si offuscò. L' America era profon-damente cambiata, il suo natu-ralismo pacifista sembrò supe-rato, ed alcuni suoi romanzi vennero giudicati eccessiva-mente sentimentalisti (Vicolo

Cannery, Quel magnifico giovedì: vicende picaresche di diseredati “creativi”, ottimisti, a loro modo felici; in realtà gradevolissime).

Nel ' 52 esce La valle dell' Eden, che anche grazie al famoso omo-nimo film di Elia Kazan del ' 54 con James Dean, lo riporta al suc-cesso. Segue un lungo periodo di viaggi e soggiorni all' estero, men-tre continuano, proficui, i rap-porti con l' industria del cinema.

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Nel ' 61 pubblica L' inverno del nostro scontento, storia di un falli-mento e metafora amara del nau-fragio, a suo vedere, dell' America contemporanea. Continua a viag-giare freneticamente nonostante la salute malferma, fra Stati Uniti, Europa, Sud-Est asiatico. Nel 1962 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura. Muore nel ' 68.

The Grapes of Wrath (Furore), 1939, [lett.: I grappoli del furore]

“…e gli occhi dei pove-ri riflettono, con la tri-stezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuo-ri degli umili ne matura-no i frutti, e s' avvicina il tempo della vendem-mia…”(John Steinbeck).

Romanzo simbolo della Grande Depres-sione Americana, capo-lavoro riconosciuto di Steinbeck, è però visto generalmente anche co-me un' opera favorevole al New Deal roosevel-tiano.

Narra le vicende della Joad Family e di infinite altre in Oklahoma ed in tutti gli Stati Uniti rurali, messi in gi-nocchio dalla crisi. Gente umile sfrattata dalla propria casa e dai cam-pi dalla banca cui non possono rim-borsare prestiti ed interessi.

“…La banca è un mostro che gli uomini, dopo averlo creato, non ri-escono più a controllare…”: giudi-zio tranchant, ma purtroppo quan-tomai attuale.

Tom Joad, uscito di prigione, at-traversa campi devastati da una micidiale alternanza di siccità ed i-nondazioni, che rovinano anche l' ultimo raccolto, costringendo

tutta la famiglia all' incertissimo viaggio della speranza (meglio: del-la disperazione), su un camion scas-sato verso la California, lungo la mi-tica Route 66 (oggetto di un' infinità

di libri e soprattutto canzoni). La Madre è il vero sostegno del-

la famiglia, la quercia cui ognuno si appoggia per essere, nonostante tutto, tranquillizzato e rassicurato.

Purtroppo la California si dimo-stra tutt' altro che “terra promessa”. Tom durante uno sciopero uccide, per tragica fatalità, un poliziotto, ed è costretto a fuggire, accomiatando-

si dalla Madre con le no-bili parole citate anche da Springsteen nella sua can-zone. E poi inondazioni, abbandoni, tragedie.

Il libro termina sull' immagine forte di u-na giovane puerpera dei Joad che, perduto il fi-glioletto, allatta al seno un pover' uomo sfinito dalla fame e dalla fatica.

L' omonimo, celeberri-mo, film di John Ford (1940) vinse due Oscar.

L' unica traduzione ita-liana, di Carlo Coardi, risale, incredibilmente, allo stesso 1940, e risente pesantemente dei tagli imposti dalla censura fa-scista (libro americano, e per giunta di sinistra, fi-gurarsi…), impedendo

la piena comprensione della tra-ma, dello spessore dell' opera, ed in definitiva del messaggio più pro-fondo che Steinbeck voleva, attra-verso essa, trasmettere.

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1

E *

a cura di Francesca Garello

franCesCa garello

Leggere, giocare, imparare* orizzontali 1 - Tra libro e gioco

S i dice sempre che gli italiani leggono poco. Non è una leggenda urbana. Le statisti-

che ufficiali ci dicono che solo il 46,8% della popolazione italiana te-oricamente in grado di leggere (cioè con più di sei anni) legge libri per motivi non strettamente scola-stici o lavorativi (dati Istat relativi al 2010, scaricabili alla pagina “La let-tura di libri in Italia”, www.istat.it/it/archivio/27201).

La statistica si accontenta di po-co: questo 46,8% di lettori in realtà è composto anche di gente che ha letto almeno un libro in 12 mesi.

Il dato, di per sé un tantino depri-mente (meno della metà della po-polazione prende in mano un libro per il puro piacere di leggere), è in realtà ancora più scoraggiante se si considera che in realtà è frutto di u-na media: al Nord e al Centro si su-pera di poco il 50%, mentre al Sud la percentuale di lettori raggiunge al massimo il 37%.

Triste eh? Ma sono cose note.

Forse meno conosciuto è un ulte-riore approfondimento di questo dato generale. Anche questi amanti dei libri non sono tutti uguali. Tra gli italiani che amano leggere qual-che libro ogni tanto esiste infatti un cospicuo numero di lettori forti, un bel 59%, che consuma libri in gran-de quantità. Chi sono dunque que-sti irriducibili letterati? Professori universitari? Studiosi di letteratura? Pensionati con molto tempo libero? Macché. Sono i ragazzi tra gli 11 e i 17 anni. E tra questi, udite udite, la percentuale dei lettori più appassio-nati si concentra tra gli 11 e i 14 an-ni, cioè nella fascia delle scuole me-die inferiori (65,4%).

Dopo questa età la lettura diventa un passatempo sempre meno ricer-cato e le percentuali diminuiscono drasticamente per vari motivi che non discuteremo qui, ma che pos-sono essere approfonditi nell’ utile documento che l’ Istat mette a di-sposizione in pdf alla pagina sopra citata.

La tendenza, anche se non con i-dentiche percentuali, si riscontra an-che negli Stati Uniti (si veda per e-sempio il sito “Statistic Brain” alla pagina sulla lettura, www.stati-sticbrain.com/reading-statistics/).

Piccoli ma esigentiIl mercato editoriale più solido in

Italia e all’ estero, quindi, è quello per ragazzi, come sanno bene i ge-nitori e i nonni più attenti. Quante volte siete rimasti “intrappolati” nella sezione bambini di una libre-ria senza riuscire a trascinare via il pargolo? E quante volte vi siete stupiti di come sia volato il tempo anche per voi, in quella magica se-zione?

Non è facile scrivere libri per bambini. Il fatto che i lettori siano giovani non vuol dire che siano di bocca buona. Fin da piccoli hanno ricevuto i mille stimoli di una so-cietà molto sofisticata e sono esi-genti. I libri devono soddisfare la loro curiosità ma anche competere

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Tra libro e gioco

con la tecnologia. Inoltre, i bambini hanno un sesto senso: si accorgono subito se attraverso un libretto ap-parentemente innocuo e colorato state cercando di contrabbandargli qualche nozione “seria” e di solito lo rifiutano disgustati. Quindi non è facile produrre testi che siano di-vertenti ma anche istruttivi.

Nel campo delle pubblicazioni per ragazzi si cerca di sorprendere il lettore, trascinarlo all’ interno del-la storia, incoraggiarlo a partecipa-re alla scoperta di testi e nozioni, mescolando divertimento e istru-zione. Insomma si cerca di offrirgli un’ esperienza totalizzante, che va al di là del testo scritto e sconfina in altre realtà esterne.

Attenzione, però. Non si tratta banalmente di quel tipo di lettera-tura interattiva ora di moda, cioè testi “elettronici” da fruire su ebook o su iPad e che attraverso link o col-legamenti informatici nel testo of-frano al lettore dei “contributi ag-giuntivi” come musica, filmati o vi-site a pagine web esterne.

Niente di tutto questo. Io voglio parlare proprio di libri veri, di car-ta! Ma libri speciali perché, anche se è vero che coinvolgono il lettore nella fruizione del testo e anzi van-no al di là di questo, ampliando l’ o-rizzonte della storia, dipendono sempre fortemente dalla pagina.

Carta, ma interattiva!Sicuramente in ogni casa, anche

se i bambini sono cresciuti, resiste in qualche angolo uno di quei li-

briccini colorati con inserti di ma-teriale particolare che imita, per e-sempio, il pelo degli animali. Que-sti libriccini hanno uno scopo ludi-co ma anche didattico: stimolano i sensi dei bimbi insegnando loro ad esplorare la realtà circostante men-tre li divertono con le figure e i co-lori vivaci. Beh, secondo me questi sono libri “interattivi” di base.

Crescendo, i lettori diventano più esigenti e i libri si adeguano, offren-do ai lettori più stimoli e diverti-mento più complesso, mantenendo un intento didattico accuratamente dissimulato.

Dalla vasta categoria dei libri dei pop-up, di cui abbiamo già parlato (“Quando il libro è un giocattolo”, Il Furore dei Libri, n. 3, 2011), è nata quindi una tipologia di libri “ludico-didattici” che, mentre sfida il lettore a scoprire tutte le sorprese nascoste tra le pagine, gli veicola nascosta-mente una serie di nozioni “serie”.

In famiglia ci siamo molto affe-zionati a quelli della bellissima serie “ology” inventata dall’ editore ingle-se Templar Publishing nel 2003 e che conta ormai 12 volumi che co-prono tutto l’ immaginario dei bambini delle elementari: Mitolo-gia, Dinosaurologia, Egittologia, A-lienologia eccetera.

Il primo fu Dragologia (Dragono-logy, 2003, in Italia pubblicato dai Fratelli Fabbri editori nel 2004). Il libro, irresistibile anche per un a-dulto (almeno, uno che ama i dra-ghi, come me!), fingeva di essere il taccuino di appunti del dott. Ernest

Drake (pseudonimo sotto cui si na-sconde il vero autore, Dugald A. Steer), fondatore ai primi del Nove-cento della “Secret and Ancient So-ciety of Dragonologists”. Sfoglian-dolo, ogni pagina rivelava sezioni a-pribili con mappe, frammenti di “pelle” delle varie specie draghe-sche esistenti nel mondo, libriccini segreti da aprire con cautela, alfabe-ti dragheschi per tradurre iscrizioni nascoste qua e là nelle pagine.

Se Dragologia era in realtà sola-mente divertente, gli altri della serie si sono addentrati via via in settori più istruttivi: così, con Piratologia abbiamo imparato a leggere le carte nautiche (c’ è una vera bussola inca-stonata nella copertina); con Spyo-logy (purtroppo in italiano non è u-scito), mentre cercavamo informa-zioni cifrate nascoste tra le pagine, abbiamo imparato come la critto-grafia è stata usata nella storia tra conflitti e guerre di spie.

Insomma, divertimento vera-mente “interattivo” per tutta la fa-miglia, senza bisogno di computer.

Narrazioni lineari e nonLa letteratura per ragazzi, grazie

al fatto che nessuno pensa che deb-ba essere “seria”, si permette anche interessanti sperimentazioni lette-rarie senza risultare cervellotica o indigesta. È il caso, per esempio, de Il giallo delle pagine mischiate di Pa-blo De Santis (Nuove Edizioni Ro-mane, 2009). In questo libro corro-no due narrazioni parallele: una (li-neare) racconta di come il protago-

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Tra libro e gioco

nista, Dario, abbia ereditato da un lontano zio una casa editrice in bancarotta, sul pavimento della quale trova un manoscritto con le pagine tutte mescolate, ancora non pubblicato; l’ altra narrazione (non lineare) è quella del manoscritto stesso, che viene presentato al letto-re in capitoli fuori ordine infram-mezzati ai capitoli narrativi. Il letto-re segue così le vicende di Dario che, per salvare la casa editrice, de-cide di pubblicare il manoscritto (un romanzo giallo, che ha riferi-mento con la realtà) ma deve prima rimetterlo in ordine. Dario – e il lettore – leggono quindi i capitoli e cercano di ricostruirne la sequenza originale: la fine di ogni capitolo “mescolato”, infatti, nasconde un indizio da trovare nel testo o nelle illustrazioni e che rimanda al capi-tolo successivo. Alla fine anche la narrazione non lineare del roman-zo mescolato viene ricondotta alla logica e alla linearità, mentre paral-lelamente si risolve il mistero e si salva la casa editrice.

Sembra complicato ed invece è divertentissimo. E senza accorger-sene i giovani lettori imparano a fa-re l’ analisi di un testo, a districarsi tra narrazioni parallele e a collegare nozioni tratte da immagini e testi.

Investigatori tra le pagineNei romanzi gialli tradizionali c’ è

sempre un tacito accordo tra l’ autore e il lettore: io ti dò tutti gli indizi per risolvere il problema da solo, ma te li presento in un modo un po’ ingan-

nevole, anche se onesto; se poi tu ri-mani sorpreso dalla soluzione è per-ché io sono stato più bravo di te. L’ autore e il lettore, insomma, sono avversari.

Ai ragazzi però piace fare gli inve-stigatori, e sono buoni osservatori. Non vogliono competere con il de-tective, vogliono essere come lui! Due autrici italiane, Susanna Franca-lanci e Laura Lombardi, hanno pen-sato di sfruttare questa inclinazione per libri che stimolino le capacità a-nalitiche e deduttive dei giovani let-tori. Nel 2005 hanno quindi inventa-to una serie di gialli per ragazzi che devono essere risolti dal lettore, la collana Detective alla prova (Vallardi Industrie Grafiche ed.). Nella narra-zione le autrici inseriscono prove e documenti “veri”, foto, ritagli di gior-nale, lettere, che si possono toccare ed esaminare e che i lettori devono tenere presente mentre leggono la storia. Ogni volta che si esamina una prova il libro chiede ai lettori di for-mulare un’ ipotesi sul suo significato o sul futuro sviluppo dell’ indagine. La risposta fornisce un punteggio che va annotato nel “giallometro” personale, alla fine del volume. Ter-minata la storia si fanno i conti e si ottiene un giudizio sulle proprie ca-pacità investigative, da un minimo di “giallastro” (non classificato, proprio un fallimento di detective) a un mas-simo di “giallo cristallo” (fuori classe, investigatore sopraffino). Quando u-scirono i primi libri si poteva anche continuare a giocare a fare il detecti-ve su un sito web collegato alla colla-

na, che però non è più attivo.

Ok... c’ è anche Internet D’ accordo, ormai non c’ è più mo-

do di sfuggire a Internet. L’ abbiamo nominato ed ora dobbiamo ammet-tere che molti di questi libri per ra-gazzi hanno poi un contatto diretto con un sito web appositamente pre-parato per integrare il testo scritto. Attenzione, però. Il sito affianca, in-tegra il romanzo, non lo sostituisce né potrebbe esistere senza il libro.

Negli Stati Uniti l’ uso di affianca-re a un libro un sito Internet è mol-to comune. La casa Scholastic Press, per esempio, ha attualmente ben tre serie di romanzi avventurosi legate a un sito web: The 39 Clues (in Italia uscita come Le 39 chiavi), Infinity Ring e Spirit Animals. Le prime due serie hanno come sfondo la storia, la terza il mondo degli animali.

L’ ambientazione di ogni serie vie-ne ampliata nei corrispondenti siti web, offrendo ai lettori giochi basa-ti sulle trame dei vari libri, appro-fondimenti (e qui sta la parte didat-tica) sui periodi storici e i luoghi che i personaggi affrontano. I gio-chi non sono fini a sé stessi: leggere il libro aiuta a risolvere i giochi online, tentativo nascosto di trasci-nare verso la carta anche il più con-vinto appassionato di giochi elet-tronici.

Insomma, non tutto Internet vie-ne per nuocere... se si tratta di avvi-cinare i ragazzi ai libri!❧

Francesca Garello

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Tra libro e gioco

CaCCia al tesoro tra libri e internet

La serie The 39 Clues (in italiano Le 39 chiavi, edita da Piemme) consiste di trentanove li-bri d’avventura per ragazzi che hanno però

anche un tocco istruttivo: infatti ogni libro si incentra su un personaggio storico e il relativo periodo.

Dal 2007 ad oggi negli Usa ne sono usciti dicias-sette, quasi tre all’anno. Un ritmo impossibile per un solo scrittore, e infatti ci sono molti autori. Il primo libro, Il labirinto delle ossa, è stato scritto da Rick Ri-ordan, autore di Percy Jackson e gli dei dell’Olim-po. I romanzi tradotti in italiano per ora sono sola-mente dieci.

La storia inizia con la lettura del testamento di Grace Cahill, la nonna dei protagonisti Amy e Dan. A tutti gli eredi (sono pa-recchi e tutti in competi-zione tra loro) si presenta una strana scelta: accettare subito l’eredità di un mi-lione di dollari oppure ri-nunciare ai soldi e iniziare una ricerca per trovare le “39 chiavi”, cioè gli indizi che permettono di individuare altrettanti elementi per ricostruire un siero che consentirà di diventare padroni del mondo.

Comincia così una specie di gigantesca caccia al te-soro, con gli eredi divisi in “squadre” che cercano di ostacolarsi a vicenda. La ricerca del primo indizio porta Amy e Dan a Parigi, dove Benjamin Franklin secoli prima ha nascosto qualcosa. Nel secondo libro

la caccia prosegue a Vienna, dove i nostri eroi si met-teranno sulle tracce di Mozart. Nel terzo andranno in Corea, nel quarto in Egitto e così via, in giro per il mondo e nella storia.

Per incoraggiare la lettura anche nei ragazzi meno interessati, in ogni libro si trovano sei carte che, uti-

lizzando un codice, con-sentono di sbloccare degli indizi sul sito Internet col-legato alla serie.

Il sito americano (the-39clues.scholastic.com) è davvero bello: i giochi so-no pensati in maniera tale che bisogna prima leggere delle notizie “istruttive” per poter risolvere enigmi e indovinelli, ma la cosa non pesa perché non si nota. Quando la serie è uscita in Italia si è tentato di fare qualcosa di simile ma il sito italiano (www.mypage.it/le-39-chiavi) è molto meno ricco e sem-bra poco aggiornato.

Questi libri mi sono pia-ciuti moltissimo perché

hanno una trama molto originale e riescono a com-binare interessanti fatti storici senza essere pesanti e noiosi. Oltre a questo, sono adatti a un pubblico ab-bastanza vario, dai bambini di nove anni fino all’età di tredici anni.

Se consiglio questi libri? Sì, certo! Avventura, mi-stero, storia... Insomma, la serie perfetta!❧

Livia Alegi

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Libri di confinea cura di Peter Disertori

peter disertori

I confini dei vecchi mondi

D a quando ce n’è memo-ria, accade che avveni-menti di portata capi-

tale per la nostra storia vengano di-menticati, spesso si ha addirittura l’impressione che vengano subdo-lamente distorti e che poi ne venga tramandato il senso alterato.

A peggiorare la situazione, vi è poi una sorta di pigrizia mentale che ci porta a dare per certe queste verità e a non curarci invece di veri-ficarne l’attendibilità.

Un esempio clamoroso ce lo for-nisce la storia della scoperta dell’A-merica, ovvero la demolizione dei confini del nostro mondo.

Per secoli, in Occidente, abbiamo dato per scontato che le antiche ci-viltà europee si siano ben guardate, una volta oltrepassate le Colonne d’Ercole, ad avventurarsi nell’ocea-no aperto. In realtà, la stessa tradi-zione ci ha lasciato dei messaggi ben diversi e non è un caso che, sempre più di sovente, in alcuni cir-coli letterari, ma anche in vari am-bienti accademici, si cominci a so-

stenere apertamente che l’America è stata scoperta molto prima di quanto la storiografia ufficiale non voglia ammettere. Su tali argomen-ti sono stati scritti molti libri, molti di essi frutto di fantasia pura, altri più attendibili perché risultato di studi e di indagini più che seri, ma chiaramente nessuno può essere ri-tenuto latore di una verità definitiva.

Il caso più significativo riguarda i Fenici che, sappiamo per certo, hanno costeggiato per migliaia di chilometri le coste africane: per-ché non avrebbero potuto anche raggiungere le Americhe? Risposte a tale quesito ce le fornisce Lucio Russo nel suo libro L’America di-menticata. Lucio Russo, uno degli studiosi più insigni del mondo el-lenistico, basa la teoria che i Fenici avessero raggiunto l’America sul fatto che negli ambienti alessan-drini fossero note le latitudini e longitudini di località dell’America centrale. La sua resta comunque un’ipotesi, anche se plausibile e af-fascinante.

Sul fatto che anche i Vichinghi a-vessero raggiunto le coste norda-mericane qualche secolo prima di Colombo, la comunità scientifica internazionale invece non ha più dubbi e lo dà per assodato. Prove certe della presenza norrena in quelle terre sono state trovate nel Labrador e a Terranova.

Ben più controversa invece è la teoria che vuole che anche i Tem-plari siano arrivati in America. Per verificare l’attendibilità di questa te-si, bisogna fare un passo indietro. È storicamente dimostrato che non tutti i Templari furono trucidati: di fatto, la loro ricchissima flotta sparì e non se ne seppe più nulla. Alcuni sostengono anche che essi avessero riparato in Scozia, altri addirittura che fossero fuggiti in America. A sostegno di questa congettura, vi è il legittimo dubbio che i Templari fossero venuti a conoscenza che nel mondo alessandrino, e di riflesso nella comunità essena di Qumran, si sapesse già che la Terra fosse ro-tonda e che, al di là delle Colonne

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libri di confine

d’Ercole, esistessero altri mondi. Ad avvalorare l’ipotesi che i Tem-plari, o meglio i loro discendenti scozzesi, abbiano voluto lasciare te-stimonianza di quanto erano riu-sciti a scoprire, ci sono le pannoc-chie di mais e le foglie di aloe scol-pite nella cappella di Rosslyn, in Scozia, finita di costrui-re intorno al 1470. Vi sono poi vestigia, quali una torre ottagonale, ri-trovata a Newport nel Rhode Island: anche se vi sono elementi che darebbero credito ad un’origine templare del-la costruzione, la data-zione è controversa e pertanto non può esse-re definita una prova certa. Vi sono due libri che analizzano tali temi con dovizia di argo-mentazioni: I Templari in America di Jaques de Mahieu, e La colonia perduta dei Templari di Steven Sora.

Il fulcro della querelle sulla scoperta dell’Ame-rica riguarda però il suo artefice uf-ficiale, Cristoforo Colombo. A tale proposito, vale la pena riportare u-na tesi che recenti studi hanno fatto emergere e che trovano il suo mag-giore sostenitore in Ruggero Mari-no con il suo libro Cristoforo Co-lombo. L’ultimo dei Templari. Da sempre, la storia ufficiale vuole che la figura di Cristoforo Colombo

fosse quella di un marinaio ligure, dalle incerte natalità, che aveva vo-luto raggiungere le Indie al soldo dei reali di Spagna e fosse poi ap-prodato per errore, o per caso, in A-merica. Pur presentando delle in-congruenze, più o meno evidenti, abbiamo sempre dato per scontata

questa visione dei fatti e rimosso tutti i dubbi.

Quello più macroscopico riguar-da proprio la personalità di Colom-bo: dalla stessa tradizione si desume, infatti, che avesse frequentato prin-cipi, cardinali, re e scienziati e ciò di-mostra che, in realtà, fosse un perso-naggio di spessore, dotato di indub-bia cultura e fascino e dalle idee

molto chiare che poco si adattano al-la figura di un marinaio visionario.

È comunque cosa nota che Cristoforo Colombo fosse un grande estimatore di Marco Polo, che avesse intrattenuto costanti rapporti col matematico e astronomo fiorentino Toscanelli ed

esaminato meticolosa-mente libri antichi. Non è da escludere, anzi è assai verosimile sup-porre, che papa Inno-cenzo VIII, il genovese Giovanni Battista Cybo, gli avesse addirittura messo a disposizione delle carte nautiche se-questrate, a suo tempo, dall’Inquisizione ai Templari. Questa con-statazione rafforza an-che la tesi che lo vuole, non nepos, ma addirit-tura figlio naturale del pontefice e spieghereb-be le croci templari sulle vele delle tre caravelle.

Inoltre, in uno scritto risalente all’inizio del secolo XVI e ritrovato

nel 1929 a Istanbul, Piri Reis, un cartografo e ammiraglio turco, au-tore di una carta geografica del mondo, sostiene nientemeno che il navigatore genovese fosse già stato in America sette anni prima della scoperta ufficiale. Costui disegnò nel 1513, con una certa appros-simazione, le coste americane uti-lizzando una mappa che – scrive te-

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libri di confine

stualmente il Reis – ebbe da “un in-fedele di Genova, di nome Colombo”, che “aveva scoperto questi paraggi”. Aggiunse inoltre che il grande navi-gatore infedele aveva già raggiunto il Nuovo Mondo nell’anno islamico 891, quindi nel nostro 1485. La car-tina topografica è tuttora conservata al Topkapi di Istanbul. Ciò compro-va ulteriormente che Colombo aves-se cognizione della presenza di un nuovo mondo, come ne erano a co-noscenza i Vichinghi e, molto vero-similmente, anche se prove dirette non esistono, i Templari con i loro “eredi” scozzesi.

Pare quindi più che attendibile l’i-potesi che la sua spedizione, atta ad ufficializzare all’umanità la scoper-ta dell’America, fosse stata pianifi-cata dal papa Innocenzo VIII. Il pontefice, che voleva dare vita ad un Nuovo Mondo sotto il vessillo della croce e aprire nuove rotte commerciali, si adoperò anche a far cofinanziare l’impresa da Lorenzo il Magnifico e da armatori e banchie-ri toscani e genovesi. In altre parole, Colombo fu una sorta di delegato pontificio, consapevole che la con-quista di un nuovo continente e l’acquisizione di nuove ricchezze a-

vrebbero consentito alla cristianità di opporre una strenua resistenza all’offensiva ottomana. Non a caso, Colombo dal 1492 iniziò a firmarsi Christo ferens, invece di Cristoforo.

Ma cos’è successo allora, perché il navigatore genovese, dimenticato e messo in disparte, morì pratica-mente in miseria, senza avere otte-nuto i diritti pattuiti, e nella totale indifferenza istituzionale?

Fu un’atroce beffa del destino: Lorenzo il Magnifico scomparve precocemente nella primavera del 1492 e Innocenzo VIII morì nel lu-glio dello stesso anno, pochi giorni prima che le famose tre caravelle partissero da Palos, il 3 agosto. A quel punto, lo spagnolo Rodrigo Borgia, insediatosi con il nome di Alessandro VI al soglio pontificio, e i cattolici Isabella e Ferdinando, che avevano appena riunito Castiglia e Aragona ed espulso i mori e gli e-brei, impoverendo il tesoro della corona, ordirono un vero e proprio complotto.

Sotto la loro sapiente regia, furo-no raccontate menzogne, soppressi documenti, creati misteri, e la real-tà venne deformata con il risultato che la Spagna poté appropriarsi con

facilità di quella scoperta. Viste le e-normi implicazioni politiche, eco-nomiche e geografiche di quell’e-vento, fu, pur nella sua efferatezza, un colpo di mano magistrale.

La disinformazione e le maldi-cenze, applicate con rigore quasi scientifico, hanno creato sul perso-naggio ombre e incertezze che an-cora oggi fanno fatica a dissolversi, tanto è vero che il suo nome spa-gnolo, Cristobal Colon, difficil-mente può essere inteso come “co-lui che porta Cristo”, Christo ferens, ovvero Cristoforo. Se poi pensiamo al cognome, Colombo, o meglio al suo significato esoterico (lo Spirito Santo è simboleggiato da una co-lomba), ed essoterico (il colombo viaggiatore), un altro tassello di questo inquietante thriller storico trova la sua collocazione.

Resta un fatto, con Cristoforo Colombo i vecchi confini europei sono stati abbattuti per sempre ed il Vecchio Continente, uscito prepo-tentemente dal Medio Evo, ha con-dizionato, nel bene e nel male, per mezzo millennio la storia del mon-do intero.❧

Peter Disertori

bibLioGraFia

Lucio russo, L’America dimenticata, Mondadori Editore, 2013ruGGero Marino, Cristoforo Colombo l’ultimo dei Templari, La storia tradita e i veri retroscena della scoperta dell’America, Sperling & Kupfer Editore, 2005Jacques De Mahieu, I Templari in America, Piemme, 2001steven sora, La colonia perduta dei Templari, Edizioni L’Età dell’Acquario, 2006

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Parlando di libri...a cura di Anna Maria Ercilli

anna Maria erCilli

Colori e memoria

Il punto di partenza è lo studio del colore e dei suoi effetti sugli uomini. Vasilij Kandinskij

Che felicità nel blu. Non ho mai saputo quanto blu potesse essere il blu.Vladimir Nabokov

La storia del colore si scrive nel bisogno di osservare e conoscere, scorrendo nel-

la vita quotidiana di uomini e don-ne, legata ai costumi, alle arti, al lin-guaggio, alla spiritualità della socie-tà culturale. La sua presenza per-mea il presente e affonda nel passa-to attraverso il cambiamento di at-tribuzioni e suggestioni.

Di quale colore sono i nostri ri-cordi? Banalmente non ci facciamo caso, questi riaffiorano per lo più indefiniti, monocromatici e mal-grado il tentativo di rivederli esatta-mente com’ erano, ne sbagliamo il colore. Nascono colori instabili in-capaci a fissarsi nella memoria.

Nel libro di M. Pastoureau leggia-mo impressioni personali, ricordi eruditi, parlano filosofi e giornali-sti, troviamo oggetti quotidiani e moda, letteratura e bandiere, sport e arte: “Lo storico sa bene che il pas-sato non è solo ciò che è stato, ma anche ciò che la memoria ne ha fatto”1.1 - Pastoureau Michel, I colori dei nostri ri-

Nella storia dell’ abbigliamento europeo il nero era ampiamente u-sato per gli abiti della popolazione, ma dopo la scoperta del Nuovo Mondo e l’ importazione di grandi quantità di indaco, il nero sarà len-tamente soppiantato dal blu mari-no. Con la fine dell’ Ottocento il blu diventerà il maggiore concorrente del nero, sostituendo il tradizionale colore delle uniformi: dai marinai alle guardie campestri, dai collegia-li agli sportivi, il blu marino si dif-fuse anche nell’ abbigliamento civi-le. Segnò la moda e il cambiamento di gusto di un’ epoca.

Curioso l’ affermarsi di un certo abbigliamento moderno, diventato non solo europeo ma quasi univer-sale, i blue-jeans. Furono adottati dagli studenti, diventando un po’ alla volta la divisa delle giovani ge-nerazioni, che coloravano di blu i cortei delle contestazioni politiche. Alcune scuole li bandirono consi-derandoli trasgressivi. Pratici anche per la vita sportiva, erano unica-cordi, Ponte delle Grazie, 2011, p. 11.

mente di colore blu. Ricordiamo l’ autentico jeans Levi’ s 501. La mo-da lo ripropone in diverse sfumatu-re di blu, stinto, strappato, logoro, un pantalone che si adatta ai tempi e non vede il tramonto.

Una traccia ci porta all’ origine di questi pantaloni, vede nei portuali di Genova i precursori di questo abbigliamento da lavoro. Venivano confezionati con la tela robusta del-le vele e, in tutti i porti, erano noti come i pantaloni blue de Genes.

Il colore nell’ arte divide artisti e filosofi, per alcuni è ritenuto un se-gno di volgarità, convinti che il co-lore assecondi pensieri e passioni violente. Plinio attribuiva ai colori più appariscenti un decadente o-rientalismo; Le Corbusier asseriva che il colore si addice alle razze semplici, ai contadini e ai selvaggi: “… è l’ ora di bandire una crociata a favore del bianco calce e di Diogene”; “L’ uomo – diceva Yves Klein – è esi-liato lontano dalla sua anima colorata”2.2 - Ball Philip, Colore, una biografia, Bur,

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 121

parlando di libri

L’ avversione verso un colore si presenta in modo irrazionale, dura-turo nel tempo, e percepito in modo diverso da paese a paese. Un esem-pio, l’ antipatia per il verde. Certe persone rifiutano i vestiti di questo colore, altre accusano lo smeraldo di portare sfortuna. Tale superstizione, presente in uomini di potere, inte-ressava la vita civile e pubblica, nien-te verde per le divise dell’ esercito re-ale.

Questo per il passato, ma tuttora l’ autore francese si trova in difficol-tà nella ricerca di un maglione ver-de scuro, il suo colore preferito. Mentre nei paesi nordici, lo stesso colore è molto diffuso e considerato di buon gusto per l’ abbigliamento comune.

Pastoureau indaga la superstizio-ne fra la gente di teatro, nota che gli artisti rifiutano di vestirsi di verde, il colore è bandito dalle scene già dal XVII secolo; circola la diceria non verificata della fine di Molière, dicono sia morto perché indossava abiti di questo colore.

Uomini di teatro pensarono di uti-lizzare il colore grigioverde dei pitto-ri, molto tossico, ottenuto dalla rea-zione dell’ acido su lastre di rame; ver-niciarono costumi di scena, decora-

2010, p. 19.

zioni e scenari. Accadeva nel Seicen-to, molti attori morirono intossicati, ma tutti ignoravano l’ eziologia di quelle morti, la causa era nel colore dei loro abiti. Paura e superstizione bandirono il verde dalle scene.

Nella continua ricerca di rendere stabile il colore, vengono mescolati dei composti arsenicali di colore verde, utilizzati nelle vernici per mobili, arredamenti e oggetti d’ uso comune. Sono prodotti inodori che in presenza di umidità liberano va-pori di arsenico.

Si avvalora il sospetto che Napo-leone, esiliato nell’ isola di Sant’ Ele-na, sia una vittima dell’ arsenico; i mobili della sua abitazione erano tinti di verde Schweinfurt, il suo co-lore preferito. Gli storici ritengono possibile questa ipotesi, avvalorata dalle analisi che rilevarono tracce di arsenico nelle unghie e nei capelli.

“Come tutti gli altri colori, il verde è ambivalente: è allo stesso tempo il colore della fortuna e della sfortuna, della speranza e della disperazione”3.

L’ armonia dei colori influenza la psiche e di conseguenza il compor-tamento e le funzioni del corpo; la sua forza riconosciuta diventa ma-teria di studio. Questo aspetto sen-sibile intuito da J.W. Goethe, inte-3 - Pastoureau Michel, I colori dei nostri ri-cordi, Ponte delle Grazie, 2011, p. 152.

ressa il concetto psicologico del co-lore e della sua percezione indivi-duale, affine al colore fisiologico creato dall’ occhio.

Qual è il colore più gradito dagli europei? Le preferenze non sono cambiate dal primo sondaggio del 1880 effettuato in Germania. Sem-plice la domanda e chiara deve esse-re la risposta, risultato: primo il blu, poi il verde, segue il rosso, poi il bianco e il nero, infine il giallo. Per i colori minori, rimangono frammen-tarie preferenze. Le preferenze dei bambini piccoli cambiano la classifi-ca, il rosso è davanti al blu e al giallo.

L’ indagine nei gusti della gente ri-sulta equivalente in tutti i paesi eu-ropei, né la politica o le tradizioni influenzano la scelta dei colori che rimane immutata per decenni.

Il linguista J. Lyons suggerisce che i colori “sono il prodotto del linguag-gio sotto l’ influenza della cultura”4.

Nei paesi africani e asiatici il co-lore è percepito con schemi diversi da quelli europei, come la stessa de-finizione del nome. I fattori cultu-rali e religiosi delle popolazioni, fa-voriscono l’ uso dei colori simbolici differenti per ogni paese.❧

Anna Maria Ercilli4 - Ball Philip, Colore, una biografia, Bur, 2010, p. 24.

J.W. von Goethe, La teoria dei colori. Lineamenti di una teoria dei colori, a cura di Renato Troncon, Il Sag-giatore 1981Itten, Johannes, Kunst der Farbe, Ravensburg, Otto Maier Verlag, 1961.

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Topi di bibliotecaa cura di Rossella Saltini

rossella saltini

Scambio equo e solidale

S tavolta parto a colpo sicuro, senza esitazioni. Il Topo a cui darò la caccia è ben deli-

neato nella mia mente. Estate secondo il calendario, sta-

gione indefinita secondo il meteo: unica certezza, in questo periodo dell’anno, l’imminente esame di maturità per frotte di studenti spar-pagliati lungo l’asse dell’italico sti-vale. Il Topo che cerco si annida fra loro, già me lo immagino pallido, ansioso e chino su pagine spesso snobbate durante gli anni scolastici. In biblioteca ne troverò a decine, perché affannarsi?

Ho tutta l’intenzione di prender-mela comoda, un caffè non me lo toglie nessuno. Niente di meglio che una tazzina gustata open air al Bar del Mart, di fronte alla Civica Tartarotti.

Mi accomodo nell’unico tavolino libero, confusa tra gli altri avvento-ri, non provo nemmeno a fiutare qualcosa di diverso da quello che mi frulla in mente. Ma è il “qualco-sa” a fiutare me. Sul tavolino accan-

to al mio due giovani comunicano più a gesti che a parole, un misto di italiano, inglese e mani in movi-mento. Vicino ai bicchieri vuoti trovano posto alcuni libri tascabili dalla copertina colorata, forse di-zionari. Non vedo bene da qui, vor-rei avvicinarmi per sbirciare me-glio, ma come posso farlo senza da-re nell’occhio?

È l’idea di un portacenere a venir-mi in soccorso. Mi alzo e lo vado a cercare proprio dai miei vicini. Lo segno a dito chiedendo il permesso di prenderlo. “Sì, sì, prego”, rispon-de il giovane dalla carnagione più chiara. “Esh-tre”, gli fa eco l’amico seduto vicino, dai tratti somatici in-diano/pachistani. Afferro il porta-cenere lasciando correre lo sguardo ai libri: Dizionario italiano-inglese, inglese-hurdu e, infine, un frasario della Lonely Planet Capire e farsi capire in hurdu e hindi.

Che nesso ci sia fra tutto questo e i giovani avventori mi sfugge. Pro-pendo per l’ipotesi che “esh-tre” sia la versione hurdu del domestico

portacenere, molto simile all’ingle-se “ash-tray”.

Un attimo dopo il copione si ri-pete con un altro oggetto. “Ghi-la-as”, esordisce il giovane asiatico. “Bicchiere”, risponde di rimbalzo il giovane italiano. “Glass”, pronun-ciano entrambi all’unisono.

E via così.“Lu-gat”, “dizionario”, “dictiona-

ry”.“Haat”, “mano”, “hand”.“Haank”, “occhio”, “eye”.Scambio linguistico equo e soli-

dale. Il ragazzo asiatico insegna i termini hurdu all’amico italiano e viceversa. Il ponte linguistico attra-verso il quale passa lo scambio è l’inglese, assurto al ruolo di moder-no esperanto.

Cercando il Topo di biblioteca ho scovato due esemplari di “Topo di Mondo”, esemplare interessante e tutt’altro che in via di estinzione.❧

Rossella Saltini

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 123

giaCoMo radoani

La biblioteca dei Cappuccini

C ertamente ai primissimi po-sti fra le istituzioni culturali con intento bibliologico

conservativo, la Biblioteca Provin-ciale dei Cappuccini di Trento meri-ta un’attenzione e un posto di riguar-do negli occhi e nella mente dei bi-bliofili “bibliofolli” di casa nostra.

Ricercare e stabilire come abbia raggiunto questa posizione di gran-dissimo prestigio potrebbe essere oggetto di un’altra ricerca, a caratte-re prettamente storiografico, che coinvolge in qualche modo la storia politica, civile, istituzionale e cultu-rale della città di Trento, nonché degli insediamenti di istituti reli-giosi in essa e delle variationes che ne hanno contraddistinto la pre-senza, in particolar modo dei Frati Minori Cappuccini1. Come poi e

1 - La fondazione della prima fraternità ‘stan-ziale’ a Trento dei Cappuccini, che segue, in Trentino, a quelle di Rovereto (1575) e di Arco (1585), risale al 1596 (o 1597?), dapprima ospiti nella casa dei Conti Lodron in Via Calepina per quasi tre anni, quindi legittimati dal Principe Vescovo Cardinale Lodovico Madruzzo ad oc-cupare stabilmente il Convento di S.Croce, che già aveva ospitato i Canonici Regolari di S.Croce (“Agostiniani”) detti anche Crociferi o Crocigeri (vedi Marco da Cognola, I Frati Minori

quando esattamente sia nata la “Bi-blioteca” intesa come istituzione specificamente dedicata alla con-servazione di un patrimonio libra-rio di una certa consistenza è com-pito piuttosto arduo, sia per la ini-ziale idiosincrasia dei primi Cap-puccini ad indulgere al cosiddetto otium litterarium2, sia per la man-canza di una specifica documenta-zione, dovuta primieramente alla constatazione che la biblioteca del Convento di S.Croce di Trento era un’istituzione interna al convento medesimo, con un locale peraltro ben attrezzato, strettamente legata alla vita quasi monastica3 dei frati

Cappuccini della Provincia di Trento. Appunti storici, Reggio Emilia, 1932, pp. 53 ss.), situato appunto in quella che ancor oggi si chiama Via S.Croce e che da qualche decennio è divenuta sede dell’Istituto Storico Italo-germanico e dell’Istituto di Scienze religiose della Fondazione “Bruno Kessler”, già Istituto Trentino di Cultura.2 - Cfr. Giorgio Butterini, Storia della Biblioteca Provinciale Cappuccini di Trento 1970-2000, in “La Biblioteca Provinciale Cappuccini 1970-2000. Trent’anni di vita”, a cura di p.Lino Mocatti e Silvana Chistè, Trento, 2000 (che più avanti citeremo con la sigla B.P.C. Mocatti) alle pp. 13-14.3 - Va ricordato che la cosiddetta “clausura ca-nonica” imponeva il divieto assoluto alle donne di accedere ai conventi maschili. Tale proibizio-

che componevano quella fraternità, ed in particolare concepita in fun-zione dello studentato teologico au-toctono4 presente nella medesima fraternità cenobitica.

A noi interessa in particolare, an-che per la sua maturazione a “biblio-teca aperta al pubblico”, la storia re-cente di questo peculiare istituto culturale del Trentino, di cui daremo qui alcuni rapidi cenni essenziali.

Nemmeno peraltro devesi pensa-re ad una biblioteca fornita esclusi-vamente di testi di teologia e di dirit-to canonico, che, seppur prevalenti, questi talora corposi e vetusti tomi, saranno volentieri affiancati da ric-chi fondi bibliografici di storia loca-le, di letteratura italiana ed europea, di archeologia e cultura classica.

ne sarà gradualmente attenuata fino a scompari-re pochi anni dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-65).4 - I giovani religiosi cappuccini candidati al sa-cerdozio usufruivano, fino alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, di istituzioni scolastiche gestite direttamente dai frati all’interno dei con-venti della cosiddetta ‘provincia monastica’ (il biennio del Ginnasio ad Ala, il triennio del Liceo classico a Rovereto e il quinquennio di formazione teologica nello Studentato di S.Croce a Trento).

Andar per bibliotechea cura di MariaLuisa Mora

Questa volta andiamo a Trento alla Biblioteca Provinciale dei Cappuccini con il Socio Giacomo Radoani, una struttura culturale di altissimo livello, 140.000 titoli di libri, varie collezioni di notevole pregio, sede di associazioni culturali, vero vei-colo di crescita e di educazione al sapere, aperta al pubblico.

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andar per biblioteche

P. Giorgio Butterini indica un ro-veretano doc come fondatore del primo nucleo della Biblioteca di Trento: P. Antonio Maria Zeni da Rovereto (1712-1787), il quale, gra-zie alla sua formazione culturale ‘lai-ca’ all’Università di Bologna, prece-dente all’ingresso nell’Ordine reli-gioso, struttura in maniera autono-ma uno stanzone ‘consacrato’ esclu-sivamente ai libri del convento.

Gli scatti di qualità (o, se preferi-te, di diversificazione culturale) av-verranno in tre tappe ben distinte, che segnano anche, accanto alla cre-scita multiculturale dell’istituto bi-blioteca ‘ad uso privato’, quale essa giuridicamente rimane fino al 1970, l’avvicinamento alla ‘maturazione’, ossia ad una ben più vivace e mo-derna apertura dell’istituzione al mondo esterno.

La prima tappa porta il nome di P. Ilario Dossi da Corné di Brentonico (22.4.1871 - 29.3.1933), uomo colto assai, fine letterato, insigne storico di patrie memorie5. La di lui biblioteca personale (ben 10.578 volumi riferi-sce il Butterini nel saggio citato alla nota 1) viene incorporata alla Bi-blioteca del Convento della Cervara6 e una buona metà di essa troverà u-na sistemazione personalizzata (ri-cordo assai bene i molti volumi ed o-5 - Vedi P. Arcangelo Cologna, Premessa al-la Ristampa, in P. Ilario Dossi, I cognomi di Brentonico, Rist. anastatica a cura della Biblioteca Com.le di Brentonico, Mori, la Grafica, 1986.6 - Nel 1842 i Cappuccini si erano trasferiti da Borgo S.Croce al neoedificato convento detto della Cervara, proprio sopra al castello del Buonconsiglio, mantenendo peraltro l’intitola-zione della chiesa all’Invenzione della S.Croce.

puscoli che qui ho potuto consultare recanti sul frontespizio il timbro con la dicitura “Raccolta di Storia Patria P.Ilario Dossi”) in un apposito fondo con una specifica schedatura e pub-blicazione a stampa7 in un corposo volume in -4°.

La seconda tappa di avvicinamen-to alla modernità è indelebilmente legata al nome di P. Epifanio Pinta-relli da S.Orsola Terme (1915-10 maggio 1966), primo vero bibliote-cario in senso moderno, personag-gio di grandissima cultura personale (in buona parte autodidatta) e vero cultore degli studi classici. A lui va riconosciuta la prima intensa colla-borazione con l’Ente pubblico (all’e-poca la Soprintendenza ai Beni Li-brari di competenza con sede a Ve-rona), la prima schedatura sistema-tica di buona parte del materiale bi-bliografico, delle riviste, la salva-guardia di opere antiche (stampe, incunaboli e cinquecentine) presen-ti anche negli altri conventi, ma so-prattutto il suo grande merito è stato di aver riconciliato frati e pubblico con la biblioteca e lo scrigno di pre-ziosissima cultura che essa fornisce e rappresenta.

Né la figura di questo frate fors’anche un po’ burbero nel tratto caratteriale, certamente umile in-tellettualmente, e ancor più benefi-co nell’opera sua (lo ricordo sempre 7 - Libri delle Biblioteche Trentine, Bollettino delle accessioni e del patrimonio. Fondo “P. Ilario Dossi” Biblioteca Padri Cappuccini, Trento, a cura della Sezione trentina dell’Associazione Italiana Biblioteche, Ibid., P.A.T., Assessorato al-le Attività Culturali e Sportive, 1975 [ma stampa Grafiche Manfrini, dicembre 1976].

con commossa riconoscenza come docente di latino e greco nel ginna-sio di Ala), è stata oggetto di analisi e studio quanto egli meriterebbe. La sua prematura scomparsa a soli 51 anni per un male (all’epoca) incura-bile ha lasciato un vuoto, che però i cappuccini trentini hanno pensato bene di colmare migliorando, alme-no per l’aspetto biblioteconomico.

Ed eccoci alla terza tappa, quella della “modernizzazione” e apertura al pubblico della biblioteca, che porta il nome dell’attuale reggitore dell’istituzione, P. Lino Giorgio Mocatti da Monclassico, che dopo studi specialistici a Roma, venne chiamato alla successione al com-pianto P. Pintarelli. Terza tappa che potremmo chiamare “di rifonda-zione” o, se preferite, la fondazione vera e propria della ‘Biblioteca Pro-vinciale’ dei Cappuccini, grazie alla concentrazione dei fondi delle 6 bi-blioteche esistenti negli altrettanti conventi cappuccini del Trentino. Così nel 1970 le varie biblioteche conventuali (Rovereto con quasi 10.000 volumi, Arco, Ala e Terzolas con oltre 5.000 volumi a testa e Condino con 3.900) vengono con-globate con quella di Trento (22.078 volumi), con il citato ‘Fondo Ilario Dossi’ (10.758 titoli) e con il ‘Fondo delle Cinquecentine’ che il Pintarel-li aveva già provveduto a costituire.

Il 3 novembre 1970 è scelto dai frati cappuccini come data di nasci-ta della neocostituita istituzione provinciale: in quel giorno infatti, presenti autorità cittadine e provin-

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ciali, la Biblioteca viene solenne-mente inaugurata e da quel giorno aperta al pubblico con orario spez-zato per 5 giorni alla settimana. Da quel momento essa è collocata nel-la nuova sede della ristrutturata ex ‘casa rustica’ del Convento di Via Cervara, ora Piazza Cappuccini, con ingresso da Via Argentario, re-centemente (2011) ribattezzata Via delle Laste.

A quella data la rinnovatissima Biblioteca dei Cappuccini si trova già a gestire un patrimonio librario di oltre 70.000 volumi, che divente-ranno 104.000 a trent’anni di di-stanza8. Oggi questo patrimonio ammonta a più di 138.000 titoli, con oltre 280 periodici correnti e 184 testate chiuse, con un incre-mento annuo eccezionale, frutto di lasciti e donazioni, di biblioteche personali di frati trapassati, ma an-che di acquisti oculati e intesi ad ar-ricchire, orientare e qualificare vieppiù i tre settori che caratteriz-zano questa già benemerita ed assai vivace istituzione, che non si pre-senta solo come un “magazzino” per quanto scelto e raffinato di libri, ma anche come punto di riferimen-to per alcune collezioni di opere a stampa o di raccolte museali di e-stremo interesse per lo studioso di storia delle tradizioni religiose e di storia della pietà popolare presso le nostre genti9.

8 - G. Butterini, cit., in B.P.C. Mocatti, p. 30.9 - Il riferimento è soprattutto alla collezione di immaginette sacre (i famosi “santini”), una “mi-croiconoteca” che ha uno spazio privilegiato nella Biblioteca dei Cappuccini di Trento con

Le tre grandi sezioni culturali in cui è suddiviso l’assai ricco patri-monio bibliografico di questa isti-tuzione sono:

A) la sezione teologica con parti-colare riguardo alla teologia tradi-zionale (dogmatica, morale, ecc.), agli studi biblici nel cattolicesimo, agli studi di diritto canonico;

B) la sezione storico-religiosa con particolare riguardo alla storia delle religioni, alla storia del cristianesi-mo e alla storia degli ordini e delle congregazioni religiose nella Chie-sa cattolica;

C) la sezione di storia trentina, che, istituita con il Fondo Ilario Dossi, de quo supra diximus, si è via via arricchita in maniera notevolis-sima, potendosi oggi riconoscere come la collezione più cospicua in Regione dopo quella della Bibliote-ca Comunale di Trento.

una sottosezione, quella delle “memorie” di per-sone defunte o memorie funebri, immaginette chiamate anche “luttini” (B.P.C. Mocatti, p. 157), termine peraltro da me non riscontrato nei sei dizionari della lingua nostra compulsati (Devoto, Palazzi, Gabrielli, Premoli, Rigutini-Fanfani e Treccani). Accanto a questa specialis-sima collezione va segnalata quella degli Ex Libris, che meriterebbe una trattazione a parte; la raccolta di stampe e la pinacoteca dei quadri, specialmente a soggetto religioso (si tratta di opere di arte minore provenienti spesso dai vari conventi), che è stata sistemata in un locale-mansarda del convento insieme a molti altri og-getti caratteristici della vita religioso-cappuccina (cilici, rosari, addobbi, ecc.) quasi a formare un piccolo spazio museale di storia francescana conventuale; e quella che chiameremo volentieri chiroteca o grammatoteca (altro termine non ri-scontrato nei dizionari sopracitati e qui coniato ex novo), cioè raccolta di manoscritti cartacei (autografi, chirografi o apografi). Alcuni di que-sti manoscritti sono già stati fatti oggetto di pub-blicazioni a stampa, molti altri attendono di ve-nire “rivelati” (potrebbero costituire occasioni per argomenti di tesi di laurea…).

Non certamente trascurabile, ed anzi bisognosa di cure speciali per la conservazione, e che pure da sola meriterebbe un’ampia trattazione a sé stante, la sezione speciale degli Incunaboli e delle Cinquecentine, che pure ha avuto l’onore di un det-tagliato catalogo a stampa10.

Notevole, anche se non è poi sta-ta seguita ed aggiornata, la sezione bibliografica dedicata alle letteratu-re antiche, sia in relazione parallela agli studi biblici, sia come sezione di autori della classicità (scrittori greci e latini), a suo tempo impo-stata dal Pintarelli.

Bellissima infine la sezione della sala di consultazione (al 1^ piano, al livello degli uffici della direzio-ne), magistralmente dotata delle più importanti opere, enciclopedie, dizionari, repertori bibliografici, grandi opere storiche, ecc., di cui permetteteci citarne solo due: il Du Cange, Glossarium Ad Auctores Mediae et Infimae Latinitatis Medii Aevi11, un’autentica miniera per gli studiosi di medievalistica, e il Mo-roni, Dizionario di erudizione sto-rico-ecclesiastica da San Pietro ai nostri giorni12 che, per quanto data-

10 - L. Mocatti-S. Chistè, Le cinquecentine della Biblioteca Provinciale Cappuccini di Trento. Catalogo a cura di Anna Gonzo, presentazione di Marielisa Rossi, in aggiunta M.C. Bettini, Le edizioni del secolo XV, Trento, P.A.T. Servizi Beni Librari e Archivistici, 1993. L’aggiornamento al 2000 di questo repertorio in B.P.C. Mocatti, cit., alle pp. 37 e ss.11 - Qui è presente la ristampa anastatica edita da Forni (Bologna, 1982), che riproduce l’edizio-ne parigina del 1883-87 a cura di L. Favre. L’edizione originale risale al 1668.12 - Il Moroni fu pubblicato negli anni 1840-1861 in 103 volumi (Venezia, tipografia

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to, rimane un’insostituibile miniera di preziose informazioni, altrimen-ti di assai ardua reperibilità.

Alcuni inevitabili cenni infine sull’attività ‘esterna’ della Biblioteca che si affianca e si integra con quella della schedatura, inventariazione, catalogazione e conservazione dell’immensa mole di materiale car-taceo e non, e che costituisce un’au-tentica fucina di iniziative atte a ren-dere l’istituzione cappuccinesca un vero polo di attrazione per ricercato-ri e cultori degli studi storici, teolo-gici e, perché no, da qualche anno anche artistico-architettonici.

Compie infatti vent’anni di inse-diamento presso la Biblioteca dei Cappuccini di Trento il “Circolo Trentino per l’Architettura Con-temporanea”, sorto appunto nella primavera del 1993 per iniziativa di Marco Santuari e Sergio Giovanaz-zi. Esso raggiungerà presto un alto livello di multiculturalità e presen-za sul territorio, grazie a numerose iniziative (convegni, mostre, gior-nate di studio) e alla fervida colla-borazione con gli omologhi circoli di Bolzano, Graz e Lubjana.

Quasi il doppio (di anni) la colla-borazione fra la rivista culturale “CIVIS. Studi e testi”, fondata e di-retta da Domenico Gobbi ed ema-nazione diretta del quasi omonimo Gruppo Culturale (“Civis” soltan-to), che ancora oggi ha la propria sede presso la Biblioteca, che ovvia-

Emiliana), a cui si aggiunsero negli anni 1878-79 altri 6 volumi di Indici curati dal medesimo Autore.

mente si onora di tale presenza, ri-salente al 197613. Ricordiamo altresì che la rivista CIVIS esprime anche l’omonima Casa Editrice, diretta dallo stesso Gobbi, e che si è resa benemerita per notevoli iniziative culturali (convegni di studi storici, edizioni di pergamene, ricerche e-rudite), tutte (o quasi) intimamente legate alla collaborazione con la Bi-blioteca stessa.

Dulcis in fundo, una così feconda istituzione sorta a tutela e valorizza-zione del patrimonio bibliografico non poteva non farsi essa stessa pro-motrice di nuovi libri. Ed ecco la col-lana “Cappuccini Trento”, espressio-ne diretta della biblioteca stessa e che, non ce ne voglia il benevolo let-tore, abbisogna irrefragabilmente di una presentazione a parte, direzione della collana permettendo.

Exquirenda sunt (si devon opera-re ricerche su) almeno tre date del-la sua storia: 26.9.1635 che secondo il Mariani, storico del Concilio di Trento del sec. XVII, sarebbe il dies natalis; il 1893, quando fu salvata dall’incendio che devastò parte del Convento di S.Croce, e il 13.5.1944, allorché fu risparmiata dal bombar-damento alleato che distrusse la chiesa del convento stesso.

In conclusione, se questa istitu-zione ha raggiunto un grado di effi-cienza encomiabile ed ha acquisito una certa qual compiutezza biblio-grafico-patrimoniale, una precisa 13 - Va altresì ricordato che, all’epoca, il Gruppo Culturale “Civis” si chiamava “Gruppo Storico Argentario”. Non ci è nota la data della variazio-ne di denominazione.

fisionomia culturale, ed è oggi in grado di competere veramente con istituzioni pubbliche che si avvalgo-no di ben più cospicui mezzi e di un assai maggior numero di personale, il merito va ascritto con grande sin-cerità e riconoscenza al deus ex ma-china della biblioteca stessa, a colui che con incomparabile dedizione, instancabile continuità, umile e sa-piente maestria, nelle vesti di diret-tore, coordinatore, selezionatore, schedatore, consigliere, ma anche semplice “facchino” di libri (e non solo), da oltre 43 anni ne regge le sorti: P. Lino (al secolo Giorgio) Mocatti da Monclassico, superius nominatus14.

Ruolo di sostegno e affiancamen-to tecnico, fedele ed esperta colla-boratrice, come compare anche in molte pubblicazioni, la segretaria Silvana Chistè, da moltissimi anni quasi ‘parte integrante’ della biblio-teca stessa, dei cui segreti culturali e collezionistici è diventata preziosis-sima testimone.❧

Giacomo Radoani

14 - Vedasi il bellissimo profilo di lui tracciato da Mauro Guerrini in Pietate et Studio. Miscellanea di studi in onore di P.L.M., a cura di Silvana Chistè e Domenico Gobbi, Trento, ed. Civis, 2006, pp. 9-12. In questo volume è inclusa anche la bibliografia del Mocatti, naturalmente aggiornata sino al giugno 2006.

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Si ringrazia per la collaborazione la Biblioteca Provinciale dei Cappuccini di Trento e in particolare p. Lino Giorgio Mocatti, per aver fornito la documenta-zione fotografica.

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adriana pedrazza

La comunità che apprende

promuovere letturaa disposizione dell’ ufficio per il sistema bibliotecario trentino e delle biblioteche trentineSiamo lieti di ospitare, in questa rubrica solitamente dedicata alle attività delle biblioteche trentine, un intervento che viene da Bolzano per presentarci le iniziative della Giornata dell’educazione permanente e delle biblioteche. Come Furore dei Libri ci preme richiamare l’atten-zione su due tra gli autorevoli esperti chiamati a portare le loro testimonianze: Maria Stella Rasetti, direttrice della Biblioteca S.Giorgio di Pistoia, un’ amica del Furore dei Libri, che per prima ha accolto e ospitato magnificamente la mostra di Parole per Strada, e Livio Bauer, no-stro Socio e collaboratore della RdF che ha parlato sul tema, già anticipato su queste pagine, della «cultura a chilometri zero».

Anche quest’anno gli Uffi-ci per l’educazione per-manente e le biblioteche

delle Ripartizioni Cultura italiana e tedesca hanno organizzato la gior-nata dell’educazione permanente e delle biblioteche nei giorni 7 no-vembre 2013, presso la Biblioteca di Ora e 8 novembre Oltrisarco, nella sala Polifunzionale del Centro Ci-vico. Destinatari dell’iniziativa era-no gli operatori e gli individui che organizzano e promuovono attività formative e culturali.

La normativa provinciale sull’e-ducazione permanente e sulle bi-blioteche, la LP 41/1983, ha soste-nuto, da quando è entrata in vigore 30 anni fa, la creazione di un soli-do sistema di istituzioni qualificate che operano su tutto il territorio offrendo attività formative in tutti gli ambiti tematici. I dati delle ulti-me indagini ASTAT indicano, in-fatti, che 7 altoatesini su 10 ritengo-no molto importante continuare ad aggiornarsi ed apprendere e di questi 7, più di 5 hanno preso parte

ad un’iniziativa nel 2012. Nell’am-bito delle biblioteche in lingua ita-liana nel 2012 gli utenti iscritti ai tre sistemi bibliotecari (BIS, BCB, BPI) sono risultati 108.000, i presti-ti 595.000 ed il patrimonio di do-cumenti su vario supporto si è atte-stato intorno a 1.000.000. Questi numeri spiegano perché in Alto A-dige la percentuale della popolazio-ne di 6 anni e più che legge almeno un libro all’anno è di 60,4%, il va-lore più alto tra le regioni italiane la cui media è del 46,0%.

I risultati raggiunti ci spingono a riflettere, a questo punto, e a porre l’attenzione sulle modalità di ap-prendimento delle comunità. Co-me apprendono gli individui nelle loro comunità di appartenenza, in che modo gli enti locali promuovo-no occasioni di apprendimento, la formazione può contribuire alla te-nuta sociale, in particolare in un momento di ridotte possibilità fi-nanziarie? A queste e ad altre do-mande hanno cercato di risponde-re gli esperti ed i responsabili di

workshops e progetti, già avviati con successo, intervenuti nelle giornate del 7 e 8 novembre.

I temi attorno ai quali si sono svi-luppate le riflessioni e le discussioni sono stati due: l’inclusione nell’ap-prendimento di tutte le fasce socia-li, in particolare di quelle solita-mente molto lontane dalla forma-zione, e le reti da intendersi come capacità di creare sinergie fra le va-rie strutture del territorio per pro-muovere momenti formativi e cul-turali.

Felicitas von Küchler, per anni collaboratrice del DIE (Deutsches Instituts für Erwachsenenbildung) a Bonn ha tenuto una relazione dal titolo “Was ist Inklusion? Wollen wir sie fördern?” mentre Richard Stang, anche lui collaboratore del DIE, nella relazione “Kooperatio-nen gestalten – Zusammenarbeit von Erwachsenenbildung und Bi-bliothek” ha parlato della funzione delle biblioteche nella formazione lungo tutto l’arco della vita e delle possibilità di cooperazione con

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l’ambito dell’educazione perma-nente.

Maria Stella Rasetti, direttrice della Biblioteca San Giorgio di Pi-stoia, nel suo intervento “La biblio-teca partecipata. Per gli utenti o con gli utenti” si è con-centrata sul ruolo della biblioteca pubblica chia-mata oggi a valorizzare il proprio contributo alla vita della comunità loca-le, agendo da catalizzato-re della cultura di inclu-sione e di integrazione della pluralità. Secondo la relatrice la biblioteca, vero e proprio motore di apprendimento colletti-vo, costruisce comunità, genera alleanze e produ-ce cittadinanza attiva. Maria Stella Rasetti, in-sieme a Dagmar Gött-ling, responsabile presso la Biblioteca civica “An-tonio Urceo Codro” di Rubiera (RE), ha tenuto anche uno dei workshops in programma e precisa-mente “Costruire una cultura delle alleanze tra pubblico e privato. Non sponsor, ma part-ner”, che intendeva ap-profondire alcune tema-tiche, ritenute presupposti fonda-mentali per costruire una politica di alleanze duratura ed efficace, come ad esempio il tema dell’inve-stimento pubblico sui servizi inte-

si come motore di benessere e di sviluppo delle comunità, oppure il tema della creazione di una mappa dei possibili alleati o della consa-pevolezza che la semplice presenza dei servizi culturali non è condi-

zione sufficiente a innescare un processo di sviluppo territoriale.

Tra i workshops tenuti sia nel pri-mo che nel secondo giorno dell’ini-ziativa, ha meritato particolare at-

tenzione per l’ambito di lingua ita-liana, il progetto “Open City Mu-seum: Educazione all’intercultura e coesione sociale attraverso l’ar-te” presentato da Martha Jiménez, realizzato a Chiusa e rivolto in par-

ticolare al pubblico dei nuovi cittadini o a perso-ne d’origine straniera che abitano a Chiusa, mirato a promuovere il dialogo interculturale e la partecipazione all’of-ferta culturale, a pro-muovere la conoscenza reciproca delle persone e a migliorare la coesione sociale. I partecipanti al-la giornata dell’educa-zione permanente 2013 hanno avuto la possibili-tà di scegliere fra altri 5 workshops.

Il secondo giorno, a Bolzano, nella sala poli-funzionale del Centro Civico di Oltrisarco, do-po le relazioni di Stang e Rasetti, i workshops si sono sviluppati attorno al tema delle reti. Tra tutti ricordiamo il pro-getto “Punto Cultura Oltrisarco – Un’espe-rienza di formazione in rete in un quartiere cit-

tadino”, presentato da Giuliano Gobbetti, Presidente del Centro ci-vico Oltrisarco, nonché dell’asso-ciazione Aessebi, e Luca Moresco, Direttore del Cesfor. Il Punto Cul-

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tura Oltrisarco, nato grazie alla sinergia-di tre associazioni (Cesfor, Aessebi e Club La Ruga) rappresenta un esempio riuscito di sinergie fra istituzioni del ter-ritorio, grazie alle quali gli abitanti di un quartiere della città hanno la possibilità di fruire di momenti culturali e formati-vi, che spaziano dalla musica alle confe-renze e alle presentazioni di libri. Nel workshop “Il modello Nomi: euro zero a kilometri zero. Amministrare sobria-mente cultura in era di spending re-view” l’Assessore alla Cultura del Comu-ne di Nomi (Trento), Livio Bauer, ha pre-sentato al pubblico il progetto realizzato con successo nel suo Comune di 1.300 a-bitanti seguendo l’imperativo “ fare cul-tura senza soldi”, e con il coinvolgimento e la messa in rete di tutte le istituzioni lo-cali (biblioteche, autori locali, giovani musicisti rock, ensamble corali ed orche-strali, poeti, pittori autodidatti…). Nella seconda giornata dell’iniziativa i wor-kshops/progetti presentati sono stati in totale sette.

Informazioni su questo evento e sulle altre iniziative programmate nel corso del prossimo anno possono essere richie-sti all’Ufficio per l’educazione perma-nente (0471 411248) o consultati sul sito internet www.provincia.bz.it/cultura/for-mazione/iniziative.asp ❧

Adriana Pedrazza

prologo

È proprio vero che un batter d’ali di farfalla a Singapore provoca un maremoto a Manhattan...

Un anno e mezzo fa, più o meno, ho inviato una mail di congratulazioni ed incoraggiamento alla Redazione del Furore, avendone prontamente la richiesta di un pezzo sull’Amministrare Cultura.

Ho esposto spensieratamente la mia (in)esperienza, basata essenzialmente sulla presa di coscienza del dover soddisfare i gusti dei miei censiti, più che i miei personali oltreché sull’impegno morale verso i contribuenti ad usare con oculatezza gli scarsi fondi pubblici affidatimi dopo i tagli della famigerata spending review.

Ho parlato in libertà delle opportunità offertemi dalla miriade di scrittori-poeti-pittori-musicisti-eruditi-artisti in generale, a volte bravissimi, sempre estremamente generosi e disponibili, esistenti sul territorio, e della gioia che puoi regalare offrendo loro un proscenio, un pubblico ed un po’ di pubblicità.

La scoperta dell’acqua calda, più o meno, no?Succede però che fra le cinque o sei persone che

leggono l’articolo (parenti inclusi) ci sia anche la responsabile del settore Educazione permanente dell’Ufficio della Provincia Autonoma di Bolzano, che guarda caso sta organizzando un convegno su “La comunità che apprende“ (o ”Die lernende Gemeinschaft”) ed ecco che mi ritrovo catapultato a relatore di un workshop sul mio gestir culturale.

Dal terrore iniziale sono passato, grazie al sostegno del mio Sindaco e del Furore, al panico attuale.

Ma perché no, in fondo? Le intenzioni sono buone, il resto seguirà... compresa

un po’ di buona pubblicità per il nostro carissimo, irascibile, imprescindibile Furore dei Libri!❧

Livio Bauer

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Promuovere culturaa cura della redazione

L’ Assessorato alla Cultura e la Commissione Cultura della Comunità della Vallagarina

in collaborazione con l’ Associazione Il Furore dei Libri è lieta di presentare i risultati del concorso indetto per promuovere la conoscenza del territorio attraverso testi che nel corso dei secoli hanno testimoniato e valorizzato la Vallagarina. Apprezzando l’ impegno e lo sforzo profuso da tutti i partecipanti nel trasferire le impressioni e le considerazioni di un viaggiatore irlandese del primo Ottocento all’ italiano contemporaneo, cercando di mantenerne il più possibile la sorpresa, la curiosità e la precisione descrittiva, la Commissione, accogliendo il suggerimento della Giuria, presenta qui una sintesi fra tutte le traduzioni pervenute, cercando di valorizzare i contributi più significativi di tutti i loro autori.

C on la speranza che questa esperienza sia loro di aiuto e di stimolo a continuare sulla

strada di una sempre migliore conoscenza sia delle lingue che del nostro territorio.

Marta Baldessarini Assessore alla Cultura Comunità della

Vallagarina

Hanno collaborato alla traduzioneAndrea Balbinot [a] – Ruan Barbacovi [b] – Iris Bathia [c] – Erica Bellotti [d] – Lara Brasili [e]

Silva Cassietti [f]– Margherita Ciancio [g] – Elisa Conte [f] – Kevin Diener [h]– Federico Falossi [i]

Daniele Folgarait [j] – Federico Foss [k]– Caterina Pizzini [h] – Arianna Scrinzi [l]

Michelangelo Tomasoni [k] – Alison Vanzetta [m]

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[1]At five leave Trent, In coach and pair, For Riva bent, And cooler air,

[2]My wife and I, And daughter tall, And Maestro Monti, Four in all.

[3]Good company In sooth are we, And for six hours May well agree,

[4]If quarrels come, As poets teach, From too free use Of the parts of speech;

[5]For we no word have Of Italian; No English he, Nor cramp Germanian;

[6]And has not even The acquaintance made, Of Ma’ mselle French, That common jade,

[7]That walks at ease Wide Europe’ s streets, And laughs and chats With all she meets.

[8]Pleasant the view is, As our carriage Rolls smoothly down The Vale of Adige.

[9]Toward southern suns And genial skies, Gently sloped That valley lies.

[10]From wintry blasts, North, east, and west, Alpine steeps Defend its breast;

[11]And with a thousand Ice-fed rills Water its fields, And turn its mills;

[12]And cool the sultry Summer air, And play sweet music To the ear.

[13]Here the cliffs Are bleak and bare, With pine forests Covered there;

[14]Or with various Carpet spread, Of fern and heath, The black-cock’ s bed.

[15]Here mica schist, Red porphyry, And granite peaks, Invade the sky.

[16]There slumbering marble Waits the hand That bids it into Life to stand.

[E] Alle cinque lascio Trento, in carrozza e pariglia, diretto a Riva e all’ aria più fresca.

[A] Mia moglie ed io, Con la figlia grande ed il maestro Monti, quattro in tutto.

[C]Veramente siamo una bella compagnia e per sei ore potremmo andare d’ accordo,

[G]Se, stando a sentire I poeti, il diverbio È frutto dell’ uso Smodato del verbo,

[G]Visto che noi Non parliamo italiano, Né lui sa l’ inglese O il duro tedesco

[C]E non conosce neanche quel tesoro comune, la “lingua” francese,

[A]Che passeggia a suo agio Per le ampie strade d’ Europa, E ride e parla Con chiunque ella incontri.

[C]Il panorama è piacevole mentre la nostra carrozza scivola dolcemente lungo la valle dell’ Adige.

[G]Ai miti cieli E ai soli del sud Si volge la valle Con lieve pendio.

[M]Da gelide folate, a nord, est ed ovest, i precipizi alpini difendono il suo seno;

[J] E con mille ruscelli dal ghiaccio alimentati irriga i suoi campi, e fa girare i suoi mulini;

[E] e rinfrescano l’ afosa aria estiva, e suonano una musica ch’ è dolce per l’ orecchio.

[D]Qui precipizi aspri e nudi, e là da pinete ricoperti;

[J]Oppure con varie distese a tappeto, di felci e di brughiera, il letto del gallo nero.

[E]Qui il micascisto, il porfido rosso, e cime di granito, invadono il cielo.

[G]Là il marmo assopito Attende la mano Che in vita lo porti E lo inviti a restare.

James Henry — Viaggio da Trento a Riva

speciale concorso

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 133

James Henry — Journey from Trento to Riva

[17]Lower down The sandstone rock; At our feet The boulder block.

[18]Pleasant the view is, As our carriage Rolls smoothly down The Vale of Adige.

[G] Un poco più sotto La roccia arenaria, Ai nostri piedi Macigni franati.

[A]Piacevole è il panorama, Mentre la nostra carrozza Scivola dolcemente giù Per la valle dell’ Adige.

[19]Trellised vines Stretch far and near, Through fields of lentil, Maize, and bere;

[20]Chesnut and walnut Stately stand, Flanking the road On either hand;

[21]And gentler willow Lends its shade, And droops and arches Overhead;

[22]And sunburnt peasants’ Hands rapacious Cull the mulberry’ s Foliage precious.

[23]The sacks stand full, The carts are loaded, The tawny oxen Yoked and goaded;

[24]The master hears, With ears of pleasure The axle groan Beneath the treasure.

[25]Let six weeks pass, The work is done, The worms are fed, The cocoons spun,

[26]The chrysalis killed, Its intricate clue Unravelled nice, And spun anew

[27]Into a firm, Tenacious line, Yellow as gold, As gossamer fine;

[28]Parent of The bombazine, Rustling sarsnet, Satin sheen;

[29]Of the sofa’ s Gay brocade, Of the lutestring Quilted bed;

[30]Of the flag That floats on high, Defiance to The enemy;

[31]Of the garter, Of the pall; Wond’ rous thread That mak’ st them all!

[32]Pleasant the view is, As our carriage Rolls smoothly down The Vale of Adige.

[A] Le pergole si distendono Lontane e vicine, Attraverso campi di lenticchie, Orzo e granturco

[A]I castagni e i noci Stanno imponenti, Fiancheggiando la strada Da entrambe le parti;

[G]Più gentile, un salice L’ ombra sua porge E si tende e s’ inarca Sulle nostre teste.

[E]E le mani rapaci dei contadini abbronzati spogliano il gelso del suo prezioso fogliame

[D]I sacchi sono pieni, carichi i carri, i fulvi buoi aggiogati e spronati;

[K]Il padrone ascolta con piacere gli assali gemere sotto il peso del tesoro

[C]Lasciamo passare sei setti-mane, il lavoro è fatto, le larve sono sazie, avvolte nei bozzoli,

[F]la crisalide uccisa e il suo intricato bozzolo disfatto delicatamente e filato nuovamente,

[I]In un saldo, Tenace filo Giallo come l’ oro Come ragnatela sottile

[E]Origine della bambagia, dell’ ormesino, e del raso lucente,

[E] del sofà dall’ allegro broccato, e del letto trapuntato di lustrini;

[B]Della bandiera, che alta sventola, a sfidare il nemico;

[G]Della giarrettiera, Del drappo funesto: Fantastica fibra Che crei tutto questo!

[H]Gradevole è la vista, mentre la nostra carrozza scivola dolcemente lungo la valle dell’ Adige.

speciale concorso

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James Henry — Viaggio da Trento a Riva

[33]On our right hand The broad river, Gray and clear, And sparkling ever;

[34]In its stony Channel dashing, Raving, fretting, Foaming, splashing.

[35]What though still Its course is forward, What though still It rushes onward,

[36]Downward still Although its motion, Toward the vast Absorbing ocean,

[L]Alla nostra destra Scorre l’ ampio fiume, grigio e limpido, sempre scintillando;

[G]Nel letto di pietre Lui corre, impazzisce, Si agita, schizza, Fa schiuma e sobbalza.

[M]Nonostante ciò il suo corso è in avanti, nonostante ciò, sfreccia in avanti,

[A]Si calma verso valle Nonostante il suo moto, Verso il vasto Oceano remoto.

[37]See, each wavelet Backward curls; See, reversed Each eddy swirls;

[38]See, it casts Its lingering look Toward the scenes It hath forsook,

[39]Toward its native Orteler mountain, Toward its parent Glacier fountain.

[40]Life’ s traveller so Casts back his view On the dear scenes His childhood knew.

[41]With face reverted, So is borne Down the rough road Whence no return,

[42]And plunged at last Into the sea, By finites called Eternity.

[43]Pleasant the view is, As our carriage Rolls smoothly down The vale of Adige.

[44]We thread the gorge Where Lägerthal In battle saw Sanseverin fall;

[45]Leave on the right Old Castelbarco, And hear thy tower, Holy San Marco,

[46]Chime night’ s first watch In Rovereith, As we arrive, At half-past eight

[47]After supper, Fresh and merry, West we turn Toward Adige ferry;

[48]And where, ‘ twixt banks Of flowery rushes, Deep, silent, smooth, The river gushes,

[G]Guarda, ogni ondina Si arriccia all’ indietro, Guarda, ogni gorgo All’ opposto mulina,

[G]Guarda, rivolge Il suo sguardo indugiante Verso i paesaggi Che ha abbandonato,

[G] Verso il nativo Monte dell’ Ortler, Verso i ghiacciai Della natia fonte.

[K]Vita da viaggiatore, occhiate alle spalle sulle care scene che la sua infanzia conobbe.

[E]con il viso rivolto là dove è nato lungo la strada scabrosa da cui non v’ è ritorno,

[G]E, giunto al termine, Piomba in quel mare Che i mortali chiamano Eternità.

[J]Piacevole è la vista, mentre il nostro trasporto rotola giù tranquillo per la valle dell’ Adige.

[I]Ci infiliamo nella gola Dove la Vallagarina Vide in battaglia Cadere Sanseverino

[E]lasciamo sulla destra l’ antica Castelbarco, ascoltiam la tua torre, benedetto San Marco,

[E] suonare il primo rintocco della notte appena giunti a Rovereto, alle otto e trenta.

[K]Dopo la cena, freschi ed allegri, ci dirigiamo a ovest verso il battello sull’ Adige

[F]e qui, tra argini di giunchi fioriti, profondo, silenzioso, scor-revole il fiume sgorga

speciale concorso

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 135

[49]Carriage and all Across we float In broad flat-bottomed Lugger-boat.

[50]Dark though it be, Small fear have we, And Maestro’ s still Good company;

[51]And, part by signs, And part by looks, And part by words Picked out of books,

[52]Contrives to let us Understand He guides us through No unknown land;

[53]Guides us through Mori’ s Village rude: ‘ Twere picturesque By day-light viewed;

[54]Past Loppio’ s lake, With islands dotted; Past Loppio’ s rocks, With lichens spotted.

[G]Carrozza compresa Lo attraversiamo Su un ampio naviglio Con il fondo piano

[H]Anche se è buio, abbiamo poca paura, e il maestro è ancora di buona compagnia;

[J] E in parte con segni, in parte con sguardi, in parte con parole, prese da libri,

[E]trova il modo di farci comprendere che ci guida attraverso terre non sconosciute;

[G] Ci guida per Mori, Rustico borgo: «Sarebbe pittoresco Alla luce del giorno.»

[I] Oltre il lago di Loppio Di isole costellato Oltre i suoi scogli Di licheni disseminati

James Henry — Journey from Trento to Riva

[57]Our downward corse Is fair and free, From those drear heights To Torbole,

[58]Where, snugly moored In Morpheus’ arms, Lake Garda’ s boatmen Dream of storms.

[59]Hung on lines Their nets are drying, High on the strand Their boats are lying.

[60]Cross we then Hoarse Sarca’ s bridge, And turn Mont Brion’ s Jutting ridge.

[61]Where scantly may The strait road sweep, ‘ Twixt the deep lake And mountain steep,

[62]Overhead Hangs drearily The glimmering lamp Of a Calvary.

[63]From widow’ s cruse That lamp is fed, A widow’ s tears On that slab are read:-

[64]“Fellow-sinner, Bend thy knee, Fellow-sinner, Pray with me

[55]Where our passing Lamp-light falls On yonder gray Time-eaten walls,

[56]Awful from The rocky steep Frowned, Nago, once Thy castled keep.

[B] Dove al nostro passaggio la luce della lampada cade sulle pareti grigie mangiate dal tempo,

[G]Una volta il tuo mastio Merlato, o Nago, Scrutava giù torvo Dal colle roccioso.

[G] È libera e lieta La nostra discesa Dalle tetre alture Fino giù a Torbole

[D] Dove, ormeggiati al sicuro tra le braccia di Morfeo, i barcaioli del lago di Garda sognano di tempeste.

[G]Appese alle funi Si asciugan le reti, Sulla spiaggia giacciono In secca le navi.

[B]Poi attraversiamo il ponte dell’ aspra Sarca, e aggiriamo lo sporgente crinale del Monte Brione

[K]Dove l’ angusta via a mala pena si muove tra il lago profondo ed il dirupo roccioso,

[C]Sta appesa in alto triste la lanterna tremolante di un Calvario.

[K]Dal vaso della vedova la luce è alimentata, una supplica di vedova su quella lapide si legge

[A]“Compagno peccatore, Piega il tuo ginocchio, Compagno peccatore, Prega con me

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James Henry — Viaggio da Trento a Riva

Si ringraziano Beatrice Fabbri ed Emanuela La Grutta per la collaborazione.

Nota: Nella scelta dei contributi si è cercato di rappresentare tutti gli autori in

proporzione alle caratteristiche della loro traduzione.

Le parti in tondo sono nostri adattamenti. (rg)

[65]“For him that in The tempest’ s shock Foundering sank By yonder rock.

[66]Mother of God, The sailor save, On Lake Garda’ s Dangerous wave.”

[67]Two short miles more Run quickly past, And Riva safe We reach at last;

[B]“Per lui che in un colpo di tempesta andò, affondando, su quella roccia laggiù.

[J]Madre di Dio, salva il marinaio, sulle pericolose onde del lago di Garda”.

[E]Due brevi miglia ancora percorse velocemente e finalmente salvi raggiungiamo Riva;

[68]And just as cocks And clocks tell one, At Il Giardino Are set down,

[69]Where Maestro Monti Bids good night, And all to bed In weary plight.

[H]E appena come i galli e gli orologi segnano l’ una, a Il Giardino ci siamo stabiliti,

[D] Dove il Maestro Monti augura la buona notte, e stanchi morti tutti a letto ce ne andiam.

Di seguito, alcune strofe tradotte da Renzo Galli nel dialetto della Vallagarina di metà ’800, presumibilmente quello che avrebbe sentito James Henry durante il suo viaggio.

Lassem Trent ale zinque con en birocc a do girando ’n vers de Riva per nar en po’ pu al fresc.

Mi e la me sposa e cola fiola granda e col Maestro Monti Erem en quatro en tut

Na bona compagnia ne par de nar d’acord e per sie bone ore se ghe podria anca star

Se vegn da questionar come diss i poeti per massa sparlazar senza pensarghe su.

Noi no savem parole de Taliam Lu gnanca ’n po’ de Ingless e miga de Todesc.

E nol ga confidenza gnanca della Francesa che come na putela che se la fa con tuti

e la camina fazile per le strade d’Europa la ride e se la ciacola con tuti che i la ’ncontra

L’ è propi en bel vardar entant che l nos birocc el rugola piam piam zo per la val de l’Ades

Sta val la par butada, slanguida en vers del sol, soto i so ziei gentili.

Cole montagne alpine che ghe difende el cor da quei colpi de venti che vegn da su e da ’n là

E con mili rozate nutrìde dai ghiaciai le bévera i so campi la gira i so molini.

E le rinfresca l’aria l’ Istà quand’ che vegn l’afa; e le sona ’na musica che la ’ndolziss le rece

Chì le zime le è frede e nude Là le è cuerte da foreste de pini.

O cuerte da tapeti de tante varietà, en ’do che ’l gal zedron el pol far el so nif;

Chi i micascisti, el porfido pu ross e zime de granito le ciapa tut el ziel.

Là ’l marmo endormenzà

l’aspeta quela man, Che la ghe ofra el destro de star ne la so vita...

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IL FURORE DEI LIBRI 2013/9-10 137

Notizie dal furore

EvEnti dEl FurorE

poesia

All’ appuntamento primaverile con la Poesia la nostra Associazio-ne non ha mancato di essere pre-sente nel segno della tradizione ma anche della novità, almeno nella scelta di accostare poeti di genera-zioni diverse, e naturalmente di im-postazione e scelte tematiche e stili-stiche differenti, di sensibilità diffe-renti, accomunati dall’ impegno e dalla passione per le svariate forme poetiche che arricchiscono il pano-rama della poesia contemporanea.

Durante la serata, ospitata nella Sala Fondazione Caritro, il poeta roveretano Sergio de Carneri ha presentato il volume La conta dei nònesi, originale raccolta di liriche della classicità greca e latina tradot-te in italiano e in ladino nòneso, lingua “nativa” dell’ autore.

Non una innovazione o un tenta-tivo semplicemente “originale”, bensì una ricerca accurata che sor-prende per la ricchezza di richiami, assonanze, accordi potremmo dire “musicali” tra lingue che intreccia-no similitudini e “imparentamenti” non solo di termini e significati, ma soprattutto di ritmo e melodia.

A fare da contraltare, un giovane poeta di origini polacche, Dominik

Balazka, con la raccolta Versi divini edita da “la Feltrinelli” in cui le scel-te tematiche spaziano dal ricordo ai sentimenti più importanti come l’ a-micizia e l’ amore, ai momenti più significativi dell’ esistenza come la nascita, le prime scoperte del mon-do che ci circonda, la purezza dell’ infanzia.

È da sottolineare la notevole sicu-rezza nella scelta di una gamma lin-guistica che richiama i classici e propone la forza di versi non edul-corati o immediatamente accessibi-li, e che pertanto richiede una lettu-ra attenta ed approfondita.

Così dice Balazka: “La mia poeti-ca? Credo in uno stile immediato e spontaneo, ma sono soprattutto convinto che la rima deve restare solo l’ ultima delle tante risorse stili-stiche che un poeta ha a sua dispo-sizione. Sono un ateo e un narcisi-sta. L’ unica cosa in cui sono dispo-sto a credere per fede è l’ estetismo letterario di Wilde”.

Come in altri incontri dedicati al-la Poesia, la serata ha riservato spa-zio a coloro che hanno avuto piace-re di leggere una loro composizio-ne, e come sempre questo momen-to rinsalda il legame tra i soci del “Furore”, i soci di “Poesia 83” e di tanti altri appassionati.

Altri incontri, con la poesia come protagonista, sono la testimonianza che le relazioni e le collaborazioni tra il Furore dei Libri, il territorio, la cittadinanza e le attività che si ri-volgono a realtà di disagio e diffi-coltà rientrano nel nostro desiderio e impegno di promozione sociale.

L’ ultimo venerdì di ogni mese con “Punto d’ Approdo” proponia-mo la lettura e il commento di poe-sie scelte su proposta delle ospiti del centro e, in un clima semplice e conviviale, sosteniamo anche la motivazione alla loro libera espres-sione, valorizzando la lingua e la cultura di provenienza. ≥

prosa

Con “Rotary club” abbiamo ri-percorso i suoi ultimi 50 anni di presenza e di attività a Rovereto: non una commemorazione, ma il riconoscimento dell’ importanza del percorso svolto e la riconferma della continuazione di progetti nuovi nel futuro.

Ecco allora la prova tangibile di tale presenza del Rotary di Rovere-to e del Rotaract di Rovereto-Riva del Garda: il volume Il Sole di San-pa- la luce nel buio scritto dai ragaz-zi e edalle ragazze ospiti della Co-munità di San Patrignano di San Vito di Pergine con la guida dei gio-

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NOTIZIE DAL FURORE

vani del Rotaract e la collaborazio-ne di Riccardo Petroni che ha pre-sentato il libro - una raccolta di esperienze,rifessioni, pensieri acco-stati ai testi di canzoni tra le più co-nosciute e amate del repertorio dei cantautori italiani - ma che soprat-tutto ha illustrato la filosofia dell’ i-niziativa.

Serendipity, Il romanzo di More-na Pedrotti, autrice alla sua seconda opera, ci avvicina a un termine ingle-se ormai conosciuto, o meglio usato, ma forse non nella sua accezione più originale ed autentica: generalmente siamo portati a tradurre “…accetta con serenità, pazienza e anche sop-portazione ciò che ti capita”.

Non è precisamente il significato corretto: “serendipity” indica un e-vento, un qualcosa di positivo che arriva inaspettato, in forme e mo-menti della vita in cui ne abbiamo bisogno per dare una svolta alla no-stra esistenza, cambiare orizzonti o semplicemente punto di vista ri-guardo alla nostra esistenza; in-somma include l’ idea di “dono” e di “gratuità” sia che provenga da per-sone, incontri e addirittura luoghi.

Ma ora torniamo al romanzo, che sotto la superficie di un linguaggio e un fraseggio semplice e scorrevo-le, tocca temi intensi e spesso dolo-rosi della vita delle donne. È un ro-manzo “al femminile”, “sul femmi-nile” e “per il femminile”.

Attenzione, non voglio dire dedi-cato solo a un pubblico di donne, anzi! L’ universo complementare del

maschile è ben presente e non solo in veste di contrappunto o peggio di antagonista, bensì di ruolo di con-fronto, di scontro spesso, ma anche di collaborazione e fortunatamente anche di conforto, sostegno, valoriz-zazione, riconoscimento e condivi-sione degli aspetti più fondanti della psicologia femminile.

Accenno brevemente alla temati-ca forte e attualissima della storia narrata: il mobbing, molestie ses-suali (sexual malbehaviour), il disa-gio e la discriminazione ancor dif-fusi sul luogo di lavoro (…a tutti i livelli!) che inevitabilmente porta-no ad esiti negativi se non dramma-tici sia sul piano personale che oc-cupazionale – anche perdita del po-sto di lavoro – e quindi sociale.

L’ approccio di Pedrotti a tali te-matiche è una scelta ben definita e funzionale non solo alla narrazione ma, secondo me, è un messaggio positivo con cui l’ autrice invita i let-tori a “dischiudere” gli occhi sui rapporti e sulle relazioni tra generi e generazioni che intessono il no-stro vissuto in questi anni non sicu-ramente semplici.

Ci saremmo augurati un pubbli-co più numeroso per accogliere u-na scrittrice a noi vicina nel territo-rio (Morena è insegnante della scuola primaria), ma con svariati interessi culturali; la partecipazione è stata sentita ed ha acceso la curio-sità sulla “serendipity” e ciò è forse quello che si aspettava l’ autrice…

la Mostra itinerante di parole per strada 2012

La Mostra è partita in primavera: il suo primo scalo in Lombardia e Pie-monte: in quel di Varese, a Besozzo, quindi a Laveno, sponda lombarda del verdeggiante Lago Maggiore e per finire a Stresa, riva piemontese del Verbano, nell’ ambito della rasse-gna e concorso letterario “Giallo Stresa”.

Anche questa edizione itinerante ha preso avvio in modo positivo e gratificante per la nostra associazio-ne, in particolar modo per chi con piacere ed impegno si occupa della parte organizzativa e non solo.

Un ringraziamento va in modo particolare ai collaboratori “esterni”, i referenti sul territorio in cui la Mo-stra è stata presente, per la loro di-sponibilità, il loro lavoro di coordi-namento e, ça va sans dire!, la condi-visione degli intenti e delle finalità dell’ iniziativa giunta al suo terzo an-niversario: ancor giovane, eh... ma in buona salute e perciò con tanti anni davanti!

Tra le molte tappe vanno certa-mente ricordate Moltrasio sul Lago di Como con i pannelli distribuiti nelle strade e nelle piazze di quell’ in-cantevole borgo e una serata con gli autori che ha visto alternarsi le lettu-re dall’ Antologia “Camminando con...” agli interventi sulla scrittura e sul valore della lettura da parte di au-tori locali. Dal Lago alle Dolomiti nello scenario magico delle Terme di Comano. Parole per strada, invitata

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come ospite agli appuntamenti dell’ ormai classico “Trentino d’ Au-tore” che ospita scrittori celebri da tutto il mondo per una serie di in-contri culturali di qualità offerti ai turisti che visitano il Trentino. Qui ha potuto godere di un appuntamen-to dedicato ai “Libri che parlano di li-bri” condotto dallo srittore, giornali-sta nonché nostro socio, Carlo Mar-tinelli. Folta la presenza di autori di Parole per strada maanche del pub-blico, dei turisti e dei frequentatori delle Terme.

La mostra è stata così gradita che ne è stata prolungata la permanenza, così come la distribuzione dell’ Anto-logia.

Il Furore dei Libri ha potuto così av-viare una collaborazione con lAPT di Comano Terme e la rassegna “Trenti-no d’ Autore” che si prevede fruttuosa e di reciproca soddisfazione.

Dopo aver visitato Flavon, , Egna, Vadena, Bolzano e Ora (interessante e simpatico incontro/intervista agli autori presenti da parte degli alunni di due classi delle Elementari in visi-ta alla mostra), Parole per strada è stato ospitata per il secondo anno al-la biblioteca di San Michele all’ Adige e per la seconda volta ha potuto toc-care con mano la vivacità culturale e l’ interesse di quella comunità per la scrittura e la lettura grazie anche all’ opera del gruppo “In.pagina” del quale fanno parte anche alcuni auto-ri selezionati per la Mostra.❧

Maria Grazia Masciadri

Proprio ad Anna Tava, anima e all’ animatrice di “In-pagina” la-sciamo la descrizione e il commen-to della presenza di

parole per strada ai MerColedì lunari di MezzoloMbardo Le storie che camminano, quando sostano fanno facilmente amicizia con imprevisti lettori, che ringra-ziano per quella storia in più che li ha per un attimo catturati. La mo-stra “Camminando con…” de “Il Furore dei Libri” ha partecipato ai Mercoledì Lunari, un’ iniziativa del Consorzio di Promozione Mezzo-lombardo per stimolare la vita so-ciale e commerciale del paese of-frendo un giorno in settimana ne-gozi aperti in orario serale e mani-festazioni di vario genere a contor-no. Nelle cinque serate tematiche le associazioni locali collaborano af-fiancando le loro proposte a quel-le organizzate. Il Gruppo letterario In-pagina insieme all’ associazio-ne Arte Futuro ha quindi pensato di collocare l’ esposizione dei gran-di pannelli della mostra nella piaz-zetta dedicata all’ espressione arti-stica. L’ impatto visivo dei racconti scritti in grande e la piacevole sor-presa di ricevere in omaggio il libro che li contiene ha richiamato l’ at-tenzione di molti passanti e, come previsto, le storie hanno emozio-nato, regalando una riflessione, un sorriso, un ricordo. Quando la nar-rativa esce dai libri e ti raggiun-ge là dove non ti aspetti e ti rapi-sce con una frase scritta con peri-

zia, una metafora che sa illuminare il cuore, dà vita a un momento spe-ciale, da godere dentro di sé o da condividere con chi ti sta a fianco, un amico o uno sconosciuto, che come te si commuove o si rallegra. Sotto la luce dei lampioni e quel-la lontana della luna, fra la gaiezza delle passeggiate e delle chiacchie-re estive, le parole silenziosamente incantano.❧

Anna Tava

n rete Con il furore dei libri per fare Cultura assieMe.

aMiCi di parola

L’ Associazione Culturale “Amici di parola” promuove, valorizza e tu-tela la cultura letteraria e teatrale in ogni sua forma ed espressione, principalmente attraverso la lettura interpretata.

Produce spettacoli teatrali e occa-sioni di ascolto di opere letterarie sia in prosa che in poesia affidate al-la voce dei propri “attori-lettori” che si sono formati presso scuole qualificate.

L’ associazione collabora con sin-goli, organizzazioni ed enti che si prefiggano scopi simili o comple-mentari a sostegno di iniziative o e-venti volti alla divulgazione, al mi-glioramento e al rinnovamento dell’ offerta culturale.

Gli “Amici di Parola”, come sug-gerisce il nome stesso, amano la pa-rola scritta e parlata quale espres-

NOTIZIE DAL FURORE

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sione del linguaggio comunicativo, culturale ed artistico. Elemento di coesione fra loro è la volontà di continuare a coltivare e a realizzare i propri sogni e le proprie passioni. Insieme dal luglio 2008 quando è stata ufficialmente costituita l’ As-sociazione Culturale “Amici di pa-rola” in questi anni si è fatta cono-scere ed apprezzare a livello locale ma anche fuori regione.

Convinti assertori della ricchezza di messaggi (cognitivi, emozionali, sociali) che l’ ascolto di una voce impostata sa trasmettere, propon-gono letture sceniche a leggio (vale a dire “drammatizzate” o “teatraliz-zate” che dir si voglia, per far capire che – unitamente ad una corretta pronuncia – vengono comprese e trasmessi i sentimenti e le intenzio-ni degli autori o dei protagonisti delle opere.❧

Adelina Valcanover

gruppo poesia 83Fondato nel 1983 a Rovereto, il

Gruppo Poesia 83 è quest’ anno al suo trentesimo anno di vita.

Come primo presidente Antonio Bruschetti e con lui un gruppetto sparuto di nove soci, in lingua ed in dialetto Nel 1986 la nuova presi-denza a Italo Bonassi; il Gruppo i-nizia così ad arricchirsi di nuovi au-tori, anche non roveretani. Nel 1997, con l’ arrivo di un poeta bol-zanino e di due veronesi, il Gruppo non si chiama più ufficialmente Gruppo Poesia 83 di Rovereto, ma

semplicemente Gruppo Poesia 83, tanto più che intanto i roveretani diventano la minoranza.

Trent’ anni di incontri e tavole ro-tonde con associazioni gemelle e centinaia di letture nelle Bibliote-che, nelle Case di Riposo, nei Cen-tri Diurni, presso associazioni cul-turali, nei castelli, nei musei, nelle piazze. E, ogni anno, tre serate di poesie nell’ ambito del programma comunale Rovereto Estate.

E non solo nel Trentino, pure in Alto Adige, nel Veneto e in Lom-bardia, per incontri con associa-zioni gemelle. E una simpatica tra-sferta in Svizzera, patrocinata dalla Trentini nel mondo.

Un fiore all’ occhiello un bime-strale di poesia e critica contenente, oltre alle poesie dei soci, recensioni sui più grandi poeti e scrittori non solo italiani ma pure stranieri, i Quaderni, oramai al diciassettesi-mo anno di vita, stampati dall’ As-sessorato alla Cultura della Provin-cia di Trento. Duecento soci sim-patizzanti di diverse parti d’ Italia li ricevono ogni due mesi per posta e collaborano con poesie, racconti, recensioni, ed altro.

Altro fiore all’ occhiello il Premio Nazionale di Poesia “La Rondine”, giunto alla XV edizione, col patro-cinio dell’ Assessorato Provinciale alla Cultura, e che vede una larga partecipazione di concorrenti da tutta l’ Itala, sia in italiano che in dialetto, con una sezione per giova-ni: il Premio Nazionale Fabrizio Vaccari.

Le premiazioni si svolgono a Ro-vereto tra fine maggio e primi di giugno.

Nel frattempo il Gruppo ha pub-blicato quattro antologie, l’ ultima, per il trentennale, nel 2013.❧

Italo Bonass

italia - Moldavia L’ Associazione di Promozione

Sociale Italia-Moldavia-Onlus è un ente di volontariato impegnato nel-la cooperazione internazionale tra l’ Italia e la Repubblica Moldova (Moldavia). L’ Associazione, costitu-itasi a Besozzo (VA) il 20 Novembre 2002, è sostenuta ed animata esclusi-vamente da volontari senza alcun fi-ne di lucro che sviluppano progetti nei settori socio-assistenziali e cultu-rali. L’ obiettivo prioritario dell’ Asso-ciazione è la diffusione ed il soste-gno di progetti di aiuto per l’ infanzia tramite l’ adozione (sostegno) a di-stanza. Attualmente è presente con i suoi soci e sostenitori in diverse Re-gioni italiane, godendo dell’ atten-zione e della collaborazione di diver-si Enti Pubblici. Opera a Chisinau (capitale della Repubblica Moldova) tramite i suoi responsabili dell’ O.N.G. umanitaria “COPILUL”, fi-liale moldava dell’ Associazione. Nel corso degli anni ha realizzato diversi progetti in favore dell’ infanzia mol-dava più sfortunata, collaborando con le istituzioni moldave e con i più importanti ospedali pediatrici del Paese. In particolare ha sviluppato un progetto a sostegno dei bambini

NOTIZIE DAL FURORE

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malati di diabete mellito, una malat-tia che costituisce una vera e propria drammatica emergenza sociale in Moldova.

L’ Associazione di Promozione So-

ciale Italia-Moldavia (onlus) pro-muove inoltre sul territorio italiano la conoscenza della cultura e delle tradizione romene, traducendo e diffondendo testi di autori moldavi e

facilitando scambi e gemellaggi tra i-stituzioni culturali italiane e molda-ve. [www.italiamoldavia.org].❧

Gian Luca Del Marco

pEr la priMa volta con la rivista dEl FurorE

Meriam Al-Ghajariah Rovereto. In più di mezzo secolo di vita ha vissuto 21 traslochi (circa), in cinque Paesi (circa) e tre continenti (circa). Ama lavorare, viaggiare, chiacchierare e leg-gere. Scrive (poco) per amore o per rab-bia (come l’uccellino in gabbia). Vive a Rovereto da pochi anni e ne è innamo-rata.

Liliana De VenutoPugliese, insegnante e ricercatrice. I settori da lei esplorati riguardano tanto la storia del Trentino, dove da tempo si è trasferita, quanto l’arte e la devozione popolari. Sono usciti a stampa La Regio-ne dell’Adige, vol. primo, Storia del Trenti-no e dell’Alto Adige dalle invasioni bar-bariche alla fine del Medioevo (secoli V- XIV), Rovereto, Osiride, 1995; La Regione dell’Adige, vol. secondo, La prima età moderna. Quattrocento e Cinquecento, Rovereto, Ed. Osiride, 2004, in collabo-razione con F. Cichi; Devozione e santi sotto campana, Schena editore, Fasano (Brindisi), 1996, in collaborazione con Beatrice Andriano Cestari; Processo a Cattarina Donati (1709-1710). Un caso di santità affettata, Trento, U.C.T., 2001; Di-scorrere per lettera ... Carteggio Giuseppe Valeriano Vannetti – Giambattista Chia-ramonti (1755-1764), Trento, Civis, 2004; La moda maschile a Rovereto secc. XVII-XVIII, Trento, U.C.T., 2007. Ha partecipa-to a diversi convegni organizzati in ter-ritorio trentino e offerto contributi scientifici a riviste locali e nazionali.

Pelagio D’Afro Ancona. È uno scrittore collettivo compo-sto da Giuseppe D’Emilio, Arturo Fabra, Roberto Fogliardi e Alessandro Papini; è la “costola” di un altro autore multiplo: Paolo Agaraff. Ha pubblicato racconti in riviste e antologie, specie con il laboratorio creati-vo Carboneria Letteraria. Il suo primo ro-manzo, I ciccioni esplosivi (2009), è anche disponibile gratuitamente su liberliber.it; il suo secondo romanzo, L’acqua tace, è stato pubblicato nel 2013 da Italic-pe-Quod. (pelagiodafro.com)

Susanna Daniele Pistoia. Iscritta all’Ordine dei giornalisti. Collabora a numerosi periodici e riviste online. Nel 2004 ha iniziato a scrivere racconti gialli vincendo numerosi pre-mi. Autrice di due testi teatrali: Ai saggi la gloria, rappresentato nelle sale della bi-blioteca Forteguerriana di Pistoia, Mar-co Del Bucchia (2010), e Il ceppo fiorito, EdizioniAtelier (2012). Numerosi suoi racconti sono stati pubblicati in antolo-gie e riviste letterarie.

Igor De Amicis Teramo. Commissario di Polizia Peni-tenziaria, scrive di diritto per le riviste giuridiche de Il Sole 24 Ore, ha curato diverse raccolte di saggi giuridici. Per la narrativa ha pubblicato svariati rac-conti in antologie. Nel 2012 ha vinto il contest del Festival delle Letterature dell’Adriatico. Attualmente è uno degli autori dell’iniziativa YouCrime indetta da Rizzoli/Corriere della Sera.

Lucia DebiasiRovereto. Docente presso lo storico Li-ceo “Rosmini” con la passione dell’inse-gnamento della letteratura italiana. Col-labora con l’Archivio della Scrittura po-polare presso la Fondazione del Museo storico trentino, per il quale ha contri-buito a Le memorie di un trentino alla corte dello Scià di Persia a cura di Mir Gialal Hascemi.

Gian Luca Del MarcoBesozzo (VA). Da anni si occupa di vo-lontariato promovendo iniziative e pro-getti umanitari in favore dei bambini della Repubblica Moldova. Amante del-la lettura e dei libri al punto da dedicarsi anche alla loro “cura”, restaurandoli e ri-legandoli con passione.

Danuta Dobkowska Elk (Polonia) e Milano. Conseguito il di-ploma di studi superiori a Varsavia, ha lavorato come segretaria didattica negli istituti “Liceo Internazionale” e “Gonza-ga” di Milano. Attualmente in pensione, si dedica a tempo pieno ai suoi hobby preferiti: poesia, lettura, musica, teatro, viaggi, giardinaggio, medicina naturale, trekking.

Rahma Nur Roma. Nata a Mogadiscio, in Somalia, arrivata in Italia nel 1969, ha sempre vis-suto a Roma e dintorni e da circa vent’anni insegna in una piccola scuola primaria statale nel Sud Pontino. Scrive poesie fin dalla lontana adolescenza. Da

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qualche tempo scrivo racconti che par-tono dal suo vissuto tra due mondi cul-turali, l’Italia, paese che l’ha accolta all’età di cinque anni, e la Somalia, terra che l’ha vista nascere. Ha partecipato al concorso Lingua Madre 2012 e vinto il Premio Speciale Rotary Club per il rac-conto Volevo essere Miss Italia. Ha vinto il Primo Premio nel Concorso Scrivere Al-trove “Amici di Nuto” di Cuneo con il racconto Mamma Somalia.

Giacomo Radoani Trento. Studi classici con interessi stori-co-religiosi, gia’ insegnante e libraio per quasi 40 anni, ora, pensionato, si dedica alla ricerca.

Anna TavaMezzolombardo (Trento). Le piace che nome e cognome si siano fusi in anna-tava, il suo nome d’arte. Per lavoro si oc-cupa di pubblicazioni e di laboratori formativi, nel tempo libero pure. Colla-bora con il quotidiano “Trentino” e or-ganizza eventi culturali artistici. Vinci-trice e finalista in diversi concorsi lette-rari, ha pubblicato la raccolta di raccon-ti Assenze e presenze (Seneca), la raccol-ta poetica Sapessi (Uni-Service) e i ro-manzi Intenso (Temi) e Notte senza meta (Uni-Service).

Renato TrincoRovereto. Studioso di storia locale in particolare delle istituzioni religiose e civili ha pubblicato con l’editore La Gra-fica: La campana dei caduti. Maria Do-lens: cento rintocchi per la pace [con Maurizio Scudiero]; Il rifugio Vincenzo Lancia nel gruppo del Pasubio [con An-drea Bertotti e Antonio Sarzo]; Conven-tus. Scuola di democrazia palestra dell’e-tica; San Marco in Rovereto. La Chiesa ar-cipretale tra storia, arte e devozione.

Adelina ValcanoverTrento. Insegnante, ora in pensione, si dedica al teatro, come presidente

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dell’Associazione Culturale “Amici di Pa-rola”, oltre a tenere lezioni di dizione, cal-ligrafia e teatro anche nelle scuole. Ha due rubriche settimanali sul quotidiano on line “RagusaOggi”, scrive e racconta

storie, alcune pubblicate sul “Gazzettino Ibleo”. Ha preparato anche testi teatrali. Ha un romanzo per ragazzi nel cassetto che prima o poi conta di pubblicare col titolo provvisorio di Il viaggio di Isacco.

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L’ultima paginaa cura di Carlo Andreatta

Carlo andreatta

Stephane Hessel

S téphane Hessell l’indignato più vecchio del mondo, cer-tamente verrà ricordato per

un pamphlet che nel 2010 divenne un caso editoriale: Indignez-vous! (Indignatevi!).

Oltre quattro milioni di copie ven-dute in quasi cento Paesi; non pochi movimenti di protesta – dagli “Indi-gnados” ai ragazzi di “Occupy Wall Street” – hanno utilizzato come ma-nifesto questo libello corrosivo quanto liberatorio, nel quale Hessel si chiedeva dove fossero finiti i valo-ri trasmessi dalla Resistenza (al nazi-fascismo), si domandava se la socie-tà del XXI secolo avesse perduto i principi della giustizia e dell’ugua-glianza.

Indignatevi! ha provocato la rea-zione di Pietro Ingrao, politico e in-tellettuale italiano, quasi coetaneo di Hessel, il quale pubblicò il libro Indi-gnarsi non basta: Hessel rispose con Impegnatevi!, opera edita nel 2011, cui seguirono Vivete! (2012) e Non arrendetevi! (2013).

Chi era Stéphane Hessel? Nato a

Berlino il 20 ottobre 1917 da una fa-miglia di origini ebraiche, Hessel ar-rivò in Francia nel 1924. Si diplomò all’École Normale Supérieure di Pari-gi nel 1939. Seguì i corsi di Maurice Merleau-Ponty e quelli di Jean-Paul Sartre. Durante la seconda guerra mondiale fu tra i protagonisti della Resistenza francese, venne deporta-to nel campo di concentramento di Buchenwald dal quale riuscì a fuggi-re. Dopo la Liberazione lavorò come diplomatico al Segretariato Genera-le dell’Onu; fu tra i redattori della “Dichiarazione Universale dei Dirit-ti dell’Uomo” (1948).

I temi relativi alla libertà e alla di-gnità dell’uomo furono sempre cari a Hessel, in particolare quelli del di-ritto d’asilo e dell’accoglienza agli im-migrati.

Nel 2006 fu nominato Grand’Uf-ficiale della Legion d’Onore della Repubblica francese. Benché soste-nitore del Partito Socialista france-se, nel 2009 si presentò candidato al Parlamento Europeo in una lista ecologista.

Nel luglio 2012, con il sociologo Edgar Morin, Hessel pubblicò Il cammino della speranza: secondo il pensiero dei due intellettuali, amici di vecchia data, per lottare contro le ingiustizie del mondo contempora-neo è necessaria una partecipazione attiva da parte dei cittadini.

Hessel si è sempre esposto in pri-ma persona a favore dei diritti dei sans-papiers e non ha mai rinuncia-to a difendere la causa del popolo palestinese.

L’ex partigiano e deportato a Bu-chenwald ha pubblicato diversi libri (tra cui Danse avec le siècle, autobio-grafia, 1997; Dix pas dans le nouveau siècle, 2002), raccolte di articoli o di interviste, dialoghi a più voci (ad esempio Citoyen sans frontières, 2008) e un saggio relativo al suo grande interesse per la poesia (Ô ma mémoire: la poésie, ma nécessité, 2006, nuova edizione 2010).

Hessel – combattente lucido e co-erente fino all’ultimo respiro – è scomparso, a Parigi, nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 2013.❧

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l’ ultima pagina

Da Non arrendetevi!, con la collaborazione di Lluís Uría, Passigli Editori, Firenze 2013, pp. 47-48.

“Dobbiamo aprire un nuovo cammino. Abbia-mo bisogno di una visione costruttiva che sia capace di edificare un nuovo futuro. Per fare questo abbiamo bisogno di ambizione. L’ambi-zione che nasce dalla fiducia in noi stessi e dal coraggio. Non bisogna cadere nell’ottimismo di chi pensa che le cose si aggiusteranno da so-le, né nel pessimismo di chi crede che non ci sia nulla da fare. Dobbiamo essere ambiziosi. (…) Siate ambiziosi! Non arrendetevi!”.

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∏In Questo Numero

Raccontare la storia Narrare il fantastico Liliana De Venuto Susanna Daniele

Speciale «Parole per strada - Terra mia»

A braccetto fra i guai umaniSandro Disertori

La biblioteca di Antonio RosminiRenato Trinco

Strumenti da leggere, strumenti da guardareDiego Cescotti

Nicotiana TabacumGiuseppe Maria Gottardi∑

conversazioni bibliofile – libro chiama libro – rinvenimenti – biblioteca mon amour lo scaffale – il mestiere di scrivere – musicobibliofilia – il furore del rock

e [tra libro e gioco] – libri di confine – parlando di libri – topi di biblioteca andar per biblioteche – promuovere lettura – promuovere cultura

notizie dal furore – l'ultima pagina

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rivista dell’associazione culturale di promozione sociale «il furore dei libri»- amici della biblioteca -

anno iv - settembre/dicembre 2013 - quadrimestrale

numero 9-10

il furore dei libri - editore

ISSN 2282-8044

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