Numero 210 - Maschietto Editore · irettore Simone Siliani edazione Gianni Biagi, Sara Chiarello,...

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 210 277 25 marzo 2017 «I paesi del Nord hanno dimostrato solidarietà con i partner più colpiti, ma non puoi spendere tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuto» Jeroen Dijssekboem, presidente dell’Eurogruppo, ministro delle finanze olandese, laburista 2017 «Ho speso molti soldi per alcool, ragazze e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato.» George Best, calciatore nordirlandese 1974 Vogliamo anche le auto Maschietto Editore

Transcript of Numero 210 - Maschietto Editore · irettore Simone Siliani edazione Gianni Biagi, Sara Chiarello,...

Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

210 27725 marzo 2017

«I paesi del Nord hanno dimostrato solidarietà con i partner più colpiti, ma non puoi spendere tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuto»

Jeroen Dijssekboem, presidente dell’Eurogruppo, ministro delle finanze olandese, laburista

2017

«Ho speso molti soldi per alcool, ragazze e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato.»

George Best, calciatore nordirlandese

1974

Vogliamoanche le auto

Maschietto Editore

dall’archivio di Maurizio Berlincioni

immagine

NY City, Agosto 1969

La prima

Siamo sempre

nella zona di

Spanish Harlem,

in un primo

pomeriggio. Sono

rimasto colpito

dallo sguardo

fisso di questa

giovane ragazza

che sembrava

guardarmi con due

occhi pieni

di malinconia.

Era già più grande

della sua vera età

e nel suo sguardo

c’era al tempo

stesso un misto

di rassegnazione

e di durezza.

In quel quartiere

bisognava

imparare presto a

crescere in fretta.

Non ho neppure

provato a parlarle

perché mi sentivo

imbarazzato

e ricordo ancora

di aver provato

un certo disagio

mentre scattavo

questa immagine.

Direttore

Simone SilianiRedazione

Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Progetto Grafico

Emiliano Bacci

[email protected]

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Editore

Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142

Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Numero

210 27725 marzo 2017

In questo numeroDuprè a duecento anni della nascita

di Roberto Barzanti

Alle porte di Roma

racconto di Carlo Cuppini

Nynke, frisone e latina

di Alessandro Michelucci

Genetica e dintorni

di Mariangela Arvanas

Uno spazio per Bilenchi

di Cristina Pucci

Poesie-oggetto

di Laura Monaldi

I segni e la fotografia

di Danilo Cecchi

Stupore Abruzzo

di Rita Albera

NeoNato

di Claudio Cosma

La più antica casa di Parigi

di Simonetta Zanuccoli

Macron il candidato senza partito

di Michele Morrocchi

Zeffirelli for ever and ever

di Simone Siliani

Il velo è un simbolo religioso?

di Barbara Palla

e

Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Sara Chiarello, Abner Rossi, Gabriella Fiori....

Grandi uomini e grandi donne

Le Sorelle MarxL’intelligence piombinese

I Cugini Engels 

Addattornà Eugenio

Lo Zio di TrotzkyI numeri dello stadio

Il massaggiatore di Jascin 

Riunione di famiglia

Mandate i vostri [email protected]

PRIMA EDIZIONE 2017

premio letterario

Venghino signori,venghino

425 MARZO 2017

La targa apposta sulla facciata dell’abitazio-

ne della famiglia Duprè – nella Capitana

Contrada dell’Onda in Siena – rammenta

«ai figli del popolo a che riesca la potenza

del genio e della volontà». L’intento peda-

gogico – evidente nell’accoppiamento di ge-

nio e volontà – deriva da un’interpretazione

calzante della personalità di Giovanni Du-

prè, uomo geniale e sorretto da una capar-

bia volontà di riuscire. Fu lui stesso a

suggerire questa sorta di epitaffio,

scrivendo che Dio gli aveva dato

il talento e aggiungendo: «io ci

ho messo la volontà». Il miglior

modo per entrare nel mondo di

Duprè – se ne celebra il dugentesi-

mo dalla nascita – è leggere qualche pagina

almeno della sua autobiografia, il libro cui

affidò riflessioni che mischiano ritratti d’am-

biente con principi di poetica, spaziando da

Siena a Firenze, da Londra a Parigi. Uscito a

Firenze nel 1879 Ricordi autobiografici pro-

poneva anche riflessioni sull’arte, sugli indi-

rizzi prevalenti, sugli insegnamenti ricevuti.

Giovanni imparò fin da bambino dal padre

Francesco, fattosi intagliatore del legno dopo

non fortunate vicende economiche, l’amore

per un mestiere sostenuto da estro inven-

tivo e pazienza manuale. Duprè inizia

il suo zibaldone tratteggiando con de-

vota fierezza un quadro domestico e

un insieme di relazioni che furono

il fecondo terreno dal quale nacque

la sua vocazione. La famiglia dovette

trasferirsi a Firenze nel ’21, quando lui

aveva quattro anni, ma a Siena farà di tan-

to in tanto ritorno. È commovente il ricordo

di condizioni misere affrontate con sacrifici

e coraggio. La sera – dice Giovannino – il

babbo leggeva un librone latino che era per

lui fonte di insopportabile noia. La mamma,

Vittoria Lombardi, non di rado scoppiava in

lacrime, segnata per sempre dal dolore per

la perdita della figlia Clementina. La nascita

di Lorenzo e Maddalena avevano apportato

un po’di gioia, non certo più agio. Il padre

aveva preso a lavorare nella bottega di Paolo

Sani – ben apprezzata per le opere d’inta-

glio, ma per tirare avanti doveva fare la spola

tra Firenze, Pistoia, Prato e Siena. Giovanni

di Roberto Barzanti

Duprè a duecento anni della nascita

lo seguiva ubbidiente e curioso e se c’era bi-

sogno gli dava una mano. Per qualche tempo

Giovanni frequentò il corso d’ornato nell’I-

stituto d’arte di Siena e lì fece conoscenza

con altri intagliatori apprezzatissimi, quali

Antonio Manetti e Angelo Barbetti. Non

si capisce nulla dell’abilità dello scultore, se

non ci si sofferma sulle esperienze compiute

sotto la guida di questi maestri dimenticati,

detentori di una stupefacente sapienza arti-

giana. Proprio osservando le loro tecniche

sorse in Duprè la voglia di far qualcosa di

figurativo, che evitasse la ripetizione all’in-

finito dei soliti motivi vegetali.

L’opera rivelazione fu il famoso «Abele» che

suscitò un gran vespaio. Il modello in gesso

fu esposto nel 1842 all’Accademia fiorenti-

na e suscitò scalpore per il naturalismo con

cui il nudo era rappresentato: perfino i peli

sotto le ascelle! Alcuni altezzosi critici accu-

sarono l’autore di aver lavorato su un calco

dal vero. Così Duprè, che non sopportava le

chiacchiere maligne, fu costretto a far verifi-

care de visu in un pubblico confronto le for-

525 MARZO 2017

me della sua opera con quelle del modello

in carne e ossa che aveva posato per lui, un

certo Tonino Liverani, e smentì le perfide

osservazioni che gli erano state indirizzate

contro. A Siena fu promossa una sottoscri-

zione perché si eseguisse in marmo quella

statua già famosa: ma il marmo, appena

abbozzato, venne acquistato dalla duches-

sa Maria di Leuchtenberg, figlia dello zar

Nicola, che volle anche del ‘Caino’, portato

a termine nel 1847. Lo scandalo provocato

da queste due opere va messo in relazione

alle dispute sul naturalismo allora dilaganti.

Si disse che dentro le «scelte forme» natu-

rali si vedeva scorrere «un fremito di vita

calda,ardente», una virtuosistica sintesi tra

naturalismo e classicità. In effetti Duprè si

trovò spesso, anche personalmente, al cen-

tro di opposte tensioni. Nel periodo che va

dal 1852 al 1859 fu – forse per il tramite

dell’amico Luigi Mussini, molto influenza-

to dalle teorie francesi che esaltavano «l’art

pour l’art». Per un verso non aveva dimen-

ticato l’abbandonata lezione puristica, per

l’altro era attratto da un vigore plastico di

indubbia ascendenza classicistica, ma per-

vaso da un furore romantico e talvolta da

una delicata sensualità. Come oscillò in po-

litica, da liberale moderato filogranducale,

tra entusiasmi patriottici e ripulsa delle po-

sizioni estreme, così un certo sincretismo se-

gnò tutta la sua opera. Questa commistione

di stili evidenziava capacità tecniche non

comuni però non intessute con un’ispira-

zione unitaria. Talvolta egli stesso si mostra

autocritico dei suoi «sbandamenti», come

quando dichiara la sua insoddisfazione per

il Pio II collocato in ombra nella Chiesa di

Sant’Agostino: non era riuscito a combina-

re, confessa, arditezza e fedeltà. Uno dei

capolavori senesi è la «Pietà» della cappella

Bichi-Ruspoli alla Misericordia: lì Duprè

eccelle nella capacità di modulare in un’ori-

ginale sintassi di sapore classico un tema al-

tamente patetico, svolto però senza cedere a

effetti facili. Ma l’insuccesso del monumen-

to a Cavour, eseguito per Torino (1865-73)

è emblematico. L’uomo di Stato era ritratto

con acuto sguardo mentre l’Italia era rap-

presentata in forma di allegoria come una

donna derelitta che si prostra ai piedi del

diplomatico eroe. Quando mai una nazione

si affida alle virtù di un uomo? L’interroga-

tivo che accigliati critici gli scagliarono con-

tro coglieva sia la discutibile e apologetica

interpretazione politica che l’accostamento

di due chiavi – quella allegorica e quella

della ritrattistica – in conflitto tra loro. Ep-

pure, involontariamente, conteneva qualco-

sa di profetico. L’anno «Duprè duecento»,

orchestrato dall’Onda contribuirà di certo

a far meglio penetrare un’opera a volte li-

quidata come gelidamente mortuaria e ac-

cademica ed invece ricca di virtuosistiche

soluzioni, da scoprire con pazienza. Magari

soffermandosi su dettagli minimi, anche in

quella produzione alessandrina meno sog-

getta ai doveri imposti dalla committenza.

Non è forse inesatto notare una certa analo-

gia con la parabola artistica di un Carducci,

in vecchiaia approdato ad un’ufficialità pa-

ludata e solenne.

625 MARZO 2017

Lo Zio diTrotzky

In giorni di polemiche tra Stati Uniti ed Europa sul ruolo della

Nato, il nostro Paese ha deciso di dare l’ennesimo contributo

costruttivo. Non paghi di mandare un fior fiore di parlamenta-

re come Scilipoti un altro membro della delegazione italiana

all’alleanza atlantica si è fatto notare. Stiamo parlando del prode

Manciulli, che a cadenza più o meno regolare, ci racconta in una

newsletter gli sforzi suoi e dell’occidente per fermare il terrori-

smo internazionale. Intelligence, spionaggio, antiterrorismo i

temi dei suoi interventi. Verrebbe da pensare ad un esperto di

sicurezza. Ecco Andrea Manciulli lo scorso Natale ha deciso

di mandare i suoi auguri di Natale ad un gruppo whatsapp

costituito per l’occasione. Ha quindi selezionato i contatti dalla

rubrica e inviato i suoi auguri di buone feste. Fin qui niente di

male, peccato che abbia inserito nella lista, insieme immaginia-

mo agli amici delle elementari a Piombino, il premier Gentiloni,

l’ex premier Renzi, la sottosegretaria Boschi e mezzo governo.

Ecco l’esperto di antiterrorismo Manciulli non ha considerato

che i nomi e i numeri dei partecipanti al gruppo risultano visibili

a tutti gli altri. Difficile per una volta non concordare con Trump

sul bisogno di rivedere certi meccanismi alla Nato.

Le SorelleMarx

I CuginiEngels

Grandi uomini e grandi donne

L’intelligence piombinese

Addattornà Eugenio

Questa storia dimostra come dietro un grande

uomo c’è sempre una grande donna...

Il sole sta lentamente calando sulla prateria

del Texas. Una Range Rover arriva al ranch

Exhausted Oil sollevando una nuvola di

polvere. Scende un anziano signore con il

cappello da cowboy. Gli si fa incontro la

moglie Renda St Clair con una bella torta di

mele.

«Hello, my dear! Come è andata a Washin-

gton da quel mattacchione di Donald?»

«Ah Renda, ci siamo fatti delle gran risate:

voleva parlare del mondo, figurati! E poi ha

voluto sapere del petrolio, di come noi alla

Exxon abbiamo fregato l’Agenzia per l’Am-

biente e soprattutto come siamo riusciti ad

evitare di chiudere bottega dopo quel piccolo

incidente della Exxon Valdez del 1989».

Ah, ok Rex... ma tutto qui? Ti ha fatto fare un

lungo viaggio dal Texas a Washington per

parlare di queste stupidaggini? Non è che

mi nascondi qualcosa? Non so, qualche bella

bionda del tipo che frequenta lui?».

«No, Renda, giuro... In realtà alla fine mi ha

chiesto: Vuoi fare il Segretario di Stato per

me? Ma io gli ho risposto che sono troppo

vecchio e soprattutto che dopo aver fatto l’AD

della ExxonMobil non potevo certo accettare

un incarico così umile come quello di segreta-

rio. Ma poi, cosa è questo Segretario di stato?»

«Rex, ma sei rincoglionito? Ti ha chiesto di

fare il Ministro degli Esteri degli Stati Uniti

d’America e tu rifiuti? Ma sei suonato? Guar-

da, io te lo avevo detto che Dio non aveva

finito con te (cit.). Telefonagli subito e dirgli

che ci hai ripensato e che accetti!».

«Ma Renda, io ho da curare i miei cavalli qui

al ranch, devo andare a caccia, ho i nipotini

Quando c’era lui non sarebbe mai successo!

Signora mia, ma si tratta di un posto di lavoro?!? Di questi tempi…

Certo, cara signorina, ma quando c’era lui per giovani reporter era

una festa, un continuo ricevimento. Invece, adesso per fare un paio di

foto allo scoppio della colombina e ai ragazzi del Calcio storico? Due

biglietti omaggio per la fidanzata e l’amico, un posto in prima fila a

portata di cazzotto e poco più. Come farà a mangiare questo povero

fotografo professionista? Ma sarà un’esperienza che fa curriculum;

dopo tre anni, perché tanto dura il «contratto» potrà dire: io ho lavo-

rato con il Comune di Firenze che è stato retto da sua Maestà Matteo

e dal fido aiutante Dario. Farà parte, seppur di striscio, del giglio ma-

gico e magari… Vabbè, se la mettiamo così. Ma pensiamo al presente.

Ripeto, cara signorina, quando c’era lui almeno qualche tartina, un

prosecchino, due tramezzini si rimediavano, ora si muore d’inedia.

Addattornà Eugenio, senza di lui le Tradizioni popolari languono,

così come le pance degli addetti ai lavori.

Dialogo tra donne di strada dopo il bando del Comune di Firenze

per la ricerca di un fotografo da destinare agli eventi Tradizioni Po-

polari Fiorentine «senza alcun costo a carico dell’Amministrazione

Comunale». Bando poi ritirato, perché non era stato capito.

da seguire... Poi non ci capisco nulla di po-

litica estera: so come si fa a truffare il fisco o

ad estrarre petrolio, ma di politica estera... La

Nato? O cosa è?»

«Senti scemo, se Bush ha fatto il presidente,

anche tu puoi fare il Segretario di Stato! Per

la Nato non ti preoccupare: tanto non conta

nulla, pensa che quei mangiaspaghetti di ita-

liani ci hanno messo un deputato di Piombi-

no a guidare la loro delegazione! Vai, telefona

a Trump, senza tante storie!»

«Pronto Donald, senti mia moglie qui, Renda,

mi ha detto che dovrei accettare di farti da

Segretario e, sai com’è, a certe donne non puoi

proprio dire di no. Quindi sono pronto. Come

dici? Dobbiamo tagliare il budget di un terzo?

Va beh, che mi frega, se guardiamo ai conflitti

nel mondo, se accettiamo il fatto di continua-

re a non risolverne nessuno, allora il budget

può rimanere com’è (cit.), ma se per puro caso

se ne risolve qualcuno, allora si può anche

tagliare! Hai altre indicazioni da darmi? …

Sì, ho capito: gli europei bullshit, i Coreani

fuckoff, Putin great, Xi Jinping asshole. Per-

fetto, tutto chiaro.»

Così ha avuto inizio la folgorante carriera di

Rex Tillerson, nuovo Segretario di Stato di

Trump, già CEO della ExxonMobil.

725 MARZO 2017

disegno di Lido Contemorididascalia di Aldo FrangioniNel migliore

dei Lidipossibili

Toccata per sessant’anni di pace e per fuga britannica

Segnalidi fumo

Ai toscani piace l’automobile. Tanto che ogni

giorno l’80% la usa (insieme allo scooter) per

i propri spostamenti. E solo un modesto 13%

sale sul bus. Si arriva al 21% con i pendolari

del treno. Dati che emergono da un recente

sondaggio Ipsos sulla mobilità in Toscana. Di

certo ai noi non ci piace camminare: solo il

10% si sposta abitualmente a piedi; e ancora

meno (il 4%) in bici. Eppure, rispetto ai paesi

del Nord Europa, qui sarebbe ancora più facile,

se non altro per ragioni climatiche, anche se più

rischioso (ma qui si aprirebbe un altro discorso

sulla lungimiranza di chi ci governa). Fatto sta

che a salire sui bus sono le donne, gli studenti,

i pensionati e gli immigrati. Insomma, tutti co-

loro che non hanno un’alternativa. Sui perché

in così pochi usiamo il mezzo pubblico è facile

capirlo: è un servizio poco affidabile, si parte

quasi sempre ma senza sapere quando si arri-

va. Rispetto a Germania, Francia, Regno Unito

e Spagna, da noi il servizio pubblico funziona

peggio e costa di più. Abbiamo aziende troppe

piccole; un’ampia offerta rispetto ai pochi pas-

seggeri; una bassa produttività; lenta velocità

commerciale e alti costi operativi: 3,3 euro al

km. Mentre nel Regno Unito siamo ad un mo-

desto 1,8 euro/km e in Germania ai 2,8 euro.

Mediamente dalle nostre parti il servizio costa

il 16% in più. Da noi i ricavi coprono appena

il 30%, in Francia il 46%, in Spagna il 58% e

il 64% nel Regno Unito, per non parlare della

Germania dove si passa l’80%. Evidenti le con-

seguenze: per far viaggiare i bus le nostre casse

pubbliche devono sborsare 2,4 euro a km, ai

transalpini bastano 2,2 euro, agli spagnoli 1,7

euro, i tedeschi se la cavano con un modesto 0,9

euro/km, mentre nel Regno Unito i ricavi da

traffico coprono il 99% dei costi.

I toscani, interrogati da Ipsos, si dimostrano,

ancora una volta, gente di buon senso. E oltre

alle critiche - negli ultimi 2 anni, dicono, il

servizio è peggiorato – avanzano anche precise

proposte: migliorare la frequenza e soprattut-

to la puntualità, chiedono più informazioni e

con più tempestività (troppo lunghe le attese

alle fermate); un maggiore impegno nel con-

trasto l’evasione dei tanti che viaggiano senza

pagare. E, soprattutto, consigliano a gestori e

amministratori di farsi un giro in Europa per

imparare dalle migliori pratiche come gestire

in modo più efficiente questo servizio. Anche

perché, come abbiamo capito se funzionasse

meglio saremmo tutti più contenti. Facile a

dirsi, più difficile a farsi. Ma copiando forse si

può.

di Remo Fattorini

Il massag-giatoredi Jashin

I numeri del nuovo stadio3.111 giorni dalla presentazione al Four Season

il 17 settembre 2008;

3 sindaci;

2 plastici;

100 i giorni che servivano a Renzi per indivi-

duare l’area;

1 finale di Coppa Italia;

1 Patronno;

1 goal di El Tanque Silva su 12 presenze;

420.000.000 milioni di euro da trovare per

farlo;

5 allenatori;

1 i ricorsi al TAR presentati da Unipol Sai;

0 terzini destri comprati.

825 MARZO 2017

La Poesia Visiva saluta un altro grande pezzo

della sua storia: Mirella Bentivoglio si è spen-

ta all’età di 94 anni dopo una pluridecennale

attività di poetessa visiva e concreta, di critica,

di curatrice e di scrittrice, lasciando un segno

marcato nell’estetica contemporanea al femmi-

nile. Un’artista che ha saputo dominare l’opera

d’arte e la scena artistica con una profondità

intellettuale capace di travalicare i normali

modi di intendere la speculazione, riuscendo

a cogliere il presente nella propria intimità e

portando il fruitore a leggere la personalità

artistica al femminile come concretizzazione

di un percorso di ricerca specifico e lontano

da un Sistema dominato da dogmi e tautolo-

gie. Mirella Bentivoglio ha operato seguendo

i dettami dell’emancipazione e della trasgres-

sione, mettendo in risalto l’identità dell’artista.

Autrice, fin dalla prima giovinezza, di libri di

poesie in italiano e inglese a partire dal 1965 si

orientò verso una vivacissima sperimentazione

a metà strada fra il linguaggio verbale e l’im-

magine, legandosi ai movimenti poetico-visivi

delle neoavanguardie artistiche internaziona-

li, divenendone una protagonista indiscussa.

Dalle prime prove di Poesia Concreta ottenute

con l’uso del collage e delle tecniche grafiche,

passò alla Poesia Visiva e alla Scrittura Visuale

con fotomontaggi verbalizzati. Fin dagli anni

Sessanta elaborò una personale forma di poe-

sia-oggetto e, dagli anni Settanta, sperimentò la

performance, la poesia-azione e la poesia-envi-

ronment. Frequenti furono anche i suoi inter-

venti sul territorio, sempre di matrice linguisti-

ca, con grandi strutture simboliche inserite su

suolo pubblico, come l’Ovo di Gubbio, l’Albero

Capovolto, il Libro-campo. Nelle sue opere si

esprime il profondo interesse per le potenzia-

lità espressive del linguaggio e della scrittura,

tese allo svelamento di un codice che ritorna

a una purezza primigenia, a un senso primo

di esistenza e fondamento di ogni semantica,

ponendo il problema di alterare e moltiplica-

re i significati contemporanei, trasgredendo la

norma e mettendo in evidenza il netto divario

esistente fra significato e significante visuale,

ossia l’anello che non tiene fra due elementi

costruttivi che necessitano di una rivalutazio-

ne e di una lettura nuova e inedita. In tal senso

la poesia concreta le ha permesso di valoriz-

zare gli aspetti visivi della scrittura. Quella di

Mirella Bentivoglio è stata una vera e propria

celebrazione della cultura in senso antropolo-

gico, poiché pose al centro di tutto l’identità

del quotidiano con una prassi estetica decisiva

e dotata di una sensibilità unica.

di Laura Monaldi

AddioMirellaBentivoglio

Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

Poesie-oggetto

925 MARZO 2017

sman fiammingo Jan Willem Roy. Il succes-

sivo Alter (Fama, 2013) è prodotto da Javier

Limón, esponente autorevole del flamenco.

Artista sensibile e completa, Nynke si è dimo-

strata anche capace di spaziare altrove: per re-

alizzare Nomade (Fama, 2009) ha trascorso un

Il fado è una musica fatta di sentimenti intensi:

amore, passione, nostalgia. Le sue origini risal-

gono alla prima metà dell’Ottocento: secondo

alcuni sarebbe nato in Portogallo, secondo altri

in Brasile, ma comunque è strettamente legato

alla cultura lusofona. La voce è accompagna-

ta dalla guitarra portuguesa, che ha sei corde

doppie metalliche, e dalla viola do fado, una

chitarra classica che cura gli intrecci melodici

e ritmici.

Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo

scorso il fado ha guadagnato rilievo mondiale

grazie al talento di Amalia Rodrigues (1920-

1999), che rimane l’interprete più famosa.

Egemonizzato dalle figure femminili, il fado

viene oggi proposto da molte cantanti. Lo

documenta la bella antologia New Queens of

Fado (ARC, 2012), che propone brani eseguiti

da Mafalda Arnauth, Katia Guerreiro, Mariza

e altri. In tempi recenti questa forma espressi-

va ha attratto e ispirato anche numerosi musi-

cisti estranei alla cultura portoghese.

Pensiamo al chitarrista Marco Poeta, apprez-

zato anche dagli esperti più esigenti; al gruppo

Stockholm Lisboa Project, fondato da musici-

sti portoghesi e svedesi; a Natalia Juskiewicz,

violinista classica polacca, che ha registrato

l’insolito CD Um violino no fado (AIS, 2012).

Un caso particolare è quello di Nynke Laver-

man. La giovane cantante appartiene alla mi-

noranza frisone, stanziata nell’estremo nord dei

Paesi Bassi. Nata nel 1989 a Weidum, Nynke

compie gli studi a Leeuwarden. Il suo interesse

per la musica si manifesta molto presto. Dopo

aver vinto un premio regionale si trasferisce

ad Amsterdam, dove frequenta la Scuola di

arte drammatica. Dopo varie esperienze nei

media locali e nazionali pubblica il primo CD,

Sielesâlt (Fama, 2004). Il disco mette in luce il

suo interesse per il fado e per il flamenco, che

Nynke personalizza con testi in frisone: una

combinazione inedita e stimolante.

L’amore per il mondo latino viene confermato

negli anni successivi. In De Maisfrou (Fama,

2006) si apprezza il bandoneon di Walter

Hidalgo. Fado Blue (Rounder Europe, 2006)

è il frutto della collaborazione con Fernando

Lameirinhas, chitarrista portoghese, e col blue-

di Alessandro Michelucci

Nynke, frisone e latina

mese insieme a una famiglia di nomadi mongo-

li. L’influenza di questa cultura lontana è do-

cumentato dall’uso di strumenti a corda come

il doshpuluur e la yatga.

Ancora diverso è Wachter (Fama, 2016), il suo

lavoro più recente.

Qui l’ispirazione latina è sostituita da una mu-

sica più essenziale e più ritmata, ma non per

questo semplice né orecchiabile.

La strumentazione è scarna: affiancano l’artista

il marito Sytze Pruiksma, polistrumentista già

presente nei suoi lavori precedenti, e la violon-

cellista Geneviève Verhage. In «Jefte» la voce

si fonde con un ritmo incalzante, mentre nella

delicata «Ald mei dy» si apprezza il violoncel-

lo. Il testo di «Moarn», brano dissonante, è di

Tsjêbbe Hettinga (1949-2013), un importante

poeta frisone che aveva un forte interesse per

la musica. Hettinga era già comparso in Alter

poco tempo prima di morire.

L’elegante confezione in digipak, arricchita da

alcune foto, contiene i testi in frisone con tra-

duzione inglese a fronte. Questo permette di

notare le inattese somiglianze fra le due lingue.

A questo proposito, un chiarimento necessario.

Forse qualcuno si chiederà che senso abbia

cantare in una lingua che nessuno conosce al

di fuori del luogo di origine. Ma gli islandesi Si-

gur Rós sono diventati famosi in tutto il mondo

usando addirittura una lingua inventata; Ami-

ra Medunjanin (vedi n. 193) canta in bosniaco;

i Tinariwen cantano in tamashek, la lingua dei

Tuareg. Fortunatamente l’anglocentrismo non

ha contagiato tutto il pianeta.

MusicaMaestro

disegno di Massimo CavezzaliSCavezzacollo

1025 MARZO 2017

Hanno visto un animale alle porte di

Roma: un grosso felino, dicono, una pante-

ra. È stata avvistata da una dozzina di per-

sone in zone diverse della periferia. È scat-

tato l’allarme, hanno organizzato squadre

per trovarla. Non ci sono dichiarazioni

ufficiali, ma nemmeno smentite. C’è chi

minimizza, si dice già che sia una leggenda

urbana, non ci può essere una pantera alle

porte di Roma. Chi dice invece che c’è ec-

come, e la spiegazione sarebbe semplice:

scappata da uno zoo o da un circo, o forse

importata dai contrabbandieri per lo sfizio

di un miliardario eccentrico. In ogni caso

la pantera è stata avvistata, anzi il grosso

felino, anzi l’oscuro animale – perché, a

pensarci bene, ufficialmente nessuno ha

parlato di pantera, anche se questa è la

voce che circola – ma si sa come funziona-

no le voci, uno dice criceto e dopo mezz’o-

ra è un varano. Quel che è certo è che si

aggira di notte, ed è dello stesso colore

della notte, ed è silenzioso, ha passo felpa-

to, andatura elegante e sensuale; si tiene

alla larga dagli umani, però gira intorno

alle loro abitazioni e forse sta stringendo

un cerchio intorno a qualcosa. Forse ha

un pensiero, una strategia, dettata maga-

ri dalla fame; certamente dalla necessità

di divorare, distruggere, scardinare tutto

ciò che è stato edificato fin dalla notte dei

tempi, perché questa è la sua prerogativa

– perché sarebbe comparsa proprio nella

Città Eterna altrimenti? Sta battendo le

periferie di soppiatto, senza dare nell’oc-

chio, forse cercando un accesso invisibile

al cuore della città, per attentare selvag-

giamente al cuore della civiltà, per fare

una strage a colpi di artigli e di fauci in

pieno centro storico, sotto lo sguardo dei

turisti e dei bambini, dei finti centurioni,

all’ombra del Colosseo o in piazza Navo-

na, accanto alla fontana del Bernini – non

ci sarà artiglieria che tenga, né esercito né

carabinieri.

Un bambino che giocava a calcio accanto

alla sua baracca, nell’estrema propaggine

della città – dove nessun catasto ha mai

registrato il proliferare della miseria e dei

suoi moduli abitativi – all’ora del tramonto

ha visto la pantera a pochi metri da lui. È

sbucata all’improvviso, silenziosa e deci-

sa, da dietro un cumulo di rifiuti. Hanno

tenuto gli occhi negli occhi, il bambino e

l’animale, per lunghissimi istanti; il respi-

ro bloccato in mezzo alla gola, mentre la

palla rotolava lungo il pendio e si perdeva

nel fossato. Il bambino così immobile da

non riuscire neanche a pensare; la bestia

ferma allo stesso modo, il muso all’altezza

del suolo, lo sguardo protervo e scuro.

Dopo un tempo infinito gli sguardi sono

riemersi l’uno dalle profondità dell’altro.

Il bambino e l’animale hanno fatto un pas-

so indietro nello stesso istante. La pantera

lentamente s’è voltata. Il bambino è rima-

sto immobile a guardare il suo manto vio-

laceo che si allontanava piano.

Poi soltanto la notte è restata. E ancora è

lì che la guarda, quella notte, il bambino,

con gli occhi sgranati

di Carlo Cuppini

Alle portedi Roma

Il mondosenzagli atomiillustrazioni di Aldo Frangioni

Foto diPasqualeComegna

Il sole basso all’orizzonte

1125 MARZO 2017

del secondo tipo, che potrebbero sconfiggere

alcune malattie genetiche; certo ci sono rischi,

ad oggi, poco ponderabili; appunto per questo

sembra giusto parlarne perché è nel dialogo e

non nella censura che la specie umana evolve.

Interessante può essere anche l’applicazione sui

vegetali, dato che la mutazione genetica si pone

in questo caso, a differenza che per gli OGM

come semplice correzione e non come intro-

duzione di altre sequenze estranee di DNA e

poi perché si può operare sull’antagonista, sui

parassiti, come per esempio sulla zanzara por-

tatrice della malaria, modificandone appunto

questa caratteristica. Comunque l’intelligenza

umana e anche quella dei batteri, ad onore del

vero, ci sorprende felicemente in queste scoper-

te e certo non c’è niente di male se le migliori

«teste» si dedicano alla scienza in modo fecon-

do, però ce ne sarebbe bisogno almeno un po’ di

più anche sulla scena politica attuale.

Ripensando alla pessima campagna della mini-

stra Lorenzin a favore dell’ampliamento delle

nascite e alla constatazione statistica del forte

calo della fertilità maschile per diverse cause,

tra le quali spicca l’inquinamento, viene da

pensare che una fondamentale promozione

delle nascite, oltre all’eliminazione dei fattori

socioeconomici che ostacolano la procreazione,

sarebbe la messa in opera di un grande, profon-

do risanamento ambientale.

Insomma, si sente la necessità di un’intelligenza

politica all’altezza dell’attuale capacità di ricer-

ca e scoperta scientifica. Solo come auspicio, per

il bene comune.

Geneticae dintorni

Si chiama Crispr/CAS anche se il nome inte-

ro sarebbe molto più impegnativo (Clustered

Interspaced Short Palindromic Repeats) ed è

un sistema mirato e a basso costo finalizzato a

correggere il DNA; se ne contendono la mater-

nità due scienziate Jennifer Doudma, docente

di biochimica all’Università di Berkeley ed

Emmanuel Charpentier, che hanno pubblica-

to uno studio su Science nel 2012 e il giovane

ricercatore americano di origine cinese, legato

ad Harvard, Feng Zhang, anche se è doveroso

ricordare che già alcuni anni prima Daniel An-

derson, ingegnere chimico al MIT era riuscito

a correggere un gene difettoso nel fegato di un

topo adulto con questo sistema ed altri prima di

lui avevano individuato nei batteri analoga ca-

pacità di intervento sul DNA.

Si parla di questo metodo come di una forma di

editing genetico, ovvero di un sistema, basato

su enzimi che opera sul DNA come un effica-

ce correttore di bozze che va a ricercare in ogni

parola scritta l’errore individuato, lo elimina e

ripristina la forma corretta in modo semplice e

mirato. Con questo sistema potranno con ogni

probabilità essere combattute in un prossimo

futuro malattie come la distrofia muscolare,

forme tumorali, malattie genetiche come la be-

ta-talassemia, oltre a facilitare la possibilità di

trapianto di organi da animali.

È curioso che il sistema sia ispirato a quanto

già naturalmente riescono a fare alcuni batte-

ri ovvero, integrare, ad ogni attacco di virus,

frammenti del DNA del nemico in modo da

rendersi immuni successivamente; un sapiente

metodo di taglia, copia e incolla che migliora

sensibilmente le possibilità di sopravvivenza.

Tra i batteri capaci di tanta raffinatezza vi è

anche quell’Escherichia Coli che vive nell’in-

testino di diversi animali e dell’uomo, il quale

ne espelle notevoli quantità con le feci; proprio

vero quel che diceva Fabrizio De André «dai

diamanti non nasce niente, dal letame nascono i

fior» e anche molto di più.

È giusto ricordare che Crispr, che potrà arriva-

re ad essere utilizzato dalla medicina di base

probabilmente tra almeno una decina d’anni, è

utilizzabile sia per la prevenzione e cura delle

malattie su un singolo individuo e fino a qui non

ci si imbatte in particolari problematiche bioeti-

che, sia su embrioni fecondati e qui si apre in-

vece un terreno di difficoltà oggettive perché in

questo caso la correzione delle bozze va a finire

nell’evoluzione della specie senza che si sappia

con precisione quali possano essere tutte le rica-

dute e conseguenze. Si sa che in Cina e in Gran

Bretagna sono in atto sperimentazioni anche

di Mariangela Arnavas

Una selezione di quadri databili dal 1940 fino

ai primi anni novanta di Vinicio Berti è espo-

sta, fino al 7 aprile, alla Gallerie Zetaeffe (via

Maggio 47/r Firenze) La mostra rende omaggio

ad un grande artista e alla memoria della sua

compagna Liberia Pini, di cui sarà presente un

dipinto a testimonianza della sua figura umana

e professionale e della sua presenza, che in vita

ha da sempre sostenuto e tutelato il lavoro del

grande artista fiorentino.

Vinicio Berti dal realismo di guerra all’astrattismo classico

1225 MARZO 2017

nato a Colle ed aveva mantenuto un forte

legame con questa città e le persone che vi

conosceva, queste, a loro volta, lo ripagava-

no con altrettanto calore e grande stima.

Contini lo definì «il più grande narratore

orale»: amava accogliere, discutere con la

sua bella voce tonante e la sua ecceziona-

le arte affabulatoria, sentirsi circondato da

presenze ed affetti. L’altra nipote di Maria

ricorda come Romano avesse la capacità di

farti sentire al centro dell’attenzione, anche

se poi era sempre lui a parlare. Le due stan-

ze in angolo che espongono una parte dei

suoi tanti libri e tutti i quadri mantengono

il fascino dell’appartenenza, dell’essere stati

amati e «vissuti», essere stati scelti, sistema-

ti, sfogliati, anche un pò affumicati ed in-

trisi della nicotina delle tante sigarette che

Bilenchi fumava. In alcuni scaffali davanti

ai libri sono sistemati dei piccoli quadretti,

proprio, forse, come nella casa di via Bru-

netto Latini 11, a Firenze, in alto un ritrat-

to di Maria, opera di Grazzini, in mezzo a

due del marito, uno di Chiti, uno di Rosai.

Concludo con Platone «l’anima si cura con

certi incantesimi, e questi incantesimi sono

i discorsi belli», chi meglio dei nostri grandi

scrittori?

Dopo 20 anni di restauri apre il Museo di

San Pietro a Colle Val d’Elsa, ingloba Mu-

seo Civico e Diocesano, Collezione del

Conservatorio di S. Pietro e del Monastero

di S. Caterina e Maddalena, Biblioteca e

raccolta d’arte di Romano Bilenchi, di cui

parlerò, e quella dell’artista Walter Fusi.

Duemila metri quadri e più di duecento

opere raccontano la storia di questo bel pae-

se e della sua gente, dai Longobardi al Nove-

cento. Folla ovunque, un evento importante

evidentemente, fierezza e soddisfatta emo-

zione delle varie persone che vi hanno de-

dicato impegno e passione superando i tanti

momenti di scoraggiamento, inevitabili in

un lungo percorso. I ringraziamenti hanno

troppo poco sottolineato la generosità della

signora Maria Ferrara, rappresentata da due

nipoti presenti, che ha donato al Comune la

imponente Biblioteca del marito, Romano

Bilenchi, grande scrittore ed uomo dal po-

tente fascino dialettico, con manoscritti ed

epistolari, nonchè l’importante insieme di

disegni e quadri, frutto, come sottolinea una

delle nipoti della signora, non di passione

di collezionista ma dell’affetto costante e

sollecito dei suoi amici più cari che gliene

facevano dono, per l’appunto artisti del ca-

libro di Rosai, Maccari, Venturino Venturi,

Caponi, Chiti Batelli, Capocchini, Marcuc-

ci, Manfredi, Moses Levy. Oltre il valore e

la bellezza di questi lavori è bella la storia

che essi narrano, una storia di intellettuali

ricchi di vitalissime emozioni e pensieri, di

parole dette, scritte e raffigurate, di scambi

epistolari, di incontri, discussioni e, a volte,

sanguigni ed originali dibattiti. Oltre che

con gli amici pittori Bilenchi aveva stretti

e calorosamente vivi rapporti con gli amici

scrittori, primo fra tutti Vittorini. I volti e le

gesta sue e di questi amici famosi e di altri

meno noti, ma non meno importanti per lui,

sono narrati in uno dei suoi libri, «Amici»,

in esso il mondo intellettuale della Firenze

degli anni ‘30 con il fiorire di riviste lette-

rarie che entreranno nella Storia e, grazie

al racconto delle sue personali vicissitudini

di vita e politiche, il periodo storico in cui

avvengono. La professoressa Claudia Cor-

ti, presidentessa della Associazione «Amici

di Romano Bilenchi», mi dice che la parola

Amici nel loro nome vuole proprio sottoli-

neare come l’amicizia sia stata parola chiave

della vita e dell’opera di Bilenchi. Dice an-

che che la scelta di Maria Ferrara di donare

il tutto a Colle Val D’Elsa è stata, oltre che

generosa, molto intelligente, Romano era

di Cristina Pucci

Uno spazioper Bilenchi

Romano Bilenchi e Maria Ferrara

Ritratto di Romano Bilenchi di Mino Maccari

1325 MARZO 2017

line teramane. Avevo allora otto dieci anni

e la mia prima macchina fotografica era una

scatolina di plastica che quando scattava fa-

ceva «ssdang» come una trappola per topi.

Seguivo mio padre e desideravo sorpren-

derlo .Guardavo dove guardava lui, ma cer-

cavo anche altrove e ricordo che passando

sotto un maestoso cipresso mi misi sotto di

esso e alzai il naso all’insù. Ecco non avevo

mai visto un albero da quell’angolazione e

mi piaceva, mi piacevano quei rami a rag-

giera. Feci la foto, la mia foto . Da allora è

andata così tra padre e figlio, un percorso

parallelo ma autonomo. Se in Piero è la ri-

cerca di una tessuta armonia di cielo e terra,

Pasquale cerca la geometria che il paesag-

gio nasconde e rivela. Una linea, una o più

linee continue, rette o curve, comunque

nette, chiaramente catalizzatrici di armo-

nia, di bellezza. Geometria come misura

della terra ma anche della terra scrittura,

linguaggio arcano. E ancora dalla campa-

gna spostandosi alla città la geometria delle

ombre , l’incastro dei muri, l’astrattismo di

certe architetture viste da troppo lontano

o troppo vicino, le linee urbane,le rughe di

un vecchio o le pieghe di un infante. Per

entrambi, in modo diverso, ciò che conta è

l’autenticità dell’esperienza, la verità dell’e-

mozione. «Una foto –è sempre Pasquale a

parlare- è uno scatto di ciò che è visibile,

ma se ci si è posti in ascolto, se l’alchimia

tra ciò che si è ed il resto è buona, allora si

può riuscire a ritrarre ciò che non è visibile

eppure è».

Di Piero e Pasquale Angelini si ricordano i

molti contributi alla più importanti riviste

fotografiche e di viaggi come Touring club

e National Geografic Magazine, Airone,

Bell’Europa, Bell’Italia. Mostre tematiche

sono state ospitate a Berlino,Milano,Firen-

ze,Roma. Molti i libri fotografici di grande

formato come «Stupore Marche»,«Stupore

Abruzzo», «Gran Sasso,emozioni e immagi-

ni».

«La bellezza sta negli occhi di chi guarda»

sono le parole di Goethe che ti tornano in

mente mentre ammiri le immagini scattate

da Piero e Pasquale Angelini raccolte nel

volume» Stupore Abruzzo» che fa seguito

alla mostra esposta prima a Pescara e poi a

Teramo. Piero e Pasquale Angelini , padre

e figlio entrambi fotografi, entrambi giun-

ti alla fotografia per coincidenze affettive

come accade spesso nelle scelte più fortu-

nate e devote. Piero racconta che le prime

foto a destare il suo interesse erano state le

immagini in un bianco e nero sfocato dal

tempo scattate durante il viaggio di nozze

dei suoi genitori intorno agli anni trenta.

Foto maldestre che però tramandavano di

quel tempo attimi di giovane felicità. Dopo

per Piero seguirono le prime esperienze con

macchinette di poco conto fino a al prestito

di una prestigiosa Rolleicord con la quale

cominciò a provarsi in un linguaggio più

professionale discutendo di termini tecnici

come diaframmi, profondità di campo, ve-

locità di otturazione … Ma assai più dell’ac-

quisizione di una complessa formazione

tecnica seppure tutta autodidatta in Piero

ha contato una svolta sentimentale, l’inna-

moramento per un luogo, un’emozione, uno

stupore appunto . L’incontro con la maesto-

sa bellezza della grande montagna, il Gran

Sasso che domina con il suo alto profilo la

campagna teramana. Erano gli anni Sessan-

ta, gli anni del suo trasferimento dalla natia

Ascoli a Teramo per motivi di lavoro e Pie-

ro ricorda ancora con emozione come già la

prima mattina nella nuova città, la monta-

gna gli apparve in tutto il suo nitido splen-

dore Da allora divenne naturale da solo o

con amici, come lui cacciatori di immagini,

percorrere sentieri solitari, inoltrarsi nel

boschi, arrampicarsi per balze scoscese per

fermare in uno scatto quello che vedeva ma

forse sarebbe meglio dire quello che sapeva

vedere,intuire,afferrare. Verdi sinuose colli-

ne, casolari abbandonati, solitarie abbazie,

abbacinanti nevai, acque limpide e dovun-

que silenzi. E dovunque questo senso che

solo qui c’è di un paesaggio che corre, corre

dalla montagna alta verso il mare che quan-

do appare è sempre fotografato da lontano

come un miraggio

Ugualmente «romantico» il percorso del

figlio Pasquale, l’ammirazione emulazione

per il padre e il sentimento precoce della

bellezza. «I miei primi ricordi – racconta -

risalgono alle passeggiate di domenica mat-

tina con mio padre lungo i crinali delle col-

di Rita Albera

Stupore Abruzzo

Foto di Pasquale Angelini

Foto di Piero Angelini

1425 MARZO 2017

Macronil candidato senza partito

Ammesso che si possa ancora credere ai

sondaggi, per la prima volta il candidato

«indipendente» Macron appare in testa

alle rilevazioni statistiche e dunque favori-

to per l’Eliseo alle Presidenziali francesi di

quest’anno.

Ammettiamo dunque che i sondaggisti, per

questa volta, abbiano il polso di qualcosa di

più di un ristretto campione statistico in-

vecchiato e infedele, e ci azzecchino. Come

potrebbero andare le cose? Macron potreb-

be affrontare il doppio turno contro la Le

Pen, e complice la chiamata delle forze re-

pubblicane contro il populismo potrebbe

vincere. Non certo con le percentuali di

Chirac contro il vecchio Le Pen nel 2002

Ma comunque vincere e diventare presi-

dente della Repubblica. Cosa accadrebbe

però dopo?

Qui viene il bello, in Francia infatti la ri-

forma del 2002, ha, di fatto, impedito la

coabitazione tra presidente di un segno

politico ed esecutivo di un altro, facendo

coincidere il tempo della presidenza con

quello del parlamento. Le elezioni politiche

quindi seguiranno di pochi mesi l’elezione

di Macron all’Eliseo. Macron però non ha

un partito. Il suo vecchio partito, i socialisti,

lo considerano (lo hanno sempre conside-

rato) un corpo estraneo, non troppo a torto.

In Inghilterra starebbe tra i Liberali proba-

bilmente, in Francia, dove i liberali sono

rari quasi quanto da noi, sta in un limbo.

Ecco questo limbo quanti deputati avrà?

Ci potremmo quindi trovare nel caso di un

presidente votato proprio perché senza un

partito che avrà una difficoltà enorme a go-

vernare proprio perché senza un partito.

Va infatti ricordato che il modello elettorale

francese prevedendo il doppio turno di col-

legio, favorisce proprio i grossi raggruppa-

menti politici, i partiti organizzati. Dunque

Macron rischia, proprio per la natura della

sua candidatura, di essere un presidente

zoppo. Un argine immediato per il populi-

smo, un alleato di questi ultimi nel medio

lungo periodo. Cosa farebbe infatti un elet-

torato deluso prima dai conservatori, poi

dai socialisti ed infine dall’indipendente?

Per questo su queste colonne mesi fa ripor-

tammo un testo ed un dibattito tutto fran-

cese sul ritorno al proporzionale. Non tanto

per una passione per un sistema elettorale

rispetto ad un altro, ma per la necessità di

affrontare davvero il tema della rappresen-

tanza, dei corpi intermedi, dei partiti poli-

tici. La politica carismatica, il leaderismo,

l’uomo solo al comando hanno rappresen-

tato in questi anni la risposta che destra e

sinistra tradizionali hanno dato alla perdi-

ta di peso dei soggetti collettivi, alla man-

canza di ragionamento comune, di idee, di

modelli. Una risposta che ha determinato,

inevitabilmente, una reazione delle masse

che hanno esasperato il concetto affidan-

dosi sempre più a capopopoli, demagoghi e

reazionari fascistoidi.

Il problema non è soltanto europeo. Le ul-

time elezioni statunitensi hanno mostrato

come il limite maggiore di Obama sia stata

la non costruzione di una successione. Pre-

sentarsi 8 anni dopo con la candidata che

aveva perso le primarie proprio contro Oba-

ma, che in sovrappiù era anche la first lady

di un presidente dei primi anni ’90, non è

apparso all’elettorato USA un segnale di

forza. Il fatto che il suo principale sfidante,

all’interno dei Democratici, fosse un arzillo

settantenne non migliora le cose. Tanto che

oggi si fatica anche solo ad intravedere uno

o una sfidante a Trump.

La mancanza di una classe dirigente, di

un partito sono un limite che il consenso

personale, la legittimazione dal voto popo-

lare (episodico) non bastano a supplire. Si

possono vincere le elezioni con percentua-

li importanti ma senza un’azione politica

conseguente e radicata a quelle successive

si perde e si perde, molto spesso, a favore

delle forze populiste.

Il rischio, per tornare a Macron, appare

evidentissimo e una campagna elettorale

impostata, gioco forza, tutta contro l’establi-

shment non renderà semplice dover gover-

nare con l’appoggio di quei partiti, in par-

ticolare i socialisti, di cui oggi ci si è posti

come superatori.

Senza quindi rimpiangere i tempi in cui era

meglio avere torto col partito che ragione da

soli, anche il caso francese imporrebbe una

riflessione e una ricerca non tanto del lea-

der carismatico, ma di quel soggetto colletti-

vo, di quella casa comune, di quel moderno

principe (in tempi in cui tutti dicono di tor-

nare a Gramsci), che seppur non fine in sé,

non sia soltanto un mezzo per raggiungere

il potere.

di Michele Morrocchi

1525 MARZO 2017

cepiti come un insieme di stimoli che creano

l’effetto (illusorio) di essere di fronte all’oggetto,

ancora prima di essere percepiti come segno di

qualcos’altro. Le ipoicone rappresentano una

buona approssimazione della realtà, e perfi-

no dei miracoli di realismo, ma la loro natura

rimarrà sempre illusoria. La pretesa perfetta

somiglianza fra le «immagini fotografiche» e le

«immagini della realtà» impedisce di estrarre

significati propri dalle prime, perché si tratte-

rebbe della semplice «ripetizione» dei signi-

ficati già presenti nelle seconde. Le immagini

fotografiche non sarebbero quindi in grado di

costituirsi come «linguaggio» e di veicolare si-

gnificati propri, mentre ad esempio il cinema

si costituisce come linguaggio, ma ciò diventa

possibile solo grazie al montaggio ed alla acqui-

sizione di altri linguaggi come il sonoro. Nella

sua «Critica dell’Immagine» o dell’iconismo,

Eco individua ben dieci diversi «codici» relati-

vi alle immagini (percettivi, di ricognizione, di

trasmissione, tonali, retorici, stilistici, di gusto e

sensibilità, e perfino dell’inconscio, compresi i

«codici iconici» ed i «codici iconografici»). Ma

le immagini fotografiche sembrano non avere

accesso a tali codici. In uno dei suoi ultimi in-

terventi Eco conferma ancora una volta che, se-

condo lui, l’immagine fotografica non è affatto

«una forma di segno». Essa non è altro che ma-

teria di espressione, come la voce, con la quale

si possono costruire oggetti semiotici come le

parole. La voce (come la fotografia) non è una

categoria di segni, ma una materia che produce

sostanze e forme diverse. Anche Umberto Eco

(come Roland Barthes) rinuncia a porsi dalla

parte di chi produce le immagini fotografiche,

citando una sua disastrosa esperienza compiuta

all’inizio degli anni Sessanta, quando, alla fine

di un viaggio, dopo avere scattato numerose fo-

tografie, riuscite male, si rese conto di non avere

osservato e memorizzato praticamente niente,

concludendo «Ero troppo occupato a fotografa-

re e non ho guardato».

Naturalmente, in tutti i casi, si tratta esclusi-

vamente di convinzioni personali, non ancora

dimostrate.

Il segno e la fotografiaDal punto di vista della semantica l’oggetto

«fotografia» ha sempre costituito un dilem-

ma, fino dalla nascita della semantica stessa.

Charles Sanders Peirce (1839-1914) nasce,

per una strana coincidenza, nello stesso anno

in cui viene divulgata la scoperta di Daguerre,

e non ha dubbi sul fatto che le fotografie siano

da considerare dei «segni». Talvolta le chiama

«indici», considerandole una «traccia» degli og-

getti, ma conviene che funzionano altrettanto

bene come «icone» avendo con l’oggetto una

notevole «somiglianza», e che funzionano bene

perfino come «simboli». Tuttavia finisce per

incasellarle come «Sinsegni Indexicali Dicise-

gni», in quanto forniscono informazioni fattuali

circa ciò che raffigurano, anche se premette che

è sempre difficile incasellare un segno in ma-

niera definitiva.

Secondo Roland Barthes (1915-1980) invece

«La fotografia è un messaggio senza codice, poi-

ché anche se è vero che nel passaggio dall’ogget-

to all’immagine vi è una riduzione, di propor-

zione, di prospettiva e di colore, tuttavia questa

riduzione non è mai una trasformazione, ed i

segni che costuitiscono l’immagine fotografica

non differiscono sostanzialmente dall’oggetto

che essi offrono in lettura. Per questo fra l’og-

getto e la sua immagine fotografica non è affat-

to necessario disporre un collegamento, cioè un

codice.» Essendo le fotografie dei segni senza

codice, si tratterebbe quindi di falsi segni, ai

quali l’emittente (il fotografo) assegna un signi-

ficato, mentre il destinatario (l’osservatore) può

assegnare loro un significato diverso. E questo,

se vogliamo, non è un problema circoscritto alla

sola fotografia, ma a tutto il sistema della «co-

municazione» di tipo «artistico».

Umberto Eco (1932-2016) nega alle fotografie

lo statuto di «segni» considerando le immagini

fotografiche come dei segni-traccia che man-

tengono con il proprio oggetto un rapporto par-

ticolare, simile al rapporto di causa ed effetto.

Le immagini fotografiche essendo dei segni né

arbitrari né pienamente convenzionali, sareb-

bero da escludere dalla cerchia dei fenomeni

semiosici, collocandoli al confine fra il campo

semiotico e quello extra semiotico, a metà fra

segno e non segno. La modalità di approccio

alle immagini fotografiche avviene per semiosi

di base, non considerandole come significan-

ti di un segno, ma percependole per stimoli

surrogati, non riconoscendovi l’espressione di

una funzione segnica. A livello di segni le im-

magini fotografiche vengono definite da Eco,

a parità dei quadri o delle immagini filmiche,

come delle «ipoicone», segni che si pongono

all’attenzione come segni, ma che vengono per-

di Danilo Cecchi

1625 MARZO 2017

che entrano nella casa del Profeta di rivol-

gersi alle sue donne solo da dietro una corti-

na (hijab) in modo da preservare la purezza

dei cuori. In questo caso, come in molti altri,

hijab indica una divisione spaziale. Riguar-

do all’abbigliamento femminile i termini im-

piegati sono in realtà molteplici: oltre hijab

ci sono anche il khimar e jilbab ovvero delle

sciarpe già usate nel periodo pre-islamico

dalle donne di elevato status sociale per di-

stinguersi dalle schiave. Solo al versetto 53

della sura 33 si descrive un modo adeguato

di mostrarsi in società: «[…] E dì alla creden-

ti che abbassino gli sguardi e custodiscano le

loro vergogne e non mostrino troppo le loro

parti belle (zina), eccetto quel che di fuori

appare, e si coprano i seni d’un velo (khu-

mur) e non mostrino le loro grazie femminili

(‘awra) altro che ai loro mariti, ai loro padri,

[…] e non battano assieme i piedi affinché si

sappia ciò che esse nascondono delle loro

grazie».

Guardando poi alle raccolte degli hadith (gli

insegnamenti del Profeta tramandati in sei

raccolte ufficiali) un solo episodio fa riferi-

mento al modo di vestire. Si parla in questo

caso dell’incidente di Asma, la figlia di Abu

Bakr (il primo successore di Maometto alla

guida dei fedeli musulmani), che si presentò

al cospetto di Maometto con degli abiti ec-

cessivamente trasparenti. Il Profeta, si rac-

conta, la riprese dicendole che per le donne

in età matura non era consono mostrare il

proprio corpo eccetto «questo e questo».

La questione del velo, come si capisce, non

si risolve nel chiedersi se portarlo o meno.

Gira intorno al modo in cui è opportuno

portarlo e allo stesso tempo quali parti del

corpo femminile sia consono coprire. La

distinzione dipende dal senso conferito ai

termini zina e ‘awra (talvolta tradotto con

«vergogne femminili» invece di «grazie») e a

quanto intendesse Maometto rivolgendosi a

Asma, se includesse o meno il viso e le mani.

Le quattro scuole giuridiche sono d’accor-

do sul fatto che l’abbigliamento femminile

debba coprire il corpo della donna dal capo

alle caviglie, però quella malikita e hanafita

escludono il viso e le mani, mentre quella

hanbalita e quella sha’afita, più conservatri-

ci, ve li includono.

Nel Medio Evo, probabilmente in reazione

alla prima crisi di identità dovuta alla caduta

di Baghdad, capitale dell’impero abbaside,

per mano dell’impero mongolo, il teologo

Ibn Taymiyya scrisse un’esegesi coranica

particolarmente radicale. In essa dava una

definizione molto stretta di zina e ‘awra tan-

to da imporre l’obbligo di coprirle. Le donne,

vestite di nero coperte da capo a piedi, dove-

vano quasi sparire dalla sfera sociale.

Nel tempo poi, questa visione medievale è

stata abbandonata, ma con l’espandersi della

religione in aree sempre nuove, sono stati in-

tegrati nella cultura islamica in espansione

nuovi tipi di velo, come per esempio il cha-

dor tipico delle regioni iraniche. Per cui ol-

tre al hijab, al khimar, oggi ne esistono molti

altri più o meno coprenti la cui funzione,

però, è la stessa.

Per tutti questi motivi è difficile ritenere il

velo solo come un simbolo, equiparato ad

altri afferenti alle dimensioni politiche o fi-

losofiche. La decisione della Corte sembra

dunque non risolvere ma creare nuovi con-

trasti tra la possibilità di affermare la propria

identità in un contesto di libertà di religione,

espressione e pensiero tipico di un sistema

valoriale aperto ed inclusivo. Ammesso che

l’Europa sia ancora aperta ed inclusiva.

Lo scorso 14 marzo la Corte Europea di Giu-

stizia ha pubblicato due sentenze per due

casi distinti, accomunati dall’imposizione

di una limitazione dell’uso del velo islamico

sul luogo di lavoro. Entrambe si inseriscono

in un contesto più ampio di parità di tratta-

mento in materia di occupazione lavorativa

e di neutralità del luogo di lavoro in riferi-

mento all’esposizione di qualsiasi simbolo

possa ricondurre ad un determinato credo,

inclinazione politica o filosofica. La Corte

giunge a tre differenti conclusioni: la prima

riguarda il fatto che un datore di lavoro pri-

vato possa accogliere la richiesta di un clien-

te di non essere servito da una dipendente

che indossa il velo senza incombere in un

trattamento differenziale. La seconda, inve-

ce, permette a un datore di lavoro privato di

vietare l’uso del velo alle proprie dipenden-

ti in virtù della presenza di norme interne

all’azienda che impediscono l’affissione dei

simboli; anche in questo caso non ci sarebbe

una discriminazione diretta. Infine, la terza

conclusione individua una discriminazione

indiretta qualora la norma richiedente la

neutralità sul lavoro metta in una posizione

di effettivo svantaggio alcuni dipendenti; il

giudizio in merito a questa eventuale discri-

minazione diretta, però, è rimesso alle Corti

nazionali.

Anche nel caso in cui si condivida la ratio

sottostante alle due sentenze, queste presen-

tano un problema in relazione alla definizio-

ne del velo islamico. Quest’ultimo è infatti

considerato un «segno» dalla Corte, un ac-

cessorio che si può dunque esporre o toglie-

re a piacimento, ma a ben guardare non è

questo il caso. Il velo non è un obbligo impo-

sto alle donne, dipende da una scelta libera

derivante dall’interpretazione dell’Islam a

cui si aderisce, è dunque parte integrante

delle fede. È una scelta libera laddove si

è liberi di scegliere, non è escluso, infatti,

che in determinate società, o in determina-

te epoche, il velo sia stato usato come uno

strumento di controllo delle donne o che sia

stato (sia ancora) interpretato, condizionato,

sottoposto ad esigenze di affermazione cul-

turale, politica e religiosa particolarmente

radicali e ristrette.

Il termine hijab (oggi usato per indicare tutti

i veli, ma che in realtà non è che un modo di

portarlo) deriva dalla radice hjb. Essa è pre-

sente circa sette volte nel Corano in contesti

che hanno poco a che vedere con l’abbiglia-

mento femminile. Ad esempio nel versetto

31 della sura 24 si suggerisce agli uomini

di Barbara Palla

Il velo è un simbolo religioso?

1725 MARZO 2017

provvise fioriture, dando adito ad una nuova

specie, poi addomesticata e da allora abituata

a condividere la vita dell’uomo all’interno

delle proprie abitazioni.

Sono sculture da compagnia e da viaggio, per

non dire da riporto, in quanto difficili da per-

dersi e con attitudine ha tornare, da tenere

a portata di mano per dargli una strizzatina

affettuosa, di tanto in tanto, con un sicuro

effetto rilassante. Stanno volentieri con i

propri simili formando, insieme, dei grandi

ciuffi variopinti, che mantengono un pizzi-

co di inquietudine ricordando, ancora, sia le

urticanti propaggini danzanti degli anemoni

di mare, sia la scarmigliata capigliatura della

mitologica Medusa.

Il NeoNato in questione è ricoperto di lana

naturale bleu nel corpo principale e bor-

deaux nelle protuberanze o tentacoli, con

le punte verdi azzurre. È una lana, quella

NeoNato

Questa scultura «morbida» appartiene al

mondo di Manuela Mancioppi, fatta di un

materiale conducibile, malleabile e plasma-

bile, indeterminato prima di assumere la

sua forma definitiva, diventa stabile seppure

comprimibile e palpeggiabile una volta fini-

ta.

Da questo momento pur partecipe dell’uni-

verso dal quale proviene, è pronta ad assu-

mere i ruoli che che le verranno assegnati, da

quello modesto di cuscino a quello nobile di

oggetto d’arte, passando per una destinazio-

ne intermedia di giocattolo d’affezione.

La Mancioppi è un’artista relazionale e le

sue opere contribuiscono ad unire le perso-

ne che vengono a contatto con la sua arte, sia

metaforicamente sia realmente, attraverso

una serie di azioni tese al superamento del

linguaggio convenzionale, servendosi di tat-

tilismo e di appartenenza, del desiderio di

abbattere il concetto di distanza minima di

sicurezza, accomunandoci in un reciproco

sentire affettivo.

Le sue sculture più grandi sono indossabili

da più persone contemporaneamente, che

accettando la vicinanza fisica si trasformano

in «tableau vivant» attraverso l’empaticità

degli attori. Empatico significa sentire den-

tro, con-sentire, condividere una sensazione

emozionale o entrarci in contatto.

In questo caso la scultura agisce come un

medium facendo riflettere sulla condizione

particolare e difficilmente descrivibile di

quando si prova una simpatia guardando un

opera d’arte.

Accettandone la vicinanza le persone com-

piono un passo verso la comprensione dell’al-

tro, si mettono letteralmente nei reciproci

panni.

Il NeoNato nasce dall’accoppiamento biz-

zarro di una numerosa famiglia di ibridi, gli

abitatori vegetali/animali del Giardino delle

Meraviglie, attraversando una serie di pas-

saggi e gestazioni dove la Mancioppi assume

il ruolo di Grande Madre.

Questi, trasmutando lentamente dalla flora

fantastica del Giardino della delizie di Je-

ronimus Bosch, combinandosi con le speci-

fiche famiglie di quella fauna marina a cui

appartengono le stelle marine, i pomodori

di mare e gli immobili coralli, manterranno

sempre un qualcosa dei segreti delle profon-

dità marine.

Con la mediazione della fantasia dell’arti-

sta, le metamorfosi e gli innesti continuano,

unendosi con la varietà inesauribile delle

piante grasse con le loro travolgenti e im-

di Claudio Cosma

servita alla sua realizzazione, di recupero,

proveniente da una fabbrica di filati dove

ha lavorato la mamma dell’artista, fatto che

ne amplifica l’affettività nel contesto dalla

sua ideazione. La componente di scarto e

di riuso ne determina in modo strutturale la

formazione, infatti essendo capi già confezio-

nati quelli utilizzati come materia prima, il

lavoro di creazione è composto da combina-

zioni cromatiche e di accostamento di parti

compatibili.

Si può fare una similitudine con la creatura

costruita da Frankenstein, assemblata anzi-

ché con frammenti anatomici, più innocen-

temente con parti di abbigliamento come

gonne, maniche, colli e avanzi di ogni tipo,

che oramai inutilizzabili come vestiti si tra-

sformano in oggetti non più destinati a scal-

dare il corpo, ma compiendo un passaggio in-

tellettuale, si dispongono a scaldare l’anima.

1825 MARZO 2017

Mi piove dal cielo un libro: autrice Elena Tem-

pestini, «Quaranta donne in lotta per la cultura

civile, Edizioni dell’Assemblea - Luglio 2016.

Lo leggo avidamente, con grande piacere ri-

trovo volti noti per lunga consuetudine come

Marie Curie, Maria Montessori, Madre Teresa

di Calcutta, Grazia Deledda, altri per profonda

stima e simpatia in sfumature diverse come Rita

Borsellino, Margherita Hack, Anna Magnani.

Con accorata ammirazione guardo a Bennazir

Bhutto e a Mafalda di Savoia per me accomuna-

te dal tragico destino e vicine nel libro.

Ed ecco apparire le altre. La geniale Gae Au-

lenti dal vasto sorriso, per me tutt’uno con l’af-

fascinante Musée d’Orsay a Parigi e Oriana

Fallaci, la nostra toscanaccia parlachiaro che

mi ha stregata col messaggio postumo del suo

struggente rude romanzo-biografia di famiglia

«Un cappello pieno di ciliegie».

Rita Levi Montalcini, l’ho sentita parlare, e

qui ne trovo un motto alla base della fiducia in

sé che la donna può e deve avere: «Il capitale

umano è equamente distribuito fra i due sessi.

Solo, alle donne non era concesso di utilizzare

il proprio.» Tutte le donne di tutti i continenti

qui presentate hanno lottato contro i mali del

mondo, oppressione, crudeltà, ingiustizia nei

vari contesti del loro destino, improntando la

vita a «rettitudine e trasparenza. Umiliate e

aggredite, deluse e calpestate nel fisico e nello

spirito, hanno lottato con sacrifici e coerenza».

La coerenza della birmana Auug San Suu Kvi

(1945) agli arresti domiciliari gran parte della

vita per l’opposizione alla dittatura militare del

suo paese, o di Rosa Parks la nera dall’appassio-

nato sorriso considerata la «madre dei diritti ci-

vili» in USA, perché, esausta dopo una giornata

di lavoro (1.12.1955) rifiutò di cedere il posto

in autobus a un bianco in piedi, fu arrestata e

sostenuta poi da 381 giorni di boicottaggio dei

mezzi di trasporto, finché (1956) la Corte Su-

prema dichiarò incostituzionale ogni forma di

discriminazione. O l’americana Jody Williams

(1950) che ha dedicato la vita al bando delle

mine antiuomo, «mostruosi ordigni nascosti

sotto sembianze di giocattoli». Premio Nobel

per la pace 1997 ha fondato con Shirin Eba-

di, la prima donna musulmana premio Nobel

per la pace 2003 la Nobel Women’s Initiative

«per mettere in pratica tutte le sinergie di lavoro

per la giustizia» . Shirin, 1975-1979 presiden-

te come giudice tribunale sezione di Teheran,

con la rivoluzione islamica (1979) come tutte

le donne giudice dovette lasciare la magistra-

tura e, rifiutando poi un ruolo secondario come

«esperta di legge» si ritirò a scrivere libri e arti-

coli fino al 1992 in cui poté aprire uno studio

proprio come avvocato, occupandosi di casi di

liberali e dissidenti entrati in conflitto con il si-

stema giudiziario iraniano. «Oggi vive a Londra

da giugno in una sorta di esilio autoimposto per

sfuggire a un mandato d’arresto per presunta

evasione fiscale» in rapporto al Nobel, che le è

stato sequestrato. (93-94)

Fra gli altri Nobel per la Pace, scelgo Rigoberta

Menchú (1959) guatemalteca, bracciante agri-

cola dall’età di 5 anni «in condizioni talmente

difficili da causare la morte dei suoi fratelli e di

molti suoi amici».Costretta all’esilio dal 1981.

Nel 1991: prende parte alla stesura in seno alle

Nazioni Unite di una «dichiarazione dei diritti

dei popoli indigeni». Ha detto: «Non siamo miti

del passato, né rovine nella giungla o zoo. Siamo

persone e vogliamo essere rispettati, e non esse-

re vittime di intolleranza o razzismo». Premio

Nobel per la Pace 1992, nel 2002 nominata

cittadina onoraria di Caorle (Venezia).

Mi commuove Waris Diriie, somala bellissima

cresciuta in una tribù seminomade del deserto,

a 13 anni promessa sposa a un uomo che pote-

va esserne il nonno. Fugge, grazie alla bellezza

diviene una top model famosa, ma c’è un dolo-

re che la perseguita: l’infibulazione femminile

da lei stessa subita a 5 anni. La combatte come

ambasciatrice delle Nazioni Unite (1997). Tra-

sferitasi a

Vienna e divenuta cittadina austriaca, (2002)

fonda la Waris Diriie Fundation che si occupa

del problema, raccoglie fondi e promuove «cam-

pagne di consapevolezza». Suoi libri editi in Ita-

lia da Garzanti: «Alba nel deserto», «Figlie del

dolore», «Lettera a mia madre».

Devo fermarmi per ragioni di spazio, ma dico

solo arrivederci a tutte queste donne, con un

consiglio. Cliccate su e richiedete il libro.

Un dono inaspettatodi Gabriella Fiori

Abner Rossi nasce a Firenze il 24 novembre

del 1946. Autore e regista teatrale da circa qua-

rant’anni ha al suo attivo diverse sceneggiature

cinematografiche, opere teatrali e monologhi

adottati da molte scuole di teatro come testi di

studio e di esame nonché per le audizioni. Ha

pubblicato tre libri di poesie e non ha mai par-

tecipato, per scelta, a concorsi poetici. Ha scritto,

collaborato e poi diretto G. Albertazzi, Omero

Antonutti. Come dirigente dell’Arci di Firenze

ha partecipato alla grande stagione della nascita

della comicità toscana. Recentemente alcune sue

poesie sono state pubblicate sulla Enciclopedia

della Fondazione Mario Luzi,

Spiritidimateria

di Abner Rossi

Autoritratto

Rosso per le mie idee,

per il mio conto in banca,

per una sana vergogna

di bambino.

 

Per la mia famiglia di operai.

 

Sicuramente per le mie bandiere,

per il vino che non ho mai

annacquato.

 

Rosso per un’anima dannata

costretta nell’inchiostro di una penna.

 

Rosso anche quando il cielo tende al nero

 

E rosso per amore!

Sempre e ogni giorno

dalla prima ragazza conosciuta

ad oggi e qui…

sempre con te

e dietro le mie rughe

che sono quasi tutte di passione.

1925 MARZO 2017

sa e rocciosa.

«Un’astronave tipo quella che potrebbe gui-

dare Fred Flinstone, scolpita nella pietra?»

domanderete. No! Qualcosa di più solido, di

più semplice e di parecchio più grosso, dicia-

mo un’astronave grossa come un pianeta. Del

resto la Morte Nera (Star Wars) era appunto

grande come una piccola luna. Così non dob-

biamo neppure usare trucchi tipo mettere in

rotazione l’astronave per creare una falsa gra-

vità, come in 2001 Odissea Nello Spazio o in

Sopravvissuto (The Martian). Abbiamo la gra-

vità naturale!

Sappiamo che già per i viaggi su Marte la pro-

tezione contro i raggi cosmici sarà un proble-

ma di difficile soluzione. Ma con una astrona-

ve grossa come un pianeta la soluzione è facile:

usiamo un nucleo di ferro fuso in rotazione in

modo che il campo magnetico generato faccia

da schermo. Geniale! E poi ci mettiamo una

bella atmosfera, che oltre a dare protezione,

ci consente anche di evitare di dover usare le

tute spaziali.

Nello spazio è buio e freddo. Ma noi possia-

mo risolvere il problema facilmente, basta fare

il viaggio alla distanza giusta da una stella di

dimensione adeguate, non troppo grossa, che

si esaurisce troppo presto, non troppo piccola

che non ce la fa a accendersi. E per proteggerci

dai raggi ultravioletti un bello strato di ozono.

Dite che ci annoieremo presto dello spetta-

colo del cosmo che cambia troppo lentamen-

te? E allora scialiamo: circondiamoci da una

bella varietà di altri pianeti, piccoli e grandi,

rocciosi e gassosi, e magari anche di comete e

satelliti. Uno bello grosso lo mettiamo vicino

alla nostra astronave, così abbiamo qualcosa da

osservare di notte. E per renderci il viaggio più

piacevole, riempiamo l’astronave di piscine

grosse come oceani, e decoriamola con piante

ed animali. Ci mettiamo anche qualche deser-

to e un paio di calotte polari, tanto per variare,

e montagne e fiumi.

Che bella astronave! Semplice e robusta. E

anche veloce, considerando la sua massa: tutto

il marchingegno, che chiameremo convenzio-

nalmente «Sistema Solare» viaggia a 250km/s

(rispetto alla Via Lattea).

Ovviamente, dato che il viaggio sarà molto

lungo, dovremo avere una cura maniacale del-

la nostra astronave, stare attenti a non sporcar-

la o danneggiarla, e a non consumare le risorse

che non siano rinnovabili. Ma sono certo che

nessun astronauta sarà così scemo da rovinare

volontariamente l’astronave con cui sta viag-

giando nello spazio... O mi sbaglio?

Con la prospettiva di andare su Marte (e con i

film di fantascienza dell’anno scorso) la voglia

di fare viaggi su distanze galattiche è tornata

prepotente, anche se non magari come quan-

do ero piccolo e vedevo gli astronauti del pro-

gramma Apollo andare sulla Luna.

Purtroppo, non avendo a disposizione la possi-

bilità di effettuare viaggi più veloci della luce

usando l’iperspazio (Star Trek) o i wormhole

(Interstellar), dobbiamo prepararci a passare

migliaia, se non milioni o miliardi di anni nel

cosmo. Ma se la nave spaziale è abbastanza

confortevole, questo non sarà un grosso pro-

blema: vivremo le nostre vite lì, ammirando

il panorama mentre sorseggiamo un drink.

Sto parlando di viaggiare, non di raggiungere

un posto specifico nel minor tempo possibile,

senza stare nemmeno a guardare dove si sta

andando.

Il problema è costruire una astronave che con-

tinui a funzionare per migliaia di anni. Levia-

mo di mezzo tutta la tecnologia che usiamo

ogni giorno: i migliori telefonini è un miracolo

se durano due anni! Basta che cadano per ter-

ra per rompere lo schermo, o in acqua per gua-

starsi irrimediabilmente... Non viaggerei mai

nello spazio su una cosa così fragile!

Ma riducendo la tecnologia le cose durano

di più. Le auto degli anni ‘50 continuano a

funzionare, e se si rompono possono essere

riparate, anche ricostruendo i pezzi se serve.

Le sonde Voyager (roba degli anni ‘70, con un

computer di bordo di ben 70 kB di memoria!)

sono le navi spaziali più longeve che abbiamo

mai costruito. La Voyager 1 si trova ormai a 19

ore-luce dalla Terra (la stella più vicina è a 4,5

anni-luce) e sta incredibilmente continuando

a funzionare. Ma in ogni caso si prevede che

smetterà di funzionare nel 2025, a 25 miliardi

di chilometri dalla Terra, anche se le comu-

nicazioni si pensa che cesseranno quest’an-

no quando il giroscopio di bordo smetterà di

funzionare, impedendole di tenere l’antenna

puntata su di noi. In poche parole anche que-

ste sonde dureranno al massimo solo 45 anni,

e dopo essere appena uscite dal sistema solare

(in realtà sono uscite solo dalla zona influenza-

ta dal vento solare, la nube di Oort, il serbatoio

delle comete, è a 1,87 anni-luce di distanza,

ancora ben soggetta alla gravità solare). Dal

punto di vista dei viaggi interstellari, sono ri-

uscite ad arrivare solo sulla soglia di casa. Non

ci siamo.

Quali manufatti siamo riusciti a costruire che

sono durati migliaia di anni? Quelli grossi e

di pietra! Roba tipo le piramidi, o i menhir.

Quindi dobbiamo costruire un’astronave, gros-

di Franco Bagnoli

Viaggi interstellari

Le sonde gemelle Voyager 1 e 2

2025 MARZO 2017

incomprensibile ma un giorno vedrai in esso

ciò che nessuno saprà vedere. Si narrava che

anni dopo mentre cercava di allontanare un

uomo che voleva vendergli dei vecchi libri,

Flamel riconobbe tra questi quello sogna-

to. Dopo averlo comprato così lo descrisse:

con la legatura in solido ottone....era stato

scritto con una matita di piombo su fogli

di corteccia e era stranamente colorato. Ma

era scritto in una lingua sconosciuta, forse

ebraico antico, e nonostante che lui e la mo-

glie si impegnassero a interpretarlo anche

con l’aiuto di diversi studiosi (ma non ebrei

perchè espulsi in seguito alle persecuzioni)

il libro per loro rimaneva misterioso. E lo

fu per tanti anni fino a quando, nel 1378,

grazie agli insegnamenti di un medico ebreo

incontrato durante un pellegrinaggio a San-

tiago di Campostela, Flamel, al suo ritorno,

riuscì a decifrare il libro che si rivelò un

trattato alchemico. Dopo tre anni di studio

riuscì a trasformare una libra di piombo in

argento e dopo qualche mese di esercizi in

oro puro. Si narrava che la pietra filosofale

moltiplicò le sue fortune che lui continuava

a elargire per opere benefiche e rendesse lui

e sua moglie immortali. Per i saggi la Pietra

Filosofale era la metafora della trasforma-

zione della materia in spirito eterno e la

difficoltà incontrata rappresentava la perse-

veranza di lavorare su se stesso. Per tutti gli

altri era un fantastico mezzo per esaudire i

sogni d’infinita ricchezza e eternità. Per tro-

varne il segreto la tomba del buono Flamel

fu profanata più volte naturalmente senza

successo.

L’edificio in rue Francois Miron, quello in

rue Volta 3 e quello in rue de Montmoren-

cy 51 chiamato maison du Haut-Pignon si

sono contesi a lungo il primato di essere la

casa più antica di Parigi ma ormai è stato de-

finitamente stabilito che le prime due, nono-

stante l’apparente aspetto mediovale, risali-

vano a un’epoca più recente rispetto a quella

in rue Montmorency del 1407 che quindi si

aggiudica la contesa. Per tutta la facciata,

dichiarata monumento storico nel 1911 in

omaggio ai suoi originari proprietari, Nico-

las Flamel e sua moglie Pernelle, per il loro

intenso impegno filantropico, corre una lun-

ga scritta che dichiara la funzione che aveva

la casa: ospitare i poveri del quartiere, i con-

tadini dei campi attorno, gli studenti squat-

trinati e le donne sole. La scritta specifica

anche quale era il prezzo da pagare per un

letto: un Pater Nostro e una Ave Maria la

mattina al risveglio in onore dei defunti. Ma

più che la casa, oggi divenuta una locanda di

charme, quello che è interessante è la storia,

in parte ricca di mistero, del suo proprieta-

rio, Nicolas Flamel, sconosciuta a tanti ma

di grande importanza a chi si interessa di

studi di alchimia ermetica. Nato nel 1330,

Flamel esercitava la professione di scrivano,

copista e miniaturista in una piccola bottega

attaccata alla chiesa di Saint-Jacques-la bou-

cherie. Flamel non aveva preoccupazioni

economiche perchè, all’epoca, saper scrive-

re in un mondo di analfabeti rendeva molto

bene e poi aveva sposato Pernelle, di alcuni

anni più anziana di lui, che, vedova due vol-

te, aveva accumulato un notevole patrimo-

nio con le eredità dei suoi precedenti mariti.

Nonostante questa ricchezza, la coppia vi-

veva in maniera modesta devolvendo il loro

denaro ai poveri e a finanziare la costruzione

di ospedali, chiese, cappelle...Quando morì

Nicolas Flamel lasciò i suoi beni, compre-

so la casa in rue Montmorency, alla chiesa

di Saint-Jacques e lì volle farsi sotterrare in

una tomba la cui lastra di copertura era stata

disegnata da lui. Della chiesa, distrutta du-

rante la rivoluzione, rimane oggi solo la torre

e della tomba solo la lastra esposta al Hotel

de Cluny, il museo nazionale del medioevo

a Parigi. Dopo la morte cominciò a diffon-

dersi su di lui quella che per molti era verità

e per altri leggenda. Si narrava che avrebbe

scoperto la Pietra Filosofale che può trasfor-

mare il piombo in oro. Si narrava che una

notte ebbe un sogno rivelatore nel quale un

angelo gli apparve e gli mostrò un libro di-

cendogli guarda questo libro che per ora ti è

di Simonetta Zanuccoli

La più antica casa di Parigi

2125 MARZO 2017

Ha un’espressione serafica e sorride molto, Park

Chan-wook, regista sudcoreano pluripremiato,

arcinoto so-prattutto per essere l’autore di quel-

la che viene definita la Trilogia della Vendetta,

su tutti Old Boy. Che du-rante l’incontro stam-

pa al cinema La Compagnia dove è ospite del

15/o Korea Film Fest per presentare il suo nuo-

vo film (The Handmaiden, proiettato stasera

alle ore 20.30, dopo aver ricevuto l’onorificenza

de Le chiavi della città dal sindaco Dario Nar-

della), racconta essere sua croce e delizia. «Mi

dispiace che in Europa mi accostino sempre ai

soliti titoli, non posso dire infatti che Old Boy

sia il mio miglior film, è solo uno dei miei lavori,

ed esempio mi piacerebbe che si vedessero mie

opere quale Thirst, (horror del 2009 - ndr) o i

miei ultimi lavori. Invecchiando, mi sono accor-

to che mi dedico sempre di più a punti di vista

femminili, come in The Handmaiden, che è a

tutti gli effetti un film femminista. Penso che

chiunque dentro di sé abbia un lato maschile e

uno femminile, solo che gli uomini spesso non

vogliono vederlo e se ne vergognano». Sulle sue

passioni cinefile racconta «La folgorazione per

il cinema l’ho avuta mentre stavo guardando

Vertigo di Hitchcock, ho deciso così di fare il

regista. Non solo Hitchcock: mi sono cari an-

che tanti altri registi, tra tutti Luchi-no Viscon-

ti». Alla domanda se i cineasti europei prenda-

no spunto dal cinema coreano non risponde,

Chan-wook, probabilmente perché non si può

parlare di una vera ispirazione europea verso

l’Asia in tale ambito, ma si sofferma sul rap-

porto con l’America, dove nel 2013 ha diretto

Nicole Kidman nel suo primo film con cast in-

ternazionale, Stoker. Racconta così l’esperien-

za: «Non ero a mio agio, ma alla fine le persone

che fanno film hanno lo stesso linguaggio. An-

che le emozioni umane sono le stesse, quindi

creare l’atmosfera del film non è stato molto

difficile. I giovani registi americani sono molto

innamorati dai coreani, e mi strani-sce molto

vedere film americani che ricordano la Korea.

Per me, guardare il remake di Old Boy è stato

cu-rioso, è come se – ha spiegato il regista - io mi

vestissi e truccassi come se fossi un americano.

Anche in India non mi hanno chiesto il per-

messo ma hanno fatto un remake interessante

di Old boy». La vendetta è un tema che ritorna

spesso nei suoi film, a proposito della quale af-

ferma: «Sicuramente ci sono molti aspetti che

non sono esattamente piacevoli da vedere nei

miei film, chiedo scusa! (dice ridendo). Ma per

quanto noi vo-gliamo vivere in un modo pieno

di amore, in pace, tranquillo, alla fine per un

motivo o un altro non è detto che ciò si realiz-

zi. Tuttavia, se noi conosciamo bene gli aspetti

bui e nascosti e violenti dentro di noi forse pos-

siamo trovare il metodo per far fronte a questa

cosa e gestire questi sentimenti. Le persone nei

film lotta-no contro le cose che succedono, e per

me è spesso una metafora del lottare contro il

male che c’è dentro noi stessi. Credo che sia un

processo importante da rispettare».

Ristorante caffetteriaLa Loggia Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy

www.ristorantelaloggia.it

[email protected]

+39 055 2342832

La Loggia si sta preparando per una primave-

ra e un’estate speciale. Divertimento, cultura

e benessere è ciò che attende i nostri ospiti in

questa stagione che è appena arrivata.

Appuntamenti settimanali con il corso di Yoga

che si terrà sulla terrazza panoramica de La

Loggia, rilassarsi e prendersi cura del proprio

corpo e la propria psiche mentre si ammira un

panorama di ineguagliabile bellezza per poi

godersi un ottimo centrifugato che non solo è

delizioso, ma è anche squisito!

Non solo yoga, mostre d’arte , sfilate di moda

e concerti intratterranno le serate e le giornate

dei fiorentini con la partecipazioni di professio-

nisti il cui scopo è quello di regalare momenti di

emozioni e compagnia.

Degustazioni, show-cooking e corsi di cucina

per imparare l’arte del buon cibo, gustare un

ottimo vino da accompagnare una portata da

sogno che magari avrete imparato a cucinare.

Party esclusivi con temi divertenti dove musi-

ca, buon cibo e quel pizzico di magia condiran-

no le serate estive. Tra bollicine e acrobati, c’è

solo l’imbarazzo della scelta.

La Loggia, quest’anno, ha deciso di lasciare il

segno e regalare a Firenze un punto di incontro

in cui poter vivere e godersi la bella stagione

senza tralasciare niente.

Queste e molte altre sorprese vi attendono sia

nel look che nell’intrattenimento.

Restate sintonizzati per scoprire quali saranno

le emozionanti novità che stanno per arrivare!

di Sara Chiarello

Il ritorno di Park Chan-wook

2225 MARZO 2017

foto e abbracci. Ma, ebbe a scrivere allora

Nardella sul suo profilo Facebook, sarà «ne-

cessario l’apporto del ministro Franceschini

per individuare le risorse economiche per

la riqualificazione dello spazio. Ci auguria-

mo che faccia la sua parte, sul tema delle

risorse; certo è che dovremo anche trovare

risorse private» (su cui, sia detto per inci-

so, si era impegnata prima come assessore

alla cultura del sindaco Renzi e poi come

senatrice, Rosa Maria Di Giorgi: gli esiti al

momento non sono noti). Ma perché poi?

Se verrà concesso un immobile pubblico di

grande prestigio per 29 anni, ad un canone

abbattuto al 60% rispetto al suo valore di

mercato, a un soggetto privato che è titolato

dagli atti di concessione a svolgere anche

attività economica (bookshop, bar, risto-

rante, formazione, ecc.) di cui incasserà gli

introiti, per quale astruso motivo non gli si

dovrebbe almeno chiedere di investire nei

lavori di adeguamento della struttura? Su

«la Repubblica» del 28 aprile 2016 in ef-

fetti si diceva che la Fondazione oltre all’af-

fitto «si assumerà l’onere degli investimenti

Fu profeta (in patria) Franco Zeffirelli

quando, il 31 maggio 2013 durante uno

sketch a due con l’allora sindaco Matteo

Renzi ricevette il Fiorino d’Oro, ebbe a mi-

nacciare la città «Ora che sono cittadino di

Firenze mi avrete per un bel po’ tra le palle.

Dei Medici, s’intende». Augurando lunga

vita al Maestro, uno deve domandarsi per-

ché oltre ad avere lui tra le p... sia necessa-

rio, anzi imprescindibile, avere anche tutti

i suoi cimeli esposti in mostra permanente

nell’ex Tribunale di Piazza S.Firenze a po-

chi passi da Palazzo Vecchio. La vicenda è

lunga e non varrebbe neppure la pena sof-

fermarsi troppo sull’altalena che ha portato

prima ad individuare nella Galleria Carnie-

lo la sede adatta per «gli oltre 10.000 libri,

4.000 foto di scena, migliaia di litografie e

stampe, la raccolta completa dei bozzetti

realizzati per il cinema e le opere liriche,

pari al 60% dell’intero lascito zeffirelliano:

il restante 40% sarà collocato alla Pergola,

nell’ex Biblioteca Spadoni. Ma sarà anche

un centro internazionale per le arti del-

lo spettacolo con particolare attenzione

alla formazione» (la Repubblica 1 giugno

2013) e poi a scegliere piazza S.Firenze, se

non fosse che questa vicenda ci dice diver-

se cose sulle modalità e il contenuto delle

scelte pubbliche sul patrimonio storico-ar-

chitettonico, che sono più significative dei

diversi siparietti con la classe politica locale

che nel corso dei quattro anni hanno carat-

terizzato la vicenda. Cui pure occorre far

cenno, perché sono un contorno non mar-

ginale del tema centrale. Il 31 maggio 2013

Zeffirelli proclamava alla stampa parlando

di Renzi: «Questo ragazzo è diventato un

fenomeno politico senza tante smancerie»;

e lui di rimando a schernirsi. «Ovviamente

stiamo parlando di Alfano», ma vuoi met-

tere le foto a tutta pagina? Però il siparietto

serviva a ribadire che Renzi non era come

quei trinariciuti comunisti che prima di lui

avevano snobbato Zeffirelli; lui era buono

anche per la destra; e poi, basta con questa

storia di destra e sinistra, siamo tutti uguali,

la stessa cosa. Poi arriva a Palazzo Vecchio

un altro giovane fenomeno, Dario Nardella,

con il quale matura la scelta, a seguito di so-

pralluoghi con i tecnici del Comune e della

Fondazione Zeffirelli (che poi hanno lavo-

rato insieme «per stabilire la fattibilità del

progetto, i tempi e l’investimento» (il Cor-

riere Fiorentino, 28 gennaio 2015), oltre

che con il Maestro, di S.Firenze. E anche lì

di Simone Siliani

Zeffirellifor everand ever

Ovveroil regalodi S.Firenze

2325 MARZO 2017

necessari per l’adeguamento e la messa a

norma dei locali di San Firenze. Che sa-

ranno comunque scomputati dal canone».

Ma perché mai? L’Amministrazione si pri-

verebbe così anche del (basso) introito deri-

vante dall’affitto per diversi anni, mentre il

soggetto privato negli anni di gestione (che

verosimilmente andranno ben oltre la vita

terrena del Maestro) incasserà gli utili del-

la gestione dell’immobile di 3.600 mq. È il

modello che già Robert Reich su Newswe-

ek del 5 marzo scorso definiva di socialismo

per i ricchi e capitalismo per i poveri; cioè ai

soggetti più abbienti e noti vengono garanti-

te condizioni economiche di favore, mentre

alle persone normali si impongono compor-

tamenti rigorosi sotto il profilo economico.

Il fatto è che l’Amministrazione Comunale

si è dimostrata in questa occasione comple-

tamente prona alle volontà e interessi del

soggetto privato anche perché non aveva

un progetto per San Firenze, così come non

lo aveva per la Galleria Carnielo e analoga-

mente non lo ha per S.Maria Novella che

si sta liberando della funzione di Scuola

sottoufficiali dei Carabinieri. Quando il sog-

getto pubblico non è in grado di elaborare

un progetto per la città (o per parti di essa)

nell’ottica dell’interesse pubblico è ovvio

che sarà maggiormente disponibile ad acco-

gliere acriticamente le diverse pressioni da

parte dei portatori di interessi privati e di

quelli più forti in particolare (come ebbe a

dire Zeffirelli nel 2013 a Renzi: «e dire che

un tempo a Firenze se non si vociava non si

esisteva neppure»).

Nel caso di San Firenze possiamo dire, con

l’assoluta certezza di chi ha vissuto in prima

persona la vicenda, che l’Amministrazione

comunale guidata da Leonardo Domenici

aveva un progetto con una valenza di inte-

resse pubblico. Avendo investito 2,3 milioni

di euro per la messa a norma per antincen-

dio e barriere architettoniche, il palazzo di

San Firenze, oltre ad avere alcune sale mo-

numentali dedicate ad esposizioni tempora-

nee e auditorium musicale, avrebbe dovuto

ospitare gran parte degli uffici comunali

attualmente dislocati in Palazzo Vecchio in

modo da poter recuperare l’intero Palazzo

Vecchio alla funzione museale per poter

consentire ai fiorentini e ai visitatori di poter

«leggere» l’intera storia della città, dalle sue

origini romane (i resti del teatro nel sotto-

suolo) attraverso la parte medievale, quella

Rinascimentale, fino a quella moderna. Pa-

lazzo Vecchio, per aver costituito la sede del

potere civile e politico ininterrottamente

lungo i secoli, è uno dei pochi palazzi storici

che può «raccontare» questa storia: è il vero

museo della storia di Firenze. La condizio-

ne per rendere possibile questa lettura era

quella di liberare una gran parte del palazzo

dagli uffici (salvo quelli di rappresentanza

e dell’aula consiliare) per renderlo intera-

mente aperto al pubblico, scoprendo peral-

tro così spazi storici sconosciuti ai più e non

compresi nell’attuale ridotto percorso mu-

seale. Lo spostamento degli uffici in San Fi-

renze non avrebbe certamente comportato

alcun disagio, né al personale né ai cittadini

utenti, data la vicinanza dei due palazzi e

del resto avrebbe mantenuto una gran parte

di San Firenze alla funzione di sedi di uffi-

ci amministrativi che aveva rivestito come

sede del Tribunale. Naturalmente, come

ogni scelta, anche questa poteva essere di-

scussa, ma non si può dire che non avesse

al centro l’interesse pubblico. Invece, con

l’avvento di Renzi tutto è stato rottamato e

si è iniziato ad oscillare in balia delle onde

private più disparate; non si contano neppu-

re il numero di università private straniere

che si sono annunciate quali inquiline di

palazzo San Firenze, nella (vana) speranza

che queste arrivassero a Firenze risolven-

do l’assenza di idee dell’Amministrazione,

portando soldi da investire per utilizzare la

struttura e sognando ulteriori turisti e users

di un centro storico già sufficientemente in-

golfato di questo tipo di funzioni. Rivelatesi

fuochi fatui queste astronavi straniere (le

ultime erano cinesi), si è ben volentieri ac-

colto il «sogno» della Fondazione Zeffirelli

non avendo alcun concreto progetto per

«riempire» il prestigioso immobile. Peraltro,

per quanto importante possa essere il perso-

naggio (Zeffirelli lo è, ma esiterei a definire

la sua eredità artistica per Firenze e l’Italia

«ciò che mezzo millennio fa furono Brunel-

leschi e tutti i più grandi del Rinascimento»,

come invece non ha avuto alcuna remora di

fare Gianni Letta – presidente della Fonda-

zione Zeffirelli - in una intervista al Corriere

Fiorentino il 15 marzo scorso), un museo ad

personam è di difficile sostenibilità soprat-

tutto in una città che certamente di queste

istituzioni non fa difetto. Se proprio si do-

veva, forse la Galleria Carnielo era più che

sufficiente. Ma allora perché il «sogno» si di-

rige verso San Firenze? Certamente una di-

versa centralità rispetto al flusso turistico ha

giocato, ma forse tanto quanto la possibilità

di gestire servizi aggiuntivi (bar, ristorante,

bookshop, ecc.) da cui far discendere un

flusso di risorse sufficientemente continuo

e sicuro per rendere remunerativo (più che

sostenibile) il progetto.

Ecco, dunque, svelato l’arcano: non si può

dire di no ad un personaggio così in vista nel

mondo e quindi è naturale che l’Ammini-

strazione comunale debba soddisfare com-

pletamente le richieste della Fondazione

che gli sopravviverà (a fronte della donazio-

ne del patrimonio di cimeli, libri, foto, ecc.

che certamente hanno un valore ma che

richiedono di essere custoditi, valorizzati,

mantenuti con i relativi costi) e, se non può

garantirle un contributo congruo in cash per

poter operare (si sa che la finanza comuna-

le soffre...), allora deve darle in gestione un

proprio patrimonio da cui possa ricavare ri-

sorse per vivere e prosperare. Non si tratta

di «polemichette», come le ha prontamente

marchiate Gianni Letta, ma la constatazio-

ne che questo non è certamente il miglior

modo di presiedere alla formazione di de-

cisioni pubbliche che implicano l’utilizzo di

un patrimonio storico pubblico per finalità

latamente culturali e più propriamente pri-

vate di natura economica.

2425 MARZO 2017

Francesca Lussignoli, Nascita di Veneredifficoltà nella comunicazione/interazione

con gli altri ed essendo assai solitario, con-

centrato nel proprio lavoro e, in definitiva,

anaffettivo.

Il rapporto tra arte e disabilità di vario ge-

nere (psichiche/fisiche) è, del resto, fitto di

nomi importanti tra cui vale la pena di ci-

tare Van Gogh, Tolouse-Lautrec, Klee, Li-

gabue e la pittrice messicana Frida Kahlo.

Questa è la ragione per cui, mentre il pro-

getto internazionale è meritevole di atten-

zione e apprezzamento, la sfida è sempre

quella di oltrepassare la frontiera della ma-

lattia/disturbo quale elemento tipizzante/

unificante un gruppo di artisti, per acco-

starsi all’arte come espressione oggettiva,

apprezzare le opere in base alle loro qualità

intrinseche e formali, prodotti di talenti an-

che i più vari, con e senza – ovvero a pre-

scindere da – specifiche disabilità.

«L’arte risveglia l’anima». È una verità.

Ed è il titolo di una mostra itinerante che

tra pochi giorni sarà inaugurata a Firenze

(Palazzo Davanzati, 1 aprile, ore 16:00)

e a Fiesole (Comune, Sala del Basolato, 2

aprile, ore 11:00, nell’occasione della X°a

edizione della Giornata Mondiale della

Consapevolezza sull’Autismo), la prima

con un collegamento satellitare audio-vi-

deo che unirà Firenze all’Ermitage di San

Pietroburgo.

Partirà così un progetto internazionale di

inclusione culturale e sociale - promosso

da Associazione Autismo Firenze, Associa-

zione Culturale L’immaginario e Associa-

zione Amici del Museo Ermitage (Italia) e

patrocinato dal MIBAC, Regione Toscana

e Comune di Fiesole – che proseguirà nel

corso del 2017, approdando in altri musei

italiani. «Coloratissimi disegni, tratti essen-

ziali che giocano con lo spazio e le forme,

come pure figure sinuose e riconoscibilissi-

me ispirate ai capolavori della storia dell’ar-

te», come si legge nel comunicato ufficiale,

esprimeranno l’estro ignoto di 18 pittori e 6

ceramisti autistici provenienti da Toscana,

Piemonte, Lombardia, Lazio e Marche.

Per Anna Maria Kozarzewska, coordinatri-

ce del progetto (per il quale si rinvia anche

a www.larterisveglialanima.it), occorre an-

dare oltre la considerazione della patologia,

perché «queste persone hanno molti punti

di forza, talenti nascosti che a causa della

mancata vita sociale non vengono fuori. È il

momento di fare sapere al mondo cosa sono

in grado di fare».

Leggiamo nella enciclopedia del libero

accesso (Wikipedia) che l’autismo «è un

disturbo del neurosviluppo caratterizzato

dalla compromissione dell’interazione so-

ciale e da deficit della comunicazione ver-

bale e non verbale che provoca ristrettezza

d’interessi e comportamenti ripetitivi».

In questa definizione è la sintesi, la triade

fenomenica associata a questa condizione

che si esplica in molteplici forme, tanto che

gli studiosi hanno coniato la definizione di

«disturbi dello spettro autistico». Figura

tra essi la sindrome di Asperger, definita

disturbo ‘ad alto funzionamento’ perché

non presenta problemi legati allo sviluppo

psichico ma si distingue per una persisten-

te compromissione delle interazioni sociali,

per schemi di comportamento ripetitivi e

stereotipati, attività e interessi talora ristret-

ti. Secondo taluni lo stesso Michelangelo

Buonarroti ne sarebbe stato affetto, avendo

di Paolo Marini

Arteoltre i confini della disabilità

2525 MARZO 2017

Plautilla Nelli: Busto di giovane donna, Galleria

degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

Plautilla Nelli: Santa Caterina da Siena, olio su tela

Convento di San Domenico, Siena

La mostra su Plautilla Nelli è la prima di un

progetto che catalizza l’attenzione sull’arte

femminile a partire dal Cinquecento: esso pre-

vede una lunga serie di esposizioni tempora-

nee che si terranno presso gli Uffizi a cadenza

annuale e che verranno inaugurate simbolica-

mente l’8 marzo, giornata internazionale della

donna. Una carrellata infinita, visto che sono

oltre duemila le opere delle tante artiste fioren-

tine obliate e nascoste nei depositi dei musei

cittadini.

Con questa monografica si rende omaggio ad

una donna ritenuta da Vasari la «prima pittrice

fiorentina» le cui opere erano «disseminate nei

conventi e nelle dimore dei gentiluomini» ed

erano talmente numerose che «sarebbe noioso

menzionarle tutte». Plautilla Nelli (Firenze

1524-1588) entrò poco più che bambina nel

convento domenicano di Santa Caterina in

Cafaggio (vicino al convento di San Marco) e in

seguito ne divenne più volte priora. Incline al

disegno apprese da autodidatta i rudimenti del-

la pittura e divenne ben presto una «stimatissi-

ma» pittrice che portò avanti, grazie numerose

allieve consorelle, un’intensa attività. Diresse

infatti una fiorente bottega artistica dotata di

tutta l’attrezzatura necessaria: un cospicuo nu-

mero di disegni di Fra’ Bartolomeo, modelli di

figure umane in cera e in gesso, arti e persino

un manichino in legno a grandezza naturale

servito presumibilmente per la pala del Com-

pianto. L’attività pittorica era ritenuta parte in-

tegrante del lavoro quotidiano delle suore e la

produzione della bottega garantiva una consi-

derevole fonte di reddito alla comunità di Santa

Caterina, in ottemperanza ai decreti tridentini

che proibivano di ricercare beneficenze fuori

della mura conventuali e con il placet del mo-

naco Savonarola che attraverso la pittura vede-

va «preservate queste donne dall’indolenza».

Plautilla con la sua capacità pittorica e impren-

ditoriale fu interprete della poetica figurativa

tridentina basata sui principi morali della sem-

plicità e della purezza. La prima testimonianza

della sua attività artistica è rintracciabile nelle

figure di angeli e santi che ornano i capilettera

di due corali risalenti al 1558 e custoditi pres-

so il Museo di San Marco (visibili in mostra).

Purtroppo la vasta produzione citata dal Vasari,

incentrata sulle immagini sacre e rivolta a sod-

disfare principalmente le richieste devozionali

private, risulta oggi dispersa nelle dimore dei

numerosi committenti. Inoltre quasi tutti i lavo-

ri documentati della Nelli andarono perduti o

dimenticati alla fine del Novecento, fatta ecce-

zione per il Compianto custodito nel Museo di

San Marco, L’ultima cena ora nel convento di

Santa Maria Novella e la pala della Pentecoste

in San Domenico a Perugia. Ma gli studi aperti

17 anni fa hanno permesso di attribuire a Plau-

tilla, o alla sua bottega, numerose opere disse-

minate fra Umbria e Toscana che preceden-

temente erano state ritenute di pittori maschi.

Tali opere, insieme a diversi disegni, costitui-

scono il nucleo centrale della mostra. Notevoli

i quattro dipinti che raffigurano l’immagine di

Santa Caterina ritratta di profilo; nella loro ri-

petibilità seriale si manifestano come strumen-

to di insistita divulgazione religiosa consacran-

do Plautilla missionaria di una predicazione

pittorica. Le sue opere infatti non presentano

originalità di stile o di composizione ma i volti

delle sante, rigati da lacrime silenti, risultano

apprezzabili per la loro efficacia devozionale

intrisa di pietas e profonda partecipazione al

dolore, prerogativa di un’arte tutta femminile.

Accanto alle opere di Plautilla Nelli vengono

presentati manufatti tessili e piccoli oggetti

devozionali che permettono di accendere i ri-

flettori sulle donne che all’interno delle mura

conventuali coltivarono il loro talento creativo

e padroneggiarono la tecnica pittorica da vere

professioniste.

Firenze,Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pit-

ture 9 marzo - 4 giugno 2017

di Luisa Moradei

Arte e devozione sulle orme di Savonarola

2625 MARZO 2017

43 pellicole che tratteggiano la società coreana,

la condizione attuale delle donne e dei diritti,

e il rapporto difficile con la Corea del Nord,

paese gemello eppure così lontano: è in corso

al cinema La Compagnia di Firenze la quindi-

cesima edizione del Korea Film Fest, festival

che propone il meglio della cinematografia sud

coreana contemporanea. Diretto da Riccardo

Gelli, coadiuvato dai critici Marco Luceri e

Caterina Liverani, fino al 31 marzo presenta

una vasta selezione di film premiati a festival

internazionali, alla presenza di registi e attori.

Tra tutti, primeggia la presenza del regista e

sceneggiatore Park Chan-wook, cineasta ama-

to da molti, tra cui Quentin Tarantino. Park

Chan-wook che ha portato sullo schermo i di-

lemmi del peccato e della redenzione declinati

attraverso storie percorse dal fil rouge della vio-

lenza, sarà a Firenze per incontrare il pubbli-

co e ricevere il premio alla carriera e le chiavi

della città sabato 25 marzo, occasione durante

la quale presenterà in anteprima italiana il suo

ultimo film The Handmaiden, sontuosa opera

in costume ambientata durante la dominazio-

ne nipponica in Corea, che lui stesso ha defi-

nito «una celebrazione del piacere femminile

e un grido di libertà contro l’oppressione degli

uomini». La mattina dello stesso giorno sarà

inoltre protagonista di una masterclass sul suo

cinema, i suoi maestri e il mondo violento e

stralunato di cui è interprete per antonomasia.

Nell’ambito della retrospettiva a lui dedicata

saranno proiettate alcune tra le sue opere più

significative: da Joint Security Area, in cui si

affronta il tema delle relazioni tra Corea del

Nord e Corea del Sud, alla Trilogia della Ven-

detta: il trittico composto da Mr Vendetta, Old

Boy (Gran Premio della Giuria al Festival di

Cannes) e Lady Vendetta (premio Cinema

Avvenire e Leoncino d’oro a Venezia) che ha

reso la sua inconfondibile marca autoriale

nota in tutto il mondo. Si continua con lavori

più recenti: la tenera e surreale storia d’amo-

re raccontata in I’m a Cyborg, but that’s ok,

il vampire movie Thirst, vincitore del Premio

della Giuria a Cannes nel 2009, e Stoker, re-

alizzato in lingua inglese con un cast interna-

zionale (tra cui l’attrice Nicole Kidman), oltre

a 5 cortometraggi. 4 le sezioni tematiche del

festival: Orizzonti Coreani, con film campioni

d’incassi in patria e vincitori di riconoscimenti

internazionali, tra cui Luckkey di Lee Gye-

byok (che sarà in sala il 26 alle 20), commedia

campione d’incassi in patria; Independent

Korea, i lavori dei più giovani e talentuosi re-

gisti esterni alla grande distribuzione; la Notte

Horror, selezione delle pellicole di genere più

originali dell’ultimo anno e Corto, Corti, spa-

zio dedicato al cortometraggio. Tra le novità il

focus K Woman, 5 titoli per esplorare il ruolo

della figura femminile sul grande schermo, dal

documentario al thriller. All’interno della se-

zione troviamo The Bacchus Lady di E Jyong

(ospite del festival), opera applaudita alla Berli-

nale che indaga il fenomeno delle prostitute di

mezza età e Mrs. B., a North Korean Woman

di Jero Yun, la storia vera presentata a Cannes

di una donna nordcoreana fuggita in Cina, che

per aiutare la famiglia lontana e guadagnarsi da

vivere si dedicherà al traffico di droga. In pro-

gramma anche Manshin di Park Chan-kyong

(fratello di Park Chan-wook) su una delle più

grandi sciamane coreane, il thriller The truth

beneath di Lee Kyoung-Mi, e Misbehavior di

Kim Tae-yong, sulla relazione tra un’insegnan-

te e un giovane allievo. La serata di chiusura, il

31, sarà dedicata a The Net, l’ultima pellicola

di Kim Ki-duk sulla relazione tra le due Coree,

presentata a Venezia 2016. Nel film si raccon-

ta di come, dopo un guasto accidentale al mo-

tore della sua barca, un pescatore nordcoreano

vada alla deriva giungendo in Corea del Sud,

dove viene sottoposto a una serie di indagini

brutali. Una volta rimandato a casa, tuttavia,

il trattamento da parte delle autorità del suo

paese sarà esattamente lo stesso, lasciando

all’uomo la sensazione di essere intrappolato

tra le ideologie repressive di due nazioni divise.

A completare il programma del Florence Ko-

rea Film Fest di quest’anno la prima edizione

della Korea Week, una settimana di eventi cit-

tadini per conoscere da vicino la danza, le arti

marziali, il cibo e le tradizioni della cultura su-

dcoreana. «Quest’anno il festival taglia un tra-

guardo importante. Sono passati quindici anni

dalla prima edizione, siamo cresciuti e siamo

diventati una delle realtà di riferimento per il

cinema coreano in Italia. Per festeggiare, abbia-

mo deciso di premiarci con la presenza di un

regista che in poco più di vent’anni di carriera è

diventato una vera e propria icona dell’univer-

so pop, quale Park Chan-wook. Ma la sua pre-

senza non è l’unico evento speciale dell’anno:

abbiamo voluto dedicare spazio alle donne nel

cinema di Corea con un focus dedicato, ospite-

remo gli ultimi lavori di maestri quali Kim Ki-

duk, Kim Jee-woon e Hong Sang-soo, abbiamo

in programma uno spettacolo di danze tradizio-

nali e mostre d’arte. Insomma, ci sono tutti gli

ingredienti per un’edizione da ricordare». Tut-

te le informazioni su www.koreafilmfest.com.

di Sara Chiarello

La Korea fiorentina

Maschietto editore Poesia

Titti Maschietto

Radicali LiberiTitti M

aschietto

7

Radicali Liberi

7

Poesie 1980-2101

Wikipedia definisce radicale (o radicalelibero) una specie chimicamolto reattivaaventevitamediadinormabrevissima,co-stituitadaunatomoounamolecolaforma-ta dapiù atomi chepresenta un elettronespaiato:taleelettronerendeilradicaleunaparticella estremamente reattiva, ingradodilegarsiadaltriradicaliodisottrarreunelettroneadaltremolecolevicine.èchiaropertantocheiradicaliliberisonoresponsa-bilidiqueglieffettinelcervellodiognunodinoicheprovocanol’uscitadellapoesia.

www.maschiettoeditore.com

Poli(blas)femo

All’occorrenza tremendo (facendoFinta) allo spropositare alQuanto d’un r’c’apaceCoordinatore-capo-testa di cazzoCome grande mela rosa fracidaSenz’occhi’orecchi’naso’boccaIn c’r’apace di altra gamma,Ritengo di dover panta gruellareDi idee sempre di più diA dire di fare sempre a meno a.

(senza titolo)

Amletofacciamo l’errore più grandedella nostra vitafacciamolo per una voltacon assoluta convinzioneper quello che ci riguardaandremo a rotolima c’è caso che il mondouscito fuori dai cardiniricominci a giraredavvero

Deposizione

Il braccio che cadeNon duoleA te il doloreÈ come un rumoreNel sordo rifugioChe accolse tua madre

Pur non possoChiudermiAl riparo del rosso di un mantoAl verso al cantoAll’ala che a volte in pieno naufragioIncontro

21 marzo 2017giornata mondiale della poesia

“Se non serve a farsi ammazzare, allora la poesia non serve a niente.

E comunque la poesia sta con la fronte attaccata a un muro di galera, come la libertà.”

Adriano Sofridalla prefazione al libro Militanza del fiore

Titti Maschietto Radicali Liberi368 pagine

Carlo CuppiniMilitanza del fiore 160 pagine

Sergio Risaliti Happy Birthday144 pagine

Che Cosa è la poesia?