novecento / parte seconda Suoni (parole e segni) del ... · di Paolo Petazzi 7. Anton Webern oltre...

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R ICOMINCIANDO DA FIGURE capitali del Novecento stori- co, che hanno segnato il percorso di questo turbolento eppure avvincente e rapidissimo secolo, abbiamo cer- cato di concludere la carrellata novecentesca che aveva preso le mosse da Debussy e Ravel, inerpicandosi il più delle volte in analisi, speriamo non troppo scontate, di rapporti tra arti e ar- tisti differenti, come il caso paradigmatico del- la coppia Schoenberg-Kandinskij. Effettivamente queste ventisette sta- zioni (suddivise in due debordanti sezio- ni speciali) hanno di volta in volta inda- gato un particolare periodo di fermenti e novità (ad esempio la Secessione vienne- se), un genere musicale che si fa per la prima volta strada, come il jazz o l’elettronica, un auto- re o una poetica dal valo- re emblematico e im- mediatamente rico- noscibile. Grazie alla competenza (oltre che alla gentilezza) di tutti coloro che hanno firmato i diversi articoli ci auguriamo di aver fornito non un percorso diacronico da un punto 1 a un punto 2, quanto delle istantanee, brevi immagini che si susse- guono e che, radunate tutte insieme, possano farsi lungome- traggio e dare forse l’idea della molteplicità, cifra peculiare e as- soluta della modernità e della contemporaneità. Non era infatti in nessun caso nostra intenzione costruire un ulteriore filone narrativo, che am- bisse attraverso strumenti stori- co-critici a spiegare e rendere si- stematico un periodo storico tanto fluido e magmati- co quanto forse anco- ra a noi troppo vicino. Un periodo comun- que dove John Ca- ge si è incontra- to con Luigi No- no, Berio ha col- laborato con Calvino, le colonne sonore si so- no incrociate con la musi- ca stocastica di Xenakis, la computer music ha convis- suto con il rock degli Stones. E moltissime altre sono le sfaccettature, gli snodi e i gangli cruciali che ci sono di certo colpevolmente sfuggiti… 1. Debussy e la Nuova Musica di Emilio Sala 2. «Ravel e l’anima delle cose» di Enzo Restagno 3. Il Carrozzone di «Parade» a Roma di Marco Vallora 4. Puccini e il Novecento di Massimo Contiero 5. Gli anni della Secessione viennese di Eugenio Bernardi 6. Schoenberg e Kandinskij: un incontro di Paolo Petazzi 7. Anton Webern oltre la Nuova Musica di Gian Paolo Minardi 8.ShostakovicheBritten:unpontetraesteovestnellaguerrafredda di Mario Carrozzo 9. La calda voce del jazz di Veniero Rizzardi 10. La musica per film di Roberto Pugliese 11. Due rivoluzioni del pensiero musicale E.Varèse–F.Zappa:ThePresent-dayComposer(s)RefusestoDie di Giovanni Mancuso 12. Il carteggio Hofmannsthal – Strauss di Leonardo Mello 13. Il Neoclassicismo del Novecento: un concetto problematico di Raffaele Pozzi 14. Le origini del Novecentismo italiano di Virgilio Bernardoni 15. L’avvento della musica elettronica di Alvise Vidolin 16. M’illumino di me di Mario Messinis 17. Luigi Nono e Bruno Maderna di Veniero Rizzardi 18. Luciano Berio e Italo Calvino di Cesare Fertonani 19. «Attraverso» Mallarmé di Paolo Petazzi 20. Sintesi interculturale e tempo teatralizzato Gli «Études pour piano, premier livre» di György Ligeti di Letizia Michielon 21. Hans Werner Henze di Jacopo Pellegrini 22. Lo sradicamento radicale Appunti per un’interpretazione di Xenakis di Dino Villatico 23. I vulcani spenti di Lachenmann di Gian Paolo Minardi 24. John Cage e l’espressionismo astratto di Giampiero Cane 25. Minimalismo di Giordano Montecchi 26. L’elettroshock rock: industria e modello giovanile di Giò Alajmo 27. Un oscuro, incerto, fragile, forse unico varco d’uscita di Quirino Principe Suoni (parole e segni) del Novecento (parte seconda) Luigi Nono Mick Jagger speciale — speciale novecento / parte seconda

Transcript of novecento / parte seconda Suoni (parole e segni) del ... · di Paolo Petazzi 7. Anton Webern oltre...

RICOMINCIANDO DA FIGURE capitali del Novecento stori-co, che hanno segnato il percorso di questo turbolento eppure avvincente e rapidissimo secolo, abbiamo cer-

cato di concludere la carrellata novecentesca che aveva preso le mosse da Debussy e Ravel, inerpicandosi il più delle volte in analisi, speriamo non troppo scontate, di rapporti tra arti e ar-tisti differenti, come il caso paradigmatico del-la coppia Schoenberg-Kandinskij.

Effettivamente queste ventisette sta-zioni (suddivise in due debordanti sezio-ni speciali) hanno di volta in volta inda-gato un particolare periodo di fermenti e novità (ad esempio la Secessione vienne-se), un genere musicale che si fa per la prima volta strada, come il jazz o l’elettronica, un auto-re o una poetica dal valo-re emblematico e im-mediatamente rico-noscibile. Grazie alla competenza (oltre che alla gentilezza)

di tutti coloro che hanno fi rmato i diversi articoli ci auguriamo di aver fornito non un percorso diacronico da un punto 1 a un punto 2, quanto delle istantanee, brevi immagini che si susse-guono e che, radunate tutte insieme, possano farsi lungome-traggio e dare forse l’idea della molteplicità, cifra peculiare e as-soluta della modernità e della contemporaneità.

Non era infatti in nessun caso nostra intenzione costruire un ulteriore fi lone narrativo, che am-

bisse attraverso strumenti stori-co-critici a spiegare e rendere si-stematico un periodo storico

tanto fluido e magmati-co quanto forse anco-ra a noi troppo vicino. Un periodo comun-

que dove John Ca-ge si è incontra-to con Luigi No-no, Berio ha col-

laborato con Calvino, le colonne sonore si so-

no incrociate con la musi-ca stocastica di Xenakis, la

computer music ha convis-suto con il rock degli Stones. E

moltissime altre sono le sfaccettature, gli snodi e i gangli cruciali che ci sono di certo colpevolmente sfuggiti… ◼

1. Debussy e la Nuova Musicadi Emilio Sala

2. «Ravel e l’anima delle cose»di Enzo Restagno

3. Il Carrozzone di «Parade» a Romadi Marco Vallora

4. Puccini e il Novecentodi Massimo Contiero

5. Gli anni della Secessione viennesedi Eugenio Bernardi

6. Schoenberg e Kandinskij: un incontrodi Paolo Petazzi

7. Anton Webern oltre la Nuova Musicadi Gian Paolo Minardi

8. Shostakovich e Britten: un ponte tra est e ovest nella guerra freddadi Mario Carrozzo

9. La calda voce del jazzdi Veniero Rizzardi

10. La musica per fi lmdi Roberto Pugliese

11. Due rivoluzioni del pensiero musicaleE. Varèse – F. Zappa: The Present-day Composer(s) Refuses to Diedi Giovanni Mancuso

12. Il carteggio Hofmannsthal – Straussdi Leonardo Mello

13. Il Neoclassicismo del Novecento: un concetto problematicodi Raffaele Pozzi

14. Le origini del Novecentismo italianodi Virgilio Bernardoni

15. L’avvento della musica elettronicadi Alvise Vidolin

16. M’illumino di medi Mario Messinis

17. Luigi Nono e Bruno Maderna di Veniero Rizzardi

18. Luciano Berio e Italo Calvinodi Cesare Fertonani

19. «Attraverso» Mallarmédi Paolo Petazzi

20. Sintesi interculturale e tempo teatralizzatoGli «Études pour piano, premier livre» di György Ligetidi Letizia Michielon

21. Hans Werner Henzedi Jacopo Pellegrini

22. Lo sradicamento radicaleAppunti per un’interpretazione di Xenakisdi Dino Villatico

23. I vulcani spenti di Lachenmanndi Gian Paolo Minardi

24. John Cage e l’espressionismo astrattodi Giampiero Cane

25. Minimalismodi Giordano Montecchi

26. L’elettroshock rock: industria e modello giovaniledi Giò Alajmo

27. Un oscuro, incerto, fragile, forse unico varco d’uscitadi Quirino Principe

Suoni (parole e segni)del Novecento (parte seconda)

tisti differenti, come il caso paradigmatico del-la coppia Schoenberg-Kandinskij.

Effettivamente queste ventisette sta-zioni (suddivise in due debordanti sezio-ni speciali) hanno di volta in volta inda-gato un particolare periodo di fermenti e novità (ad esempio la Secessione vienne-se), un genere musicale che si fa per la prima volta strada, come il jazz o l’elettronica, un auto-re o una poetica dal valo-re emblematico e im-mediatamente rico-noscibile. Grazie alla

tisti differenti, come il caso paradigmatico del-la coppia Schoenberg-Kandinskij.

Effettivamente queste ventisette sta-zioni (suddivise in due debordanti sezio-ni speciali) hanno di volta in volta inda-gato un particolare periodo di fermenti e novità (ad esempio la Secessione vienne-se), un genere musicale che si fa per la prima volta strada, come il jazz o l’elettronica, un auto-re o una poetica dal valo-re emblematico e im-mediatamente rico-noscibile. Grazie alla

ulteriore fi lone narrativo, che am-bisse attraverso strumenti stori-co-critici a spiegare e rendere si-stematico un periodo storico

tanto fluido e magmati-co quanto forse anco-ra a noi troppo vicino. Un periodo comun-

que dove John Ca-ge si è incontra-

laborato con Calvino, le colonne sonore si so-

no incrociate con la musi-ca stocastica di Xenakis, la

computer music ha convis-suto con il rock degli Stones. E

moltissime altre sono le sfaccettature, gli snodi e i gangli cruciali che ci sono di certo colpevolmente sfuggiti…

ulteriore fi lone narrativo, che am-bisse attraverso strumenti stori-co-critici a spiegare e rendere si-stematico un periodo storico

tanto fluido e magmati-co quanto forse anco-ra a noi troppo vicino. Un periodo comun-

que dove John Ca-

laborato con Calvino, le colonne sonore si so-

no incrociate con la musi-ca stocastica di Xenakis, la

computer music ha convis-suto con il rock degli Stones. E

moltissime altre sono le sfaccettature, gli snodi e i gangli cruciali che ci sono di certo colpevolmente sfuggiti…

Luigi Nono

Mick Jagger

speciale —

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iale

novecento / parte seconda

«EGREGIO SIGNORE, non so se Ella si rammenta ancora di un nostro colloquio a Parigi, e che allora Le accen-nai all’idea di un balletto, al che Ella ebbe la cortesia

di dichiarare che eventualmente avrebbe musicato vo-lentieri qualcosa del genere».

Queste parole, datate 17 novembre 1900, dan-no inizio al sodalizio artistico più formidabi-le della prima metà del Novecento (e certo uno dei più fortunati di tutta la storia del-la musica occidentale), quello tra Hugo von Hofmannsthal, già allora afferma-to poeta viennese, e Richard Strauss, che – all’apice della notorietà – di lì a poco declinerà molto cordialmente l’invito del poeta (e non sarà l’ultima volta che proposte e progetti ideati dal-l’una o dall’altra parte moriranno ancora prima di nascere). Si deve infatti aspettare nove anni per veder fi orire il frutto di que-sta straordinaria collaborazione: il 25 gen-naio 1909 – con la regia di Georg Toller – va in scena Elektra, musica di Strauss e libretto ricavato

da Hofmannsthal da una sua precedente e applaudita riscrittu-ra del dramma sofocleo, allestita il 30 ottobre del 1903 da Max Reinhardt al Kleines Theater di Berlino. Già l’analisi comparata tra il testo originale di Hofmannsthal – che sancisce, dopo la cri-si denunciata un anno prima nella Lettera di Lord Chandos (1902), l’abbandono della poesia per rivolgersi con ottimismo al teatro – e il libretto per l’opera, in alcune parti assai diverso dalla prima stesura, offrirebbe alcuni spunti per comprendere la complessa natura del rapporto tra musicista e poeta, che – come nota Ma-

rio Bortolotto – «non erano stati mai propriamen-te amici, ma si sapevano insostituibili», dive-

nendo «compagni di lavoro per vent’an-ni». Nel lavoro musicale infatti si perce-pisce l’infl uenza esercitata dal compo-sitore, che spesso chiede allo scritto-re – non sempre accondiscendente – tagli e aggiustamenti.A prescindere comunque dagli

aspetti caratteriali e affettivi, è ovvio che l’incontro tra due personalità co-sì diverse per sensibilità e formazione non potesse che svilupparsi in termi-ni dialettici talvolta anche aspri, pur se temperati sempre dalla gentilezza for-male, come testimoniano le tante let-tere. Un esempio tra i tanti. Nel 1906 Hofmannsthal, in pieno lavoro crea-tivo, scrive: «Recentemente (…) ho provato a immergermi in Elektra con

i Suoi intendimenti, cercando l’effetto

della musica, e così ho capito che il piccolo intermezzo tra il cuo-co e il giovane servo (…) non è affatto indispensabile. Se lo vuo-le tagliare, dunque, ha fi n d’ora il mio consenso». Il poeta quin-di, fors’anche un po’ ingenuamente, cerca di farsi «interprete» della musica, e di assecondarla. Ma Strauss si mostra sempre in-fastidito dagli sconfi namenti del suo «librettista» in ambito mu-sicale, che rivendica tutto per sé, come indica chiaramente la missiva, un po’ risentita, del dicembre 1907: «C’è però una co-sa che vorrei chiederLe: di non pensare in alcun modo alla mu-sica, quando Ella scrive il libretto, perché la musica è compito mio. Mi crei un dramma ricco di azione e di contrasti con po-

che scene di massa, ma con due o tre personaggi di gran-de impegno».

Nel 1909 fi nalmente Elektra – che è il quar-to lavoro teatrale di Strauss, dopo Guntram,

Feuersnot e soprattutto dopo la meraviglio-sa Salome da Oscar Wilde – va in scena ed è salutata con enorme successo, dando av-vio a una felice e costante relazione ar-tistica che, a partire dal 1909, darà vita a capolavori come Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa, Dresda, Königliches Operhaus, 26 gennaio 1911), Ariad-ne auf Naxos (Arianna a Nasso Vienna, Opertheater, 4 ottobre 1916) e Die Frau

ohne Schatten (La donna senz’ombra, Vien-na, Opertheater, 10 ottobre 1919), cui si

aggiungono poi anche Die äg yptische Helena (Elena egizia, Dresda, Staatstheater, Operhaus,

6 giugno 1928) e Arabella (Dresda, Staatstheater,

Operhaus, 1 luglio 1933). In questo lungo periodo di tempo, l’imponente Epistolario (più di 600 lettere) si va intanto infi tten-do di osservazioni, commenti, analisi, puntualizzazioni e sotto-lineature che, oltre a delineare con chiarezza il variopinto mon-do teatrale del tempo, mettono in evidenza i punti d’incontro e le divergenze tra due concezioni del mondo e dell’arte per alcu-ni aspetti assai distanti. Il tono delle missive varia molto di volta in volta, in una gamma che va dalle informazioni pratiche (come gli spostamenti continui di Strauss, richiestis-simo come direttore, non solo delle pro-prie opere) al semplice rilievo tecnico (una sfumatura dialettale da cambia-re, un’orchestrazione che desta qual-che perplessità). Più spesso i contorni si allargano, giungono ad abbracciare i rispettivi universi di competenza, co-me già si è accennato poco sopra. Ed ecco allora che se il compositore riven-dica a sé il contesto musicale, il poeta-drammaturgo fa altrettanto per quanto concerne le questioni sceniche, come dimostrano le parole scritte da Ho-fmannsthal il 25 maggio del 1911, poco tempo dopo la prima del Ro-senkavalier, quando già era entrata nel vivo l’elaborazione di Ariadne auf Naxos: «Mio caro dr. Strauss, (…) dobbiamo chiaramente di-videre le rispettive competenze. Tutta la parte scenica, anche i boz-

Il carteggio Hofmannsthal – Strauss

di dichiarare che eventualmente avrebbe musicato vo-

Queste parole, datate 17 novembre 1900, dan-no inizio al sodalizio artistico più formidabi-le della prima metà del Novecento (e certo uno dei più fortunati di tutta la storia del-la musica occidentale), quello tra Hugo

l’una o dall’altra parte moriranno ancora prima di nascere). Si deve infatti aspettare nove anni per veder fi orire il frutto di que-sta straordinaria collaborazione: il 25 gen-naio 1909 – con la regia di Georg Toller – va in

, musica di Strauss e libretto ricavato

che scene di massa, ma con due o tre personaggi di gran-de impegno».

Nel 1909 fi nalmente to lavoro teatrale di Strauss, dopo

Feuersnotsa salutata con enorme successo, dando av-vio a una felice e costante relazione ar-

ne auf NaxosOpertheater, 4 ottobre 1916) e

ohne Schatten na, Opertheater, 10 ottobre 1919), cui si

aggiungono poi anche Elena egizia

6 giugno 1928) e

simo come direttore, non solo delle pro-prie opere) al semplice rilievo tecnico prie opere) al semplice rilievo tecnico (una sfumatura dialettale da cambia-re, un’orchestrazione che desta qual-che perplessità). Più spesso i contorni si allargano, giungono ad abbracciare i rispettivi universi di competenza, co-me già si è accennato poco sopra. Ed ecco allora che se il compositore riven-dica a sé il contesto musicale, il poeta-drammaturgo fa altrettanto per quanto concerne le questioni sceniche, come dimostrano le parole scritte da Ho-

prie opere) al semplice rilievo tecnico (una sfumatura dialettale da cambia-re, un’orchestrazione che desta qual-che perplessità). Più spesso i contorni si allargano, giungono ad abbracciare i rispettivi universi di competenza, co-me già si è accennato poco sopra. Ed ecco allora che se il compositore riven-dica a sé il contesto musicale, il poeta-drammaturgo fa altrettanto per quanto

te amici, ma si sapevano insostituibili», dive-te amici, ma si sapevano insostituibili», dive-nendo «compagni di lavoro per vent’an-

ni». Nel lavoro musicale infatti si perce-pisce l’infl uenza esercitata dal compo-sitore, che spesso chiede allo scritto-

tagli e aggiustamenti.

aspetti caratteriali e affettivi, è ovvio che l’incontro tra due personalità co-sì diverse per sensibilità e formazione non potesse che svilupparsi in termi-ni dialettici talvolta anche aspri, pur se temperati sempre dalla gentilezza for-male, come testimoniano le tante let-tere. Un esempio tra i tanti. Nel 1906 Hofmannsthal, in pieno lavoro crea-tivo, scrive: «Recentemente (…) ho provato a immergermi in

te amici, ma si sapevano insostituibili», dive-nendo «compagni di lavoro per vent’an-

ni». Nel lavoro musicale infatti si perce-pisce l’infl uenza esercitata dal compo-

sta straordinaria collaborazione: il 25 gen-naio 1909 – con la regia di Georg Toller – va in

, musica di Strauss e libretto ricavato (Elena egizia(Elena egizia(

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novecento / parte seconda

zetti, lo stile, le danze, ecc., spetta a me». È piuttosto frequen-te incontrare passaggi come questo, che in modo più o meno garbato cercano di ricondurre il proprio interlocutore nei bina-ri di ciò che dovrebbe competergli. Ma quello che appare pale-se, leggendo l’epistolario, è il diverso – e per alcuni versi antiteti-co – punto di partenza dei due artisti. In questo senso, paradig-matico (e anche divertente) è lo scambio avvenuto tra il 25 mag-gio e il 6 giugno del 1916, quando i preparativi dell’Ariadne era-no quasi ultimati, e già il maestro bavarese immaginava nuovi, futuri progetti. E dopo aver messo al corrente il poeta sulla de-fi nizione del dettaglio di una scena, di punto in bianco ag-giunge: «Quanto a una nuova opera, ho in mente le due cose seguenti: o una commedia perfettamen-te moderna, tutta realistica, di caratteri e di psi-cologie nervose (…), oppure un grazioso la-voro d’amore e d’intrigo, più o meno a me-tà strada tra la Liebelei di Schnitzler (…) e Geheimer Agent di Hackländer o Le Verre d’eau di Scribe, un genere di commedia a intrigo per cui ho sempre avuto una speciale predilezione. Per esempio, un intrigo d’amore in ambiente diplomati-co, al Congresso di Vienna, con prota-gonista una spia in gonnella, di alta no-biltà. Lei dirà forse: robaccia! Ma noi mu-sicanti siamo famosi, si sa, per un gusto un po’ scadente in cose di estetica». Al di là del-la risposta inorridita e piccata di Hofmannsthal («Ho dovuto ridere di cuore della Sua lettera. Per

il mio gusto sono davvero cose orrende quelle che mi propone, e potrebbero distogliere uno per tutta la vita dal fare il libretti-sta») la controreplica di Strauss, più che la sua ingenuità in ma-teria teatrale e il suo «gusto scadente in cose di estetica» mette in evidenza la volontà – accompagnata dalla consapevolezza della propria arte – di ricercare nuove forme espressive per far risal-tare il proprio talento compositivo: «Mio caro signor von Hof-mannsthal! Rida, rida: ma io so bene quello che voglio. Quando

avrà ascoltato il nuovo prologo (…) mi capi-rà e si accorgerà che ho un grande talento

per l’operetta – anche perché il mio lato tragico è un po’ spompato, e dopo que-sta guerra la tragedia in teatro mi sem-bra per ora alquanto fi acca e infantile, e il mio incoercibile talento (in fi n dei conti sono l’unico compositore oggi che abbia veramente umorismo, argu-

zia e uno spiccato senso per la parodia) lo vorrei mettere alla prova. Sì, mi sento

addirittura chiamato a divenire l’Of-fenbach del XX secolo, ed Ella sarà, se deve essere, il mio poeta».

Un altro genere di epistole sono poi quelle che Franco Serpa nella sua edizione italiana chiama «let-tere-lezione» teoriche, e che han-no tutte la stessa direzione, da Ho-fmannsthal verso Strauss. Tra le molte che si potrebbero ascrivere

a questa categoria, si menziona qui una delle prime, inviata il 23 luglio 1911, ancora nel primo periodo di «incubazione» dell’Aria-dne. Strauss poco prima si era mostrato preoccupato dell’incom-prensibilità del testo poetico, arrivando a suggerire la necessità di una «spiegazione». E Hofmannsthal, in una lunga missiva, puntualizza in modo diretto e un po’ didattico: «Mi permetta di tornare con due parole sul punto che la preoccupa: il compren-dere e non comprendere; il fatto che Ella al primo contatto non abbia capito; il fatto che probabilmente il pubblico non capirà e che certamente non capiranno i critici. L’essenziale poetico di

un’opera di poesia, il reale contenuto, in un primo momen-to non è mai compreso. Si comprende solo ciò in cui

non c’è nulla da comprendere: Tosca, Madama But-terfl y, ecc. Cose più alte, cose essenziali restano

misconosciute, senza eccezione. Le rammen-to lo scritto di Wagner del 1851 nel qua-le dichiara (…) che creazioni di tale sem-plicità, di così sicura e sapiente struttu-ra teatrale come Lohengrin e Tannhäuser non furono comprese, e non già la mu-sica, ma il poema, sì che a quei tempi si chiesero: “Insomma, che ha voluto di-re?” (…) No, mio caro Richard, l’essen-za poetica è intesa gradualmente, molto

gradualmente».Insomma, le 800 pagine in cui si dipa-

na il carteggio danno conto di un incontro straordinario e inimitabile, forse anche e so-

prattutto grazie alla diversità di temperamento e

cultura dei due protagonisti. Ma se è vero che qua e là emergo-no costantemente diverbi e fraintendimenti, che si accrescono nell’ultimo periodo della frequentazione, quando i capolavori erano già stati scritti, è altrettanto certo che la morte improvvi-sa del poeta – avvenuta il 15 luglio 1929, un giorno dopo il sui-cidio del fi glio – abbia lasciato Strauss a lungo in uno stato di dolente prostrazione. E concludendo questo breve e necessa-riamente incompleto scritto sembra opportuno citare le paro-le che Quirino Principe dedica allo speciale legame che unisce questa geniale coppia di artisti: «I due territori intellettuali hanno almeno due zone in co-mune, e la sovrapposizione diventa fu-sione e consonanza: la scelta di vive-re per l’arte, vanifi cando la storia at-traverso la contemplazione, e l’inse-diarsi del sogno nella realtà con forza rivelatrice. I due motivi di affi nità so-no decisivi, al centro, nell’uno e nel-l’altro, della vita individuale». (l.m.) ◼

Come bibliografi a essenziale e tutt’altro che esau-stiva si ricordano almeno:Hugo von Hofmannsthal – Richard Strauss, Epi-stolario, edizione italiana a cura di Franco Serpa, Adelphi, Milano 1993Mario Bortolotto, La serpe in seno. Sulla musica di Ri-chard Strauss, Adelphi, Milano 2007Quirino Principe, Strauss. La musica nello specchio di Eros, Bompiani, Milano 2004

intellettuali hanno almeno due zone in co-intellettuali hanno almeno due zone in co-mune, e la sovrapposizione diventa fu-sione e consonanza: la scelta di vive-re per l’arte, vanifi cando la storia at-

Come bibliografi a essenziale e tutt’altro che esau-

Epi-, edizione italiana a cura di Franco Serpa,

Sulla musica di Ri-

La musica nello specchio di

intellettuali hanno almeno due zone in co-mune, e la sovrapposizione diventa fu-sione e consonanza: la scelta di vive-

Come bibliografi a essenziale e tutt’altro che esau-

Epi-, edizione italiana a cura di Franco Serpa,

Sulla musica di Ri-

rà e si accorgerà che ho un grande talento per l’operetta – anche perché il mio lato tragico è un po’ spompato, e dopo que-sta guerra la tragedia in teatro mi sem-bra per ora alquanto fi acca e infantile, e il mio incoercibile talento (in fi n dei conti sono l’unico compositore oggi che abbia veramente umorismo, argu-

zia e uno spiccato senso per la parodia) lo vorrei mettere alla prova. Sì, mi sento

addirittura chiamato a divenire l’Of-fenbach del XX secolo, ed Ella sarà,

per l’operetta – anche perché il mio lato tragico è un po’ spompato, e dopo que-sta guerra la tragedia in teatro mi sem-bra per ora alquanto fi acca e infantile, e il mio incoercibile talento (in fi n dei conti sono l’unico compositore oggi che abbia veramente umorismo, argu-

zia e uno spiccato senso per la parodia) lo vorrei mettere alla prova. Sì, mi sento

addirittura chiamato a divenire l’Of-

fi nizione del dettaglio di una scena, di punto in bianco ag-giunge: «Quanto a una nuova opera, ho in mente le

perfettamen-tutta realistica, di caratteri e di psi-

cologie nervose (…), oppure un grazioso la-voro d’amore e d’intrigo, più o meno a me-

di Schnitzler (…) e Le Verre

gonista una spia in gonnella, di alta no-biltà. Lei dirà forse: robaccia! Ma noi mu-sicanti siamo famosi, si sa, per un gusto un po’ scadente in cose di estetica». Al di là del-la risposta inorridita e piccata di Hofmannsthal («Ho dovuto ridere di cuore della Sua lettera. Per

un’opera di poesia, il reale contenuto, in un primo momen-to non è mai compreso. Si comprende solo ciò in cui

non c’è nulla da comprendere: terfl y, ecc. Cose più alte, cose essenziali restano terfl y, ecc. Cose più alte, cose essenziali restano terfl y

misconosciute, to lo scritto di Wagner del 1851 nel qua-le dichiara (…) che creazioni di tale sem-plicità, di così sicura e sapiente struttu-

re?” (…) No, mio caro Richard, l’essen-za poetica è intesa gradualmente, molto

gradualmente».Insomma, le 800 pagine in cui si dipa-

na il carteggio danno conto di un incontro straordinario e inimitabile, forse anche e so-

prattutto grazie alla diversità di temperamento e R ich a r d S tr a u ss

speciale —

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novecento / parte seconda

La defi nizione concettuale di «neoclassicismo» presenta in musica molti aspetti problematici e non è af-fatto ovvia come si potrebbe pensare di pri-

mo acchito. Concetto legato e derivato da quel-lo più ampio e generale di «classicismo», es-so si scontra in musica con le specifi cità di un’arte, quale la musica, dove la classicità antica, contrariamente alle numerose te-stimonianze oggettuali e visive pervenu-teci dal mondo greco-romano, non ci ha lasciato un analogo copioso patrimonio sonoro.

Della musica greca, la cui trasmissione dal periodo omerico fi no al III secolo a.C. avvenne essenzialmente per tradizione ora-le, ci rimangono infatti pochi frammenti no-tati e di tarda epoca ellenistico-romana. La con-creta realtà sonora della musica greca antica sfugge

dunque ad ogni ricostruzione esecutiva mentre as-sai ampio è il numero di testimonianze indiret-te relative al valore sociale, etico e religioso di essa. I miti greci, gli scritti di fi losofi classici quali Platone, Aristotele, le teorie scientifi -co-musicali di Pitagora e Aristosseno, le stesse pitture vascolari ci indicano il no-tevole rilievo che la musica ebbe nell’an-tichità. Tale rilievo, e non le opere musi-cali di fatto assenti, fu alla base del mito umanistico del primato della musica gre-ca che la trattatistica e la nascente storio-grafi a musicale registrano tra Cinquecento e Seicento in numerose opere teoriche tra le quali le Istitutioni harmoniche di Gioseffo Zarlino (1558) e il Dialogo della musica antica et della moderna di Vincenzo Galilei (1581).

Il neoclassicismo del secondo Settecento di Johann Joa-chim Winckelmann – che individuò nelle opere dell’arte greca giunte fi no a noi quella «nobile semplicità e serena grandezza», secondo quanto egli scrisse nella sue note Considerazioni sull’imi-tazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (1755) – si basò sul-l’assunzione di modelli stilistici storico-archeologici. Il classici-smo musicale non ebbe invece la disponibilità di analoghi mo-delli sonori. Ciò contribuì ad accentuare, in musica, la coesisten-za di due defi nizioni di classicismo e neoclassicismo: l’una di ti-po sistematico-normativo, l’altra di tipo storico-stilistico. Per la prima è «classico» – nel senso etimologico del termine che risa-le alle Noctes Atticae di Aulo Gellio (II sec. d.C.) – l’autore eccel-lente assunto come modello. Da questo punto di vista composi-

tori appartenenti storicamente al periodo barocco come Bach, Haendel e Domenico Scarlatti saranno considerati «classici» del-la musica. Per la seconda è «classico» invece l’autore il cui stile si richiama ad un ideale di equilibrio e di ordine formali. In questo senso si può parlare di classicismo in compositori dell’Ottocen-to come Mendelssohn e Brahms.

La problematicità di una defi nizione in termini stilistici del classicismo affi ora anche in quelli che solitamente vengono iden-tifi cati con l’etichetta di «classici» viennesi per eccellenza: Haydn, Mozart e Beethoven. La musica linguisticamente nuova di que-sti compositori veniva ad esempio avvertita da uno scrittore e musicista romantico come Ernst Theodor Amadeus Hoffmann

come romantica. D’altra parte, lo stesso musicologo contem-poraneo Charles Rosen, autore di un volume intitola-

to Lo stile classico: Haydn, Mozart, Beethoven (Milano, Feltrinelli, 1979), ammette preliminarmente nel

suo libro quanto una defi nizione di stile classi-co appartenga più alla storia del gusto e del-la recezione che a quella della composizio-ne musicale.

Entrambe le defi nizioni di «classico», si-stematico-normativa e storico-stilistica, sollevano inoltre importanti questioni di estetica della musica delle quali si debbo-no avere ben chiare le implicazioni ideolo-

giche. La concezione sistematico-normati-va della classicità tende ad individuare valo-

ri estetici universali che rischiano di irrigidir-si in un canone sovrastorico. L’approccio stori-

co-stilistico, sottolineando la relatività storico-cul-

turale e stilistica delle forme comunicative, rischia d’altra parte di aggirare, ove si applichi un relati-

vismo radicale, la questione delle permanenze profonde e dell’importanza della memoria nell’esperienza musicale umana.

Neoclassicismo e rappel à l’ordreLa mancanza in musica di exempla musi-cali greco-romani, quindi di un classici-smo in senso proprio, condizionò note-volmente il neoclassicismo musicale del

Novecento. Esso infatti si confi gurò come un recupero e una reinvenzione di elemen-

ti della musica del passato non riferibili ad un quadro storico-stilistico omogeneo. I vari retour

à toccarono di volta in volta modelli differenti, in una sorta di mito dell’antico generalizzato e generico. I

compositori guardarono a varie epoche del passato, anche re-cente: alla musica vocale del Medioevo e del Rinascimento (poli-fonia medievale, Gesualdo, Monteverdi, ecc.); al Seicento (Bach, Haendel, Scarlatti ecc.); al Settecento (Haydn, Pergolesi, Vivaldi, ecc.); all’Ottocento (Cajkovskij, Paganini, Rossini ecc.).

Il neoclassicismo non è pertanto defi nibile come corrente dai caratteri stilistici ben determinati. Si presenta piuttosto come una adesione al generale rappel à l’ordre che investì le arti dopo la pri-ma guerra mondiale. Il movimento tentò di aprire una via al-la modernità differente dall’espressionismo, dalle avanguardie radicali del periodo prebellico e, salvo eccezioni, dalle tendenze tardoromantiche. In quest’ultimo senso il mito dell’antico non spiega altri importanti fenomeni neoclassici quali l’attrazione

Il Neoclassicismo del Novecento: un concetto problematico

di Raffaele Pozzi

a defi nizione concettuale di «neoclassicismo» presenta in musica molti aspetti problematici e non è af-fatto ovvia come si potrebbe pensare di pri-

mo acchito. Concetto legato e derivato da quel-lo più ampio e generale di «classicismo», es-so si scontra in musica con le specifi cità di un’arte, quale la musica, dove la classicità

dal periodo omerico fi no al III secolo a.C. avvenne essenzialmente per tradizione ora-le, ci rimangono infatti pochi frammenti no-tati e di tarda epoca ellenistico-romana. La con-creta realtà sonora della musica greca antica sfugge

come romantica. D’altra parte, lo stesso musicologo contem-poraneo Charles Rosen, autore di un volume intitola-

to Lo stile classico: Haydn, Mozart, BeethovenFeltrinelli, 1979), ammette preliminarmente nel

suo libro quanto una defi nizione di stile classi-co appartenga più alla storia del gusto e del-la recezione che a quella della composizio-ne musicale.

no avere ben chiare le implicazioni ideolo-giche. La concezione sistematico-normati-

va della classicità tende ad individuare valo-ri estetici universali che rischiano di irrigidir-

si in un canone sovrastorico. L’approccio stori-co-stilistico, sottolineando la relatività storico-cul-

dunque ad ogni ricostruzione esecutiva mentre as-sai ampio è il numero di testimonianze indiret-te relative al valore sociale, etico e religioso di essa. I miti greci, gli scritti di fi losofi classici quali Platone, Aristotele, le teorie scientifi -

ca che la trattatistica e la nascente storio-grafi a musicale registrano tra Cinquecento e Seicento in numerose opere teoriche tra le

di Gioseffo Zarlino Dialogo della musica antica et della moderna di

turale e stilistica delle forme comunicative, rischia d’altra parte di aggirare, ove si applichi un relati-

vismo radicale, la questione delle permanenze profonde e dell’importanza della memoria nell’esperienza musicale umana.

Neoclassicismo e rappel à l’ordre

volmente il neoclassicismo musicale del Novecento. Esso infatti si confi gurò come

un recupero e una reinvenzione di elemen-ti della musica del passato non riferibili ad un

quadro storico-stilistico omogeneo. I vari à toccarono di volta in volta modelli differenti, in

una sorta di mito dell’antico generalizzato e generico. I

H e i t o r V ill a - L obos

D a r i u s M i l ha u d

— specialesp

ecia

le

novecento / parte seconda

per il mondo del music-hall, della canzone leggera o della musi-ca d’uso. L’elemento ideologico presente nella concezione neo-classica, identifi cabile con la centralità della nozione ambigua di ordine, rese peraltro possibile negli anni trenta la convivenza di questo movimento con i regimi autoritari. Nella storia musica-le il rappel à l’ordre fu del resto anche una risposta a due eventi trau-matici che la coscienza artistica dei contemporanei tese a sovrap-porre: da una parte la crisi della tonalità e l’avvento dell’atonalità, dall’altra il crollo del vecchio ordine politico europeo con la pri-ma guerra mondiale che lasciò sui campi di battaglia dieci milio-ni di morti. Tali fratture storiche provocarono nei compositori e nella stessa ricezione musicale una diversa qualità nel rapporto con il passato. Mentre infatti i classicismi di epoche pre-cedenti, si pensi al modo in cui Mendelssohn guar-dava a Johann Sebastian Bach, avvertivano una continuità storica nel rapporto tra presente e passato, una sorta di vicinanza creativa con la fonte, numerosi compositori più innova-tivi e avanzati del Novecento volgendosi alle forme del passato fi nirono con l’ac-centuare la cesura con il presente. Nel The Rake’s Progress (1951) di Igor Stravinskij, ad esempio, il ricorso alle forme chiuse della tradizione operistica del Sette-Ottocento, non celebra un pacifi co ritorno al passato bensì un problematico e pessimistico riferi-mento ad esso: nel fi nale dell’opera il protago-nista John Rakewell impazzisce immaginando se stesso proiettato nel mondo del mito greco.

Le diverse mascheredel NeoclassicismoL’importanza del rappel à l’ordre come tratto di matrice ideologico-normativa che accomu-na le maschere, i differenti orientamenti stilistico-musicali del neoclassicismo eu-ropeo, emerge nella stessa formulazione, concettualmente vaga, della junge Klassizi-tät [giovane classicità] di Ferruccio Buso-ni. In una lettera di Busoni a Paul Bekker, pubblicata nella «Frankfurter Allgemeine Zeitung» nel 1920, il musicista auspica l’av-vento di una «nuova classicità» che si carat-terizzi, tra altri aspetti, per la «rinuncia al sog-gettivismo (la via verso l’oggettività – il ritrovar-si dell’autore di fronte all’opera – una via di purifi ca-zione, un cammino duro, una prova dell’acqua e del fuo-co), la riconquista della serenità».

In Germania, l’esigenza di prendere le distanze dal soggetti-vismo esasperato dell’espressionismo, si pensi in tal senso alla letteratura della neue Sachlichkeit [nuova oggettività], si incontrò con le nuove istanze culturali della Sozialpolitik della Repubbli-ca di Weimar. Il mutamento ideologico in direzione razionalisti-ca e democratica trovò nel progetto del Bauhaus di Gropius una compiuta realizzazione e analoghe istanze furono espresse dal-la Gebrauchmusik [musica d’uso] di Paul Hindemith, produzione pensata per musicofi li dilettanti. In questo ambito, dalla colla-borazione con Bertolt Brecht nacque il Lehrstück (1929) per due voci maschili, voce recitante, coro, danzatore, tre clown e or-chestra, che prevede il coinvolgimento del pubblico nell’azione

teatrale. La sfera della musica funzionale, d’uso quotidiano e di consumo popolare, nel clima degli anni venti, fu considerata dai compositori colti come una nuova sorgente di ispirazione. Sti-lemi provenienti dal jazz e dalla musica popolare affi orano, ad esempio, nella Suite «1922», nel fi nale della Kammermusik n. 1 di Paul Hindemith o nei ragtime di Igor Stravinskij (1918) e di Da-rius Milhaud (1922).

Un autentico mito del rappel à l’ordre neoclassico fu Johann Se-bastian Bach, modello musicale in realtà chiamato in causa per orientamenti stilistici assai diversi. Il fenomeno del «ritorno a Bach», propriamente neobarocco, rappresenta in effetti un co-spicuo settore della produzione neoclassica e ne mostra con evi-

denza l’intima contraddizione. A Bach si richiamano in-fatti Ferruccio Busoni con le sue solide architettu-

re contrappuntistiche (Fantasia contrappuntistica, 1921); Igor Stravinskij con idee di una musica

dai profi li strumentali astratti (Ottetto, 1922); Paul Hindemith, con la polifonia lineare della Kammermusik n. 4; Heitor Villa Lo-bos, con la sua ricerca di sintesi tra folklo-re brasiliano e scrittura bachiana (Bachia-na brasileira n.1, 1930).La stessa svolta dodecafonica di Arnold

Schoenberg degli anni venti assume i trat-ti di un’esigenza di ritorno ad un ordine lin-

guistico e formale che guarda anche a forme antiche, tendendo a convergere con la genera-

le tendenza neoclassica (Serenade op. 24, 1923; Sui-te op. 25, 1921).

Gli intenti modernistici di stampo antiromanti-co sono infi ne evidenti nel neoclassicismo pari-

gino che trova limpida esposizione ideologi-ca negli scritti di Jean Cocteau (Le coq et l’ar-lequin, 1926). Ironia, distacco emotivo, pa-rodia, gusto del pastiche, vitalismo ritmico e stile spoglio caratterizzano parte della pro-duzione del cosiddetto «Groupe des Six» (Milhaud, Poulenc, Honegger, Auric, Du-rey, Tailleferre) che elesse Erik Satie a pro-prio nume tutelare. Tra le opere più rappre-

sentative di questo orientamento estetico, al quale non era estranea una forte componen-

te nazionalistica antigermanica, vanno ricorda-te Mouvements perpétuels (1918) di Francis Poulenc;

La création du monde (1923) di Darius Milhaud, ballet-to che, con richiami al jazz, narra la Creazione; Pacifi c 231

(1923) di Arthur Honegger, brano sinfonico modernista il cui motorismo si ispira al movimento di una locomotiva.

Il neoclassicismo, nato a seguito dei disastri della prima guerra mondiale, tramontò con la seconda guerra mondia-le. Nonostante le sue contraddizioni e ambiguità, la plurali-tà dei suoi orientamenti diffi cilmente sintetizzabili in un qua-dro unitario, esso fu radicalmente travolto dalla profonda esi-genza di rinnovamento artistico che si sviluppò negli an-ni quaranta. L’orizzonte delle neoavanguardie dopo il 1945 coincise con la dolorosa ricostruzione postbellica e la mo-dernità musicale assunse le forme di un’ideologia della palin-genesi che accantonò pastiches e parodie per tentare l’edifi ca-zione, attraverso una nuova musica, di un nuovo mondo. ◼

come tratto di matrice ideologico-normativa che accomu-na le maschere, i differenti orientamenti

Zeitung» nel 1920, il musicista auspica l’av-vento di una «nuova classicità» che si carat-terizzi, tra altri aspetti, per la «rinuncia al sog-gettivismo (la via verso l’oggettività – il ritrovar-si dell’autore di fronte all’opera – una via di purifi ca-zione, un cammino duro, una prova dell’acqua e del fuo-

Gli intenti modernistici di stampo antiromanti-co sono infi ne evidenti nel neoclassicismo pari-

gino che trova limpida esposizione ideologi-ca negli scritti di Jean Cocteau (lequinrodia, gusto del

rey, Tailleferre) che elesse Erik Satie a pro-prio nume tutelare. Tra le opere più rappre-

sentative di questo orientamento estetico, al quale non era estranea una forte componen-

te nazionalistica antigermanica, vanno ricorda-te Mouvements perpétuels

La création du monde to che, con richiami al jazz, narra la Creazione;

con il passato. Mentre infatti i classicismi di epoche pre-cedenti, si pensi al modo in cui Mendelssohn guar-dava a Johann Sebastian Bach, avvertivano una continuità storica nel rapporto tra presente e passato, una sorta di vicinanza creativa con la fonte, numerosi compositori più innova-

non celebra un pacifi co ritorno al passato bensì un problematico e pessimistico riferi-mento ad esso: nel fi nale dell’opera il protago-nista John Rakewell impazzisce immaginando se stesso proiettato nel mondo del mito greco.

denza l’intima contraddizione. A Bach si richiamano in-fatti Ferruccio Busoni con le sue solide architettu-

re contrappuntistiche (1921); Igor Stravinskij con idee di una musica

dai profi li strumentali astratti (Paul Hindemith, con la polifonia lineare della bos, con la sua ricerca di sintesi tra folklo-

Schoenberg degli anni venti assume i trat-ti di un’esigenza di ritorno ad un ordine lin-

guistico e formale che guarda anche a forme antiche, tendendo a convergere con la genera-

le tendenza neoclassica (te op. 25, 1921).te op. 25, 1921).te op. 25

Fe r r u c c i o B u s on i

I g o r S tra v i n sk ji

speciale —

spec

iale

novecento / parte seconda

C’è il pozzo in pietra di Verona e c’è un prezio-so pavimento in lastre di marmo bianco e rosso, ci sono le fi nestre grandi, piccole o immense che si rincorrono sulle faccia-te e ci sono le altane inca-stonate sui tetti. C’è tut-ta Venezia in un Palazzo, che si chiama Ca’ dei Mi-racoli, risale al 1400 ed è tornato a nuova vita gra-zie al paziente restauro che l’ha trasformato in un complesso nel quale sono state ricavate quat-tordici unità, tra studi e appartamenti, di dimen-sioni che vanno dai 23 ai 167 metri quadrati, tutti affacciati sulla corte in-terna che sembra rubata a una commedia del Gol-doni. A cinque minuti da Rialto e a dieci da Piazza San Marco, a pochi metri dalla Chiesa dei Miraco-li e dal suo splendore di marmi policromi, Ca’ dei Miracoli sorge in un an-golo della città dove il tu-rismo di massa non è an-

cora arrivato. Nell’omo-nimo Campo ci sono i bambini che giocano, la bottega di paralumi, l’an-tiquario, i negozi di pri-ma necessità (che in altre parti della città sono di-ventati introvabili!). Due ponti più in là c’è Campo SS. Giovanni e Paolo e l’infi nita passeggiata lun-go le Fondamenta Nuove da dove partono i vapo-retti per le isole. In que-sta fetta di Venezia dove la vita scorre tranquilla, Ca’ dei Miracoli propone una serie di soluzioni abi-tative (e non) con caratte-ristiche veneziane ma so-luzioni moderne. Tutti gli appartamenti sono dotati di ascensore e dispongo-no di riscaldamento au-tonomo, hanno la predi-sposizione per l’aria con-dizionata e sono accessi-bili tramite le due porte di terra (in Calle Maggioni e Ramo dei Miracoli) e la porta d’acqua sul Rio. Il restauro conservativo del Palazzo ha permes-

so di salvare i contorni in pietra d’Istria che ornano le facciate, le travature li-gnee, le porzioni di mu-ratura costituita da mat-

toni originali in cotto e una bella corte interna.Il fascino di Ca’ dei Mi-racoli sta proprio in que-sti dettagli e offre solu-zioni per tutti, anche per chi vuole abitare a un sof-fi o dal cielo, lì all’ultimo piano dove si rincorro-no finestroni e terrazzi tra le tegole rosse dei tet-ti veneziani.Se vuoi saperne di più vieni a trovarci a Vene-zia San Marco 514, tel. 041 5209747.

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novecento / parte seconda

C’È STATA UNA STAGIONE del Novecento, iniziata tra gli ultimi sprazzi dell’era giolittiana e il primo dopo-guerra, in cui la musica italiana s’identifi cò soprattut-

to con le voci di Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Il-debrando Pizzetti, Ottorino Respighi. Al loro tempo essi par-vero un robusto drappello di novatori, di-sposero di voci critiche di prim’ordine in grado di spiegarne e promuoverne le istan-ze dentro e fuori i confi ni nazionali, ebbe-ro il giusto sostegno delle istituzioni, si vi-dero perfi no attribuire un’etichetta – quel-la di «generazione dell’80» per via delle na-scite parallele negli anni intorno al 1880 – che avrebbe dovuto contraddistiguerne l’identità di gruppo teso a una meta con-divisa. A loro la sorte riservò il compito diffi cile di confrontarsi criticamente con la tradizione del melodramma, proprio nel momento in cui le azioni di quest’ulti-mo toccavano il punto di maggior depres-sione presso la cultura nazionale, e di mi-

surarsi con le tendenze del modernismo su sca-la internazionale, pro-prio quando la moder-nità s’avviava a diventa-re un imperativo dell’ar-te contemporanea e in suo favore s’istituivano enti e festival, s’organiz-zavano congressi, si va-ravano riviste e pubbli-cazioni. A loro toccò di-stricarsi tra i prodromi delle modalità novecen-tesche di articolazione tra musica d’arte e musica di massa, fra i primi passi dello sfruttamento industriale dei prodotti musica-li in campo discografi co e cinematografi co. La maggior parte di essi fu testimone di due confl itti mondiali e in mezzo convis-se con un totalitarismo politico che ne sfruttò l’arte a scopo di consenso. Alcuni di loro, come Pizzetti (morto nel 1968) e Ma-lipiero (morto nel 1971), sono vissuti abbastanza a lungo per as-sistere alla rivoluzione estetica delle avanguardie.

Come quel grappolo di musicisti abbia attraversato la fase più tormentata del secolo breve è noto. Non riuscì mai a costituir-si come gruppo mosso da un’intenzione comune, poiché man-cò di un vero progetto che rendesse complementare il percor-so dei singoli. Nell’insieme si presentò come occasione passeg-gera d’incontro tra personalità diversissime per formazione e obiettivi, ciascuna delle quali si sarebbe qualifi cata per propri tratti distintivi: il vitalismo costruttivo di Casella, l’asistemati-

cità per progetto di Malipiero messa al servizio di bizzarre rea-lizzazioni teatrali e sinfoniche, l’ascetismo linguistico e espres-sivo di estrazione arcaicizzante di Pizzetti, l’ispirazione orche-strale sontuosa e sgargiante di Respighi. Col tempo ciascuno di essi fi nì per ripiegare verso un modernismo temperato, sem-pre più avulso dagli snodi vitali della musica d’arte novecen-tesca, alla quale altre generazioni dell’ottanta – quella di Berg e Webern, patrocinata da Schoenberg, quella di Bartók, quel-la di Stravinskij – suggerirono orientamenti e vocazioni. Dal che l’interesse assai circoscritto per i musicisti dell’80 da parte dei colleghi italiani delle generazioni successive. In un primo tempo Luigi Dallapiccola poté conformarsi all’intensità etica di certo teatro malipieriano e Goffredo Petrassi agganciarsi al-la matrice caselliana, tra elementi popolareschi e recuperi neo-

classici. Ma poi i compositori d’avanguar-dia non avrebbero trovato ragioni valide per rapportarsi ad essi: sintomatico l’ab-bandono del maestro Malipiero da parte del giovane Luigi Nono per approdare al-la scuola di Bruno Maderna.

Oggi, dopo il fuggevole slancio d’inte-resse innestato dalle celebrazioni cente-narie a partire dall’anniversario-madre del 1980, quel grappolo di musicisti pare con-segnato a un irreversibile processo di mu-seifi cazione (con gli archivi di Casella, Ma-lipiero, Respighi confl uiti all’Istituto per la musica della Fondazione Cini di Venezia e quello di Pizzetti assorbito nella Biblioteca Palatina di Parma) e di elaborazione del-

la memoria, favorita dal-la pubblicazione di cata-loghi, carteggi e abbozzi. Salvo rarissime eccezio-ni, fra cui gli intramon-tabili poemi sinfonici di Respighi, le musiche di quella stagione del No-vecento italiano sono di nuovo scomparse dal-la programmazione di teatri e enti concertisti-ci e dai cataloghi delle ca-se discografi che; sebbe-

ne lavori come La giara o Scarlattiana di Casella, come le Pause del silenzio o il Torneo notturno di Malipiero, come il Concerto dell’estate o le liriche da camera di Pizzetti siano degnissimi di trovar sta-bilmente posto in una sorta di repertorio idealtipico del Nove-cento musicale.

In defi nitiva, il lascito più signifi cativo di quella prima sta-gione del modernismo italiano si riduce alle ragioni negati-ve nelle quali i suoi protagonisti si riconobbero: l’opposizio-ne alla tradizione melodrammatica ottocentesca, l’opposi-zione all’idea ormai anacronistica dell’autosufficienza del-la musica italiana. Per l’apertura al pensiero musicale euro-peo Casella si batté assai più dei compagni «ottantisti». Al-tri dopo di lui si sarebbero davvero avventurati oltre gli stec-cati del provincialismo culturale che egli con tanta pervica-cia aveva voluto abbattere. Pochi di loro, però, avvertirono qualcosa di più che un vago sentimento di riconoscenza. ◼

Le originidel Novecentismo italiano

di Virgilio Bernardoni

Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero,

Luigi Dallapiccola

speciale —

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iale

È CONSUETUDINE FAR risalire la nasci-ta della musica elettronica al secon-do Novecento, ma, come tutte le for-

me espressive, anch’essa non sorge certo tut-to d’un tratto, e infatti qualcosa si muove già prima della seconda guerra mondiale. C’è però un elemento che differenzia maggiormente il primo dal secondo Novecento: al-l’inizio questo tipo di musica (che in realtà allora veniva chiama-ta «elettrica») era di fatto pensata e realizzata dagli ese-cutori: sono loro i protagonisti, non i composi-tori, come invece avverrà nella seconda me-tà del secolo. Tra questi esecutori uno dei più noti è senz’altro Maurice Martenot, che inventa le Ondes Martenot, uno strumento musicale tuttora insegna-to ai Conservatori di Parigi e Lione. Un’altro nome molto celebre è quel-lo di Lev Termen, un violoncellista russo inventore del Teremin, diven-tato famoso prima in Europa e poi ne-gli Stati Uniti. Questo strumento utiliz-za come tecnica di esecuzione il movimen-

to della mano di fronte a un’antenna, riuscendo con questo movimento a variare l’altezza del suono.

Nell’immediato dopoguerra invece il compo-sitore diventa protagonista assoluto, e non usa più gli strumenti elettronici in senso imitati-vo di quelli tradizionali. I suoi strumenti ora sono presi dai laboratori di fi sica, dalle ap-parecchiature degli studi di fonologia e di radiofonia. Non è un caso infatti che le pri-me esperienze di musica elettronica nasca-no all’interno delle emittenti radiofoniche. Il primo a lavorare in questo ambito è Pier-re Schaeffer, che dal 1948 compie le sue speri-mentazioni presso l’ente radiofonico francese. Schaeffer è il padre di un nuovo genere, la «mu-sica elettroacustica», che non usa tanto suoni elet-tronici in sé quanto suoni acustici – che possono esse-re generati sia da strumenti che da rumori della vita quo-tidiana – manipolati però elettronicamente. È lui a defi nire la sua musica «concreta»: perché essa utilizza effettivamente suo-ni concreti e reali e perché si pone in contrapposizione all’astra-zione formale del dominante postwebernismo. Schaeffer affer-ma che l’opera è il suono, non la partitura, e che non esistono al-chimie intellettuali, ma soltanto il lavoro diretto sul suono.

Pochi anni dopo anche Radio Colonia inizia a lavorare nel campo della musica elettronica, scegliendo una strada comple-tamente diversa. In Germania si parte da una constatazione: la novità è il mezzo elettronico (l’oscillatore, il fi ltro, il generatore di rumore). Dunque ci si deve indirizzare verso una musica che sia fatta esclusivamente con suoni elettronici: nasce così la «mu-

sica elettronica pura», in cui il protagonista è sempre il compo-sitore, al quale però viene imposto il vincolo, un po’ dogmatico, di lavorare solo con suoni di natura elettronica. Rispetto a Pari-gi, Colonia non rifi uta il postwebernismo, anzi ne teorizza l’am-pliamento tramite l’utilizzo del suono elettronico puro. E difat-ti chi abbraccia più a fondo questa ideologia è proprio il giova-ne Karlheinz Stockhausen, il quale, pur avendo fatto un’espe-

rienza di musica concreta a Parigi, una volta rientrato a Colonia sposa immediatamente la fi losofi a seriale estesa a livello sonologico. Normalmente, nella scrittura seriale, per fi s-sare la serie dei timbri il compositore si limi-

ta a scegliere una serie di strumenti (se si tratta di un pezzo per ensemble), o una serie di «tocchi» (se è un brano per strumen-to singolo): i timbri, quindi, non sono composti, ma sono sem-

plicemente scelti e organizzati serialmente. Stockhau-sen invece, proprio grazie agli strumenti elettro-

nici, arriva a comporre anche il timbro e Stu-dio 1 ne è il primo importante esempio. In

questo lavoro datato 1953 il timbro è fi -nalmente composto con le stesse re-gole formali e strutturali che regola-no tutto il pezzo. Studio 1 è un lavo-ro fondamentale, anche se sul pia-no dei risultati presenta delle limita-

zioni, dovute essenzialmente ai mez-zi dell’epoca: la costruzione dei timbri

si limita a misture composte al massimo da sei suoni sinusoidali simultanei. Se voles-

simo paragonarla al mondo della pittura, si potreb-be dire che sia una composizione in bianco e ne-

ro. Però a partire da qui il musicista comincia ad assimilare artisticamente il funzionamento del-le apparecchiature elettroniche. Dopo Studio 2, nel ‘55/’56 arriva Gesang der Jünglinge, il primo capolavoro assoluto di musica elettronica. La cosa interessante di questo pezzo è che rom-pe anche il dogma di Colonia, perché utilizza assieme ai suoni elettronici anche la voce di un bambino. Il risultato musicale è raggiun-to senza blocchi ideologici: il compositore si

serve del mezzo di cui ha bisogno per esprime-re il suo pensiero musicale. Un’idea che in realtà

già nel ‘52 Bruno Maderna aveva espresso chiara-mente con Musica su due dimensioni, un lavoro per fl au-

to e suoni elettronici presentato a Darmstadt in quel-l’anno. Per Maderna l’evoluzione del linguaggio musicale

non ha momenti di rottura, quindi il mezzo elettronico può so-lo aggiungere una nuova dimensione alla musica stessa, non in-terrompere il suo percorso.

In realtà esistevano dei motivi per ipotizzare una rottura con il passato, perché il modo di comporre e scrivere pezzi elettroni-ci era completamente diverso da quello «tradizionale»: a partire da Studio 2, le partiture non hanno più alcun legame con il pen-tagramma. E c’è anche un altro fatto sostanziale: questa musi-ca viene consegnata alla storia non più sotto forma di partitu-ra, ma come documento sonoro. Stockhausen produceva un nastro magnetico e quella era l’opera, che non aveva più biso-gno di essere reinterpretata. Mentre in passato esisteva la neces-

L’avvento della musica elettronica

ta «elettrica») era di fatto pensata e realizzata dagli ese-cutori: sono loro i protagonisti, non i composi-tori, come invece avverrà nella seconda me-tà del secolo. Tra questi esecutori uno dei più noti è senz’altro Maurice Martenot, che inventa le Ondes Martenot, uno

russo inventore del Teremin, diven-tato famoso prima in Europa e poi ne-gli Stati Uniti. Questo strumento utiliz-za come tecnica di esecuzione il movimen-

plicemente scelti e organizzati serialmente. Stockhau-sen invece, proprio grazie agli strumenti elettro-

nici, arriva a comporre anche il timbro e dio 1 ne è il primo importante esempio. In

questo lavoro datato 1953 il timbro è fi -nalmente composto con le stesse re-gole formali e strutturali che regola-

zioni, dovute essenzialmente ai mez-zi dell’epoca: la costruzione dei timbri

si limita a misture composte al massimo da sei suoni sinusoidali simultanei. Se voles-

to della mano di fronte a un’antenna, riuscendo con questo movimento a variare l’altezza del suono.

Nell’immediato dopoguerra invece il compo-sitore diventa protagonista assoluto, e non usa più gli strumenti elettronici in senso imitati-

Il primo a lavorare in questo ambito è Pier-re Schaeffer, che dal 1948 compie le sue speri-mentazioni presso l’ente radiofonico francese. Schaeffer è il padre di un nuovo genere, la «mu-sica elettroacustica», che non usa tanto suoni elet-tronici in sé quanto suoni acustici – che possono esse-re generati sia da strumenti che da rumori della vita quo-

simo paragonarla al mondo della pittura, si potreb-be dire che sia una composizione in bianco e ne-

ro. Però a partire da qui il musicista comincia ad assimilare artisticamente il funzionamento del-le apparecchiature elettroniche. Dopo nel ‘55/’56 arriva capolavoro assoluto di musica elettronica. La

un bambino. Il risultato musicale è raggiun-to senza blocchi ideologici: il compositore si

serve del mezzo di cui ha bisogno per esprime-re il suo pensiero musicale. Un’idea che in realtà

già nel ‘52 Bruno Maderna aveva espresso chiara-mente con

to e suoni elettronici presentato a Darmstadt in quel-l’anno. Per Maderna l’evoluzione del linguaggio musicale

di Alvise Vidolin

Questo intervento nasce da un’intervistaad Alvise Vidolin realizzata a Venezia

nel mese di luglio 2008.

M aur ice Mar ten ot

sica elettroacustica», che non usa tanto suoni elet-

Lev Te r m

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— specialesp

ecia

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novecento / parte seconda

sità di avere una fi gura intermediaria fra ciò che aveva scritto il compositore e il pubblico, con l’avvento della musica elettroni-ca questa necessità di fatto sparisce: la musica è «scritta» in ma-niera defi nitiva sul nastro magnetico.

Un altro snodo cruciale è la fondazione nel 1955 dello Studio di Fonologia della Rai di Milano, ad opera di Bruno Maderna e Luciano Berio. Anche Berio, come Maderna, vede nel mez-zo elettronico una possibilità per proseguire con nuovi mezzi il lavoro compositivo, senza rotture o chiusure nette con la tra-dizione. Inoltre lo Studio milanese supera la diatriba tra musi-ca concreta e musica elettronica pura aprendolo alla ricerca più ampia e invitando molti altri artisti, tra cui John Cage, Henry Pousser e, successivamente Luigi Nono, che sarà il protagoni-sta dello Studio dagli anni sessanta fi no alla chiusura avvenuta nel 1983. Lo Studio di Fonologia era stato creato dalla Rai an-che come supporto a un genere che in quegli anni ri-scuoteva molto successo, il radiodramma. Quindi molti esperimenti venivano utilizzati in quel-la direzione, ma i lavori più importanti so-no quelli di musica elettronica assoluta. Fra questi, uno dei pezzi più belli realizzati da Berio è Thema (Omaggio a Joyce) (1958), che nasce da una ricerca che il musicista stava conducendo con Umberto Eco sull’ono-matopea, fi nalizzata ad una trasmissione radiofonica. Un altro caposaldo dello Stu-dio milanese è Continuo (1958) di Maderna, la cui tecnica di composizione consiste nella trasformazione continua del materiale sonoro di inizio del brano stesso. Nel ’60 Nono crea Omag-

gio a Vedova, un pezzo puramente elettronico che l’autore ha sempre ritenuto un primo stu-dio. Poi è la volta di Intolleranza 1960 (1961) e del ‘64 è La fabbrica illuminata, il brano che lui consi-dera il primo pezzo effettivamente elettronico. Lì troviamo una mescolanza tra la voce di un soprano che canta dal vivo, i rumori registra-ti all’Italsider di Cornigliano e parti vocali ma-nipolate con tecniche elettroacustiche. L’anno successivo compone Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz, un altro capolavoro dell’elettronica. Ma citare qui tutti i lavori di quel fortunato pe-riodo sarebbe impossibile.

Va notato che, mentre gli anni cinquanta era-no tutti focalizzati sulla possibilità di lavora-re su nastro magnetico – e si può dire che lo strumento principale, in questo periodo, fos-se proprio il registratore – negli anni sessanta si comincia a sentire la necessità di far uscire l’elettronica dai laboratori e portarla nelle sa-le da concerto. I primi a riuscirci sono Cage e soprattutto Stockhausen con Mixtur (1964) e con il più signifi cativo Mikrophonie I (1964), in cui sono esplorati i suoni che un grande tam tam può generare attraverso quella sorta di microscopio sonoro che è il microfo-no. Questo lavoro è un punto di svolta, perché apre la strada a quello che verrà successivamente chiamato live electronics, ovve-ro musica elettronica eseguita dal vivo. Anche Nono sente que-st’esigenza, e con A fl oresta é jovem e cheja de vida (1969), pur conti-nuando a utilizzare il nastro, inserisce dal vivo le voci e un clari-

netto, lavorando molto con il microfono in quella che diventerà una prassi nelle sue composizioni degli anni ottanta. Negli an-ni sessanta il fi lone della live electronics prende sempre più piede, a cominciare dal gruppo Mev (Musica Elettronica Viva), che na-sce in quel periodo a Roma. Insomma, anche la musica elettro-nica si evolve, si formano gruppi d’improvvisazione più libe-ra (sempre a Roma, ad esempio, il gruppo «Nuova consonan-za») e Stockhausen stesso rompe con il dogmatismo seriale. Ma già alla metà di quel decennio comincia a emergere un nuovo mezzo: il computer. Uno degli esponenti più rilevanti di questa nuova frontiera è certamente Iannis Xenakis, che sta in quegli anni elaborando la teoria della musica stocastica, e necessita di un mezzo per sviluppare i calcoli probabilistici che stanno al-la base della composizione. Oltreoceano, presso i Bell Telepho-ne Laboratories, Max Mathews tra il ‘63 e il ‘64 crea i primi suo-

ni mediante computer. La cosa curiosa è che sono gli stessi anni in cui Robert Moog costruisce i primi

sintetizzatori, e quindi realizza per via analogi-ca quello che Mathews realizza per via digita-le. In seguito, negli anni settanta la compu-ter music si sviluppa soprattutto nelle uni-versità del nord America, seguendo la ra-pida evoluzione della tecnologia informa-tica. Nel ‘75 Pierre Boulez fonda l’Ircam a Parigi e quindi anche l’Europa ha fi nal-

mente un punto di riferimento nella ricer-ca musicale sul suono con le nuove tecnolo-

gie numeriche. Gli anni settanta sono dunque caratterizza-

ti dall’ingresso nella scena musicale di questa nuo-

va macchina, che ha grandi potenzialità ma al-l’inizio anche molti vincoli. In quegli anni non ci si poteva permettere l’acquisto di un com-puter, bisognava utilizzare quelli in dotazione alle università e ai centri di ricerca scientifi ca. In Italia le prime esperienze le conduce Pietro Grossi lavorando al Cnuce di Pisa (Cnr) e noi del Centro di Sonologia Computazionale del-l’Università di Padova. I primi suoni digitali escono a Padova nel ‘73-’74 e fi no a tutti gli an-ni ottanta continua un’importante esperienza di collaborazione con La Biennale di Venezia, fra cui la collaborazione nel Prometeo di Nono (1984).

L’avvento del computer non porta automa-ticamente alla morte della musica elettronica. Come si diceva prima con Maderna, anche il computer aggiunge una nuova dimensione al-la musica. In particolare, le diffi coltà incontra-te sul piano tecnico dalla ricerca e dalla speri-mentazione degli anni cinquanta nel realizza-re pezzi elettronici musicalmente importanti, scompaiono negli anni settanta con l’avvento

del computer. Ma, come spesso accade, superato un limite se ne crea immediatamente un altro e anche con il computer na-scono nuove sfi de tecnologiche. E questa è un’altra storia da raccontare...

Altre, comunque, sono le sfide musicali, per cui com-posizioni magari più semplici da un punto di vista tecno-logico risultano musicalmente molto più interessanti. ◼

nel 1983. Lo Studio di Fonologia era stato creato dalla Rai an-che come supporto a un genere che in quegli anni ri-scuoteva molto successo, il radiodramma. Quindi molti esperimenti venivano utilizzati in quel-la direzione, ma i lavori più importanti so-no quelli di musica elettronica assoluta. Fra

radiofonica. Un altro caposaldo dello Stu-(1958) di Maderna,

la cui tecnica di composizione consiste nella trasformazione continua del materiale sonoro di inizio del brano stesso. Nel ’60 Nono crea Omag-

ne Laboratories, Max Mathewsni mediante computer. La cosa curiosa è che sono gli

stessi anni in cui Robert Moog costruisce i primi sintetizzatori, e quindi realizza per via analogi-

ca quello che Mathews realizza per via digita-le. In seguito, negli anni settanta la compu-ter music si sviluppa soprattutto nelle uni-

mente un punto di riferimento nella ricer-ca musicale sul suono con le nuove tecnolo-

gie numeriche. Gli anni settanta sono dunque caratterizza-

ti dall’ingresso nella scena musicale di questa nuo-

la cui tecnica di composizione consiste nella P

ier r e Sch a e f f e r

Max Mathews

speciale —

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Non credo ci sia stata solo l’infl uenza di Webern nel pri-missimo Stockhausen. Nel 1951 scriveva contempo-raneamente una Sonata per violino e pianoforte di gu-

sto francese, Formel per orchestra dall’affascinante tematismo di impronta berghiana, e Kreuzspiel nel quale si sente la voce di We-bern, senza dubbio, ma anche una ritmica alla Messiaen e una sotterranea presenza di Varèse (la melopea dell’oboe così evo-catrice). In fondo una più forte incidenza del grande maestro viennese si nota nei Klavier-stücke I-IV e nei Kontra-Punkte del 1953. È ve-ro che, come dicono i manuali, in questi la-vori si allenta la «serialità integrale» (ossia il controllo su tutti i parametri musicali), ma è anche vero che Stockhausen privilegia una rigorosa astrazione. Impassibili ornamen-ti puntano sulla varietà dei timbri (il timbro è tutto diceva Shönberg) e sul progressivo alleggerimento delle tensioni fi no a sfi ora-re il silenzio. I «romanzi in un sospiro» so-no gelidifi cati.

Alla metà degli anni cinquanta c’è una svol-ta decisa con l’apertura alla indeterminazio-ne, che mette in discussione certezze ac-quisite. Stockhausen esclude di essere sta-to infl uenzato da Cage. Certo il composito-re americano è giunto solo nel 1958 a Dar-

mstadt, il cenacolo dell’avanguardia domi-nato allora da Stockhausen e da Boulez, e tangenzialmente da Nono e da Maderna, e la sua apparizione fu travolgente e provoca-toria, con il sostegno autorevolissimo quan-to arbitrario di Metzger, il luciferino allievo di Adorno, che vedeva nell’atarassico e spe-culativo Cage il profeta della «negazione de-terminata», quasi fosse uscito dalla fi losofi a e dall’espressionismo tedeschi. Peraltro Ca-ge era già entrato nella cerchia di Darmstadt e Stockhausen ebbe modo di conoscerlo nel 1954, durante una tournée con Davis Tudor, il grande pianista che sarebbe divenuto uno dei suoi più geniali interpreti. Il Klavierstück XI del 1956 accoglie l’idea di Music of Changes di Cage del 1951 dal punto di vista dell’incon-tro tra logica formale e indeterminazione. Naturalmente il musicista interpretò l’aleato-rietà all’interno di una concezione costruttiva di tutt’altro segno.

Anche le composizioni più radicali come Aus den sieben Tagen (Dai sette giorni) nel 1968, nei quali il respiro musicale è

affi dato al coinvolgimento degli interpreti (senza parti-tura e con didascalie), sono ricon-dotte a una concezione unitaria che ripropone in termini intuiti-

vi i principi della coerenza forma-le. Purtroppo questo ciclo gran-

dioso, di sette ore di durata, è proba-bilmente

perduto senza la regia del suono dell’autore, che richiese sei mesi di prove a un gruppo di interpreti di sua fi ducia.

Una mutazione avvenne tra il 1955 e il 1956 con Zeitmasse, vi-cini alla «rifl essione fi losofi ca» sul tempo di Bloch, segnalata da Ernesto Napolitano, con il Gesang der Jüglinge (Canto degli ado-lescenti) e con Gruppen. Zeitmasse si muove da premesse seriali (ancora l’astrattismo di Webern), ma poi alterna arabeschi orna-mentali a blocchi temporali e a fughe periodiche da una musi-ca totalmente determinata. Kontra-Punkte e Zeitmasse hanno inci-so anche sull’avanguardia italiana, da Berio a Clementi, da Do-natoni a Togni. Il Gesang è forse una delle composizioni elettro-

niche più impressionanti del Novecento. Per la prima volta Stockhausen affronta, antici-pando le ricerche di Nono, il problema del-la musica spaziale (l’opera viene diffusa attra-verso quattro gruppi di altoparlanti disposti intorno al pubblico) con un continuum sono-ro illuminato da una molto poetica e celestia-le voce infantile, che traduce in fonemi un te-sto biblico: sarà per mezzo secolo uno dei luo-ghi fi ssi del cosmo mentale dell’autore. Appa-rentemente Gruppen per tre orchestre (con tre direttori), sono scritti secondo il più strenuo strutturalismo. Ma gli interventi delle singo-le orchestre non sono tutti prefi ssati; e d’altra parte la complessità della scrittura sfi ora l’in-determinazione e l’amorfi a intervallare. In questo storico pezzo emerge una volontà co-struttiva e nel contempo una furia disgrega-trice. Su un piano opposto si muove Carré del

1960 per quattro orchestre e quattro cori (di-sposti spazialmente come Gruppen e guidati da quattro direttori), uno dei primi pezzi spi-rituali e meditativi dell’autore, un cerimonia-le estetizzante, in cui vibra un anelito alla tra-scendenza funeraria, ma anche un’idea con-solatrice della morte. È una personale evoca-zione dell’idealismo romantico, così presen-te nella sua opera matura.

Due anni dopo Stockhausen muta ancora registro con Momente per soprano, quattro co-ri e tredici strumenti. È l’opera che ha solleci-tato il pensiero critico di Mario Bortolotto, dopo la prima a Colonia e a Donaueschingen (1962 e 1965) alla base del regale saggio intro-duttivo di Fase seconda (edito nel 1969), ovve-ro la rifl essione teorica sull’indeterminazio-ne. Stockhausen si muove sempre su due pia-ni: da un lato esalta l’autonomia degli inter-

preti, e dall’altro crea un ferreo coordinamento costruttivo. La presenza dello stesso Stockhausen come direttore (o altrove al-la regia del suono) garantisce la coesione dell’insieme. È un’ope-ra fondamentale in cui prevalgono gli aspetti gestuali e teatrali. È molto forte la componente ironica, di un acre umorismo, del-la voce solista (alla prima una scatenata Martina Arroyo). Il co-ro trascorre dal parlato, al sussurro, alla vociferazione, al battito delle mani e gli ottoni esibiscono taglienti asprezze. Tra il 1963 e il 1964 Stockhausen, sempre interessato alle tecnologie, utilizza per primo il Live electronics, la musica elettronica dal vivo, in Mi-crophonie, che vede impegnati, intorno a un enorme tam-tam, due

M’illumino di medi Mario Messinis*

Aus den sieben Tagen(Dai sette giorni) nel 1968, nei quali il respiro musicale è

affi dato al coinvolgimento degli interpreti (senza parti-tura e con didascalie), sono ricon-dotte a una concezione unitaria che ripropone in termini intuiti-

vi i principi della coerenza forma-le. Purtroppo questo ciclo gran-

dioso, di sette ore di durata, è proba-

Naturalmente il musicista interpretò l’aleato-rietà all’interno di una concezione costruttiva di tutt’altro segno.

Anche le composizioni più radicali come Aus den sieben TagenAnche le composizioni più radicali come Aus den sieben Tagen(Dai sette giorni) nel 1968, nei quali il respiro musicale è

affi dato al coinvolgimento degli interpreti (senza parti-tura e con didascalie), sono ricon-dotte a una concezione unitaria che ripropone in termini intuiti-

vi i principi della coerenza forma-le. Purtroppo questo ciclo gran-

dioso, di sette ore di durata, è proba-

Karlheinz Stockhausen

Franco Donatoni

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percussionisti, due esecutori al microfono e due registi del suo-no. Mai la musica ha svelato con altrettanta invenzione la foni-cità inesplorata.

Mi limito infi ne a ricordare, dello sterminato catalogo, Stim-mung (Stato d’animo) del 1968 per sestetto vocale, come un’im-mota liturgia medievale che arresta il tempo in un minimali-smo armonico trasfi gurato. E ancora: il ciclo liederistico per due voci Indianer Lieder (1972), su frammenti poetici di indiani d’America, 12 canti che traducono il gesto in melodie multiple. Le monumentali Hymnem segnano l’esplicita indagine sulla fi -gura in una posizione antinomica rispetto all’astrattismo e al-l’armonia delle sfere di tante pagine dell’au-tore, allucinante metamorfosi distorta di in-ni nazionali citati, sovrapposti, contaminati con convulsa violenza. Tuttavia dopo le ten-sioni drammatiche alla fi ne si afferma nel-le Hymnem una palingenesi cosmica. Il mu-sicista ha sempre creduto nei messianici mo-menti liberatori come fi ducia in un trascen-dente universalismo. Inori (Preghiera) segna invece un momento di involuzione: nel 1974 a Donaueschingen era imbarazzante vedere due danzatori-mimi che si agitavano sul po-dio durante le esorbitanti maree orchestra-li. Il creatore di un’eversiva «composizione del suono», che anticipa la musica «spettra-le» rivela invece qui i limiti di una convenzio-nale sensibilità visiva e di una attardata idea di teatro anche sul piano librettistico. Si eser-cita in un orientalismo decorativo, in coreo-

grafi e, da lui stesso inventate, impone costu-mi da rotocalco, movimenti televisivi. Il for-midabile «scienziato», saggista e speculato-re (11 volumi dei Texte purtroppo non dispo-nibili in Italia; Einaudi ne aveva commissio-nato una traduzione a Bortolotto, ma l’ini-ziativa non ebbe seguito, anche perché l’au-tore non accettava una scelta antologica) ce-deva sul piano delle immagini a un esotismo illustrativo.

Con ciò siamo giunti a Licht (Luce), l’im-mane ciclo teatrale che si appella, credo, al San Francesco di Messiaen, piuttosto che a Wa-gner – sette opere corrispondenti ai sette giorni della settimana – cui Stockhausen ha dedicato tutte le proprie energie dal 1977 al 2002. Ho visto Giovedì, Sabato e Lunedì da Lu-ce rappresentati alla Scala tra il 1981 e il 1988 per iniziativa di Abbado, Siciliani e Badini, e Venerdì a Lipsia nel 1996, in una debole e generica realizzazione registica. L’intero ciclo di Licht era stato commissionato dal tea-tro milanese a Stockhausen; ma poi le rappresentazioni venne-ro drasticamente sospese. Nonostante i limiti teatrali, si è per-duta un’occasione unica, perché la musica della Sette giornate è quasi sempre bellissima: scene come il Canto di Katinka, per fl au-to di Katinka Pavseer, e sei percussionisti (o nastro magnetico), il Viaggio di Michael intorno alla terra, per la tromba del fi glio Markus e orchestra, gli innumeri brani per il clarinetto e il corno di basset-to di Susanne Stephens dimostrano come il compositore amas-se l’approfondimento di cadenze strumentali dalla incontenibile

seduzione. Stockhausen amava ideare, nel suo polittico operisti-co, «musica, libretto, danza, azioni, gesti» come indicato nelle di-dascalie delle partiture; aveva escogitato anche per i movimenti una sorta di notazione coreografi ca. Di conseguenza Luca Ron-coni e Gae Aulenti, dopo due prime alla Scala, rinunciarono al-l’impegno: erano troppi i condizionamenti dell’egocentrico au-tore. Forse Licht andrebbe oggi riproposto in forma concertata o tutt’al più semiscenica. Musicalmente è un romanzo incanta-torio. L’esotismo nel cosmo sonoro (ma non scenico) costituisce un antecedente, che viene concepito come allusione metaforica, al pari di quanto avviene nel Canto della Terra di Mahler ove non ci

sono cineserie, nonostante le liriche cinesi dei testi. Quindi le componenti orientali (India o Giappone molto frequentati) sono totalmen-te assimilate alla cultura europea.

Dopo la conclusione di Licht Stockhausen è tornato alla musica pura e ci ha offerto alcune delle sue pagine più signifi cative, sia sul pia-no strumentale – il ciclo non ultimato di Klang – che elettronico, soprattutto quando riaffer-ma la sua caratteristica sistematicità compo-sitiva, come nella polifonia a ventiquattro ca-nali degli Impulsi cosmici.

Karlheinz Stockhausen era posseduto da una smisurata passione per la musica. Dialo-gava con il pubblico, spiegava didatticamen-te le sue opere, teneva corsi e seminari e so-prattutto rincorreva una assoluta perfezio-ne tecnica. Le sue partiture sono costellate di norme esecutive, con tempi di prove impro-

ponibili oggi (e nemmeno ieri), nell’età del-la pianifi cazione industriale. Dal 1969 aveva abbandonato la casa Universal di Vienna per divenire editore di se stesso e della sua pro-duzione discografi ca. Così poteva control-lare personalmente le produzioni concerti-stiche e teatrali, e spesso contestarle. Era di una precisione maniacale. Riuscì persino a trascrivere con una notazione analitica an-che brani elettronici, soprattutto lo Studio n. 2 del 1954. La sua esigenza di prove esorbi-tanti e spesso inattuabili corrispondeva pe-rò a ben radicate convinzioni etiche, alla ri-cerca di una tonalità esecutiva. Di Stockhau-sen ho presentato per la prima volta in Ita-lia Carré e Venerdì da Luce in forma di con-certo. I rapporti non furono facili, i contra-sti talvolta aspri (due mesi di prove per il co-ro e dieci giorni per l’orchestra non li ritene-

va, in Carré, suffi cienti), ma il compositore era anche molto ami-chevole, entusiasta, comunicativo. Lo ritenevo «immor-tale» per l’impetuosa vitalità e per la perenne ricerca co-me ipotesi celeste: con lui si viveva vicino alle stelle. ◼tale» per l’impetuosa vitalità e per la perenne ricerca co-me ipotesi celeste: con lui si viveva vicino alle stelle.

ro e dieci giorni per l’orchestra non li ritene-, suffi cienti), ma il compositore era anche molto ami-

chevole, entusiasta, comunicativo. Lo ritenevo «immor-tale» per l’impetuosa vitalità e per la perenne ricerca co-me ipotesi celeste: con lui si viveva vicino alle stelle. ◼

*Courtesy by Classic VoiceL’articolo è stato pubblicato nel numero 104 (gennaio 2008) del mensile diretto da Andrea Estero.

Edgard Varèse

Olivier Messiaen

speciale —

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novecento / parte seconda

QUANDO, NELL’EUROPA degli anni successivi alla fi ne della seconda guerra mondiale, gli sforzi della rico-struzione si

estesero alla riorganizzazio-ne della vita cultura-le, qualunque inizia-tiva venisse presa, in qualunque ambito o disciplina, la princi-pale, implicita con-segna, era quella di contrastare ogni ri-sorgenza naziona-listica. Sullo sfon-do agiva certamente una speciale atten-zione delle poten-ze vincitrici nei con-fronti dei paesi «li-berati», fi no a poco prima dominati dal-le dittature fasciste;

tuttavia, almeno fi no ai primissi-mi anni cinquanta, Italia e Ger-mania in particolare si apriro-no improvvisamente a una stagione di scambi di espe-rienze che, con tutte le con-traddizioni immaginabili, avviò in breve una profon-da trasformazione del senti-re comune.

Nell’ambito della vita musica-le italiana il Festival di Venezia, che per la verità non aveva mai deposto la sua vocazione internazionale nemmeno sotto il fasci-smo, risorse con una programmazione di nuovo re-

spiro, e tra le altre cose nel 1948 promosse

un’iniziati-va di scar-so impat-to spetta-colare ma che si sa-rebbe rivela-ta importantissi-ma: l’affidamento di

un breve corso intensi-vo di direzione d’orche-stra, presso il Conservato-

rio «Benedetto Marcello», a

Hermann Scherchen. Il musicista tedesco, che nel 1912, ap-pena ventenne, aveva tenuto a battesimo il Pierrot Lunaire di Schoenberg, aveva da poco rimesso piede in Germania dopo quindici anni di esilio a causa delle sue simpatie comuniste e del suo impegno di musicista a sostegno dell’arte «degenerata». Al corso di Scherchen partecipavano Bruno Maderna, Luigi Nono, insieme ad altri musicisti veneziani, e di tutto il mondo.

Maderna e Nono avevano 28 e 24 anni. Le loro storie, fi no a quel momento, erano state molto diverse. Bruno aveva un

curriculum accade-mico solido, come il suo mestiere di com-positore, e una car-riera di direttore già avviata (per non di-re dell’infanzia «pro-digiosa» che lo aveva visto sul podio del-l’Orchestra del la Scala di Milano a no-ve anni di età), «Gi-gi» invece, dopo un poco convinto pas-saggio in Conser-vatorio, su suggeri-mento di Gian Fran-cesco Malipiero ave-va appena ripreso a studiare proprio con Bruno, il quale molti

anni dopo dirà: «Si era accorto di aver studiato male e ricomin-ciò tutto daccapo […] ma si applicò con una tale violenza che in pochi anni fece con me tutto il contrappunto, ed è in possesso di una tecnica favolosa».

Il sodalizio che i due avevano formato in quei pochi anni di studio e di amicizia, si sviluppò in brevissimo tempo in una «scuola» nel senso di una vera e propria bottega di stampo ri-nascimentale, in cui prese forma un nuovo approccio, coltissi-mo e antiaccademico, alla composizione musicale. L’insegna-mento di Scherchen andava ben oltre la tecnica di direzione, ri-guardava infatti l’analisi, la storia della musica e in generale un

approccio umanistico all’arte del comporre, fondato sul-lo studio del Cinquecento, di Bach, e insieme del-

le esperienze più recenti. Maderna oltrepassò di slancio lo stile seguito fi no a quel momento, ispirato a Hindemith e Malipiero, e insieme a Nono, che invece aveva messo giù appe-na qualche esercizio, sviluppò uno stile che si poneva spontaneamente in sintonia con le esperienze europee più avanzate, eppure dotato di un forte, specifi co accen-

to locale, proprio veneziano. E sarà Scher-chen, nel giro di un paio di anni, a favorire il

loro debutto sulla scena internazionale intro-ducendoli agli ormai leggendari corsi estivi della

cittadina tedesca di Darmstadt, punto d’incontro di tutti i giovani compositori europei più impegnati.

In Maderna e Nono, fi n dall’inizio di questa nuova fase, è vi-va soprattutto l’attenzione alla voce umana, all’intreccio con-trappuntistico, alla concretezza della musica come una cosa che

Luigi Nonoe Bruno Maderna

di Veniero Rizzardi

1948 promosse un’iniziati-

va di scar-so impat-to spetta-colare ma che si sa-rebbe rivela-ta importantissi-ma: l’affidamento di

un breve corso intensi-vo di direzione d’orche-stra, presso il Conservato-

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1948 promosse 1948 promosse un’iniziati-

va di scar-

rebbe rivela-ta importantissi-ma: l’affidamento di

un breve corso intensi-vo di direzione d’orche-stra, presso il Conservato-

rio «Benedetto Marcello», a

tuttavia, almeno fi no ai primissi-mi anni cinquanta, Italia e Ger-mania in particolare si apriro-no improvvisamente a una

da trasformazione del senti-

Nell’ambito della vita musica-le italiana il Festival di Venezia, che per la verità non aveva mai deposto la sua vocazione internazionale nemmeno sotto il fasci-smo, risorse con una programmazione di nuovo re-

spiro, e tra le altre cose nel

colare ma che si sa-rebbe rivela-ta importantissi-ma: l’affidamento di

approccio umanistico all’arte del comporre, fondato sul-lo studio del Cinquecento, di Bach, e insieme del-

le esperienze più recenti. Maderna oltrepassò di slancio lo stile seguito fi no a quel momento, ispirato a Hindemith e Malipiero, e insieme

to locale, proprio veneziano. E sarà Scher-chen, nel giro di un paio di anni, a favorire il

loro debutto sulla scena internazionale intro-ducendoli agli ormai leggendari corsi estivi della

cittadina tedesca di Darmstadt, punto d’incontro di

Luigi Nono e Bruno Maderna a Darmstadt, 1952

A

r n o l d S c h o e n b e r gA

r n o l d S c h o e n b e r gA

r n o l d S c h o e n b e r g

He n r i P o u s s e u r

— specialesp

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novecento / parte seconda

accade, e che nasce non da un progetto scritto sulla carta, ma dall’ascolto, dal concreto vibrare delle voci e degli strumenti in uno spazio dato – come gli antichi maestri sapevano perfetta-mente. Della loro musica, almeno per tutti gli anni cinquanta – ma anche oltre – si potrebbe dire con una battuta che è come se Gabrieli o Monteverdi fossero tornati in vita quattrocento anni dopo per impiegare a modo loro la tecnica dodecafonica della scuola di Schoenberg. E, al di là di quanto suggerisce la costellazione storica e biografi ca in cui si trovano i due giova-ni compositori, non mancano consisten-ti prove documen-tarie che potrebbero giustifi care, proprio al livello delle tec-niche compositive, l’esistenza di quella «nuova scuola vene-ziana» che Mader-na si compiaceva di avere raccolto attor-no a sé: al punto da auspicare persino, in un momento di en-tusiasmo, di sosti-tuire questa dicitura alla fi rma del singo-lo compositore. So-no gli anni, per Ma-derna, delle Improvvi-

sazioni e delle Composizioni per orchestra, degli Studi per il processo di Kafka e, per Nono delle Variazioni canoniche sulla serie dell’op.41 di Schoenberg, della Composizione n.1, di Polifonica-Monodia-Ritmica (in parte ispirata a Edgar Varèse, e che introduce l’impiego di un ritmo folklorico brasiliano).

Queste loro specifi cità incontrarono in modo naturale le ri-cerche condotte indipendentemente, e con analoghe motiva-zioni, da altri giovani musicisti destinati a divenire in breve dei punti di riferimento di una comunità internazionale in rapi-da crescita: come Pierre Boulez in Francia, Henri Pousseur in Belgio, Karlheinz Stockhausen in Germania. Tutti accomuna-ti dall’ambizione di condurre a compimento la missione di una evoluzione storica, avvertita come necessa-ria, del linguaggio musicale, attraverso opere che il fi losofo Theodor Adorno, esegeta del-la musica di Schoenberg e alfi ere del pen-siero dialettico, ammetterà di non riusci-re (più) a seguire.

La strada seguita da Maderna e Nono per molti anni è la medesima: e benchè la personalità di ciascuno si renda perfetta-mente evidente all’ascolto di poche battute soltanto di ogni loro musica, sappiamo pe-rò che molto spesso alla base dei loro procedi-menti c’è la medesima, elaborata, tecnica di com-posizione, ci sono gli stessi «segreti», appunto, di bot-tega, come quei «quadrati magici» che servono a produrre, con le loro permutazioni, una specie di proliferazione controllata del materiale «grezzo» con cui mettere in atto la composizio-ne. Ma in seguito tutto cambierà: Maderna decide di trasferir-

si stabilmente in Germania e intensifi ca, senza affatto abban-donare la composizione, la sua attività direttoriale e le sue sco-perte in ambito elettroacustico. Nono invece rimane italiano, anzi veneziano, giudecchino, e si impegna in modo radicale a trasferire le sue preoccupazioni civili e il suo impegno politi-co nel lavoro di composizione – una scelta che, nel pieno del-la guerra fredda, gli varrà l’ostracismo delle istituzioni cultura-li e delle case editrici tedesche prima, non poche diffi coltà in Italia poi, e in defi nitiva un’allontanamento dalla comunità ar-

tistica dell’avanguar-dia, Maderna com-preso. Eppure quan-do nel 1963 prende forma alla Bienna-le l’idea di una sera-ta di teatro in cui po-trebbero compari-re insieme (ma non succederà) due lavori di Maderna e Nono, l’entusiasmo e il sen-so di superiorità nei confronti degli altri colleghi si riaccen-dono, e i due torna-no a sognare «fi nal-mente la famosa se-rata de teatro!!! Ti e mi. E staltri i sta fo-ra a scoltar e meditar.

E i mona i pol pure pensar a “die Kölner Schule” perché la scuo-

la tua venessiana la xé alme-no come quea dei Gabriei e di Monteverdi […]». A Ma-derna non rimarranno più che una decina d’anni di vi-ta, spesi a muoversi febbril-

mente per il mondo, a dirige-re, e a comporre nei ritagli di

tempo alcune delle più belle pa-gine orchestrali del Novecento. A

Nono invece sarà concessa una stagio-ne più lunga, conclusa da uno straordinario decennio

in cui tutto sarà nuovamente rimesso in discussio-ne, i ruoli del compositore, dell’interprete, del-lo spazio acu-stico, lo stes-so concetto di partitu-

ra… La sua musica tra il

1980 e il 1989, in cui voci e strumen-

ti entrano in un dialogo necessario con i loro «dop-pi» elettroacustici, è ancora oggi, e lo sarà in futuro, una vera e propria via segnata. ◼

ne, i ruoli del compositore, dell’interprete, del-lo spazio acu-stico, lo stes-so concetto di partitu-

ra… La sua musica tra il

1980 e il 1989, in cui voci e strumen-

ti entrano in un dialogo con i loro «dop-

pi» elettroacustici, è ancora oggi, e lo sarà in futuro, una vera e propria via segnata.

dell’interprete, del-lo spazio acu-stico, lo stes-so concetto di partitu-

ra… La sua musica tra il

1980 e il 1989, in cui voci e strumen-

ti entrano in un dialogo con i loro «dop-

pi» elettroacustici, è ancora oggi, e lo sarà in futuro, una vera e propria via segnata. ◼

E i mona i pol pure pensar a “die Kölner Schule” perché la scuo-

la tua venessiana la xé alme-no come quea dei Gabriei e

mente per il mondo, a dirige-re, e a comporre nei ritagli di

tempo alcune delle più belle pa-gine orchestrali del Novecento. A

Nono invece sarà concessa una stagio-ti dall’ambizione di condurre a compimento la missione di una evoluzione storica, avvertita come necessa-ria, del linguaggio musicale, attraverso opere che il fi losofo Theodor Adorno, esegeta del-la musica di Schoenberg e alfi ere del pen-

mente evidente all’ascolto di poche battute soltanto di ogni loro musica, sappiamo pe-rò che molto spesso alla base dei loro procedi-menti c’è la medesima, elaborata, tecnica di com-posizione, ci sono gli stessi «segreti», appunto, di bot-

ne più lunga, conclusa da uno straordinario decennio in cui tutto sarà nuovamente rimesso in discussio-

ne, i ruoli del compositore,

ra… La sua musica tra il

1980 e il 1989, in cui voci e strumen-

ti entrano in un dialogo

Luigi_Nono (foto Asac – Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia)

B r u n o M a d e r n aB r u n o M a d e r n aB r u n o M a d e r n a

H

e r m a n n S c h e r c h e n

cui voci e strumen-

H

e r m a n n S c h e r c h e nH

e r m a n n S c h e r c h e n

speciale —

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novecento / parte seconda

Luciano Berio (1925-2003) e Italo Calvino (1923-1985). Due protagonisti della cultura italiana del secondo No-vecento: di quella cultura musicale e letteraria capace di

assumere – come il grande ci-nema e il grande teatro, come le arti fi gurative – respiro in-ternazionale. Non c’è dubbio che le radici più profonde di quella cultura e le ragioni del-la sua stessa forza propositi-va risalgano alle straordina-rie energie intellettuali e crea-tive scatenatesi all’indoma-ni della seconda guerra mon-diale. Se si volge uno sguardo retrospettivo, negli anni cin-quanta e sessanta l’Italia del-la neonata repubblica e del-la costituzione ammirata in tutto il mondo, l’Italia della ricostruzione, dello svilup-po economico, delle speran-ze e delle utopie, della palpi-

tante passione civile non meno che dei violenti confl itti politici e ideologici ap-pare scenario di una stagione culturale e artistica vivacissima e, per molti aspetti, entusiasmante.

Oggi può sembrare sin troppo faci-le sostenere che Berio e Calvino erano predestinati a incontrarsi e far interagi-re le loro personalità, nel caso anche at-

traverso la contrappo-sizione dialettica di

convinzion i propriamen-

te musica-l i ovvero letterarie. Eppure sin dalle circo-stanze bio-

grafiche ap-parentemente

più este-riori le esperienze del musici-sta e dello scrittore sembra-no legate da analogie e cor-rispondenze. Pressoché coetanei, entrambi origi-

nari di quell’angolo di Liguria incastrato tra il Piemonte, il mare e la

Francia, vivono sebbene in modi diversi i traumi dello scorcio della guerra (Calvino partecipando alla lotta partigiana, Be-rio disertando dall’esercito della Rsi). Tutti e due si affermano negli anni cinquanta, dopo che si sono trasferiti in una grande città per studiare (Berio a Milano, in Conservatorio; Calvino a Torino, all’Università). In questo decennio, per Berio c’è, tra l’altro, l’avventura dello Studio di fonologia musicale della Rai; per Calvino, oltre alla scrittura, l’impiego presso Einaudi. Tut-ti e due, ancora, trascorrono nel corso degli anni cinquanta e sessanta fondamentali periodi all’estero: Berio soprattutto ne-

gli Usa, Calvino a Parigi. Su questa falsariga si po-

trebbe andare avanti sino al-le Lezioni americane che en-trambi furono chiamati a te-nere alla Harvard University (quelle di Calvino, program-mate per il 1985-1986, non ebbero luogo per l’improvvi-sa scomparsa dello scrittore e furono edite nel 1988 da Gar-zanti; quelle di Berio, risalen-ti al 1993-1994, le ha pubbli-cate Einaudi nel 2006). Ma al di là delle analogie e delle cor-rispondenze tra i due percor-si biografi ci, destinati a incro-ciarsi più volte dalla fi ne de-gli anni cinquanta alla mor-te di Calvino, sono piutto-

sto le convergenze di poetica o quanto meno le assonanze artistiche e intellet-tuali a dare il senso di un comune terre-no d’incontro (e, all’occasione, pure di amichevole scontro). Se si considerano le opere dell’uno e dell’altro, anche indi-pendentemente da quella che fu la sto-ria della loro collaborazione, che in fon-do conobbe il momento cruciale piutto-sto tardi, tra gli anni settanta e ottanta, si scopre che Berio e Calvino avevano molto in comune oltre agli infl ussi rece-piti di portata generazionale (come per esempio lo strutturalismo e la semiolo-gia); forse più di quanto fossero disposti ad ammettere.

Si pensi alla concezione, della musica e della letteratura, come laboratorio di sperimentazione e costruzione formale; al gusto della rilettura, riscrittura e riela-borazione degli archetipi e dei miti cul-turali e dunque al gusto per la proiezio-

ne intertestuale; all’idea del prodotto artistico come costrut-to in cui è possibile articolare e riconoscere più livelli di lettu-ra. E si pensi, ancora, all’accento posto sulla concretezza – qua-si artigianale – del lavoro creativo, del processo che trasforma i materiali di partenza in qualcos’altro; all’inclinazione per una giocosa leggerezza del fare artistico; all’interesse per la cultu-ra popolare (è suffi ciente ricordare al riguardo due soli titoli: Fiabe italiane di Calvino e Folk Songs di Berio). Condivisa era pu-

Luciano Berioe Italo Calvino

di Cesare Fertonani

convinzion i propriamen-

te musica-l i ovvero letterarie. Eppure sin dalle circo-stanze bio-

grafiche ap-parentemente

più este-riori le esperienze del musici-sta e dello scrittore sembra-no legate da analogie e cor-rispondenze. Pressoché

convinzion i propriamen-

te musica-l i ovvero letterarie. Eppure sin dalle circo-stanze bio-

grafiche ap-parentemente

più este-riori le esperienze del musici-

vecento: di quella cultura musicale e letteraria capace di sessanta fondamentali periodi all’estero: Berio soprattutto ne-

Luciano Berio

Edoardo Sanguineti

— specialesp

ecia

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novecento / parte seconda

re l’idea di un’arte nuova e complessa che tuttavia conservas-se un’immediatezza comunicativa e, in sostanza, un’accessibi-lità di linguaggio, una godibilità verrebbe da dire che poi spie-ga, non da ultima, l’ampia diffusio-ne internazionale delle loro opere e ha reso ben presto Calvino e Berio, per usare una formula, due «classi-ci contemporanei»: due artisti cele-bri per la tensione sperimentale co-sì come per la comprensibilità del-le loro opere da parte di un vasto pubblico. Del resto non è un caso se alla maestria verbale e combina-toria di Calvino corrisponde quella di Berio nel trattamento, nella pro-liferazione e nella trasformazione dei materiali musicali.

La collaborazione tra i due artisti avvenne nell’ambito del teatro mu-sicale. Il primo incontro risale al la-voro intorno al «racconto mimico» Allez-hop (1952-1959; prima rappre-sentazione 1959), così intitolato dal grido con cui un domatore di pulci dà inizio allo show dei suoi insetti e dove tra la musica e l’azione sceni-ca s’instaura un rapporto di molte-plice funzionalità (che può essere, di volta in volta, di trasfi gurazione, rappresentazione, commento, so-

vrapposizione o anche di distaccata interpola-zione). A quanto si di-ce, Calvino non aveva particolari inclinazioni musicali. Per lui, ben-ché in quegli anni aves-se già scritto il libretto dell’atto unico La pan-china (1956) di Sergio Liberovici e poi, pren-dendo parte alle inizia-tive del gruppo Canta-cronache anche il testo di alcune canzoni (Dove vola l’avvoltoio, Oltre il pon-te, Canzone triste e Il pa-drone del mondo sempre per Liberovici, Sul verde fi ume Po per Fio-renzo Carpi), l’incontro con Berio segnò l’inizio di una nuova esperienza. D’altro canto, per il compositore che nella sua pro-duzione assimilava con voracità pressoché onnivora sugge-stioni e sollecitazioni letterarie diversissime, la collaborazione con Calvino rappresentò, accanto a quella con Edoardo San-guineti, un riferimento fermo e tenace.

Dopo Allez-hop sarebbero venuti i due capitoli portanti del-la collaborazione di Berio con Calvino: le «azioni musicali» La vera storia (1977-1978; prima rappresentazione 1982) e Un re in ascolto (1979-1983; prima rappresentazione 1984). Due lavori di ampio formato che inevitabilmente implicano il rapporto con il genere dell’opera lirica (un rapporto molto problematico

per Berio come per gli altri grandi compositori della sua gene-razione); in ogni caso, rifi utando recisamente la defi nizione di «opera» per insistere su quella di «azione musicale», Berio vole-

va sottolineare il ruolo decisivo del processo musicale nella dramma-turgia e l’assenza di una narratività intesa in senso lineare. Intessuti su fi tte trame intertestuali (ma domi-nano soprattutto le ombre del Tro-vatore e di Tristan und Isolde nella Ve-ra storia, il soggetto della Tempesta di Shakespeare in Un re in ascolto), en-trambi i lavori manifestano, al di là dei molteplici livelli di lettura, una densità strutturale che poggia, an-cor più che sull’integrazione, sul-l’intreccio e sulla sostanziale auto-nomia di testo e musica. Non è ca-suale, come indicò lo stesso Berio in un dialogo con Umberto Eco del 1986, che nella Vera storia (svi-luppata da un’idea del composito-re) il testo di Calvino si sia adattato a un progetto musicale già defi ni-to, mentre la genesi di Un re in ascol-to (scaturito da un’idea dello scrit-tore) sia stata assai più tormentata; tanto che se alla fi ne Berio utilizzò soltanto in parte il libretto prepara-to da Calvino questi ne rielaborò a

sua volta l’idea origina-ria in un racconto omo-nimo pubblicato in Sot-to il sole giaguaro (1986). E proprio nella vividez-za e nell’autenticità di questo rapporto, nel-le scintille di una con-tinua tensione e media-

zione dialettica è probabilmen-te da cogliere il signifi cato più pro-fondo della collaborazione tra Be-rio e Calvino: uniti nella convinzio-ne che musica e linguaggio ver-bale siano forme espressi-ve ed esperienze irriducibi-li l’una all’altra e, perciò, ir-rimediabilmente divisi. ◼

zione dialettica è probabilmen-te da cogliere il signifi cato più pro-fondo della collaborazione tra Be-rio e Calvino: uniti nella convinzio-ne che musica e linguaggio ver-bale siano forme espressi-ve ed esperienze irriducibi-li l’una all’altra e, perciò, ir-

zione dialettica è probabilmen-te da cogliere il signifi cato più pro-fondo della collaborazione tra Be-rio e Calvino: uniti nella convinzio-ne che musica e linguaggio ver-bale siano forme espressi-

Italo Calvino

Umberto Eco

speciale —

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novecento / parte seconda

DAL 1946 LA rifl essione su Mallarmé accompagna la ri-cerca di Pierre Boulez, con una continuità che non si limita al «ritratto» di Pli selon pli. Boulez ha sottoli-

neato il modo casuale in cui questo ciclo ha preso forma; ma questa imprevedibile casualità si rivela necessaria all’interno di un rappor-to ininterrotto: appartiene pe-raltro alla poeti-ca del composi-tore francese il rifiuto dei pro-getti rigorosa-mente predeter-minati, il segui-re percorsi che si vengono via via delineando. Dal sogno, vagheg-giato intorno al 1950, di una composizione legata al Coup de

dés, alla Terza Sonata, al secondo libro delle Structures per due pianoforti a Éclat-multiples ad altri lavori strumentali la rifl es-sione sul rigore di Mallarmé («si è di fronte a un blocco mine-rale», ha detto Boulez ad Albéra, in una intervista del 2003) e l’idea di trascriverne l’esperienza e la tensione al limite in al-tra materia artistica (non una corrispondenza testuale, ma una transustanziazione) accompagnano i percorsi di Boulez. Pro-ponendo qualche pagina della ancora inedita corrispondenza tra Boulez e Stockhausen, Albéra cita un passo che rivela ra-gioni di natura non puramente estetica per l’incontro di Bou-lez con Mallarmé, con la sua esperienza del Nulla, con la con-cezione rituale della poesia. Nell’ottobre 1954, discutendo con Stockhausen sul progetto che questi aveva di scrivere una mes-sa o della musica sacra (il Gesang der Jünglinge è del 1955-1956), Boulez lo invita amichevolmente a desistere, dichiara di non credere, parla di vertigine del nulla e della sconfi nata ammira-zione che nutre per Un coup de dés.

Non sorprende dunque che Pli selon pli, cui qui ci limiteremo, abbia un ruolo centrale nel catalogo di Boulez. Anche prima Boulez aveva rifl ettuto in diverse occasioni sui rapporti mu-sica-testo, proponendone una concezione che andasse oltre il

semplice «mettere in musica» una poesia, e che non si facesse condizionare dalla immediata comprensi-

bilità della parola intonata, per instaurare un in-sieme complesso di relazioni di natura struttu-rale. I primi capolavori vocali di Pierre Boulez, dal Visage nuptial al Marteau sans maître, sono le-

gati ai versi di René Char, dunque ad un contemporaneo, come Henri Michaux, autore dei te-

sti di Poésie pour pouvoir (1958). Pli selon pli, il ciclo composto tra il 1957 e il 1962, rende omaggio a Mallarmé rivendicando impli-citamente la «contemporaneità» della sua ricerca. Boulez (nelle conversazioni del 1972 e 1974 con Célestin Deliège, Per volontà e per caso, nel capitolo sulle «Nuove convergenze con la poesia») ebbe a dire: «Al punto a cui ero allora mi sedusse in Mallarmé la straordinaria densità formale dei suoi poemi. Non soltanto il contenuto è davvero straordinario – hanno una mitologia par-ticolarissima –, ma mai la lingua francese è stata portata così lontano dal punto di vista della sintassi [...]. Mallarmé ha cerca-to di riesaminare i dati fondamentali della grammatica france-se. Nelle sue poesie lo ha mostrato in modo straordinariamen-

te denso. Anche le sue prose, che sono meno con-densate, anche le sue conferenze, rivelano la trac-cia di questa os-sessione di rifare una lingua fran-cese con una sin-tassi lievemen-te diversa. È ciò che mi ha più inf luenzato in Mallarmé. […] Mi sono interes-sato all’idea di trovare un equi-

valente musicale, poetico e formale alla sua poesia. Ecco per-ché ho scelto, da Mallarmé, delle forme molto rigorose, per in-nestarvi un processo di proliferazione musicale a partire da una forma pure rigorosa; ciò mi ha permesso di riprodurre in musica delle forme cui non avevo mai pensato, tratte dalle for-me letterarie che egli stesso ha impiegato».

Anche nel breve testo su Pli selon pli che scrisse nel 1969 per la prima registrazione del ciclo, Boulez sottolinea in Mallarmé la «fusione del senso e del suono, in una estrema concentrazione del linguaggio». E osserva: «L’esoterismo che molto spesso si è voluto attribuire a Mallarmé, altro non è che la perfetta ade-renza del linguaggio al pensiero che non ammette nessuna di-spersione di energia».

Un assoluto riserbo Boulez ha mantenuto sul signifi cato che hanno ai suoi occhi i testi scelti per le tre Improvisations e il ciclo nel suo insieme. Le diffi coltà di interpretazione dei testi non impediscono di cogliere il signifi cato generale della conver-genza del poeta e del musicista nel rifl ettere e nell’interrogar-si sulla creazione artistica, sui temi della sterilità, della morte, dell’assenza. Nelle citate conversazioni con Deliège, parlando dei diversi livelli di convergenza tra testo e musica (da quello più semplice e diretto, «plus émotionnel», alle corrisponden-ze strutturali più o meno complesse), Boulez ebbe ad osser-vare, a proposito della «convergenza poetica che ho cercato di raggiungere con certe equivalenze di sonorità»: «Così, quan-do Mallarmé parla di vetro, di merletto, d’assenza, ecc., c’è pro-prio una data sonorità musicale legata direttamente a tali idee: per esempio, certi suoni molto lunghi, molto tesi che fanno parte di questa specie d’universo non immobile, ma straordi-nariamente “vetrifi cato”. È questo piano emozionale, questo

«Attraverso» Mallarmé

di Paolo Petazzi

semplice «mettere in musica» una poesia, e che non si facesse condizionare dalla immediata comprensi-

bilità della parola intonata, per instaurare un in-sieme complesso di relazioni di natura struttu-rale. I primi capolavori vocali di Pierre Boulez,

al gati ai versi di René Char, dunque

ad un contemporaneo, come Henri Michaux, autore dei te-

Boulez aveva rifl ettuto in diverse occasioni sui rapporti mu-sica-testo, proponendone una concezione che andasse oltre il

semplice «mettere in musica» una poesia, e che non si semplice «mettere in musica» una poesia, e che non si facesse condizionare dalla immediata comprensi-

bilità della parola intonata, per instaurare un in-sieme complesso di relazioni di natura struttu-rale. I primi capolavori vocali di Pierre Boulez, dal Visage nuptial al Visage nuptial al Visage nuptial

gati ai versi di René Char, dunque ad un contemporaneo, come Henri Michaux, autore dei te-

Pierre Boulez

— specialesp

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novecento / parte seconda

piano diretto, che mi ha fatto scegliere dei poemi piuttosto che altri. Non è solo perché scriveva sonetti che ho scelto Mallar-mé, ma perché la sua poesia aveva per me un signifi cato ben preciso».

Il riferimento implicito è al-la seconda Improvisation, Une dentelle s’abolit; ma ora è oppor-tuno ricordare i dati essenziali sulla genesi e sulla articolazio-ne complessiva del ciclo.

Il titolo, Pli selon pli (Piega do-po piega) proviene dalla con-clusione della prima quartina di un sonetto del 1890, Remé-moration d’amis belges: «...je sens / Que se dévêt pli selon pli la pierre veuve» (sento / svestirsi piega dopo piega la pietra vedo-va). Commenta Boulez alla fi -ne del suo testo su Pli selon pli: «Il titolo... indica il senso, la di-rezione dell’opera. Nella poe-sia l’autore descrive così il mo-do con cui la nebbia, dissolven-dosi, lascia progressivamente scorgere le pietre della città di Bruges. Analogamente affi ora, via via che si svolgono i cinque brani, piega dopo piega, un ri-

tratto di Mallarmé». Nucleo iniziale del ciclo furono le prime due Improvisations

sur Mallarmé. La prima fu composta nel 1957 per soprano, ar-pa, vibrafono, campane e strumenti a percussione di altezza in-determinata (4 esecutori), e fu presentata in prima esecuzione insieme con la seconda, anch’essa del 1957, il 13 gennaio 1958 ad Amburgo con Ilse Hollweg sotto la direzione di Hans Ro-sbaud. L’organico strumentale della seconda Improvisation è af-fi ne a quello della prima con l’aggiunta di pianoforte e celesta, e i due pezzi possono essere eseguiti insieme o isolatamente. Nel 1959 si aggiunse la terza Improvisation, che fu presentata il 10 giugno 1959 a Baden-Baden da Rosbaud con Eva-Maria Ro-gner e l’orchestra del Südwestfunk. Sempre nel 1959 fu iniziato il pezzo conclusivo, Tombeau, eseguito in forma parziale il 17 ot-tobre 1959 a Donaueschingen e in forma completa soltanto tre anni dopo, all’interno dell’intero ciclo. Del 1960 è una versione provvisoria del pezzo d’apertura, Don, anch’esso portato a ter-mine nel 1962. Infi ne della prima Improvisation Boulez scrisse nel 1962 una seconda versione, con organico più ampio, da ese-guire solo all’interno del ciclo completo, che fu diretto da Hans Rosbaud a Donaueschingen con Eva-Maria Rogner e l’Orche-stra del Südwestfunk il 20 ottobre 1962. La terza Improvisation fu sottoposta a revisione e presentata in una nuova versione nel 1984: la partitura defi nitiva è uscita soltanto nel 1990, e diffe-risce sensibilmente dalle versioni registrate in disco da Boulez nel 1969 e nel 1981. Anche Don è stato riscritto, riveduto e am-pliato nel 1989, senza mutarne la sostanza musicale.

Due pezzi per orchestra con brevissimi interventi della vo-ce racchiudono le tre Improvisations che si dispongono in ordine di durata e di complessità crescente. Don inizia con un violen-

to accordo in fortissimo, che si estingue lentamente (un gesto che sembra evocare lo slancio dell’atto iniziale della creazione): subito dopo il soprano intona «a mezza voce» il primo verso

di Don du poème, in una enuncia-zione chiara e diretta, che fun-ge da iscrizione programmati-ca: «Je t’apporte l’enfant d’une nuit d’Idumée!»

In Don, nel suo carattere in-troduttivo, nel procedere a frammenti, aperto e sospeso, Boulez sembra quasi evocare la nascita dei materiali musicali del ciclo, ci fa assistere alla na-scita di una musica in una con-dizione di sterilità e di rifl essio-ne, a partire dalla pagina bian-ca, dalla «nuit d’Idumée». Nel-la terza sezione, la voce intona molto liberamente, in un clima sospeso, parole della III, della II e della I Improvisation, prean-nuncio di ciò che seguirà. No-ta Boulez: «Le citazioni musi-cali sono motivate dal titolo di Mallarmé: don du poème che qui diventa don de l’oeuvre. Non so-no letterali, ma astratte dal lo-ro contesto, e sono intraviste al

futuro». È l’unico pezzo di Pli selon pli che non può essere ese-guito isolato dal resto.

Dopo le tre Improvisations l’orchestra ritorna unica protagoni-sta nella maggior parte del quinto pezzo, Tombeau, che si confi -gura come una grande progressione, con un drammatico cre-scendo fi no alla pagina conclusiva: qui in una atmosfera sono-ra trasparente e sospesa, la voce (in contrappunto con il cor-no) intona l’ultimo verso del Tombeau che Mallarmé scrisse nel 1897, nel primo anniversario della morte di Verlaine: «un peu profond ruisseau calomnié, la mort»1. Ai tesi arabeschi sulle prime parole del verso segue, nella penultima battuta, la paro-la chiave, mort, che deve essere «parlé sans timbre, uniquement sur le souffl e». Un violento accordo in fortissimo conclude la partitura e l’intero ciclo, che sullo stesso accordo era iniziato.

Le tre Improvisations formano il nucleo centrale di Pli selon

2 La tradizione esegetica vede in questo sonetto immagini di impotenza e sterilità, inten-dendo il cigno-poeta bloccato dalla superfi cie gelata del «lac dur». Nel 1969 Stefano Agosti (nel saggio Il cigno di Mallarmé) ha mostrato le incongruenze della lettura tradizionale, e par-tendo dalla interpretazione di «lac dur» come tomba in cui è imprigionato un poeta defun-to («un cygne d’autrefois») attraverso una analisi di cui non posso riassume-re la ricchezza intende il sonetto in modo assai diverso: «Il fenomeno del-la morte, il quale esclude ogni forma di sopravvivenza sia fi sica sia spiri-tuale, esclude, nel caso di Mallarmé, anche la sopravvivenza nell’arte giacché la poesia mallarméana non è celebrazione della vita del poeta, ma solo il segno di una nozione non comunicata, ossia, in ultima anali-si, soltanto il segno di sé. Parafrasando ancora: verifi catosi il fenome-no della morte, non si dà nessuna speranza di sopravvi-venza se questa non è stata – come non è stata – ri-posta nell’arte.Il poeta è chiuso, ad un tempo, nella tomba e nel proprio libro, entrambi ca-tafratti» (pp. 56/57).

1 Il ruscello che il poeta morendo ha attraversato non è profondo, e la morte è «calunnia-ta», perché la gloria poetica di Verlaine è immortale.

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speciale —

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novecento / parte seconda

pli. Si è già detto che punto di partenza del ciclo fu la prima Im-provisation sur Mallarmé, che ha come testo il celebre sonetto del cigno, pubblicato nel 18852. Soltanto una decina di anni fa Boulez ha raccontato le circostanze occasionali, che hanno determinato la genesi del pezzo: per sal-vare una musica composta per la radio su un testo tradizionale cinese tradotto in modo insoddisfacente, aveva adatta-to la parte vocale a Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui. La genesi in real-tà è ancora più complessa, perché in quella musica convergeva una musica di scena per l’Orestiade, scritta quando collaborava con la compagnia di Barrault e poi trasformata in un pezzo per fl auto che rimase inedito.

Il rapporto della musica di Boulez con la struttura del so-netto del cigno appare leggibi-le con immediatezza: il testo è intonato sillabicamente o con melismi piuttosto brevi (nelle strofe centrali), sottolineando la divisione del sonetto in quartine e terzine (il bianco che le separa nel-la pagina corrisponde a interludi stru-mentali), rivelando una sensibilissima at-tenzione al ritmo dei versi grazie alla sottile fl essibilità ritmica e alle cesure nella parte voca-

le, proponendo in modo allusivo corrispondenze musicali al-le rime. Le sezioni vocali presentano fra loro una evidente con-tinuità, e così pure le sezioni strumentali che ad esse regolar-mente si alternano. Il primo e il secondo interludio riprendono musica tratta da una geniale opera giovanile di Boulez stampa-ta solo nel 1980, rispettivamente dal quinto e dal nono pezzo delle Notations (1945) per pianoforte solo (oggetto da molti an-ni di ripensamento come punto di partenza per la serie, ancora incompiuta, delle Notations per orchestra).

Nelle prime due Improvisations colpiscono anche ad un primo ascolto le suggestioni timbriche, le sonorità gelide, trasparen-ti o magiche e arcane che l’invenzione di Boulez crea intorno ai versi di Mallarmé. In rapporto all’insistenza delle immagini poetiche di Mallarmé sul gelo, sul bianco, sulla trasparenza e l’assenza, le corrispondenti scelte strumentali di Boulez rivela-no una sua predilezione (riconoscibile anche in altre opere) per strumenti che non possono prolungare la durata dei suoni pro-dotti, ma al massimo lasciarli risuonare fi no all’estinzione: se ricordiamo la sua dichiarazione a Deliège sul signifi cato per-sonale che aveva per lui la scelta di certi testi poetici, in nome di una convergenza diretta, possiamo forse immaginare che un

sonetto come Une dentelle s’abolit lo attirasse anche per la possibilità di usare la sonorità chiara di strumenti

capaci di evocare una risonanza vitrea. Alle nuo-ve sonorità create attraverso le combinazioni del peculiare organico strumentale (simile a quello della versione cameristica della prima Improvisa-

tion) e all’originalità del trattamen-to di determinati strumenti (ad esempio l’arpa, che in Boulez

suona assai diversa rispetto alla tradizione impressionista) è prevalentemente (anche se non esclusivamente) dedicata una

conferenza di Boulez del 1961 (Construire une improvisation, pubblicata in Points de repère).

Anche nella seconda Improvisation sur Mallar-mé si alternano sezioni vocali e strumenta-

li in costante divenire, seguendo la strut-tura del sonetto; ma il pezzo è più lun-

go e più complesso. Nella parte vo-cale si presentano due tipi di scrit-tura: una scrittura fortemente or-namentale, melismatica, che dif-fi cilmente consente la percezio-ne della parola, cristallizzata in mirabili arabeschi (si veda, do-po la breve introduzione stru-mentale, la prima quartina del sonetto, in tempo «lento, fl es-sibile»); e un’altra assoluta-mente sillabica, che il soprano deve cantare «senza tempo», il più lentamente possibile ma in-

tonando ogni frase in un solo re-spiro (seconda quartina, tranne

l’ultimo verso). C’è un rapporto di-retto con le immagini poetiche, co-

me primo spunto per una più com-plessa «trascrizione»: nella prima strofa

gli arabeschi vocali sono suggeriti dal «den-telle», nella seconda si evoca la fi ssità del vetro1.

Nella seconda quartina ogni verso è isolato, è separato dal se-guente da un intenso episodio strumentale: come se, una vol-ta intonato il verso (dove ogni sillaba è percepibile) si avesse un respiro, una transizione strumentale dove la suggestione di quel verso si prolungasse nel silenzio della voce, in pagine dove indugi contemplativi si alternano a pulsazioni incalzanti. Nel-le terzine i due tipi di scrittura vocale si mescolano e compe-netrano: Boulez si attiene alla disposizione delle rime, passan-do dallo stile arabescato a quello sillabico. La forma della poe-sia gli ha suggerito di usare i due stili in modo intrecciato nelle terzine. Non senza varianti: lo stile melismatico può essere ac-compagnato da contrappunti o da una serie di accordi, quello sillabico può fi ssarsi su un monolito ritmico o essere associato a echi o divagazioni, perché le due nozioni vanno intese come orientamento di scrittura più che come costrizione. Di per sé la durata della seconda Improvisation (poco più del doppio della prima) fa intuire la maggior complessità che comporta una più profonda integrazione e fusione della poesia nella musica.

Una complessità ancora maggiore presenta la terza Improvisa-tion. La disposizione delle tre Improvisations sur Mallarmé in rea-lizzazioni musicali sempre più complesse corrisponde anche, secondo Boulez, ad una diffi coltà crescente nella interpreta-zione del testo poetico. Per inciso va osservato che nella par-titura stampata il primo verso è scritto in modo da eliminare l’ambiguità della grafi a di Mallarmé, À la nue accablante tu, con la prima parola accentata, esplicitamente intesa come preposi-zione e non come verbo, interpretazione su cui oggi c’è una so-

1 Scostandosi dal vetro il merletto della tendina di una fi nestra lascia scorgere una stanza vuota, una «assenza di letto». Nelle terzine si sogna una nascita impossibile dal «cavo musi-co nulla» del ventre di una mandola.

Une dentelle s’abolitpossibilità di usare la sonorità chiara di strumenti

capaci di evocare una risonanza vitrea. Alle nuo-ve sonorità create attraverso le combinazioni del peculiare organico strumentale (simile a quello della versione cameristica della prima

) e all’originalità del trattamen-to di determinati strumenti (ad esempio l’arpa, che in Boulez

sonale che aveva per lui la scelta di certi testi poetici, in nome di una convergenza diretta, possiamo forse immaginare che un

sonetto come Une dentelle s’abolitsonetto come Une dentelle s’abolitpossibilità di usare la sonorità chiara di strumenti

capaci di evocare una risonanza vitrea. Alle nuo-ve sonorità create attraverso le combinazioni del peculiare organico strumentale (simile a quello della versione cameristica della prima

tion) e all’originalità del trattamen-tion) e all’originalità del trattamen-tionto di determinati strumenti (ad esempio l’arpa, che in Boulez

Boulez ha raccontato le circostanze occasionali, che hanno determinato la genesi del pezzo: per sal-vare una musica composta per la radio su un testo tradizionale cinese tradotto in modo insoddisfacente, aveva adatta-

Le vierge, le vivace . La genesi in real-

tà è ancora più complessa, perché in quella musica convergeva una

Orestiade, scritta quando collaborava con

le con immediatezza: il testo è intonato sillabicamente o con melismi piuttosto brevi (nelle strofe centrali), sottolineando la divisione del sonetto in quartine e terzine (il bianco che le separa nel-la pagina corrisponde a interludi stru-mentali), rivelando una sensibilissima at-tenzione al ritmo dei versi grazie alla sottile fl essibilità ritmica e alle cesure nella parte voca-

conferenza di Boulez del 1961 (pubblicata in Points de repère

Anche nella seconda mé si alternano sezioni vocali e strumenta-mé si alternano sezioni vocali e strumenta-mé

li in costante divenire, seguendo la strut-tura del sonetto; ma il pezzo è più lun-

go e più complesso.cale si presentano due tipi di scrit-tura: una scrittura fortemente or-namentale, melismatica, che dif-fi cilmente consente la percezio-ne della parola, cristallizzata in mirabili arabeschi (si veda, do-

mente sillabica, che il soprano deve cantare «senza tempo», il più lentamente possibile ma in-

tonando ogni frase in un solo re-spiro (seconda quartina, tranne

l’ultimo verso). C’è un rapporto di-retto con le immagini poetiche, co-

me primo spunto per una più com-plessa «trascrizione»: nella prima strofa

gli arabeschi vocali sono suggeriti dal «den-telle», nella seconda si evoca la fi ssità del vetro

Pierre Boulez

— specialesp

ecia

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novecento / parte seconda

stanziale convergenza. Nella terza Improvisation l’organico strumentale, sensibilmen-

te più ampio che nelle precedenti, comprende 4 fl auti, 5 violon-celli, trombone tenore, 3 contrabbassi, 3 arpe, mandolino, chi-tarra, celesta e sette esecutori di percussione2. La rifl essione di Boulez sul so-netto del nau-fragio lo por-ta a costruire una forma che stabilisce con la poesia un le-game comples-so, assai stret-to, ma al tempo stesso in grado di allontanarsi dal testo in una cost r uz ione notevolmente ampliata. Non per caso la ge-nesi del pezzo è stata molto tor-mentata, dalla prima versione del 1959 a quel-la defi nitiva del 1984. Nella ver-sione defi nitiva

sono stati eliminati gli aspetti «aperti» della scrittura, fra i qua-li l’interprete poteva operare delle scelte, ed è stato recuperato per intero il testo poetico, che nella prima versione era limitato a tre versi. Nelle prime versioni il pezzo cominciava con un vo-calizzo senza testo, che nella stesura defi nitiva è stato sostitui-to dalla intonazione completa del sonetto. Essa ha però il ca-rattere e il signifi cato di una presentazione, come se il testo ve-nisse letto per intero prima di proporne una ampia e parziale elaborazione musicale. Si tratta di una specie di lettura in mu-sica, proposta in modo assai lavorato e ornato, con signifi cati-vi interventi strumentali, e con intensa suggestione; ma senza tradire il fondamentale carattere di una lettura che fa conosce-re il testo prima che ne venga iniziata l’elaborazione musica-le. Dopo tale lettura il testo si limita ai primi quattro versi, per-ché, dichiara Boulez, se ogni verso fosse elaborato come que-sti, la terza Improvisation sur Mallarmé assumerebbe una lunghez-za sproporzionata rispetto alle pagine precedenti e all’intero ci-clo. L’idea centrale è di far corrispondere ogni verso a un tipo formale di invenzione in un gioco di forme che si intrecciano e si compenetrano.

La iniziale «lettura» pone in luce l’ardua costruzione sintatti-ca del sonetto: le due quartine sono cantate senza interruzione, e si inserisce soltanto un breve interludio prima delle terzine, anch’esse cantate senza cesure in uno stile intensamente orna-mentale. Poi Boulez si confronta con il testo verso per verso, in modo che ad ognuno dei primi quattro, corrispondano idee, forme, invenzioni specifi che. All’interno di ampie sezioni, co-

2 L’organico sembra rifl ettere la contrapposizione tra alto e basso, tra superfi cie celeste e marina, che è determinante nel testo.

me di grandi blocchi, la voce dilata l’intonazione dei singoli versi, o canta a bocca chiusa, o comunque in modo che diviene impossibile la comprensione delle parole (che divengono co-sì «assenti», pur costituendo il «centro» da cui si irradia in tut-ti gli aspetti la concezione del pezzo). Il testo sembra «naufra-

gare» nel con-testo strumen-tale. Boulez ha t rasformato tutte le pagine che nelle ver-sioni prece-denti prevede-vano un cer-to grado di in-determinazio-ne «aperta», e da queste nel-la stesura defi -nitiva sono na-ti episodi bre-vi che si alter-nano ai gran-di blocchi for-mali quasi co-me parente-si, in percor-si imprevedi-bili, in un gio-co di forme

intrecciate. Questa sommaria descrizione del ciclo non basta a far com-

prendere la varietà di materiali, caratteri e percorsi a cui si apre nel prender forma senza alcun piano prestabilito. La sua com-pattezza e coerenza stilistica convive con molteplici aperture, accoglie materiali da precedenti opere di Boulez, ma soprat-tutto rivela, in diversi aspetti della concezione del suono e nel rilievo che in alcune pagine assume l’eterofonia, un signifi ca-tivo (e dichiarato) rapporto con tradizioni musicali extraeuro-pee, senza esotismi, senza rinunciare a logiche strutturali di al-tro carattere. Non è un dato nuovo nel pensiero di Boulez; ma contribuisce in misura notevole agli aspetti visionari della con-cezione del suono. Confrontandosi con un’esperienza al limite come quella di Mallarmé, Boulez (come ebbe a dire ad Albéra) pone in atto l’esigenza non di andare oltre, ma di «passare at-traverso»: «Bisogna considerare le grandi opere come schermi che si devono attraversare, al modo in cui, nel teatro giappo-nese, si fanno passare i morti attraverso schermi di carta…» ◼

Stéphane Mallarmé visto da Édouard Manet

speciale —

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novecento / parte seconda

NEL LINGUAGGIO POLIEDRICO di György Ligeti si fondo-no abilmente immaginazione musicale, intercultura-lità, interessi scientifi ci e suggestioni estetiche tra le

più varie, che donano vita a universi sonori intrecciati salda-mente alla tradizione, ma a un tempo proiettati verso un oriz-zonte futuro che si tinge di tratti utopici e visionari.

Gli Études pour piano, premier livre, opera cruciale della produ-zione ligetiana, pubblicata nel 1985, incarna emblematicamen-te lo stile stratifi cato del Maestro ungherese, giunto in quegli anni alla piena maturità creativa.

Dopo il primo periodo di formazione nella terra di origine – ove, pur in un’atmosfera culturalmente e politicamente re-pressiva, opera ancora con estrema vitalità la feconda lezione di Bartók e Kodaly – e la scoperta rivelatoria, negli anni cin-quanta, delle più recenti intuizioni di Cage, Boulez e Stockhau-sen – a propria volta suggestionati dalla pubblicazione del Li-vre di Mallarmé, avvenuta nel 1957, la cui eco si trasmette ben oltre l’ambito letterario – Ligeti inizia a maturare, tra la fi ne de-gli anni cinquanta e i primi anni sessanta, un proprio percor-

so espressivo in cui la liquidazione della serialità integrale – co-sì affi ne nei propri esiti estremi alle realizzazioni aleatorie – si associa alla ricerca di nuove architetture compositive che ri-pensano alla radice i parametri del tempo e dello spazio so-noro. Lo sperimentalismo prosegue con la gestuale dramma-ticità di Aventures (1962) e Nouvelles Aventures (1965), alle qua-li si affi ancano le disperate meditazioni del Requiem (1963-65) e di Lux Aeterna (1966) e l’illusionismo sonoro di Ramifi cations (1968-69), Continuum (1968) e Kammerkonzert ( 1969-1970), ove l’infrazione improvvisa e inaspettata nei confronti di un ordi-ne ritmico precostituito si rivela motore generatore della for-ma. Con i lavori dei primi anni settanta si approfondiscono la ricerca micropolifonica e l’interesse per le componenti me-lodiche e ritmiche, elementi caratterizzanti l’indagine ligetia-na, giunta a un nodo decisivo durante il periodo di rifl essione compreso tra il 1978 e il 1982.

Il ritorno critico alla tradizione, da intendersi in sen-so blochiano, si intreccia ora a una prospettiva

metacognitiva e a una curiosità sempre più ver-satile che riesce a connettere tra loro rifl essio-ni estetiche e scientifi che. Ne scaturiscono le Drei Phantasien su testi di Hölderlin e il celebre

Trio per violino,corno e pianoforte, dedi-cato alla memoria brahmsiana

(opere entrambe del 1982); tre anni più tardi viene pub-blicata la prima raccolta de-gli Études per pianoforte, considerati unanimemen-te, per originalità di scrit-

tura e innovazione della tecnica pianistica, uno dei capolavori della letteratura musicale del secondo Novecento.

Il ciclo si compone di sei brani, parti di un organismo unita-rio, frutto della prodigiosa capacità di sintesi ligetiana che rie-sce ad amalgamare in uno stile personale i modelli estetici ere-ditati dalla tradizione musicale colta (in particolare Chopin, ma anche Liszt, Schumann, Brahms, Debussy, Ravel, Bartók), gli spunti tratti dal folclore ungherese, rumeno, balcanico, por-toricano e africano, la conoscenza delle opere per pianoforte meccanico realizzate da Conlon Nancarrow, il linguaggio jaz-zistico e le suggestioni maturate a contatto con le teorie scien-tifi che di quegli anni.

Se la raccolta di Studi per Player Piano di Nancarrow rappre-senta una sfi da avvincente per realizzare, nei limiti imposti a un interprete umano, le sovrapposizioni e progressive grada-zioni di velocità raggiunte dal compositore americano con i pianoforti meccanici grazie all’utilizzo di una particolare per-foratrice, saranno soprattutto le teorie esposte da Simha Arom nei saggi etnomusicologici dedicati alle poliritmie sub-saharia-ne a rendere possibile, grazie all’uso sistematico e diffuso del-l’hemiolia, la sovrapposizione di periodi musicali complessi, la cui unità di fondo viene garantita dalla continuità di una pul-sazione isocrona.

A tali desuete fonti di ispirazione, Ligeti unisce l’attrazione esercitata da alcune fondamentali intuizioni matematiche e fi -siche di quegli anni: il pensiero generativo del computer (da cui sorge l’idea di dare vita a forme musicali «vegetali»), la teo-ria del caos (che propone un’ermeneutica dei fenomeni caoti-ci fondata sulla progressiva alternanza di ordine e disordine) e il fascino evocato dalla geometria frattale, sorta di arte astratta

capace di restituire visivamente la sensazione di un tempo in-cantato, quasi congelato.

Nonostante Ligeti dichiari di avere voluto realizzare, con la prima collana di Studi, brani di carattere eminentemente vir-tuosistico, estranei a ogni categoria stilistica predeterminata, è possibile comunque delineare alcuni dei principi estetici e compositivi che caratterizzano l’intera raccolta.

Emerge innanzitutto una concezione creaturale del suono, inteso come realtà vibratoria signifi cante che fa appello a un tempo alla seduzione dei sensi, alle facoltà cognitive e a quelle mnestiche. L’attenzione rivolta alla globalità dell’aspetto per-cettivo rivela una sottile affi nità con la concezione schilleria-na dell’impulso del gioco, capace di armonizzare tra loro, gra-zie alla bellezza, le facoltà sensibili e intellettuali. Effetto otte-nuto dall’autore attraverso l’elaborazione di un oggetto sonoro complesso, sorto dalla impurità generata dalla sintesi di para-metri tra loro eterogenei (timbro, altezza, ritmo), connessi or-ganicamente in una struttura di tipo reticolare.

Il suono appare allora come forma in movimento, soggetta a un processo di trasformazione continua, sospeso in trame spa-ziotemporali di tipo multiplo, senza centro né gerarchie, simi-li a sistemi infi niti e aperti. Il ramifi carsi di forme in espansione verso architetture sempre più complesse può essere assimila-to a un processo di cristallizzazione, durante il quale lo sfuma-re di una sezione nell’altra appare sempre estremamente mor-bido, in ossequio al principio di massima gradualità descritto dalla teoria del caos. L’illusionismo sonoro generato dalla va-riazione continua delle cellule musicali germinali riverbera co-me un’eco delle zone più subliminali della coscienza, traccia preziosa di un tempo interiore divelto dal tempo cronologico

Sintesi interculturalee tempo teatralizzatoGli «Études pour piano,premier livre» di György Ligeti

di Letizia Michielon

so blochiano, si intreccia ora a una prospettiva metacognitiva e a una curiosità sempre più ver-metacognitiva e a una curiosità sempre più ver-

satile che riesce a connettere tra loro rifl essio-ni estetiche e scientifi che. Ne scaturiscono le

su testi di Hölderlin e il celebre per violino,corno e pianoforte, dedi-

cato alla memoria brahmsiana

metacognitiva e a una curiosità sempre più ver-satile che riesce a connettere tra loro rifl essio-ni estetiche e scientifi che. Ne scaturiscono le Drei Phantasien su testi di Hölderlin e il celebre Drei Phantasien su testi di Hölderlin e il celebre Drei Phantasien

Trio per violino,corno e pianoforte, dedi-Trio per violino,corno e pianoforte, dedi-Triocato alla memoria brahmsiana

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novecento / parte seconda

e immerso in una mescolanza fl uida ove si fondono Erlebnis e proiezioni immaginative fantastiche.

In questa sorta di mondo virtuale, dove nulla si crea e nul-la si distrugge, in un continuo trasparire di presenze-assenze che emergono e si riassorbono nel silenzio, il tempo sembra in-goiato, staticizzato in un divenire immobile popolato da fi gu-re dalla latente drammaturgia. La teatralizzazione del tempo, con le sue diverse maschere, si rivela così il tema nascosto del-l’intera raccolta, dinamizzata dal confl itto innescato grazie al-la polarità ordine-caos.

Tutti i sei studi, infatti, iniziano con formule musicali molto elementari che progressivamente si complicano approdando a una dimensione caotica.

L’apparente kosmos con cui si apre il primo studio (Désordre), si allontana sempre più dall’ordine attraverso il sapiente utiliz-zo del décalage (ovvero lo slittamento prodotto dalla sottrazio-ne o aggiunta progressiva delle pulsazioni che sorreggono il continuum ritmico di crome), la biforcazione dei registri attua-ta tra le due sequenze melodiche affi date alla mano destra (sui tasti bianchi) e alla mano sinistra (sui tasti neri) e il crescendo irresistibile che sfocia nel fi nale. Il disordine, inteso come de-viazione imprevedibile all’interno di un percorso infi nitamen-te ripetitivo, è vissuto come una necessaria discontinuità che genera nuova energia e nuove possibilità di vita, proiettate ver-so un universo immaginario ove convivono armoniosamen-te Essere e Divenire. Ne scaturisce un effetto acustico spirali-forme che coniuga in sé la dimensione spaziale – frutto dell’in-terazione tra un divenire di tipo «orizzontale», la circolarità in-nescata dall’eterno ritorno dell’uguale e la spinta ascensionale – e la dimensione temporale, articolata in una sovrapposizione

di diversi livelli di velocità.In Cordes à vide la ricerca sul fenomeno della turbolenza si con-

centra nell’esplorazione delle più intime profondità dell’incon-scio, in un’indagine quasi bergsoniana del fl usso di coscienza e della memoria. La complessità ritmica dona ora voce alle mi-steriose sovrapposizioni del tempo interiore, nutrito di desi-deri, sogni, ricordi, ansietà, silenzi, attese. Presente passato e futuro convivono e si intersecano all’interno di un amalgama psichico equoreo, cangiante, connesso grazie ai tenui fi li trac-ciati dai percorsi mnestici.

La dimensione dell’ascolto, dilatato fi no a sfi orare le soglie di udibilità più sottili, si approfondisce ancor più nel terzo studio (Touches bloquées), costruito sul geniale intarsio di suoni e silen-zi, ottenuti percuotendo alternativamente con una mano alcu-ni dei tasti tenuti abbassati dall’altra. Ne scaturiscono grappo-li di cellule ritmico-melodiche che germinano espandendo il materiale tematico grazie all’utilizzo di note di volta e di voci in contrappunto libero. La quinta sezione (battute 72-91), l’uni-ca a non presentare tasti bloccati, rivela, con le sue vertiginose pause, il senso recondito del brano e insieme dell’intero ciclo: il processo trasformativo del materiale tematico evoca per ana-logia le metamorfosi dei processi vitali che, privi di una preci-sa destinazione teleologica, precipitano tragicamente nell’abis-so del nulla e del vuoto. Il silenzio rappresenta così l’esito del processo autosoppressivo del suono e contemporaneamente l’ombra preziosa che consente l’accrescersi dell’intero organi-smo compositivo. Le note mute suonate fi n dalle prime misu-re evocano infatti spettri annichilenti che se da un lato consu-mano il suono, dall’altro ne rendono possibile l’evoluzione, in-carnando il principio negativo necessario alla dialettica polare

su cui si regge la Bildung del materiale tematico.Il tempo che si autodistrugge, confondendosi con il silenzio,

si trasforma, in Fanfares, in un tempo che diventa spazio denso di compresenze. L’intuizione goethiana dell’istante capace di concentrare in sé la totalità dell’Essere si concretizza in questo contesto attraverso un gioco di specchi che moltiplica le identi-tà tematiche. Giocando sulla rotazione dell’ostinato costruito sulla successione ritmica di 3+2+3 crome, la sequenza temati-ca affi data alle due fanfare appare teatralizzata in una polispa-zialità che irrora il suono di luce e leggerezza, avviando alle ra-refazioni meditative di Arc-en-ciel (Arcobaleno), apice contempla-tivo dell’intera raccolta.

Le soluzioni ritmiche e armoniche ispirate al jazz generano infatti in questo brano un tessuto sonoro ove gli accordi ap-paiono simili a raggi di luce trascolorante che si rifrangono in cristalli purissimi. Si rimane incantati da questa atmosfera as-solutamente libera da ogni rete concettuale preordinata, so-spesa in una beatitudine immateriale, fuori del tempo e dal-lo spazio.

Al fascio di luce iridescente che sfi ora lievemente il tempo cri-stalizzato di Arc-en-ciel , segue il lamento di Automne à Varsovie, ultimo tassello del polittico ligetiano, emergente dallo sfondo di una pioggia incessante, simbolo di un pianto infi nito, in cui si consumano volti, identità, desideri. La progressiva saturazio-ne delle velocità sorge da una cascata di ramifi cazioni ritmiche incastonate l’una sull’altra, rese possibili dall’uso generalizzato del principio dell’ hemiolia. L’implosione dello spazio acustico approda inesorabilmente al crollo fi nale: il ciclo che si era aper-to con le spirali ascensionali di Désordre si conclude con il cedi-mento a una forza dal potere oscuro che magnetizza l’energia

del suono e la ingoia vorticosamente nel buio del nulla.L’ultima maschera indossata dal tempo, sintesi estrema di

un pensiero compositivo che sorge sullo sfondo di un oriz-zonte umano e culturale sconfinato, conduce dunque pa-radossalmente al collasso nell’indifferenza e alla tragica au-tonegazione dell’identità sonora: rifl esso drammatico, for-se, di una civiltà contemporanea che non sempre sa rispet-tare le diversità e che ha scoperto nella distruzione uno dei principi polari su cui si regge lo sviluppo della vita. ◼

Bibliografi a di riferimentoGyörgy Ligeti, Études pour piano, premier livre, in AA.VV., Il pianoforte in ventidue saggi, Longanesi, Milano 1994.György Ligeti, Form in der neuen Musik, «Darmstädte Beiträge», n.10, Mainz, 1966, Schott.György Ligeti, Träumen Sie in Farbe? Györg y Ligeti in Gespräch mit Ekhard Roelcke, Paul Zsolnay Verlag, Wien 2003, trad.it. Lei sogna a colori? Györg y Ligeti a colloquio con Ekhard Roe-lcke , a cura di A. Peroni, Alet Edizioni, Padova 2004.Alessandra Morresi, Györg y Ligeti: «Études pour piano, premier livre». Le fonti e i procedimenti compositivi, EDT, Torino 2002.AA.VV., Ligeti, a cura di Enzo Re-stagno, EDT, Torino 1985.Ivanka Stoianova, Entre détermi-nation et aventure. Essais sur la musi-que de la deuxèmie moitié du XXéme siècle, L’Harmattan, Paris 2004.

Györg y Ligeti in Gespräch , Paul Zsolnay Verlag, Wien 2003, trad.

Lei sogna a colori? Györg y Ligeti a colloquio con Ekhard Roe- , a cura di A. Peroni, Alet Edizioni, Padova 2004.

Györg y Ligeti: «Études pour piano, premier livre». Le fonti e i procedimenti compositivi

, Paul Zsolnay Verlag, Wien 2003, trad.Lei sogna a colori? Györg y Ligeti a colloquio con Ekhard Roe- , a cura di A. Peroni, Alet Edizioni, Padova 2004.

Györg y Ligeti: «Études pour piano, premier livre». Le fonti e i procedimenti compositivi, EDT, premier livre». Le fonti e i procedimenti compositivi, EDT, premier livre». Le fonti e i procedimenti compositivi

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novecento / parte seconda

TRA I PADRI NOBILI della musica europea del Novecen-to, Hans Werner Henze (Gütersloh, 1926), quantun-que tuttora vispo ve-

geto e in piena attività – e che gli dei ce lo conservino a lun-go col suo humor insinuante, la testa pronta vivace bizzar-ra, l’amore per la vita in tut-te le sue sfumature –, vanta il primato della fecondità. La sua vena teatrale, un teatro da intendersi nel senso più vario e allargato del termi-ne, comprende 14 opere ve-re e proprie, 6 lavori di teatro musicale (di cui uno cancel-lato dal catalogo), 15 balletti (3 dei quali revisioni di vec-chi spartiti), 4 imprese sceni-che collettive, 11 colonne so-nore di fi lm e 2 per la radio, 8 musiche di scena, 5 trascri-zioni-adattamenti di partitu-re dal Sei all’Ottocento, per-

sino i titoli di testa di una serie televisi-va, sopravanza i lasciti, pur abbondantis-simi, di autori iperprolifi ci quali Richard Strauss e Benjamin Britten, ed è lì lì per ri-valeggiare con gli operisti dell’Ottocento, di quando cioè il melodramma occupava una posizione dominante nel sistema cul-turale dell’Occidente capitalista e borghe-se (l’espressione valga come semplice da-to di fatto, sottratta a qualsiasi giudizio di valore). Anzi, una conoscenza appena più approfondita della sua produzione attesta l’esattezza d’una defi nizione, coniata dallo stesso Henze a proposito del suo modo di «fare musica», Imaginäres Theater, teatro immaginario.

Al cuore della vita quotidiana e spirituale del Nostro troneggia un sentimento totalizzante

del paesaggio, la natura quale polo dialettico del mondo urbano-industriale moderno. Siffatta prospettiva, se non acquisita (se ne trovano accenni nel radiodramma Ein Landarzt, ispirato a Kafka, e in Boulevard solitude, ennesimo adattamento della Ma-

non di Prévost – si pensi alle voci bianche, ovvio simbolo d’inno-cenza), venne certo rafforzata e chiarifi cata dal contatto coll’Ita-lia: giuntovi nel ’53, Henze non l’ha più lasciata, risiedendo di

volta in volta a Ischia, Na-

poli, Roma, Castel Gandolfo, Marino. Non lontano dal qua-le, sulle rive del Lago di Nemi, si svolge, nella fi nzione scenica, l’atto II della più recente sua fatica teatrale, la Konzertoper Phaedra, tenuta a battesimo a Berlino nel 2007 e già riproposta, tra l’al-tro, a Bruxelles, Francoforte, Vienna, Firenze (un’altra peculia-rità di Henze consiste nella larga fortuna delle sue «creature»). Mentre la prima parte ripercorre le tappe ben note del mito tra-sposto in tragedia da Sofocle, Euripide, Seneca, Racine, d’An-

nunzio, vale a dire l’amore in-cestuoso e mortifero per il fi -gliastro Ippolito (dedito esclu-sivamente al culto di Artemi-de e alla caccia) concepito da Fedra su istigazione di Afro-dite, una variante latina del-la vicenda, tramandataci da Virgilio e Ovidio, sta alla ba-se del quadro seguente: Arte-mide, ricomposte le membra dilaniate di Ippolito, conduce l’eroe, ora ribattezzato col no-me di Virbio, sulle sponde del Lago di Nemi, dove viene in-coronato re dei boschi.

L’orizzonte meridiona-le, prediletto da generazioni d’intellettuali-viaggiatori ca-lati dai paesi germanici, rice-ve infi ne il meritato omaggio, dopo essere stato trasposto in

luoghi antichi o fi abeschi (Re Cervo, Bassari-di, Venere e Adone) ovvero evocato per con-trasto (il cupo ferrigno del Principe di Hom-burg, le cime alpine di Elegia per giovani aman-ti, l’oceano tempestoso – più nordico che giapponese – del Mare sdegnato, da Mishi-ma, fattosi incredibilmente placido e ras-sicurante – mediterraneo? – una volta che l’opera è stata trasposta – pochi anni orso-no – in giapponese). In precedenza, piut-tosto, questa Sehnsucht nach Süden, l’attrazio-ne per il sud, s’era manifestata tra le pieghe umide e ombrose di pezzi vocali, grondan-ti sensualità e calore, per solista e strumenti

(Cinque canti napoletani per baritono – modellato sui mezzi di Fi-scher-Dieskau – e orchestra, Notturni e arie per soprano e orche-stra: duplice rifl essione sul Lied mahleriano, portato però a una temperatura torrida; Ariosi per soprano violino e orchestra, su testi del Tasso; Being beauteous per soprano leggero, arpa e quat-tro violoncelli) o di brani destinati alla danza (Undine, un ballet blanc – nel taglio dei numeri, nella plasticità dei disegni ritmici e melodici – minato alla radice dall’«ambiguità» della disposi-zione armonica). Tutto un mondo che pareva trascorso, ed in-vece era destinato a rivivere, qualche tempo fa, nei Canti arabi per tenore e pianoforte.

Adesso, con Phaedra, l’approdo italico della collocazione sce-nica, unico luogo «reale» per l’artista che si dedichi al teatro, non signifi ca solo proclamare in pubblico le ragioni del cuore, ma si rifl ette anche sulla drammaturgia, laddove l’ossequio in-fi ne rivolto alla terra adottiva comporta, inevitabile, un ripen-

Hans Werner Henze

di Jacopo Pellegrini

«fare musica», Imaginäres Theater, teatro immaginario.Imaginäres Theater, teatro immaginario.Imaginäres TheaterAl cuore della vita quotidiana e spirituale del Nostro troneggia un sentimento totalizzante

del paesaggio, la natura quale polo dialettico del mondo urbano-industriale moderno. Siffatta prospettiva, se non acquisita (se ne trovano accenni nel radiodramma Ein

, ispirato a Kafka, e in Boulevard , ennesimo adattamento della Ma-

di Prévost – si pensi alle voci bianche, ovvio simbolo d’inno-cenza), venne certo rafforzata e chiarifi cata dal contatto coll’Ita-lia: giuntovi nel ’53, Henze non l’ha più lasciata, risiedendo di

volta in volta a Ischia, Na-

Al cuore della vita quotidiana e spirituale del Nostro troneggia un sentimento totalizzante

del paesaggio, la natura quale polo dialettico del mondo urbano-industriale moderno. Siffatta prospettiva, se non acquisita (se ne trovano accenni nel radiodramma Landarzt, ispirato a Kafka, e in Landarzt, ispirato a Kafka, e in Landarztsolitude, ennesimo adattamento della solitude, ennesimo adattamento della solitude

non di Prévost – si pensi alle voci non di Prévost – si pensi alle voci nonbianche, ovvio simbolo d’inno-cenza), venne certo rafforzata e chiarifi cata dal contatto coll’Ita-lia: giuntovi nel ’53, Henze non l’ha più lasciata, risiedendo di

volta in volta a Ischia, Na-

Scene di Phaedra, Berlino 2007 ( foto di Ruth Walz )

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samento di tutta quanta l’esperienza professionale maturata in loco. Di qui, il carattere retrospettivo, di summa che si avver-te quasi ad ogni pagina dell’opera: l’organico strumentale ca-meristico (23 musicisti: 4 archi «opposti» a 14 fi ati – tutti, salvo trombe e tromboni, chiamati a misurarsi con due strumenti –, pianoforte, arpa, celesta e due percussionisti alle prese con una trentina di aggeggi diversi), adottato in più occasioni, evoca Elegia per giovani amanti (il rilievo assicurato agli strumenti idio-foni) e Cimarrón (le percussio-ni in genere); il soggetto miti-co segna un ritorno a Bassaridi e Venere e Adone, la componen-te fi abesca a Re Cervo e Upupa. La memoria come nutrimen-to estetico e stimolo creativo non si limita a scavare nel pro-prio passato, ma si esercita an-che sulla Storia.

Nel Diario di lavoro su Phae-dra (Wagenbach, Berlino; parzialmente tradotto in ita-liano nel programma di sa-la per l’allestimento al Mag-gio musicale fi orentino 2008) Henze dichiara di essersi po-sto come obiettivo principa-le il distinguere gli atti tra lo-ro. In effetti, nel quadro d’un organismo unitario, edifi cato a partire dalla costante pulsa-

zione ritmica di semiminima, da una do-decafonia rigorosa (Henze è sempre stato e resta un compositore «a base» seriale) ma non dogmatica (un po’ come il nostro Dal-lapiccola), da una scrittura contrappuntisti-ca (germanica) tanto intricata all’apparen-za quanto concepita secondo un sistema di «velature» sovrapposte, che, nel mentre ga-rantisce ariosità al tessuto musicale, esalta l’iridescenza preziosa dei singoli interven-ti strumentali, il contrasto di atmosfera so-nora tra le due ambientazioni non potreb-be essere maggiore. Nel I, dunque, la Gre-cia mostra tratti severi, fi n duri nel suo cru-do tono tragico: vi domina una cupa vena espressionista (pas-si in Sprechgesang, accostamenti a Berg), nella quale vengono ru-minati lacerti wagneriani (il declamato del Ring, il cromatismo del Tristan, già esplorato nell’omonimo lavoro per pianoforte, nastro magnetico e orchestra). Il II, tutt’al contrario, è all’inse-gna d’un’allegria spensierata, schiettamente comica e non esen-te da derive grottesche: un clima tinnulo, da Flauto magico (Fedra Afrodite e Artemide intorno a Ippolito simili alle tre Dame in-torno a Tamino), arricchito di spezie varie, suoni ed effetti na-turalistici preregistrati, infl essioni jazzistiche o curve melodi-che da song politico, alla Weill, frequenti ritmi di danza (tango, bolero), persino, in un punto, un’eco, senza dubbio involonta-ria, dell’odiatissimo Richard Strauss (che Henze mi perdoni se ho osato scriverlo!).

A colore musicale diverso corrisponde, in ciascun quadro, una diversa impostazione dei rapporti tra i personaggi agenti.

I versi, concettosi al limite dell’ermetismo (hölderliniani li ha defi niti Henze), dettati dal poeta e teologo tedesco Christian Lehnert, delineano una drammaturgia interiore, quale s’addi-ce a una Konzertoper: i due umani (Fedra e Ippolito) sono muniti d’un doppio divino (Afrodite e Artemide, rispettivamente); tut-ti, in qualche modo misterioso, fanno capo alla fi gura anch’es-sa doppia del Minotauro, solo evocato a parole nel Quartetto iniziale, presente in scena nell’episodio conclusivo. Nessuno,

però, dialoga o si confronta; anche quando cantano insie-me (capita sovente alle cop-pie omologhe, soprattutto a quella Fedra-Afrodite), i cin-que si limitano a monologa-re, rimuginando i propri pen-sieri sentimenti ed emozioni: non a caso, ciascuno di loro si esprime attraverso uno spe-cifi co stile vocale, e volentieri sono accompagnati da timbri determinati (legni per Ippoli-to, ottoni per Fedra, ecc.).

Si ripropongono pertanto situazioni già esperite in Bou-levard (parzialmente), Elegia e Bassaridi: l’incomunicabilità come morbo mortale. Senon-ché, il secondo atto celebra a chiare note la faticata eppur trionfale conquista dell’au-

todeterminazione da parte dell’uomo, in questo caso da identifi carsi, forse, coll’ar-tista: Ippolito, infatti, si sottrae al princi-pio d’autorità materna, inteso sia nell’acce-zione sacra – il redivivo, pronto a divenire re, infrange le statue delle dee –, sia in quel-la umana – Fedra, la madre-amante. Qual-cuno, in vena di scandaletti, potrebbe leg-gervi una rivendicazione dell’omosessua-lità, magari quella dell’autore stesso. Piut-tosto, ricorrendo ancora una volta ai mez-zi dell’allegoria fi abesca, Henze eleva un inno all’umanità, alla libertà alla fantasia e all’amore che ne rappresentano gli aspetti

migliori e imperituri. Da Re Cervo, la prima opera musicata e (in-direttamente: deriva da una commedia di Goz-zi) dedicata all’Italia, a Phaedra, l’ultima, per ora, opera musicata in Italia e ad essa espres-samente dedicata, un cerchio si chiude. Molti commentatori hanno messo in lu-ce un legame tra Phaedra e la gravissima malattia che colpì l’autore durante la sua composizione. Il legame esiste, eccome; ma è di segno opposto a quello che si pensa: non contempla-zione della morte, bensì inci-tamento alla vita e alla bellez-za. Come a dire, l’alfa e l’omega del Credo professato da Hen-ze vita natural durante. ◼

migliori e imperituri. Da Re Cervo, la prima opera musicata e (in-Re Cervo, la prima opera musicata e (in-Re Cervodirettamente: deriva da una commedia di Goz-zi) dedicata all’Italia, a ora, opera musicata in Italia e ad essa espres-samente dedicata, un cerchio si chiude. Molti commentatori hanno messo in lu-ce un legame tra Phaedramalattia che colpì l’autore durante la sua composizione. Il legame esiste, eccome; ma è di segno opposto a quello che si pensa: non contempla-zione della morte, bensì inci-tamento alla vita e alla bellez-za. Come a dire, l’alfa e l’omega del Credo professato da Hen-ze vita natural durante.

zi) dedicata all’Italia, a Phaedra, l’ultima, per ora, opera musicata in Italia e ad essa espres-samente dedicata, un cerchio si chiude. Molti commentatori hanno messo in lu-

Phaedra e la gravissima Phaedra e la gravissima Phaedramalattia che colpì l’autore durante la sua composizione. Il legame esiste, eccome; ma è di segno opposto a quello che si pensa: non contempla-zione della morte, bensì inci-tamento alla vita e alla bellez-za. Come a dire, l’alfa e l’omega del Credo professato da Hen-ze vita natural durante. ◼

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iale

NON SI NASCE greci per caso. Si potrebbe forse dire lo stes-so di qualunque popolo. Ma per un greco nascere gre-co ha un peso può darsi superiore al peso di qualsiasi al-

tra appartenenza. Si potrebbe anche rovesciare l’affermazione e dire che anzi è per caso che si nasce greci, ma da quel momento la nascita è irreversibile. Sembra un gioco di parole: ma tutta la nostra interpretazione del mondo si fonda sulle parole, cioè sul linguaggio, come aveva visto bene già Aristotele. E quando il linguaggio verbale si rivela insuffi ciente o inadeguato, ecco che ci si costruisce altri strumenti d’interpretazione, per esempio la matematica. In ogni caso, però, la realtà non è compresa se non attraverso la griglia di un’interpretazione. La stessa esperienza, la sensazione, l’emozione, come insegna e dimostra la moder-na neurobiologia, non è mai l’immediata percezione di qualco-sa, bensì la rappresentazione, consapevole o inconsapevole, di uno stato del corpo, registrata dal cervello. Viene da pensare che Parmenide avesse ragione. Il mondo è un’apparenza di cui l’es-sere registra le apparenti mutazioni. Tutto sta a vedere da quale punto di vista ci si pone, se dell’essere o dell’apparenza, del dive-nire. Eraclito, allora, non sarebbe l’opposto di Parmenide, ma la

visione complementare: dal punto di vista del dive-nire, e cioè dell’apparenza. Aristotele, educato dal-l’intuizione di Platone che la realtà è linguaggio (in senso molto particolare, ma anche lettera-le), pone il tassello defi nitivo, che potremmo ritenere decisivo fi no al geniale svelamento di Spinoza, che la realtà è unica, e la distinzione tra spirito e materia, un mito, una bugia reli-giosa. Credo che Spinoza abbia colto nel se-gno. Il tassello aristotelico è l’unità della natu-ra, fi sica e intellettuale. «La natura non fa salti come una cattiva tragedia«, c’è già Darwin. Che infatti gli rende omaggio, nel suo libro più famo-so. Natura in greco si dice φύσις , e naturale φυσικός. La Fisica, perciò, è la scienza che studia la natura, tutti i fenomeni naturali. Aristotele era infatti anche un grande bio-logo, si pensi che dobbiamo a lui la classifi cazione degli anima-li in vertebrati e invertebrati. Il suo allievo e genero Teofrasto ne completa l’opera nel regno delle piante. Il termine Fisica ha dun-

que, nel greco antico, un signifi cato più ampio che nella scien-za moderna. Lo spiega bene la sua etimologia. Φύσις vie-

ne dal verbo φύω, che ha lo stesso radicale del sanscrito bhu, bhvati, essere, e del latino fui, futurus, e signifi ca pro-durre, mettere fuori, fare crescere, generare. La Natu-ra è perciò concepita dal greco come una sorta di ute-ro da cui nascono le cose. Il mito dell’uovo d’argen-to deposto dalla Notte nel Vuoto (Χάος, chaos) da cui poi Eros estrae tutte le cose è un mito orfi co, ma

chiarisce assai bene la concezione di materia vivente che il greco ha della natura. Natura e Divino non

si distinguono, perché dovunque c’è il divino come dovunque il divino si manifesta attraverso il linguaggio. «… i suoni che so-no nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce» scrive Ari-stotele nel De Interpretatione. Il peso del pensiero che interpreta la realtà, qualunque realtà, e qualunque pensiero, verbale, geo-metrico, matematico, musicale, fi gurativo (pittura e scultura), architettonico, è dunque il peso che caratterizza da millenni la cultura greca, anche quando diventa cristiana. C’è nel centro di Atene, proprio vicino a piazza Syntagma, una piccola, e bellissi-ma, chiesa bizantina, purtroppo sormontata da un orrido palaz-zo degli anni sessanta. È dedicata alla Madonna. Ma mentre un occidentale latino l’avrebbe chiamata semplicemente Nôtre Da-me, il greco l’ha chiamata, in neogreco, Αγία δύναμη της Παναγί-ας: santo potere della madonna. Del resto la chiesa patriarcale di Costantinopoli, dedicata alla seconda persona della Trinità, cioè al Cristo, si chiama Αγία Σοφία, Santa Sofi a, che non è una san-ta, ma la Sapienza, il Logos, cioè Gesù, il Cristo. E Λόγος in gre-co non è, come potrebbe insinuare la traduzione latina vulgata, Verbum, la parola, bensì il linguaggio. La defi nizione che Ari-stotele dà dell’uomo non è dunque di «animale razionale», se-condo l’altra traduzione latina che rende logos con ratio, ma di «animale che parla, che ha il logos, il linguaggio». Per Aristote-le tutti gli esseri viventi hanno un’anima, anche le piante. Ma le piante non parlano, come non parlano i cavalli. L’uomo parla. Ed è questo che lo distingue dagli altri viventi (il termine greco Ζϖον indica il vivente più che l’animale).

Ma c’è anche un altro aspetto da tenere presente, quando si af-fronta la fi gura di Xenakis. La Grecia è un piccolo paese, ma tre dei suoi poeti sono tra i più grandi del secolo scorso: Kavafi s, Se-

feris ed Elitis. Siamo ai livelli di Eliot, Achmatova, Blok, Cvetaeva, Valery, e del nostro Montale. La

borghesia greca è inoltre mediamente più colta della borghesia italiana, e in ogni caso poliglot-ta. In verità anche il tassista di Atene conosce almeno l’inglese. Si può dire lo stesso dei tas-sisti milanesi o romani? Le università greche sono inesorabilmente selettive. E hanno il numero chiuso, chiusissimo. Gli studenti gre-ci che vengono a studiare in Italia non ci ven-

gono perché le università italiane siano miglio-ri, ma perché non sono riusciti ad entrare in una

università greca e le università italiane non attuano uno sbarramento serio d’ammissione. I migliori stu-

denti greci, infatti, non vengono in Italia, ma, dopo es-sersi laureati in Grecia, vanno a Parigi, in Inghilterra, a Berlino, per approfondire i propri studi. È in un simile contesto cosmo-polita che va collocato Xenakis, che non a caso comincia la sua carriera non come musicista, ma come architetto, assistente di Le Corbusier. È suo, e non di Le Corbusier, il padiglione Phili-ps dell’Esposizione Universale di Bruxelles nel 1958. Lo slancio visionario verticale della struttura, una specie di glissando di cor-de, mostra già l’invadenza, si direbbe la prepotenza spaziale del-la sua musica: non a caso la struttura è affi ne al glissando di cor-de di Metastáseis, metastasi, mutazioni. E già qui si può notare la perfetta simbiosi di disegno e musica. Ma non nel senso, di mol-ti compositori, soprattutto italiani (penso a Bussotti), di una so-vrapposizione tutto sommato compiaciuta ed estetizzante, de-corativa, tra la scrittura musicale o supponentesi tale, e l’effetto sonoro che ne dovrebbe derivare. Si resta insomma sulla super-

Lo sradicamento radicaleAppunti per un’interpretazionedi Xenakis

di Dino Villatico

visione complementare: dal punto di vista del dive-nire, e cioè dell’apparenza. Aristotele, educato dal-l’intuizione di Platone che la realtà è linguaggio (in senso molto particolare, ma anche lettera-le), pone il tassello defi nitivo, che potremmo

gno. Il tassello aristotelico è l’unità della natu-ra, fi sica e intellettuale. «La natura non fa salti come una cattiva tragedia«, c’è già Darwin. Che infatti gli rende omaggio, nel suo libro più famo-

φυσικός. La Fisica, perciò, è la scienza che studia la natura, tutti i

feris ed Elitis. Siamo ai livelli di Eliot, Achmatova, Blok, Cvetaeva, Valery, e del nostro Montale. La

borghesia greca è inoltre mediamente più colta della borghesia italiana, e in ogni caso poliglot-ta. In verità anche il tassista di Atene conosce

ci che vengono a studiare in Italia non ci ven-gono perché le università italiane siano miglio-

ri, ma perché non sono riusciti ad entrare in una università greca e le università italiane non attuano

uno sbarramento serio d’ammissione. I migliori stu-denti greci, infatti, non vengono in Italia, ma, dopo es-

za moderna. Lo spiega bene la sua etimologia. φύω, che ha lo stesso radicale del sanscrito

, essere, e del latino durre, mettere fuori, fare crescere, generare. La Natu-ra è perciò concepita dal greco come una sorta di ute-ro da cui nascono le cose. Il mito dell’uovo d’argen-to deposto dalla Notte nel Vuoto (cui poi Eros estrae tutte le cose è un mito orfi co, ma

chiarisce assai bene la concezione di materia vivente che il greco ha della natura. Natura e Divino non

que, nel greco antico, un signifi cato più ampio che nella scien-za moderna. Lo spiega bene la sua etimologia. za moderna. Lo spiega bene la sua etimologia.

ne dal verbo φύωbhu, bhu, bhu bhvati, essere, e del latino bhvati, essere, e del latino bhvatidurre, mettere fuori, fare crescere, generare. La Natu-ra è perciò concepita dal greco come una sorta di ute-ro da cui nascono le cose. Il mito dell’uovo d’argen-to deposto dalla Notte nel Vuoto (cui poi Eros estrae tutte le cose è un mito orfi co, ma

chiarisce assai bene la concezione di materia vivente che il greco ha della natura. Natura e Divino non

X e n a k i s

— specialesp

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fi cie olegrafi ca della scrittura, perfi no in Maderna, ma forse no in Nono, che possiede anche lui una percezione materica e com-plessa del fenomeno suono. In Xenakis la struttura è già insieme disegno e musica. Ma a differenza dei compagni di viaggio fran-cesi e tedeschi, la struttura non nasce dal prosciugamento razio-nalistico della scrittura, bensì si sforza d’inglobare, e in maniera più radicale, meno estemporanea, soprattutto meno empirica, di Cage, l’imprevedibile. Il caso, l’alea, insomma, non è né l’ac-cidente, l’imprevisto, anzi, forse, l’indeterminato, della musica di Cage né l’addomesticamento combinatorio, e dunque sem-plifi catorio, di un Boulez. Il probabile può essere oggetto di stu-dio, anche se non di scienza esatta, come la matematica, già in Aristotele: ma riguarda l’accadere umano, il territorio dell’Etica, non gli eventi della Natura. Diviene, invece, oggetto di scienza esatta con il calcolo delle probabilità di Pascal e il calcolo infi -nitesimale di Leibniz. Calcoli, senza i quali, non sareb-be possibile una teoria dei quanti. Ciascun ascolta-tore di musiche delle avanguardie degli anni dai quaranta ai sessanta, e forse ancora dei settan-ta del secolo scorso, avrà subito la sgradevole impressione di ascoltare un miscuglio sono-ro informe, imprecisato e imprecisabile e an-cora più sgradevolmente si sarà sentito inca-pace di distinguere non solo un compositore dall’altro, ma una musica dall’altra dello stes-so compositore. Proprio in quegli anni Aldo Clementi tenta infatti l’avventura dell’informa-le anche in musica. Xenakis vuole guardare più a fondo, o meglio da un’altra prospettiva. L’effetto caotico di molte musiche capillarmente programma-

te a tavolino con il tormentone della serializzazione integrale gli pare non un risultato imprevisto e soprattutto indesiderato, ma la logica conseguenza di un pricipio matematico, per il quale la massima determinazione produce un effetto d’indeterminazio-ne, di caos. Si chiama processo stocastico. La sua defi nizione è la seguente: un processo stocastico è una famiglia di variabili ca-suali che dipendono da un parametro t (tempo). Per compren-dere la portata di procedimenti simili, si pensi che per esempio in una sonata di Beethoven le elaborazioni tematiche sono va-riabili causali, vale a dire previste e volute da Beethoven, mentre gli eventuali errori del pianista sono variabili casuali. Più com-plesso il discorso sulle dinamiche: comportano valori prevedi-bili e imprevisti. In ogni caso intervengono su una traccia prefi -gurata dal compositore. Le avanguardie del secondo dopoguer-ra ubbidivano a un intento utopistico: predeterminare sulla pa-gina l’evento sonoro. In realtà questo si dimostrò possibile so-lo con la musica registrata su nastro. A scombinare l’utopia in-tervenne Cage. Già Boulez faceva uso di serie incomplete e si chiese tra i primi che senso avesse pianifi care 12 valori dinami-ci, 12 modi d’attacco e così via. La serie di dodici altezze sembra più plausibile, perché è calcolata all’interno di un’ottava e copre tutti e 12 i semitoni del sistema temperato equabile. Ma non si tratta in realtà di dodici suoni, come farebbe supporre il termine dodecafonico, che a Schoenberg non piaceva: l’altezza viene infatti considerata la stessa in qualunque registro venga intonata, se ri-spetta il grado dell’ottava impostato. Un do, insomma, resta un do in qualunque ottava, del registro medio, alto o basso, io deci-da d’intonarlo, e già questo è un limite, o piuttosto un’astrattez-za, del principio seriale. Niente di male, su principi ugualmente astratti (Xenakis direbbe atemporali) si reggeva la polifonia del-

l’Ars Nova e poi dei compositori francofi amminghi. Di astrat-tezze simili sono intessute anche le composizioni di composi-tori successivi, per esempio Beethoven o Liszt. Gli ultimi cin-que quartetti beethoveniani sono generati da un’unica cellula di quattro note ricavate dal nome Bach, si bemolle la do si natura-le, ma non si presentano mai in questa disposizione, subiscono mutazioni, trasporti, inversioni, retrogradazioni; la disposizio-ne più vicina alla cellula originaria si ha all’inizio del Quartetto op. 130, che infatti è in si bemolle maggiore, si bemolle la la bemol-le sol, il semitono originario do si è abbassato di una terza. Ma anche Liszt, da bravo allievo di un allievo di Beethoven, Czer-ny, non scherza. La sua Sonata in si minore è di fatto costruita su un unico motivo, variamente trattato dal punto di vista ritmico. Dahlhaus suggerisce addirittura che il procedimento lisztiano

possa avere infl uito sulla concezione seriale di Schoenberg. Non è diffi cile immaginarlo, dato che tra otto e nove-

cento Liszt era tra i compositori maggiormente ese-guiti e ammirati. Oggi lo si suona molto di meno,

ed è un male: senza Liszt risulterebbe per esem-pio incomprensibile un Ravel. Ma forse perfi -no Stockhausen, almeno quello dei Klavierstüc-ke. Ma siamo andati troppo lontano. Ripren-diamo il fi lo. Oggi il ruolo di Cage nel disor-dinare il mondo fi ntamente ordinato dei ra-zionalismi europei è riconosciuto da tutti. As-

sai meno è riconosciuto il ruolo di un ripensa-mento integrale del rapporto della musica con

il mondo, della forma musicale con l’esperienza della sua percezione in un’esecuzione, che è il gran-

de rinnovamento di pensiero, anche di pensiero musi-

cale, attuato da Xenakis. È accaduto con lui, quello che nel con-fronto con Schoenberg e Webern, dal punto di vista delle avan-guardie, era accaduto per Bartók. Bartók è tra i compositori fon-danti della modernità, allo stesso titolo di Stravinskij e di Schoe-nberg. Così Xenakis apre una via di valore, e soprattutto d’inci-denza, non inferiore alle vie aperte da Boulez, Stockhausen e Cage. Vediamo perché.

Nella penultima sezione delle sue Lezioni di estetica, Hegel cer-ca di precisare il rapporto che esiste tra la musica e il tempo. Fon-da poi proprio sulla percezione del fl usso temporale articolato dalla musica il carattere particolare della musica stessa come arte dell’interiorità, in quanto inconcepibile e incomprensibile sen-za l’uso della memoria. Il suono è fenomeno, infatti, dell’istan-te, solo la memoria può ricostruire i percorsi ritmici, armonici e melodici di una musica. In sé non esistono, ogni suono sva-nisce non appena emesso, o subito dopo che ha cessato di du-rare. Nessun legame fi sico lo lega al suono che lo ha precedu-to o a quello che segue, né tanto meno ai suoni emessi simulta-neamente. I legami, armonici, melodici e ritmici tra i suoni so-no posti dall’ascoltatore, registrati nella sua memoria. Ecco perché per comprendere e dunque godere di una musica è indispensabile un ascolto consapevole, non immedia-to. Anche l’ascolto che sembra istintivo, immediato, per esempio nelle musiche popolari, si avvale di una fi tta e complessa rete di conoscenze introiettate con l’educazione o ricevute per tradizione orale. Quin-di un ascolto ingenuo di una musica non esiste. Un giovane ascoltatore di musica rock sa benissimo che cosa sta ascoltando, lo sa molto meglio di un medio ascoltatore di Mozart o di Schubert. Esiste, infat-

perché per comprendere e dunque godere di una musica è indispensabile un ascolto consapevole, non immedia-to. Anche l’ascolto che sembra istintivo, immediato, per esempio nelle musiche popolari, si avvale di una fi tta e complessa rete di conoscenze introiettate con l’educazione o ricevute per tradizione orale. Quin-di un ascolto ingenuo di una musica non esiste. Un giovane ascoltatore di musica rock sa benissimo che cosa sta ascoltando, lo sa molto meglio di un medio ascoltatore di Mozart o di Schubert. Esiste, infat-

no posti dall’ascoltatore, registrati nella sua memoria. Ecco perché per comprendere e dunque godere di una musica perché per comprendere e dunque godere di una musica è indispensabile un ascolto consapevole, non immedia-to. Anche l’ascolto che sembra istintivo, immediato, per esempio nelle musiche popolari, si avvale di una fi tta e complessa rete di conoscenze introiettate con l’educazione o ricevute per tradizione orale. Quin-di un ascolto ingenuo di una musica non esiste. Un giovane ascoltatore di musica rock sa benissimo che cosa sta ascoltando, lo sa molto meglio di un medio ascoltatore di Mozart o di Schubert. Esiste, infat-

esatta con il calcolo delle probabilità di Pascal e il calcolo infi -nitesimale di Leibniz. Calcoli, senza i quali, non sareb-be possibile una teoria dei quanti. Ciascun ascolta-tore di musiche delle avanguardie degli anni dai quaranta ai sessanta, e forse ancora dei settan-ta del secolo scorso, avrà subito la sgradevole

so compositore. Proprio in quegli anni Aldo Clementi tenta infatti l’avventura dell’informa-le anche in musica. Xenakis vuole guardare più a fondo, o meglio da un’altra prospettiva. L’effetto caotico di molte musiche capillarmente programma-

possa avere infl uito sulla concezione seriale di Schoenberg. Non è diffi cile immaginarlo, dato che tra otto e nove-

cento Liszt era tra i compositori maggiormente ese-guiti e ammirati. Oggi lo si suona molto di meno,

ed è un male: senza Liszt risulterebbe per esem-pio incomprensibile un Ravel. Ma forse perfi -no Stockhausen, almeno quello dei

sai meno è riconosciuto il ruolo di un ripensa-mento integrale del rapporto della musica con

il mondo, della forma musicale con l’esperienza della sua percezione in un’esecuzione, che è il gran-

de rinnovamento di pensiero, anche di pensiero musi-A r i s t o t e l e

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ti, l’ascolto ignorante, cioè quello che scambia per immediato, istintivo, il riferimento alle superfi ciali, scarse e confuse cono-scenze delle regole che agiscono nella musica che si sta ascol-tando. Ciò vale soprattutto per l’ascoltatore di oggi. Chi rifi uta la musica contemporanea, per rifugiarsi nell’ascolto della mu-sica del passato, crede di conoscere quella musica solo perché vi riconosce i parametri, pochi, che riesce a individuarvi: la conti-nuità melodica, la regolarità ritmica, e poco altro. Ma già l’ascol-to di un canone fi ammingo e dei brani più spericolati di Beetho-ven gli procurerebbero problemi e solo il rispetto per il nome consacrato gl’impedirebbe d’insultare la «porcheria cacofoni-ca», per esempio, della Grande Fuga op. 133. Ho fatto l’esperimen-to con un ascoltatore di musica classica che ignorava quest’opera di Beethoven. All’inizio della prima esposizione, dissonantissi-ma, del soggetto della fuga, l’ascoltatore è saltato sulla sedia, in-dignato, esclamando: «Ma che cosa mi fai ascoltare! Togli questa porcheria moderna!» «È Beethoven», gli ho detto. Allibito, si ar-rampicava sugli specchi: «Non capisco, proprio non capisco. Sa-rà solo un esercizio scolastico riuscito male». «Era il Finale previ-sto in un primo tempo per il Quartetto op.130». «Ah, ma vedi: l’ha tolto!» «L’ha tolto l’editore. Beethoven avrebbe voluto man-tenerlo. Si è arreso oggi si direbbe all’editing, ma ha preteso che comunque la Fuga venisse pubblicata almeno come pezzo a sé. Ci teneva moltissimo, la considerava una delle cose migliori che avesse scritto». «Bah, se lo dici tu». Ma, ritornando all’intuizione hegeliana, la musica è dunque rappresentazione del tempo inte-riore, che l’ascoltatore rivive al momento dell’ascolto. Hegel ag-giunge inoltre un’osservazione assai acuta: la musica divide con l’architettura la caratteristica di avere per contenuto la propria forma. Solo la percezione dei procedimenti formali permette a

chi guarda una chiesa o un tempio greco e a chi ascolta una mu-sica di provare l’emozione, il piacere, che storicamente è venu-to ad associarsi a quel procedere formale. Di nuovo, non esisto-no una visione o un ascolto ingenui: comprende davvero l’ope-ra solo la visione e l’ascolto consapevoli, gli altri tipi di visione e di ascolto sono soltanto ignoranti. Anche se chi ascolta o vede si crede una persona colta.

Ma quale tempo? E che cos’è il tempo in rapporto alla musica?Ce lo dice lo stesso Xenakis.«Il tempo non è semplicemente una nozione-epifenomeno

di una realtà più profonda? Quindi un’illusione che accettiamo inconsciamente dalla più tenera infanzia e fi n dalla più remo-ta antichità?»

È l’attacco d’uno scritto sul tempo1. La meccanica quantistica ha cambiato la nostra concezione

del tempo, ha cambiato anche la concezione dello spazio-tem-po della relatività. «Ma che signifi cato potrebbe allora avere un tempo-spazio quantifi cato in cui la contiguità fosse abolita? Co-me sarebbe il lastricato dell’universo con dei buchi tra le lastre

riempiti del nulla ed inaccessibili?» L’ascoltatore di Xenakis dovrà abituarsi a questo linguaggio insieme scientifi co

e alquanto oscuro. La sua musica è il prodotto di que-sto pensiero, o piuttosto è la manifestazione di que-sto pensiero. Anche Stockhausen ci ha lasciato pagi-ne mirabili sul tempo, ma in tutt’altra direzione. La contiguità non viene abolita, ma anzi ispessita. Ciò che invece Xenakis vuole comprendere è la possibi-lità di conoscere la relazione tra fenomeni apparente-

1 In Xenakis, di autori vari, a cura di Enzo Restagno, Torino, edt, 1988, pagg. 271-280.

mente non omogenei. Per esempio, noi accettiamo il presuppo-sto che il tempo sia irreversibile. Ma la fi sica dei quanti ci fa co-noscere un tempo retrogradato, retrogradabile. «Facciamo an-cora un passo. Visto che lo spazio non è percepibile se non attra-verso l’infi nità delle catene di trasformazioni energetiche, po-trebbe davvero non essere che un’apparenza di queste catene». La teoria delle superstringhe fi nisce per dire questo. E la relazio-ne con la musica sarebbe allora strettissima. Ma c’è inoltre una complicazione. Che rapporto esiste, infatti, tra la nostra conce-zione di realtà e la realtà oggettiva di cui la nostra concezione sa-rebbe l’interpretazione? Xenakis fi nisce con il formulare un’ipo-tesi quasi spinoziana. «Lo stato attuale delle conoscenze sem-bra essere una manifestazione dell’evoluzione dell’universo da circa quindici miliardi di anni. Voglio dire con questo che tali conoscenze sono una secrezione della storia dell’umanità pro-dotta da questo grande lasso di tempo. Ammettendo tale ipo-tesi, tutto ciò che il nostro cervello individuale o collettivo sfor-na come idee e teorie o competenze, non è altro che l’output del-le sue strutture mentali formate dalla storia degli innumerevoli movimenti delle sue culture, nelle sue trasformazioni antropo-morfi che, nell’evoluzione della terra, in quella del sistema sola-re e dell’universo. Se questo è vero, allora un dubbio fondamen-tale pieno di brividi ci è permesso riguardo all’“oggettività vera” di queste conoscenze e competenze». Qui si pone il problema della memoria e del rapporto tra il fl uire del tempo e l’estraneità al tempo del pensiero. «È un fatto primordiale che i fenomeni-riferimenti abbiano lasciato una traccia nella mia memoria, al-trimenti non esisterebbero. Il postulato sottinteso è che il tem-po, nel senso del fl usso impalpabile di Eraclito, non ha signifi ca-to che in rapporto all’essere che osserva, a me. Non esisterebbe,

diversamente, alcun senso. Anche nell’ipotesi di un fl usso del tempo oggettivo, indipendente da me, la sua percezione da par-te di un soggetto umano, dunque da parte mia, dovrebbe passa-re attraverso fenomeni-riferimenti del fl usso, prima di tutto per-cepiti, poi iscritti nella mia memoria». Ciò che aveva già intui-to Hegel. Ma in questo modo il fl usso temporale viene registra-to in qualcosa che sta fuori del tempo, che anzi concepisce un tempo, perché ha il concetto di anteriorità. Anche quando l’an-teriorità è astratta, puramente mentale, e dunque fuori del tem-po. Per esempio, la cellula di quattro note, ricavate dal nome Ba-ch, che sta alla base della costruzione musicale degli ultimi quar-tetti beethoveniani, non viene prima della musica, anzi nemme-no la si ascolta nella sua forma pura, ma solo calata nella struttu-ra tematica dei quartetti. È un modello di riferimento della mu-sica che procede mentre la si ascolta. Ma il modello sta fuori del-la musica, o meglio si cala e si nasconde nel farsi della musica. «Sembra che le nozioni di separazione, di contorno, di differen-za, di discontinuità, che sono profondamente legate tra loro, sia-no prodromi della nozione di anteriorità. Perché esista l’anterio-rità, è allora necessario poter distinguere entità che permetta-no di “andare” dall’una all’altra. Il continuum liscio, quindi, aboli-sce il tempo, o piuttosto il tempo nel continuum liscio è illeggibile, inaffrontabile». Lo diceva già Aristotele. «Il continuum è dunque un tutto unico che riempie sia lo spazio sia il tempo. Ritroviamo Parmenide. Perché lo spazio è inserito nell’illeggibilità? Ebbene, a causa della sua non-rugosità. Senza separabilità, né estensio-ne, né distanza. Lo spazio dell’universo si troverebbe, così, con-densato in un punto matematico senza dimensione. Infatti l’es-sere di Parmenide e l’eternità non è che un punto matematico as-solutamente liscio». È la separabilità che rende comprensibile sia

dovrà abituarsi a questo linguaggio insieme scientifi co e alquanto oscuro. La sua musica è il prodotto di que-

sto pensiero, o piuttosto è la manifestazione di que-sto pensiero. Anche Stockhausen ci ha lasciato pagi-ne mirabili sul tempo, ma in tutt’altra direzione. La contiguità non viene abolita, ma anzi ispessita. Ciò che invece Xenakis vuole comprendere è la possibi-lità di conoscere la relazione tra fenomeni apparente-

, di autori vari, a cura di Enzo Restagno, Torino, edt, 1988, pagg. 271-280.

riempiti del nulla ed inaccessibili?» L’ascoltatore di Xenakis dovrà abituarsi a questo linguaggio insieme scientifi co dovrà abituarsi a questo linguaggio insieme scientifi co

e alquanto oscuro. La sua musica è il prodotto di que-sto pensiero, o piuttosto è la manifestazione di que-sto pensiero. Anche Stockhausen ci ha lasciato pagi-ne mirabili sul tempo, ma in tutt’altra direzione. La contiguità non viene abolita, ma anzi ispessita. Ciò che invece Xenakis vuole comprendere è la possibi-lità di conoscere la relazione tra fenomeni apparente-

11 In In Xenakis, di autori vari, a cura di Enzo Restagno, Torino, edt, 1988, pagg. 271-280.Xenakis, di autori vari, a cura di Enzo Restagno, Torino, edt, 1988, pagg. 271-280.Xenakis

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il mondo che la musica. «L’ordinamento e l’anteriorità non am-mettono buchi, vuoti. Occorre che un’entità separabile sia con-tigua alla successiva, pena la confusione del tempo. Due catene di eventi contigui senza anelli comuni possono essere sincrone o indifferentemente anteriori l’una all’altra, il tempo è di nuovo abolito nella relazione temporale di ognuno degli universi rap-presentati dalle due catene. Gli orologi locali tengono il posto di catene senza buchi. Ma soltanto localmente. Anche il nostro es-sere biologico ha sviluppato orologi locali ma non sempre effi -caci e la memoria è una traduzione spaziale delle catene tempo-rali (causali)». Ne consegue che «il fl usso è, oppure non è. Poi-ché noi siamo, quindi esso è. Non si può concepire l’arresto del tempo, al momento. Tutto ciò non è una parafrasi di Descartes o meglio ancora di Parmenide, è una frontiera attualmente non superabile. Dunque, parafrasando questa volta Parmenide, su-perabile: “il pensare stesso è anche essere”».

Su questa via Xenakis arriva a progettare le complesse relazio-ni delle sue installazioni, o come lui le chiama, politopi. Ma già nelle sue opere, soprattutto strumentali, la coesistenza di feno-meni eterogenei genera strutture musicali di grande comples-sità eppure di impatto emotivo immediato. Si pensi a una pa-gina impressionante come Thallein, per 14 strumenti, del 1984. Il verbo θά� ειν signifi ca fi orire. E veramente i fenomeni musi-cali sembrano fi orire gli uni dagli altri. O Pleiades, per strumen-ti a percussioni, del 1978, diviso in quattro movimenti: nel pri-mo sono combinati insieme tutti i tipi di strumenti a percussio-ne, nel secondo solo quelli a tastiera, nel terzo i metalli e nel quar-to le pelli. La forza generatrice del ritmo è qui esaltata con effet-ti stupefacenti per delicatezza, raffi natezza ed evidenza struttu-rale. In un brano come Idmen si aggiunge anche la voce umana,

un coro. «Idmen» è la prima persona plurale del verbo che si-gnifi ca sapere, quindi «sappiamo». Lo pronunciano le Muse al-l’inizio della Teogonia di Esiodo: «Sappiamo dire menzogne che sembrano verità e verità che sembrano menzogne». Del testo esiodeo Xenakis utilizza solo alcuni fonemi intonati dal coro, al quale si associano le percussioni. È un pezzo strepitoso, an-che qui l’impatto emotivo è violentissimo. La struttura musica-le in Xenakis ha qualcosa di biologico: nasce da intricate e com-plesse rifl essioni teoretiche, ma si esplica poi con una forza d’ur-to quasi primigenia, come un minerale, o una pianta. Sta qui la novità e l’interesse della sua musica. Appunto nel generare una contiguità senza vuoti tra pensiero e azione, tra razionalità del-la concezione e forza ipnotizzante dell’evento sonoro. La con-tiguità ottenuta mescolando eventi inaccostabili fa pensare al-la sostanza unica di Spinoza, all’essere di Parmenide, appunto, o all’idea che Aristotele ha della Natura: un tutto contiguo in cui la vita si esplica in molte specie e individui, dall’erba all’albe-ro, dall’insetto all’uomo, ma la cui forma è unica, appunto il vi-vere, il βίος, la vita, che va dal fi lo d’erba al pensiero che regola il mondo, il Pensiero del Pensiero, conosciuto solo dall’uomo che si dedica al βίος θεορετικός, alla vita speculativa. E tuttavia già in Aristotele, quello che nella scolastica, senza rotture, senza trau-mi, diventerà il principium individuationis, il concretizzarsi dell’es-sere in un individuo, è presentato come una rottura, uno sradi-camento, un’estasi dell’essere, un uscire fuori da sé. Non è que-sto il luogo per approfondire lo sconvolgente concetto aristote-lico, che drammatizza il divenire, ma indubbiamente nella mu-sica di Xenakis l’individuarsi della forma si presenta come uno strappo, una rottura, un uscire fuori dalle regole. Uno sradica-mento radicale dal convenuto, dal conforme, dall’accettato, fos-

se anche l’accettato la convenzione – perché di questo comun-que sempre si tratta – di un’avanguardia estrema. Mai troppo estrema, per Xenakis, fi no a che rispetta le regole della tradizio-ne, anche quando si propone d’infrangerle: ma senza oltrepassa-re mai il limite dell’omogeneità per così dire linguistica, in ogni caso di riferimento a un modello musicale unico. E se invece la forma potesse essere generata non da un’idea, da un model-lo, ma da un insieme matematico di idee e di modelli? Il caso cal-colato saprà trovarne la soluzione. La vertigine allora, e se si vuo-le perfi no l’aspra bellezza di questa musica, la sua scontrosa tene-rezza, nasce proprio dal rischio di precipitare nel nulla, nel buco nero di un’implosione irreversibile, in un rumore che non pro-voca nessun bing bang, non riesce a esplodere e a diventare mu-sica, cioè suono organizzato. Xenakis evita quasi sempre di ca-derci. Ma il corpo a corpo con la forma, la lotta è senza esclusio-ne di colpi. Sta qui la singolarità della sua proposta. Nel procede-re per accumulo, per associazioni, per contiguità, per esplosio-ne di eventi imprevisti, piuttosto che deduttivamente, come ac-cade perfi no in Cage. Il suo è un mettersi ogni volta ai ferri corti con la forma, e dunque con la vita, almeno della musica. La ferita sulla guancia infertagli dai fascisti greci ci dice però che il corpo a corpo è con il senso della vita, e dunque confi gura aristoteli-camente anche un atto politico: l’arte non a caso è più universale della storia. Il risultato gli dà ragione, e l’effetto è di una tale for-za d’impatto che si crede, ascoltando la sua musica, o assistendo alle sue installazioni, che non sia possibile un altro modo di pro-cedere, che anzi è questa la musica che assimila in un unico fe-nomeno una molteplicità di esperienze, una musica nella quale l’immobilità e l’impenetrabilità dell’essere parmenideo si mani-festa, si sarebbe tentati di dire si rivela, nel fl usso inarrestabile del

divenire eracliteo. Che dal di fuori, dalla nostra grigia quotidia-nità di individui abituati e quasi consenzienti al sopruso di qua-lunque potere, sembra casuale, ma entrandoci, e lasciandocene possedere, se ne avverte la necessità, e dunque la razionalità. Ma soprattutto se ne respira l’illimitata libertà. È come se nell’esilio parigino il greco Xenakis, sradicato dalla sua terra natale, si ri-congiungesse alle radici del pensiero greco e, nel Paradiso del-la Ragione, come Cesare Macchia chiama la Francia, riscopris-se l’esplosione vitalistica di Dioniso, l’umore che genera la vita, sperma, sangue, vino, acquitrino. L’estasi dell’essere. E proprio in questo germinare, pullulare, apparentemente casuale, si fon-dasse il senso, e dunque la razionalità di una forma, di una vita, di un’opera, di un pensiero. Ogni ascolto di un’opera di Xenakis diventa così la scoperta, e forse la riscoperta, della vera sostanza del pensiero, che non è né razionale né irrazionale, ma semplice-mente è. Il linguaggio e la musica hanno in comunque l’uso dei suoni. Ma i suoni non sono né razionali né irrazionali, semplice-mente sono. La loro organizzazione li fa diventare linguaggio, musica, pensiero. Non abolisce però la loro sostanza di esisten-za come essere, semplice sostanza, anteriore, non solo logica-mente anteriore, all’organizzazione in linguaggio, musica, pensiero, il che ne fa di volta in volta un’opera conclu-sa, una singola opera conclusa. Xenakis ci fa toccare, infatti, ogni volta, questa trasformazione. Che il lin-guaggio, ciò che per Aristotele distingue noi uomi-ni dagli altri esseri viventi, è sì un dato di fatto che ci viene consegnato all’atto della nascita, quello e non un altro, ma che diventa pensiero solo se si ha il co-raggio, la forza, e la capacità di reinventarlo da capo. ◼

mente anteriore, all’organizzazione in linguaggio, musica, pensiero, il che ne fa di volta in volta un’opera conclu-sa, una singola opera conclusa. Xenakis ci fa toccare, infatti, ogni volta, questa trasformazione. Che il lin-guaggio, ciò che per Aristotele distingue noi uomi-ni dagli altri esseri viventi, è sì un dato di fatto che ci viene consegnato all’atto della nascita, quello e non un altro, ma che diventa pensiero solo se si ha il co-raggio, la forza, e la capacità di reinventarlo da capo.

, semplice sostanza, anteriore, non solo logica-mente anteriore, all’organizzazione in linguaggio, musica, mente anteriore, all’organizzazione in linguaggio, musica, pensiero, il che ne fa di volta in volta un’opera conclu-sa, una singola opera conclusa. Xenakis ci fa toccare, infatti, ogni volta, questa trasformazione. Che il lin-guaggio, ciò che per Aristotele distingue noi uomi-ni dagli altri esseri viventi, è sì un dato di fatto che ci viene consegnato all’atto della nascita, quello e non un altro, ma che diventa pensiero solo se si ha il co-raggio, la forza, e la capacità di reinventarlo da capo. ◼

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novecento / parte seconda

LA FIGURA DI Helmut Lachenmann emerge oggi dal pa-norama confuso della contemporaneità, dove sempre più disorientante affi ora il senso della perdita dei mor-

denti delle avanguardie storiche e l’inclinare non meno distrat-to verso zone compromissorie, con una forza e un’originalità indiscutibili, che affondano le radici nella profondità – non poco utopica anche, ma proprio per questo avvincente – dell’assunto, problematico indubbiamente, teso più che a un’ideale tabula rasa, quale sognavano negli anni cinquanta i protagonisti della Nuova Musica, a una rimozione del passato a livello di coscienza, di ascol-to. Non a un annullamento dei materiali, dunque, ma a una loro diversa qualifi cazione, per «riscoprire un suono che si conosce già» e ricomporlo secondo altre logiche, un po’ come aveva immaginato Borges con la sua «biblioteca cinese».

Dopo una prima fase più duramente eversiva, quella da lui qualifi cata co-me «concreta», Lachenmann è parso sempre più immergersi nella risco-perta di questo suono conosciuto e di tale percorso è avvincente testi-monianza un brano come Mouve-ment (vor der Erstarrung), ossia mo-

vimento prima dell’irrigidi-mento, dove appunto si ha la sensazione che ogni suono, nel modo stesso di produr-lo, assuma una nuova signi-ficazione nel momento in cui questa sembra scontrar-si con strutture del passato, che, pur con la loro tangi-bilità, quasi esplicita nel rie-vocare il movimento estre-mo di una vita che sta per chiudersi nell’irrigidimen-to, appaiono ormai come larve brulicanti; oppure as-sistendo a quella fantomati-ca Danza degli spiriti beati (così si intitola il secondo Quartetto) dove ogni beatitudine sembra annichilita entro un quadro sonoro devastato, addirittura nel-l’intonazione degli strumenti, sottoposti alla fi ne a una «scor-datura selvaggia», per ritrovare con pienezza la forza di quella

sua radicalità; e ancora considerando il terzo Quartetto, il cui titolo, Gri-do, può suggerire la tensione da cui si viene progressivamente avvolti attraverso una trama strumentale – concepita, appunto, in termini di

materiale rinnovato, destoricizza-to, proprio in quanto se ne abbia co-scienza – che ripropone come fatto

primario la sua fi sicità, debordante a volte da quelli che sono i convenzionali argini di ogni singolo strumento per toccare la provocante zona oscura del rumore. Un processo di trasfor-mazione che il materiale sonoro va subendo nel corso dell’ese-cuzione, quasi sospinto da un’energia occulta e pur inevitabile, che diventa rivelatore di una condizione profonda vissuta e in-sieme di una prospettiva insospettata.

Comprensibile anche la sensazione di smarrimento che può provare l’ascoltatore di fronte alla musica di Lachenmann: il quale a chi un giorno gli chiedeva di fornirgli la chiave d’acces-so rivolse il suggerimento di «guardare» alla sua musica «come

si guarda un temporale, un formicaio», un evento della natura, insomma.

Abbiamo avuto occasione di conversare col gran-de musicista in occasione di un seminario tenuto presso il Conservatorio di Parma. Nel corso del-la lezione Lachenmann si era soffermato su al-cune pagine del Canto sospeso di Nono svelando-ne con stupefatta lucidità la più intrinseca essen-za poetica, riconducibile a quella vocazione idea-le cui il compositore veneziano ha improntato il

suo rapporto con la società. E sul tema No-no, appunto, ha proseguito la conversa-

zione concessaci amabilmente da La-chenmann nell’intervallo. Il per-corso di Helmut Lachenmann ha avuto una singolare sollecitazio-ne dall’incontro con Nono, incon-tro destinato, pur tra forti contra-sti, a lasciare un segno ben rico-

noscibile sulla sua produ-zione, senza peraltro condi-zionarne la peculiarità del-l’approccio con il materia-le sonoro e soprattutto sen-za toccare quella così singo-lare tensione che lo innerva. Si trattò infatti piuttosto di una convergenza di pensie-ro che andò consolidando-si attraverso un’intensa fre-quentazione trovando poi un accrescimento di fron-te a quel mutamento di lin-guaggio, apparso allora non poco disorientante, che No-no operò agli inizi degli an-

ni ottanta, quando la improvvisa rarefazione del materiale pa-reva rifl ettere un tipo di interrogazione più strenua e più segre-ta del suono stesso, i cui esiti altissimi si potevano cogliere nel-l’esperienza straordinaria del quartetto d’archi Fragmente-Stille, an Diotima, con quel singolare quanto raro presentimento rap-presentato dal brano pianistico «...sofferte onde serene ...». Chi ve-deva tale svolta come uno sconcertante atto di disimpegno ve-niva rassicurato dalle parole del compositore: «Non sono affat-to cambiato; anche la tenerezza, anche il privato ha il suo lato collettivo, politico. Perciò il quartetto d’archi non è espressio-ne di una mia nuova linea retrospettiva, ma del mio attuale li-vello di sperimentazione: voglio ottenere il massimo dal mes-saggio di ribellione con il minimo dei mezzi». Indicazione che

I vulcani spentidi Lachenmann

di Gian Paolo Minardi

sua radicalità; e ancora considerando il terzo Quartetto, il cui titolo,

– concepita, appunto, in termini di materiale rinnovato, destoricizza-

to, proprio in quanto se ne abbia co-scienza – che ripropone come fatto to, proprio in quanto se ne abbia co-

indiscutibili, che affondano le radici nella profondità – non poco utopica anche, ma proprio per questo avvincente – dell’assunto, problematico indubbiamente, teso più

, quale sognavano negli anni cinquanta i protagonisti della Nuova Musica, a una rimozione del passato a livello di coscienza, di ascol-to. Non a un annullamento dei materiali, dunque, ma a una loro diversa qualifi cazione, per «riscoprire un suono che si conosce già» e ricomporlo secondo altre logiche, un po’ come aveva immaginato Borges con la sua «biblioteca cinese».

Dopo una prima fase più duramente eversiva, quella da lui qualifi cata co-me «concreta», Lachenmann è parso sempre più immergersi nella risco-

si guarda un temporale, un formicaio», un evento della natura, insomma.

Abbiamo avuto occasione di conversare col gran-de musicista in occasione di un seminario tenuto presso il Conservatorio di Parma. Nel corso del-la lezione Lachenmann si era soffermato su al-cune pagine del ne con stupefatta lucidità la più intrinseca essen-za poetica, riconducibile a quella vocazione idea-le cui il compositore veneziano ha improntato il

suo rapporto con la società. E sul tema No-no, appunto, ha proseguito la conversa-

zione concessaci amabilmente da La-chenmann nell’intervallo. Il per-

poco utopica anche, ma proprio per questo avvincente – dell’assunto, problematico indubbiamente, teso più

, quale sognavano negli anni cinquanta i protagonisti della Nuova Musica, a una rimozione del passato a livello di coscienza, di ascol-to. Non a un annullamento dei materiali, dunque, ma a una loro diversa qualifi cazione, per «riscoprire un suono che si conosce già» e ricomporlo secondo altre logiche, un po’ come aveva immaginato Borges con la sua «biblioteca cinese».

Dopo una prima fase più duramente eversiva, quella da lui qualifi cata co-me «concreta», Lachenmann è parso

natura, insomma.Abbiamo avuto occasione di conversare col gran-de musicista in occasione di un seminario tenuto presso il Conservatorio di Parma. Nel corso del-la lezione Lachenmann si era soffermato su al-cune pagine del ne con stupefatta lucidità la più intrinseca essen-za poetica, riconducibile a quella vocazione idea-le cui il compositore veneziano ha improntato il

suo rapporto con la società. E sul tema No-no, appunto, ha proseguito la conversa-

zione concessaci amabilmente da La-

Anselm Kiefer, Margarete, 1981(Saatchi Collection, Londra)

Helmut Lachenmann

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novecento / parte seconda

certamente ha fornito a Lachenmann uno stimolo; nel modo di rapportarsi in maniera originale con la storia, i cui reperti ac-coglie come residui lavici di un vulcano che sembra aver ces-sato la propria attività e che tuttavia emana pur sempre il sen-so di un’energia sotterranea, e tuttavia due percorsi affi anca-ti più che dipendenti; affi ni in effetti, nel modo con cui La-chenmann va spremendo le più sottese virtualità del suono, in una pagina, ad esempio, come Eco-Andante nello sforzo di ri-creare dalle risonanze del pianoforte una subliminale polifo-nia, mentre nel più ampio Serynade è la suggestione della so-norità delle ultime Sonate di Beethoven, tutta gio-cata sulle zone estreme della tastiera, a guidare la più strenua esplorazione.

Alla domanda di quale sia stato il senso reale della sua lezione raccolta dal musi-cista veneziano, al di là di quel contra-sto tra la critica sociale che Nono riven-dicava in maniera così vistosa e la diffi -coltà del suo linguaggio sonoro, Lachen-mann risponde di non credere a quella contraddizione, perché «il gesto enfa-tico di questa musica è talmente pu-ro, anche se è chiaro che si tratta di un’enfasi, di un appello di un altro mondo, quasi utopico. E questa – chiarisce – è la grande differen-za tra Nono e gli altri espo-nenti dell’avanguardia: le trombe di Nono fan-no ancora appello come

quelle di Beethoven, e così i timpani, le campane. C’è un pathos, non nel senso bana-le, commerciale, totalmen-te puro» che, come Lachen-mann ha mostrato analiti-camente durante la lezione, penetra nel profondo del-le strutture e che la società ha compreso: «Compren-dere, s’intende, non vuol di-re essere d’accordo» ma an-che in Germania ha lascia-to un segno provocatorio, «ancor più che quello del-la musica di Stockhausen e di Boulez, in quanto questi musicisti rappresentavano un mondo “surrealista”, di fanta-sia, che non è ostile alla società, mentre l’appello della musi-ca di Nono toccava nel profondo; e in modo nuovo, perché se l’appello della musica di Wagner e di Beethoven è ancora pre-sente, ma come ruinae, quello della musica di Nono è risultato più bruciante, e questo è bene perché in una società che met-te sempre la testa sotto la sabbia quella musica rappresentava un richiamo alla coscienza, un disturbo alla gente che è pigra. Ciò ha fatto sì che Nono avesse amici e anche falsi amici che pensavano a questo gesto come un fatto manieristico, ma cre-do che Nono sia stato sempre un uomo di struttura, nell’auten-ticità della sua utopia».

Il tema della ricerca di un’autenticità di segno sposta la con-

versazione sulla musica di Lachenmann, partendo dal modo di rivivere il rapporto con la storia in maniera affatto personale, come se la storia fosse stata travolta da un’alluvione, lasciando rivivere solo rari frammenti, del tutto denaturati, fossili senza signifi cato, affi oranti dal magma misterioso del suono. Mi vie-ne in mente, propongo, la pittura di Kiefer, dove la storia è co-me impressa in modo annichilito. Il suono, dunque come scri-gno roccioso da cui liberare una nuova coscienza. Ma suono si-gnifi ca tante cose: rumore, ma pure analisi sottile (come mo-

stra l’estrema ricerca di Nono) che tocca anche la parola (e quindi il teatro ); infi ne l’apparente contrario, il si-

lenzio. Forse la domanda è posta in termini trop-po stringati, così che Lachenmann, pur d’accor-

do, allarga il respiro: «Credo che la nostra sto-ria rifl etta il confl itto tra lo spirito dell’artista

e il bisogno della società di sentirsi protet-ta, di sottrarsi alla realtà. Credo che, pen-sando all’arte europea e soprattutto alla musica, potremmo parlare di un “servi-zio di magìa”, cosa che ritroviamo in tut-te le culture, con varie fi nalità, rituale, reli-

giosa, militare e via dicendo. L’arte euro-pea ha rotto questa magia nel nome di

uno spirito creativo, con tutti i con-trasti conseguenti: Bach che non

veniva riconosciuto in quanto aveva armonizzato libera-

mente i corali di Lutero, poi Mozart rifi utato dal-la società perché troppo

complesso, entrambi og-gi divenuti oggetto di ma-gia. Ugualmente si può dire per Schoenberg. Come og-gi la società è consapevole dei problemi dell’ambiente, della difesa della natura co-sì mi auguro che l’arte venga intesa non tanto come ma-gia ma come mezzo dello spirito. L’arte deve cercare l’etica del sentimento, bel-lezza, intensità, complessi-tà; non soltanto chiedersi se questo è bello ma che cos’è. C’è una storia dietro di noi e l’antenna della società deve

sensibilizzarsi più intensamente per evitare il puro “intratte-nimento”, l’idillio». Idillio e magia sono termini ricorrenti nel-l’universo immaginativo e così lucido di Lachenmann, «co-se da evocare e poi rompere. Quando mi siedo al tavolo da-vanti al pentagramma sono già nella società, diviso tra accondiscende-re o cambiare, affrontando un’av-ventura che la società sente come una minaccia, perché interrom-pe la magia. Credo tuttavia che in-tendendo la musica in quest’ulti-ma accezione vi siano ancora pos-sibilità di dare un entusiasmo». ◼

vanti al pentagramma sono già nella società, diviso tra accondiscende-

tendendo la musica in quest’ulti-ma accezione vi siano ancora pos-

(e quindi il teatro ); infi ne l’apparente contrario, il si-lenzio. Forse la domanda è posta in termini trop-

po stringati, così che Lachenmann, pur d’accor-do, allarga il respiro: «Credo che la nostra sto-ria rifl etta il confl itto tra lo spirito dell’artista

e il bisogno della società di sentirsi protet-ta, di sottrarsi alla realtà. Credo che, pen-sando all’arte europea e soprattutto alla musica, potremmo parlare di un “servi-zio di magìa”, cosa che ritroviamo in tut-te le culture, con varie fi nalità, rituale, reli-

giosa, militare e via dicendo. L’arte euro-pea ha rotto questa magia nel nome di

norità delle ultime Sonate di Beethoven, tutta gio-cata sulle zone estreme della tastiera, a guidare

Alla domanda di quale sia stato il senso reale della sua lezione raccolta dal musi-cista veneziano, al di là di quel contra-sto tra la critica sociale che Nono riven-dicava in maniera così vistosa e la diffi -coltà del suo linguaggio sonoro, Lachen-mann risponde di non credere a quella contraddizione, perché «il gesto enfa-tico di questa musica è talmente pu-ro, anche se è chiaro che si tratta di un’enfasi, di un appello di un altro mondo, quasi utopico. E questa – chiarisce – è la grande differen-

uno spirito creativo, con tutti i con-trasti conseguenti: Bach che non

veniva riconosciuto in quanto aveva armonizzato libera-

Serynade è la suggestione della so-Serynade è la suggestione della so-Serynadenorità delle ultime Sonate di Beethoven, tutta gio-

stra l’estrema ricerca di Nono) che tocca anche la parola (e quindi il teatro ); infi ne l’apparente contrario, il si-norità delle ultime Sonate di Beethoven, tutta gio-

cata sulle zone estreme della tastiera, a guidare

Alla domanda di quale sia stato il senso reale della sua lezione raccolta dal musi-cista veneziano, al di là di quel contra-sto tra la critica sociale che Nono riven-dicava in maniera così vistosa e la diffi -coltà del suo linguaggio sonoro, Lachen-mann risponde di non credere a quella contraddizione, perché «il gesto enfa-tico di questa musica è talmente pu-ro, anche se è chiaro che si tratta di un’enfasi, di un appello di un altro mondo, quasi utopico. E questa – chiarisce – è la grande differen-

(e quindi il teatro ); infi ne l’apparente contrario, il si-lenzio. Forse la domanda è posta in termini trop-

po stringati, così che Lachenmann, pur d’accor-do, allarga il respiro: «Credo che la nostra sto-ria rifl etta il confl itto tra lo spirito dell’artista

e il bisogno della società di sentirsi protet-ta, di sottrarsi alla realtà. Credo che, pen-sando all’arte europea e soprattutto alla musica, potremmo parlare di un “servi-zio di magìa”, cosa che ritroviamo in tut-te le culture, con varie fi nalità, rituale, reli-

giosa, militare e via dicendo. L’arte euro-pea ha rotto questa magia nel nome di

uno spirito creativo, con tutti i con-trasti conseguenti: Bach che non

veniva riconosciuto in quanto

Anselm Kiefer, Nigredo, 1984(Philadelphia Museum of Art)

Luigi Nono

speciale —

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novecento / parte seconda

JOHN CAGE (1961): «A chiunque possa interessare: I “qua-dri bianchi” vennero per primi: il mio pezzo silenzioso ven-ne più tardi». I quadri bianchi, così come quelli neri, erano di Robert Rauschenberg. Lo racconta Cage nell’Autobiografi a: «Un giorno Bob venne da me e mi portò

un dipinto che aveva appena fi nito. Era un nuovo quadro dei “black paintings”. Ebbi il dubbio che si aspettasse da me maggior en-tusiasmo. Avevo sempre avuto la massima ammirazione per il suo lavoro e poteva aver pensato che fossi in qualche modo deluso. Mi accorsi subito che era terribilmente tur-bato, quasi sul punto di piangere. Mi chie-se se secondo me c’era qualcosa che non an-dava nel dipinto. Lo rimproverai per questo, dicendogli semplicemente che non doveva dipendere dall’opinione di nessuno, che non avrebbe mai e poi mai dovuto cercare quel tipo di appoggio da un’altra persona».

C’è un diletto per la pittura in Cage, ma an-che una maniera di valutarla che sembra far-ne un’arte un poco minore nei confronti del-la musica. Non è la sua semplicità: «Credo

che le arti visive contemporanee ci forniscano numerosi esempi di situazioni che vengono ricondotte a una straordinaria sempli-cità. Mi vengono in mente, a esempio, i “white paintings” di Ro-bert Rauschenberg che sono assolutamente privi di immagini». È il semplicismo cui si applica, per esempio, Jackson Pollock, ed es-so ha una rilevanza che è signifi cata dallo scarto che s’interpone nella valutazione di Cage tra quest’ultimo e Mark Tobey.

Con Pollock è in atto, infatti, un automatismo comportamenta-le che, secondo Cage, produce un ripiegamento su se stessi, sulle proprie sensazioni, che è proprio ciò da cui ognuno dovrebbe li-berarsi. Tutto l’espressivo è un qualcosa dell’io che risulta limitan-te, nocivo, alla produzione artistica: surrealistico o espressionisti-co che sia, esso porta la soggettività nell’opera.

Non si tratta solo di insensibilità nei riguardi dell’umanesimo e di quanto lo ha seguito fi no al romanticismo, ma in Cage è atti-va una sorta di continua attenzione a respingere il progetto uma-no di farsi misura delle cose e del mondo, di creare dei o demoni a propria immagine e somiglianza, di antropomorfi zzare la natu-

ra. Uscito da una mostra di Tobey alla Willard Gallery «mi tro-vai – racconta – all’angolo della Madison Avenue ad aspet-tare l’autobus e mi accadde di guardare la superfi cie del marciapiede, e mi resi conto che si trattava della stessa esperienza che avevo avuto guardando i dipinti di To-bey. Esattamente la stessa, così come il piacere estetico

che mi procurava era altrettanto alto». Con le sue paro-le, «era un dipinto che non raffi gurava nulla [...], era per

così dire completamente astratto. Non aveva rife-rimenti simbolici. Si trattava di una superfi cie che era stata completamente dipinta: Ma non era stata dipinta in modo da suggerire quell’astrazione geo-

metrica che allora m’interessava. [...] Quello che abbiamo nel ca-so di Tobey, nel caso della superfi cie del marciapiede, e nel caso di gran parte dell’espressionismo astratto è proprio una superfi cie assolutamente priva di qualsiasi centro d’interesse. [...] Possiamo guardare prima una parte e poi un’altra, e per quanto ci è possibile avere un’esperienza dell’insieme. Ma quest’insieme è tale che non sembra delimitato dalla cornice. Sembra che possa proseguire, espandendosi oltre la cornice. In altre parole, è come se non stessi-mo parlando di pittura, ma di musica, di un’opera che non ha ini-zio, né parti intermedie, né fi ne, ed è priva di punti focali».

Cos’altro serve a spiegare Tacet, o 4’33”? Cage non gli ha mai dato un titolo, lo chiama «il pezzo silenzioso», di-cendo che di fatto ciò che lo spinse a scriver-lo non fu il coraggio, ma l’esempio di Robert Rauschenberg, dei suoi suoi «white paintin-gs». «Non appena li vidi mi dissi: Sì devo far-lo, altrimenti rimango indietro, altrimenti la musica rimarrà indietro».

Potrebbe stupire il fatto di non incontrare in Cage una presa di posizione contro il no-me «espressionismo astratto»: tutto ci dice che il sostantivo non dovesse toccare le sue corde; l’aggettivo porta una correzione che costituisce quasi un ossimoro nei confronti di ciò che qualifi ca. A John Cage l’espressio-ne non piace, gli piacciono le esperienze che può fare, gode delle modifi che ch’esse por-tano in lui. È attentissimo all’atto esecutivo: il caso può avere contribuito a costituire il te-sto, ma esso va eseguito tale qual è, con peri-

zia e applicazione. Contesta, per esempio a Pollock una grossola-nità che non vede in Tobey. Forse, se se ne conosca l’arte solo in ri-produzione, i due potrebbero facilmente venir confusi l’uno con l’altro. Non è il caso di John Cage. Anzi, parlando delle tele del più giovane, quindi di Pollock, egli ci dice che, proprio in virtù d’una certa familiarità con le tele dell’altro, «osservando una delle gran-di tele di Jackson Pollock era facile capire che aveva preso cinque o sei barattoli di vernice, senza neppure prendersi la briga di mo-difi care il colore della vernice che colava dal barattolo, lasciando più o meno meccanicamente – con gesti in cui, ovviamente, cre-deva – che questa vernice colasse sulla tela». In quel modo, il co-lore non poteva interessarlo, perché non cambiava. «Se invece si guardano i Tobey, si può vedere che ogni pennellata ha un bianco leggermente diverso. E se guardiamo la nostra vita di ogni gior-no, possiamo accorgerci che non viene fatta sgocciolare da un barattolo».

Il dripping gli sembra dunque un buttar lì le cose.La distanza tra arte e vita è superata dallo svolgersi di un’espe-

rienza. Questa non può consistere per il libero arbitrio anarchi-co nel farsi prendere per mano e farsi guidare a comprendere. Ca-ge non tanto imputa di fare ciò ai movimenti realistici, sìmbolici/surrealisti, quanto li dice poco o affatto interessanti perché questo fanno. Egli vuole che si sviluppi la coscienza personale e si modi-fi chi nell’esperienza sensibile, come nel caso raccontato del mar-ciapiede all’angolo della Madison. Per sé vuole crescere con le sue proprie esperienze, farsi. Vuole frequentare Duchamp e imparare a giocare a scacchi. Duchamp gli chiede se già sa come si muova-no i pezzi e, data la risposta positiva, cominciano a frequentarsi at-torno alla scacchiera. Mai dalle parole di Cage risulta una sua cre-scita in qualche modo eterodiretta.

John Cage el’espressionismo astratto

di Giampiero Cane

ra. Uscito da una mostra di Tobey alla Willard Gallery «mi tro-vai – racconta – all’angolo della Madison Avenue ad aspet-tare l’autobus e mi accadde di guardare la superfi cie del marciapiede, e mi resi conto che si trattava della stessa esperienza che avevo avuto guardando i dipinti di To-bey. Esattamente la stessa, così come il piacere estetico

che mi procurava era altrettanto alto». Con le sue paro-le, «era un dipinto che non raffi gurava nulla [...], era per

così dire completamente astratto. Non aveva rife-rimenti simbolici. Si trattava di una superfi cie che era stata completamente dipinta: Ma non era stata dipinta in modo da suggerire quell’astrazione geo-

vai – racconta – all’angolo della Madison Avenue ad aspet-tare l’autobus e mi accadde di guardare la superfi cie del marciapiede, e mi resi conto che si trattava della stessa esperienza che avevo avuto guardando i dipinti di To-bey. Esattamente la stessa, così come il piacere estetico

che mi procurava era altrettanto alto». Con le sue paro-le, «era un dipinto che non raffi gurava nulla [...], era per

così dire completamente astratto. Non aveva rife-rimenti simbolici. Si trattava di una superfi cie che era stata completamente dipinta: Ma non era stata dipinta in modo da suggerire quell’astrazione geo-

John Cage

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Così di fronte al quadro. Esso non ha uno scopo, ma è l’occa-sione per guardare. «Guardando il Large Glass [di Duchamp], la co-sa che mi piace così tanto è che posso focalizzare la mia attenzio-ne dove voglio. Questo mi aiuta a rendere indistinta la separazio-ne tra arte e vita e produce una sorta di silenzio nel lavoro stesso. Non c’è nulla in esso che mi richieda di guardare in un posto piut-tosto che in un altro, o addirittura proprio nulla che mi richieda di guardarlo».

Anche se nell’opera di Duchamp, i dati immediati della sensa-zione, il guardare dell’occhio è reso inconsistente sia dalla traspa-renza dell’oggetto che, e soprattutto, dalla necessità di trascorrere dalla percezione visiva a quella intellettuale, Cage non valuta per questo negativamente quell’arte, ma elabora una strana teoria per la quale «per la musica vale il contrario di ciò che è vero nelle arti visive». «In altre parole – ci dice Cage – ciò di cui si aveva bisogno nell’arte quando Duchamp fece il suo ingresso sulla scena non era attinente alla fi sicità del vedere, mentre ciò di cui si sentiva la ne-cessità nella musica, quando io feci il mio ingresso, era l’esigenza di una fi sicità relativa all’atto di ascoltare».

Può darsi che in questo caso ci si trovi di fronte a un processo di razionalizzazione, ma per quel che riguarda le sue partiture gra-fi che, che vennero esposte per la prima volta per un concerto alla Town Hall che celebrava, con un po’ di ritardo, i venticinque an-ni del musicista, il coinvolgimento del piacere visivo sembra da connettere soltanto con la necessità di una scrittura che permet-tesse di avere suoni di altezza non determinata, cosa che col pen-tagramma non s’accorda. Più tardi però, dedicandosi un poco ad acquarelli o inventandosi materiali e tecniche, come artista Cage non s’avvicinerà affatto a Duchamp, la sua astrazione non darà vi-ta anche a una possibilità di astrazione dal vedere.

Il luogo in cui, più che altrove, aspetti visi-vi e sonori si sono trovati a mescolarsi in una situazione che li accomunava è da conside-rare la compagnia di danza di Merce Cun-ningham. Vi hanno spesso collaborato Ja-sper Johns e John Cage dando vita a proget-ti d’allestimento che non chiedevano affatto la convergenza nell’integrazione tra imma-gini, suoni e azioni coreografi che. Erano fi -gli di una lezione di Marcel Duchamp, quel-la per cui l’evento si consegna allo spettatore, il quale col dargli un senso lo fi nisce. Dal pun-to di vista dell’opera è quel protendersi ver-so l’altro, quel tendergli la mano di cui scris-se Renato Barilli, certo non ignaro di Du-champ, ribadito da Cunningham che giu-dica ottimale la risposta di spettatori «capa-ci di completare dentro di sé, ciascuno a suo modo, lo spettacolo che viene loro offerto. Quello che io penso della danza – continua il coreografo –, cioè del movimento del corpo umano nello spazio e nel tempo, è che essa non nasconde nulla dietro di sé, e che consiste semplicemen-te in ciò che si vede, così come la musica in ciò che si sente. E se si ha la capacità di guardare alla complessità degli elementi che nel-la danza hanno luogo contemporaneamente alla musica o ad al-tri eventi, allora la danza stessa può presentarsi come un’esperien-za, con cui si deve entrare in contatto. Attraverso di essa la nostra sensibilità può essere aperta al mondo attorno a noi; ed è quan-to, a mio parere, tutta l’arte contemporanea può fare». A ciò era-no arrivati a loro modo, indipendentemente da Duchamp riten-

go, Thelonious Monk e Cecil Taylor, il primo sostituendo al suo-no le sue danze, volutamente goffe, da orso, attorno al pianofor-te, il secondo immettendo l’immagine del proscenio della dan-za nell’azione sulla tastiera, con l’azione corporea nell’avvicinarsi spesso furtivo al pianoforte, nel declamare le sue poesie, suonan-dole con la voce.

Torna in evidenza il momento dell’esperienza, della propria e di quella che coinvolge il pubblico. Il bello non c’entra mai, co-me in Dada non è qualcosa cui miri l’artista o l’arte. Cage liquida un po’ tutti insieme i pittori della Pop Art, «poco interessanti co-me il Surrealismo», anche se non è un surrealismo dell’individuo, ma della società.

Nella prima gioventù John Cage aveva apprezzato e amato par-ticolarmente Ad Reinhardt, ma la scoperta dei monocromi, con l’effetto che gli fanno, lo obbliga a un salto: «Niente soggetto, nien-te immagine, niente gusto, niente oggetto, niente bellezza, nien-te talento, niente tecnica (niente perché), niente idea, niente inten-zione, niente arte, niente sentimento, niente nero, niente bianco [...] Alleluuia! Il cieco può di nuovo vedere, l’acqua è limpida». Il niente è quel che Reinhardt non coglie quando anch’egli dà corpo ai suoi monocromi, nei quali il senso è però quello di un rovescia-mento del precedente espressionismo.

Preso atto del salto, quel che emerge dal silenzio è una sorta di contraddizione che Cage non ha mai apertamente affrontato. Che senso ha ricorrere all’analisi e battersi per la lettura della sua musica come fa James Pritchett, qualora si condivida il sospetto di Joseph Kosuth che «per Cage la musica fosse un luogo di lavoro piuttosto che qualcosa di utile all’esecuzione»?

C’è una certa vicinanza tra Kosuth e Cage, anche nella differen-za dei metodi arbitrari di scelta all’interno del lavoro. Nessuno dei

due pensa che l’arte consista in forme e co-lori/suoni. Le singole opere non sono che esempi di un processo più ampio. Bisogne-rebbe poter sondare il silenzio tra un’opera e l’altra, il pensiero durante le pause. Se riuscia-mo a cogliere il lavoro negli intervalli, coglia-mo il lavoro reale. «Le singole opere – dice Kosuth – troppo facilmente diventano un luogo di interpretazione, uno specchio per le richieste di signifi cati di altri». Serenamen-te, sia Kosuth che Cage, non trovano però ostacoli in questo loro essere utili.

Del resto Cage non s’è mai fatto scrupolo di tradurre l’I Ching in uno strumento che gli serviva per nuovi signifi cati all’interno della cultura occidentale, ignorando, o fi n-gendo d’ignorare che l’utilizzava come una metafora funzionale a una nuova cosa, la sua musica, e astraendo dal senso che a esso è

proprio nella sua territorialità.«I sensi non assistiti – ha scritto Cage – ci permetto-

no di percepire, diciamo, il cinque per cento di quello che esiste. Mediante il micro-questo, micro-quello, te-le-questo, tele-quello esploriamo il resto. Ora, benché angosciati dalla povertà, abbiamo avuto un’impressione di abbondanza. Non possiamo supporre con una cer-ta sicurezza, ora che abbiamo più di quanto possia-mo utilizzare, che qualunque cosa è, in qualunque luogo, in qualunque momento, per chiunque?». ◼

musica, e astraendo dal senso che a esso è

«I sensi non assistiti – ha scritto Cage – ci permetto-no di percepire, diciamo, il cinque per cento di quello che esiste. Mediante il micro-questo, micro-quello, te-le-questo, tele-quello esploriamo il resto. Ora, benché angosciati dalla povertà, abbiamo avuto un’impressione di abbondanza. Non possiamo supporre con una cer-ta sicurezza, ora che abbiamo più di quanto possia-mo utilizzare, che qualunque cosa è, in qualunque luogo, in qualunque momento, per chiunque?».

«I sensi non assistiti – ha scritto Cage – ci permetto-no di percepire, diciamo, il cinque per cento di quello che esiste. Mediante il micro-questo, micro-quello, te-le-questo, tele-quello esploriamo il resto. Ora, benché angosciati dalla povertà, abbiamo avuto un’impressione di abbondanza. Non possiamo supporre con una cer-ta sicurezza, ora che abbiamo più di quanto possia-mo utilizzare, che qualunque cosa è, in qualunque

Jackson Pollock

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Sfogliando le cronache dell’arte, sembrerebbe proprio che quanto più la denominazione di una corrente artistica si diffonde e si radica nell’opinione pubblica e nella cultura,

tanto più viene rifi utata con decisione dagli artisti ai quali vie-ne applicata. È certamente casuale, ma è altrettanto certamen-te curioso che, a un secolo esatto di distanza, due termini co-me impressionismo e minimalismo abbiano ripercorso tappe ana-loghe. Originariamente riferiti alle arti visi-ve e poi estesi alla musica, entrambi hanno avuto enorme fortuna incontrando una va-sta diffusione nel lessico corrente. Al tempo stesso, pur andando incontro a un’autenti-ca infl azione nelle cronache giornalistiche e nella letteratura critica, sia l’impressioni-smo, sia il minimalismo, forse anche in ra-gione del signifi cato implicitamente ridutt-tivo di entrambi i termini, hanno riscosso una generalizzata presa di distanza da par-te dei loro protagonisti, siano stati essi artisti visivi o musicisti.

Quanto al minimalismo, il termine che qui ci interessa trattare, nella sua polivalen-te applicabilità a diversi ambiti creativi, esso si sfalda in una molteplicità di connotazio-ni eterogenee e spesso contraddittorie. Basti

pensare all’ambiguo interscambiarsi di due categorie come minimalismo e ripetitività, tec-nica quest’ultima ricorrente, anche se non esclusiva, dell’arte minimalista. Una prima contraddizione si lega al fatto che la ripeti-zione produce una crescita, uno sviluppo quantomeno dimensionale, per cui la musi-ca e l’arte dette ripetitive, proprio in quan-to basate sulla ripetizione, sono portatrici di un’intrinseca negazione di ogni tensione verso la riduzione, verso il minimo possibi-le. E invece il più delle volte le due categorie vengono di fatto identifi cate.

In circolazione già dagli anni trenta, fu so-lo nella seconda metà degli anni sessanta che il termine minimalism entrò nell’uso abitua-le della critica d’arte, per essere poi applica-to, all’esordio dei settanta, anche alla musica ad opera di Michael Nyman e di Tom John-son, critico musicale del «Village Voice», ri-guardo ai quali ancora talvolta si perde tempo a discutere su chi fu il primo.

Sia nelle arti plastiche e visive, sia in ambito musicale, il mini-mal ha dato luogo ad alcune delle creazioni singole più ampie per estensione e per durata che mai siano state concepite. Basti pensare alle cinque ore di Einstein on the Beach, opera che è vista come un manifesto della minimal music, oppure alle composi-zioni di LaMonte Young o a certe sue installazioni la cui durata è virtualmente infi nita. Quanto alle arti visive l’idea minimali-sta è strettamente connessa a tendenze artistiche quali la Land

Art o il Concept che spalancano l’opera su dimensioni poten-zialmente illimitate. Ed è stato proprio Donald Judd, uno dei padri della minimal art, a progettare nel deserto del Texas il gi-gantesco centro espositivo della Chinati Foundation, sfruttan-do i 32 capannoni dell’ex base militare di Fort Russell disloca-ti su 150 kmq.

Quasi a giustifi care le frequenti riserve degli artisti, in mol-te delle sue manifestazioni il concetto di minimal è dunque in gran parte un paradosso o, meglio ancora, un ossimoro, a parti-re dal celebre aforisma di Mies van der Rohe «Less is more». Ma ossimorica è la stessa idea che presiede all’indiscutibile prodro-mo della minimal music: le oggi celebri Vexations (1893) di Eric

Satie, una breve frase musicale della durata di pochi secondi da ripetere 840 volte, ma, avverte il compositore, solo dopo una pre-liminare opportuna preparazione di severe immobilità nel più assoluto silenzio.

Generazioni dopo, ecco John Cage con un altro celebre aforisma protominimalista di ispirazione zen: «Se qualcosa ti annoia per due minuti, provalo per quattro. Se è ancora noioso, provalo per otto, sedici, trentadue e così via. Alla fi ne scoprirai che non è affatto noioso ma molto interessante».

L’apparente contraddizione fra minimali-smo e ripetizione, dilatazione, si scioglie se però mette a fuoco quell’elemento che, in effetti, la poetica del minimal nelle sue varie accezioni tende a ridurre tendenzialmente a zero. Questo elemento è la nozione stessa

di «poetica», ragione per cui il minimalismo non è affatto una poetica, ma una condotta razionale derivante dalla decisione di ridur-re al minimo, fi no ad azzerarla, la presenza ingombrante dell’artista e della sua interiori-tà individuale.

Sol Lewitt, altra fi gura chiave dell’epopea minimal, nei suoi Paragraphs on Conceptual Art (1967) scrive: «L’artista sceglierà la forma ba-silare e le regole che governeranno la solu-zione del problema. Dopodiché, meno sa-ranno le decisioni prese nel corso del com-pletamento dell’opera, meglio sarà. Verran-no in questo modo eliminati il più possibile gli arbitrî, i gesti capricciosi e soggettivi».

Come nello strutturalismo europeo, ma anche sull’onda lunga dell’anti-romantici-smo parigino primo novecentesco, targato in pari misura Satie e Cocteau e, infi ne, in analogia con le motivazioni della chance music

di Cage, ciò che si vuole minimizzare o sopprimere è per l’ap-punto la troppo ingombrante individualità dell’autore in quan-to artista o poeta.

Regole, procedure, automatismi, meccanicità, materiale, ri-petizioni, moltiplicazioni, simmetrie, sfasature, geometrismo, rigorismo, astrazione. Nel minimalismo, si tratti di installazio-ni, creazioni pittoriche o musicali, c’è quasi sempre tutto que-sto. Tranne qualche dettaglio (ma proprio a Mies van der Rohe si attribuisce l’affermazione che «Gott ist im Detail»), il cocktail è il medesimo di quasi tutte le incarnazioni delle avanguardie

Minimalismodi Giordano Montecchi

abbiano ripercorso tappe ana- mo della minimal music: le oggi celebri

Philip Glass

Sol Lewitt, Untitled, 1992

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novecentesche che, da Stravinskij al postwebernismo, hanno ripudiato il principio espressionista, conseguendo però risulta-ti evidentemente e profondamente diversi fra loro e, in buona sostanza, apertamente inconciliabili, almeno in prima istanza.

Sul terreno pittorico, l’area della Minimal Art ha confi ni tan-to variegati quanto sfuggenti. Ai suoi vari punti cardinali, il mi-nimal confi na e si confonde con l’arte concettuale, con la Pop Art, col New Dada e anche con l’espressionismo astratto ri-spetto al quale il minimal reagisce e si distanzia. Un composito-re come Morton Feldman, in così profonda sintonia con artisti quali Rothko, Kline, De Kooning o Guston, vale a dire i massi-mi esponenti dell’espressionismo astratto, viene a buon motivo defi nito minimalista in virtù del suo stile dalle sonorità prosciu-gate, rarefatte e dilatate del tempo. E que-sto nonostante le sue composizioni parli-no una lingua diversissima da quella di Ter-ry Riley, Philip Glass o Steve Reich, lo stori-co terzetto che ha divulgato e ha decretato il successo della minimal music e l’afferma-zione del suo stile compositivo come uno dei tratti più fortemente caratteristici della nuova musica di fi ne secolo.

In Feldman, come nell’espressionismo astratto, il senso minimale di un’opera è le-gato piuttosto ai minuti o minutissimi in-terventi sul materiale, sul diradarsi degli elementi in gioco e sulla loro tendenza al-la staticità. Nell’uno e nell’altro sono invece ben presenti il segno e il carattere dell’ope-

rato e della presenza dell’artista, presenza espressiva e anche lirica. Al contrario, nel minimalismo più strettamente inteso que-sta presenza è accuratamente neutralizzata. La geometria modulare, le forme industria-li, nette e levigate prendono il posto delle su-perfi ci screziate e fi nemente tormentate, co-sì come l’introversa contemplatività di Feld-man lascia il campo al programmatico ano-nimato dei processi graduali, del phase shif-ting, della pulsazione costante, della regola-rità tecnologica di una macchina da presa che sgrana uno dopo l’altro i suoi fotogram-mi: alla lontana, infatti, si intravedono anco-ra le sequenze fotografi che di Muybridge e il nudo che scende le scale di Duchamp.

Il rigore inesorabile di Robert Morris, Dan Flavin o Sol Lewitt, anche se era fortemen-te interessato ai meccanismi percettivi del pubblico, non aveva certo alcuna intenzio-ne di «piacere» nel senso tradizionale. Ep-pure la Minimal Art piacque, forse perché quelle opere, anche se in modo più intellettuale e sottile della Pop Art, esorcizza-vano la sottile angoscia generata dallo stereotipo perfetto e dal sempre uguale della produzione industriale, declinandolo e no-bilitandolo in arte.

Per Glass e compagni invece il problema della distanza fra il pubblico da un lato e l’accademia dall’altro, di ciò che Kyle Gann ha chiamato «the Gap», individuandolo come elemen-to chiave della nostra epoca musicale, si poneva come centra-

le e come tema di una aperta ribellione al mondo accademico. Nelle mani di Reich, Glass, Riley e di altri autori più giovani (Adams, Torke, Bryars, ecc.), minimalismo diviene uno stile fa-miliare, basato sulla ripetizione di brevi, semplici cellule sotto-poste a lenti processi di trasformazione che si offrono all’ascol-tatore chiaramente percepibili e afferrabili. Un tessuto musi-cale regolarmente pulsante, armonicamente statico e non di-rezionale, si trasforma gradualmente davanti ai nostri «occhi» guidandoci per mano attraverso questo lento mutamento.

Il meccanismo minimal spesso ha in sé qualcosa di inesorabi-le, eppure l’effetto che ne risulta è fortemente attrattivo e rassi-

curante per l’ascoltatore. Certo, questa mu-sica rifi uta di darsi un marchio autoriale di-stintivo. Ma questa disumanizzazione sul piano teorico, viene ampiamente compen-sata dal riportare fi nalmente il composito-re davanti al suo pubblico in vesti di per-former alla testa del suo ensemble. In ulti-ma analisi ciò che viene ridotto al minimo è la tradizionale complessità sintattica della musica colta, sostituita da una spiccata sem-plicità e trasparenza del processo, incessan-te e, a suo modo, capace nei risultati miglio-ri di eccitare l’attesa per la trasformazione in corso. Sequenze paratattiche in luogo di costrutti ipotattici: una elementarità inter-pretabile come abbruttimento o come rivo-luzione, come sovversione di un pensiero e di un linguaggio plurisecolari.

Il successo del minimalismo musicale è

stato certamente superiore alle stesse aspet-tative dei suoi autori. Un successo che l’altra parte del mondo musicale, quella che Fel-dman chiamava l’academic Avantgarde, non gli ha mai perdonato. La minimal music e i suoi derivati, ampiamente intrecciati con le tendenze più intellettualizzate e sperimen-tali della popular music (trance, ambient, drum&bass, new age, ecc.), e spesso inclini alla maniera stilistica, sono stati e sono an-cora additati talvolta quale emblema di una resa dell’arte a un’eccessiva semplicità e faci-loneria per riconquistare il favore del pub-blico, come un tradimento di quella com-plessità di pensiero e di scrittura che per lun-go tempo, in musica più ancora che altrove, è stata invece eletta a incarnazione stessa del valore estetico. Si tratta di una collocazione decisamente asimmetrica rispetto al campo delle arti visive, dove il minimalismo ha rap-presentato uno dei coté più rigorosi e severi

nel novero delle recenti tendenze pittoriche statunitensi. Pro-prio per questo, certi giudizi liquidatori sulla minimal music sembrano scambiare la causa con l’effetto, laddove si insinua che il successo di pubblico sia stato il movente anziché il risulta-to. La minimal music nei suoi esempi migliori e ormai storici si caratterizza anch’essa per un rigore costruttivo e una coerenza esemplari. Che poi essa sia divenuta moneta corrente, trasfor-mandosi in stilema prelibato per jingles pubblicitari o per l’in-dustria discografi ca, è il miglior elogio per un’avanguardia. ◼

Morton Feldman

Mark Rothko, Orange

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novecento / parte seconda

LA FINE DELLA seconda guerra mondiale lasciò un mondo da ricostruire e una grande spinta tecnologica. La vitto-ria di inglesi e americani nel confl itto e la fi ne del model-

lo autarchico nei paesi europei occupati o sconfi tti cambiò an-che i parametri culturali della società.

La musica neroamericana è stata sicuramente la grande no-vità del XX secolo. Il blues, il jazz, sono penetrati nella cultura popolare americana ed europea affi ancandosi alla tradizione e contaminando o sostituendosi alle forme preesistenti.

La presenza militare americana nelle basi inglesi, francesi e italiane portò a una contaminazione anche della musica popo-lare e di intrattenimento che vi veniva suonata. A Napoli come a Liverpool, porti verso l’Atlantico e sedi di basi militari ame-ricane, i militari americani sbarcando portavano anche la loro musica e chiedevano di ascoltarla nelle sale da ballo e da intrat-tenimento. Ma se in America la divisione fra musica di origine afroamericana e musica per i bianchi era ancora netta e con due mercati che non si contaminavano, in Europa questa divisione razzista non aveva presupposti e i musicisti si orientarono in-differentemente verso qualsiasi forma musicale per loro nuova e lontana dalle memorie di guerra. In più l’Europa liberata dal-

la guerra aveva fame di novità e divenne un’occasione straordi-naria per i musicisti americani, in particolare i neri, le orchestre jazz, i solisti blues. I primi trovarono teatri e locali accoglienti a Parigi, i secondi spazi interessanti a Londra.

Fino agli anni sessanta, la musica popolare o industriale nelle sue varie forme si poteva considerare ancora solo e puro intrat-

tenimento. Ma con delle nuove caratteri-stiche. La trasformazione dell’industria bellica e il trasferimento delle tecnolo-gie portò fra l’altro all’evoluzione del supporto discografi co, con l’inven-

zione del microsolco e del disco di cloruro di polivinile (vini-le), composto chimico intro-dotto nel 1943. Il disco da 17 cm di diametro a 45 giri è

ideale, per il t raspor-

to e l’im-magaz-z i n a -mento,

e per la d iffusio-

ne di canzoni singole di circa tre minuti di durata. La sua versione a lunga durata, da 30 cm e 33 giri e 1/3 è perfetto inve-ce per contenere più brani fi no a un massimo di 25 minuti cir-

ca per lato. Il rock’n’roll e il nuovo supporto

si integrarono alla perfezione. Musica veloce, ritmata, dedicata a un pubblico di teenager, il 45 gi-ri era maneggevole, robusto e per nulla ingombrante. La seconda guerra mondiale di fatto decompose il modello standard di società e di fa-miglia. A differenza del pe-riodo precedente in cui il giovane era solo un preadulto che doveva conquistarsi il pro-prio posto nella socie-tà degli adulti impa-randone quanto prima e imitandone forme e for-malismi, gli anni cinquanta furono caratterizzati da una gioventù insofferen-te agli schemi e che cer-cava una propria iden-tità autonoma. In questo senso i l rock’n’roll diven-ne la musica che rompeva g l i schemi ed era fat-

ta direttamente da teenager che si rivolgevano a teenager con il loro linguaggio e raccontando il loro mondo. Da un punto di vista strettamente musicale, il rock’n’roll fondeva elementi preesistenti di musica popolare americana come il blues elettri-co, il country & western, le melodie pop. Si trattava ancora di musica di intrattenimento dai testi ingenui ma che faceva pro-prie alcune delle novità dell’epoca, come la chitarra elettrifi ca-ta, e la fusione dei generi, anche se la comunità nera continua-va a usare la propria musica e a rivolgersi al vecchio mercato dei 78 giri e dei Race Records e molti dei brani di autori e interpre-ti neri erano ripresi da interpreti bianchi e «edulcorati» nell’in-terpretazione e nell’arrangiamento per renderli «accettabili» ai genitori dei ragazzi bianchi di buona famiglia. Tutto questo fi nché in televisione, l’elettrodomestico attorno a cui si racco-glieva ogni sera l’intera famiglia, non comparve all’improvviso Elvis Presley. «Trovatemi un bianco che canti come un negro», aveva det-to il produttore e di-scograf ico Sam Phillips, «e farò un milione di dolla-ri». Elvis era quel bianco. La società a misura di teena-ger aveva anche un’altra caratteri-stica, quella di mo-strare in un mondo

L’elettroshock rock: industriae modello giovanile

di Giò Alajmo

ca per lato. Il rock’n’roll e il nuovo supporto

si integrarono alla perfezione. Musica veloce, ritmata, dedicata a un pubblico di teenager, il 45 gi-ri era maneggevole, robusto e per nulla ingombrante. La seconda guerra mondiale di fatto decompose il modello standard di società e di fa-miglia. A differenza del pe-riodo precedente in cui il giovane era solo un preadulto che doveva conquistarsi il pro-prio posto nella socie-tà degli adulti impa-randone quanto prima e imitandone forme e for-malismi, gli anni cinquanta furono caratterizzati da una gioventù insofferen-te agli schemi e che cer-cava una propria iden-tità autonoma. In questo senso i l rock’n’roll diven-ne la musica che rompeva g l i schemi ed era fat-

ca per lato. Il rock’n’roll e il nuovo supporto

si integrarono alla perfezione. Musica veloce, ritmata, dedicata a un pubblico di teenager, il 45 gi-ri era maneggevole, robusto e per nulla ingombrante. La seconda guerra mondiale di fatto decompose il modello standard di società e di fa-miglia. A differenza del pe-riodo precedente in cui il giovane era solo un preadulto che doveva conquistarsi il pro-prio posto nella socie-tà degli adulti impa-randone quanto prima e imitandone forme e for-malismi, gli anni cinquanta furono caratterizzati da una gioventù insofferen-te agli schemi e che cer-cava una propria iden-tità autonoma. In questo senso i l rock’n’roll diven-ne la musica che rompeva g l i schemi ed era fat-

stiche. La trasformazione dell’industria stiche. La trasformazione dell’industria bellica e il trasferimento delle tecnolo-gie portò fra l’altro all’evoluzione del supporto discografi co, con l’inven-

zione del microsolco e del disco di cloruro di polivinile (vini-le), composto chimico intro-dotto nel 1943. Il disco da 17 cm di diametro a 45 giri è

ideale, per il

ne di canzoni singole di circa tre minuti di durata. La sua versione a lunga durata, da 30 cm e 33 giri e 1/3 è perfetto inve-ce per contenere più brani fi no a un massimo di 25 minuti cir-

stiche. La trasformazione dell’industria bellica e il trasferimento delle tecnolo-gie portò fra l’altro all’evoluzione del supporto discografi co, con l’inven-

zione del microsolco e del disco di cloruro di polivinile (vini-le), composto chimico intro-dotto nel 1943. Il disco da 17 cm di diametro a 45 giri è

ideale, per il

ne di canzoni singole di circa tre minuti di durata. La sua versione a lunga durata, da 30 cm e 33 giri e 1/3 è perfetto inve-ce per contenere più brani fi no a un massimo di 25 minuti cir-

comparve all’improvviso Elvis Presley. «Trovatemi un bianco che canti come un negro», aveva det-

genitori dei ragazzi bianchi di buona famiglia. Tutto questo fi nché in televisione, l’elettrodomestico attorno a cui si racco-glieva ogni sera l’intera famiglia, non

bianco. La società a misura di teena-ger aveva anche un’altra caratteri-stica, quella di mo-

Elvis Presley

Chuck

Berry

— specialesp

ecia

le

novecento / parte seconda

in ricostruzione e impoverito dalla guerra, che i giovani con scarse prospettive potevano trovare da sé una forma di espres-sione e di guadagno immediato nella musica. Va da sé che si trattava di un modo effi mero e incolto, ma che sicuramente metteva in discussione ancora una volta le forme organizzati-ve della società preesistente. A questo si aggiunse un altro tas-sello. Se il problema della Gran Bretagna era di essere stata dis-sanguata e semidistrutta dalla guerra, l’America si trovava ad affrontare per la prima volta il ruolo di superpotenza mondia-le con in mano un potenziale bellico distruttivo impressionan-te. Dover fare i conti con la Bomba atomica e i desideri di

espansione di altre potenze non amiche come l’Unione Sovie-tica e la Cina aveva portato gli americani a combattere nuova-mente in Corea e ad affrontare con scarse prospettive di acco-modamento la successiva crisi in Indocina. Alle tensioni ester-ne si aggiungevano poi quelle interne giocate interamente sul-la battaglia per i diritti civili, minacciati dal maccartismo e dal razzismo che ancora segregava negli stati del sud i neri. I movi-menti di protesta e per i diritti civili negli anni cinquanta aveva-no avuto tra le loro conseguenze la rinascita di una forma di canzone politica e sindacale che serviva a esprimere e divulga-re il dissenso e a denunciare le storture, gli abusi e le ipocrisie del sistema di potere americano. La canzone di protesta aveva un suo parallelo nella letteratura e nella poesia che si stavano sviluppano negli anni del rock’n’roll. Le visioni anticonformi-ste, pacifi ste, erotiche, libertarie, visionarie e controcorrente dei poeti e degli scrittori Beat, da Jack Kerouac a Allen Gin-sberg, ebbero una considerevole infl uenza nella cosiddetta controcultura americana degli anni cinquanta. E sebbene la lo-ro visione della musica fosse più orientata verso i mantra india-ni e buddisti e il jazz, erano destinate ad avere una considerevo-le infl uenza sulla cultura giovanile e sugli artisti del periodo, anche se l’invito espresso dai poeti beat di provare ad «allarga-re la mente» fu inteso in maniera più lisergica che culturale. I critici e gli storici della musica popolare hanno suddiviso co-munemente la musica pop della seconda metà del Novecento in una catena di grandi fi loni più o meno collegati fra loro. Si concorda che a metà degli anni cinquanta si sviluppò il rock’n’roll, che ebbe in Elvis Presley e Chuck Berry i suoi espo-nenti più rilevanti, nei primi anni sessanta il «beat» con Beatles e Rolling Stones, e il folk revival con Bob Dylan, nel ‘65 il rock

con la svolta elettrica di Dylan, nel’70 le sue varianti «hard», «metal» e «prog» (tra Deep Purple, King Crimson e Yes), e alla fi ne del decennio il punk (Clash, Sex Pistols) come reazione al-la nascita del «classicismo» rock e della disco music e dell’in-gresso massiccio di strumentazioni elettroniche e computer nella produzione musicale e l’infl uenza sempre più pesante del-l’industria discografi ca, che portarono anche, come reazione, a un clamoroso interesse per il reggae giamaicano (Bob Mar-ley, Peter Tosh) in cui si riconoscevano alcuni elementi comu-ni alla cultura hippy degli anni sessanta, e il successivo dissolvi-mento delle forme musicali nell’hiphop nato nei ghetti urbani neri d’america, tutto ritmo e parole con rime interne. Una cosa certa è che tutti questi generi hanno un progenitore comune o con cui devono fare i conti. Il blues. Il Blues è la chiave di lettu-ra del Novecento musicale. Il blues e il rock’n’roll sono alla ba-se della musica britannica degli anni sessanta, quella dei Bea-tles e dei Rolling Stones. Ma non ci sarebbero stati né gli uni né gli altri se a Liverpool e poi a Londra non fossero sbarcati con i soldati americani anche i dischi di rock’n’roll, di jazz e di blues portati da questi ultimi. I ragazzi facevano a gara per imposses-sarsene, studiare a orecchio armonie, ritmo, melodie e parole e riprodurli in concertini o sale da ballo. Il blues (o «i blues», ma noi teniamo la dizione per genere), aveva la caratteristica di es-sere molto espressivo e molto semplice da suonare. Cantare i blues signifi cava cantare il proprio animo, ma anche sesso, droga, alcool, violenza, prostituzione, temi cari alle bettole do-v’erano nati. E per esprimere uno stato d’animo le parole pote-vano esser superfl ue, bastava il suono degli strumenti. I blues nascono come forma musicale essenziale. La tecnica di base è ridotta al minimo. Lo schema ripetitivo e semplice consente a

chiunque di entrare facilmente nell’esecuzione di altri e con qualunque strumento, lasciando ampi spazi al virtuosismo. Dal blues nasce il ragtime, il jazz, le contaminazioni di Ger-shwin, ed è alle radici della musica inglese degli anni sessanta che abbiamo chiamato negli anni beat, pop, rock. Soprattutto quello che Muddy Waters ha trasformato in blues elettrico nel 1948 a Chicago, terminale della lunga strada che dal delta del Mississippi aveva portato i neri dai campi di cotone verso l’inur-bamento nelle più ricche e liberali città del nord degli Stati Uni-ti. Il rock’n’roll nella sua forma essenziale è una specie di blues veloce, tanto che in origine era diffi cile distinguerlo dal blues elettrico e ritmato degli artisti neri se non per il fatto che artisti bianchi e pubblico bianco ne erano rimasti coinvolti. Musica da ballo e da intrattenimento derivata dal boogie, forma di blues veloce con tutte le note di basso ostinato raddoppiate a sedicesimi e in voga già negli anni trenta. Esplode con il 45

ste, pacifi ste, erotiche, libertarie, visionarie e controcorrente dei poeti e degli scrittori Beat, da Jack Kerouac a Allen Gin-sberg, ebbero una considerevole infl uenza nella cosiddetta controcultura americana degli anni cinquanta. E sebbene la lo-ro visione della musica fosse più orientata verso i mantra india-ni e buddisti e il jazz, erano destinate ad avere una considerevo-le infl uenza sulla cultura giovanile e sugli artisti del periodo, anche se l’invito espresso dai poeti beat di provare ad «allarga-re la mente» fu inteso in maniera più lisergica che culturale. I critici e gli storici della musica popolare hanno suddiviso co-munemente la musica pop della seconda metà del Novecento in una catena di grandi fi loni più o meno collegati fra loro. Si concorda che a metà degli anni cinquanta si sviluppò il rock’n’roll, che ebbe in Elvis Presley e Chuck Berry i suoi espo-nenti più rilevanti, nei primi anni sessanta il «beat» con Beatles e Rolling Stones, e il folk revival con Bob Dylan, nel ‘65 il rock

blues veloce con tutte le note di basso ostinato raddoppiate a sedicesimi e in voga già negli anni trenta. Esplode con il 45 sedicesimi e in voga già negli anni trenta. Esplode con il 45

The Beatles

The Rolling Stones

speciale —

spec

iale

novecento / parte seconda

giri e la nuova generazione dei tee-nager del Dopoguerra, ma le sue radici avevano già penetrato il terreno in passato. Quando il nero Chuck Berry mescola la forma canzone con il blues elettrico, inventa uno stile chi-tarristico scarno ed effi cace che diventa il suo marchio di fabbri-ca, caratterizzato da brevi riff ini-ziali che si ripetono prima delle strofe e da assoli strumentali inseriti all’interno dei brani, e offre ai giovani chitarristi dell’epoca uno stile con cui con-frontarsi per decenni. Nello stesso periodo in cui il rock’n’roll erutta dalle radio e dai dischi, in America si scopre la musica classica indiana grazie alla collabo-razione fra Yehudi Menuhin e il sitarista Ali Akbar Khan. Que-sto porta nel 1959 il pregevole sitarista Ravi Shankar, fratella-stro di Ali Akbar Khan, a prendere la via dell’Occidente. La curiosità e la voglia di ricerca di nuove strade per i musicisti de-gli anni sessanta è straordinaria. Shankar si trova a collaborare con Miles Davis e poi con i padri del minimalismo americano, da Terry Riley a Philip Glass, offrendo di fatto una via per usci-re dalle convenzioni occidentali, a partire dalla musica. Soprat-tutto la nuova musica popolare si dimostra perfetta per le ap-plicazioni dell’elettricità e delle nuove tecnologie. Il sogno dei futuristi come Luigi Russolo che nel 1913 preconizza il ̀ 900 come secolo dei rumori, e inventa le macchine «intonarumo-ri», le intuizioni di Ferruccio Busoni che nel 1907 preconizza

l’uso di dissonanze e suoni elettrici nelle composizioni trovano applicazione già negli anni trenta con l’invenzione del primo magnete per amplifi care la chitarra da parte di Adolph Ricken-backer, e dell’organo elettromagnetico di Laurens Hammond. La chitarra elettrica all’inizio è solo una chitarra normale a cui sono stati applicati dei magneti. Lo scopo è quello di consenti-re al chitarrista di farsi sentire in una sala affollata o in un’or-chestra dominata dai fi ati. Per i musicisti blues a questo scopo era stata ideata una particolare chitarra metallica con un gran-de risuonatore sulla cassa che fungeva da amplifi catore natura-le. Il problema di evitare i rumori fastidiosi provocati dalle in-terferenze fra cassa e magneti è risolto da Leo Fender che nel

1953 inventa la chitarra elettrica a cor-po solido. La chitarra elettrica diventa lo strumento del rock. E l’elettricità

diventa la portante della nuova musica. Beatles e Rolling Stones sono

due punti cardinali per la musica po-polare contemporanea. Il loro stile, le lo-ro sperimentazioni e il periodo in cui si sono trovati a operare hanno consentito loro di fi ssare come dei parametri ope-

rativi, dei termini di con-fronto o di es-sere fonti di ispi raz ione per la musi-

ca venuta dopo di loro. Gli altri due punti car-

dinali, necessari per comprende-re o rappresentare l’innovazione musicale della seconda metà del ‘900 sono sicuramente il poe-ta rock americano Bob Dylan, e probabilmente il chitarrista di Seattle Jimi Hendrix. Questi quattro «elementi», due inglesi,

due americani, interagendo fra di loro si trovano a infl uenzare e

modifi care l’intero panorama mu-sicale. L’intuizione di Dylan è utiliz-

zare la tradizione del cantastorie folk per raccontare i propri tempi con un lin-

guaggio diretto ironico e poetico. Dylan si ri-fà alla tradizione folk americana bianca e nera, utiliz-

zando linee melodiche popolari, ballads e talking blues, scri-vendo canzoni politiche, di protesta e inni generazionali che accompagnano le marce di Martin Luther King e dei seguaci del movimento pacifi sta. Nel 1965 la sua prospettiva cambia, si unisce a una band di blues elettrico e rende improvvisamen-te adulto il mondo musicale giovanile aggiungendo alla forma del rock’n’roll il contenuto di un pensiero poetico e letterario nello stile dei poeti Beat. Le origini di questo cambiamento so-no probabilmente da ricercarsi tra Liverpool e Londra. I Bea-tles sono quattro ragazzi di Liverpool, città fl orida per la musi-ca giovanile proprio per la sua caratteristica di approdo milita-re per le navi americane. In circa otto anni diventano il punto di riferimento degli anni sessanta. Cultura, estetica, moda, spe-rimentazione, tecnologia, mercato, strategie di marketing, al-

lucinogeni, cinema, fi losofi a, religione, economia. Quasi tutto passa o attraversa il mondo dei Beatles.

Beatles e Rolling Stones possono considerarsi assolutamen-te complementari per quello che in forme diverse, una specie di Yin e Yang, hanno rappresentato nell’evoluzione della mu-sica a partire dagli anni sessanta. I Beatles hanno caratterizza-to la loro musica con felici impasti vocali, cori a due, tre, quat-tro voci, armonie originali e inedite e una continua ricerca sul suono, innovativa per l’epoca considerato che la tecnologia del tempo non offriva molto. I Rolling Stones sono stati (sono tut-tora) il prototipo ideale della rock band dal vivo, un cantante, un basso, due chitarre, una batteria. La loro gavetta è stata di-versa da quella dei Beatles, ma non dissimile da quella dei tan-ti gruppi rock’n’roll dell’epoca. Per entrambi i gruppi la prima esperienza è stata la riproduzione di brani di rock’n’roll ameri-cano. Ma a differenza dei Beatles – che si rifacevano allo stile dei gruppi vocali americani di Doo Wop, e sostenevano piut-tosto una rivalità con i Beach Boys – gli Stones possono van-tare una scuola musicale di puro stampo blues che deriva dal-la frequentazione di uno dei grandi palcoscenici blues inglesi, quello di Alexis Korner. I Rolling Stones e i Beatles sono grup-pi, band, «complessi» come si diceva all’epoca. Non possiedo-no una cultura musicale accademica. Non sanno scrivere mu-sica e non conoscono regole di armonia tradizionali. Presi sin-golarmente non sono neppure tecnicamente dotati in maniera rilevante. Di nessuno dei componenti i Rolling Stones o i Be-atles si può dire sia o appaia come uno straordinario virtuoso del proprio strumento. Ma questa è la loro forza. Per quel che riguarda i Beatles, l’assenza di una cultura musicale accademi-ca è compensata dalla grande fantasia che li porta a cercare so-

1953 inventa la chitarra elettrica a cor-po solido. La chitarra elettrica diventa lo strumento del rock. E l’elettricità

diventa la portante della nuova

Beatles e Rolling Stones sono due punti cardinali per la musica po-

polare contemporanea. Il loro stile, le lo-ro sperimentazioni e il periodo in cui si sono trovati a operare hanno consentito loro di fi ssare come dei parametri ope-

rativi, dei termini di con-fronto o di es-sere fonti di ispi raz ione per la musi-

ca venuta dopo di loro. Gli altri due punti car-

po solido. La chitarra elettrica diventa lo strumento del rock. E l’elettricità

diventa la portante della nuova musica. Beatles e Rolling Stones sono

due punti cardinali per la musica po-polare contemporanea. Il loro stile, le lo-ro sperimentazioni e il periodo in cui si sono trovati a operare hanno consentito loro di fi ssare come dei parametri ope-

rativi, dei termini di con-fronto o di es-

ca venuta dopo di loro. Gli altri due punti car-

giri e la nuova generazione dei tee-nager del Dopoguerra, ma le sue radici avevano già penetrato il

diventa il suo marchio di fabbri-ca, caratterizzato da brevi riff ini-ziali che si ripetono prima delle strofe e da assoli strumentali inseriti all’interno dei brani, e offre ai giovani chitarristi dell’epoca uno stile con cui con-frontarsi per decenni. Nello stesso periodo in cui il rock’n’roll erutta dalle radio e dai dischi, in

dinali, necessari per comprende-re o rappresentare l’innovazione musicale della seconda metà del ‘900 sono sicuramente il poe-ta rock americano Bob Dylan, e probabilmente il chitarrista di Seattle Jimi Hendrix. Questi quattro «elementi», due inglesi,

due americani, interagendo fra di loro si trovano a infl uenzare e

modifi care l’intero panorama mu-sicale. L’intuizione di Dylan è utiliz-

zare la tradizione del cantastorie folk per raccontare i propri tempi con un lin-

guaggio diretto ironico e poetico. Dylan si ri-fà alla tradizione folk americana bianca e nera, utiliz-

The Yardbirds

Bob Dylan

— specialesp

ecia

le

novecento / parte seconda

luzioni armoniche o timbriche sempre diverse e imprevedi-bili, coadiuvati in questo da George Martin, produttore del-la Emi che ha invece una cultura classica e una grande dispo-nibilità al nuovo.

Se i Beatles danno il loro meglio in studio, i Rolling Stones hanno la loro forza nell’equilibrio delle parti e nel rispetto del brano, che si trasforma dal vivo in un rapporto di grande im-patto nei confronti del pubblico e in una solida costruzione strumentale. Gli Stones hanno anche il pregio di restituire al blues la sua fi sicità, la sensualità ruvida e radicale della musica delle origini. Con i Rolling Stones prende sempre più for-ma l’idea blues di una musica strumentale con uso di voce, in cui le due chitarre si alternano nelle par-ti ritmiche e soliste creando anche

percorsi paralleli armonizzati.

Luigi Nono di-ceva che «la mu-sica non è mestie-

re, non è artigiana-to, la musica è pensie-

ro». Il pensiero che è alla base della musica dei gruppi degli anni

sessanta, come Beatles e Rolling Sto-nes è che questa deve essere il prodotto

di un insieme, di una collaborazione, di un contributo colletti-vo. La musica diventa fi glia di un «autore collettivo». Il succes-so commerciale dei Beatles e in misura minore dei Rolling Sto-nes spinge una quantità enorme di giovani a percorrere la stes-sa strada. Il successo planetario sembra rispondere a un’esigen-za sociale e generazionale a dispetto delle convenzioni e del-le autorità costituite. Certamente, ben orchestrate campagne promozionali fanno dei Beatles il primo fenomeno mediati-co «globalizzato» che si ricordi e aprono il vaso di Pandora del-l’identità giovanile. Ma la Beatlemania nella prima metà degli anni sessanta ha anche l’effetto di diffondere uno stile musica-le comune e originale a tutto il mondo occidentale e di porta-re all’attenzione dell’America bianca la musica originale dei ne-ri americani, sia pure fi ltrata dalle personali interpretazioni di giovani bianchi europei.

L’incontro tra Bob Dylan e i Beatles in America nel 1964 fu fondamentale per l’evoluzione della musica pop contempora-nea. Dylan si convinse che i suoi temi potevano essere effi cace-mente trasferiti su un territorio musicale di rock elettrico e i Be-atles, circondati dal mondo effi mero dei fan, si resero conto che era possibile espandere il loro stile con una cura maggiore per i testi e i suoni, meditando l’inserimento di parti orchestra-li e di strumenti esotici come il sitar indiano. Lo «scambio» cul-turale musicale fra Gran Bretagna e Stati Uniti produce anche un altro effetto. Di ritorno dagli Stati Uniti il bassista degli Ani-mals – una della quattro prime grandi band britanniche dei primi anni sessanta, con Beatles, Stones e Yardbirds – porta con sé a Londra un giovane chitarrista nero. Al suo ritorno ne-gli Stati Uniti gli americani si accorgeranno di aver avuto anco-ra una volta bisogno degli inglesi per accorgersi dei talenti di

casa propria. In questo caso Jimi Hendrix, il nostro «quarto elemento». Invece in Inghilterra comincia a farsi sentire presto l’infl uenza del minimalismo. I raga indiani di Ravi Shankar, le composizioni di Terry Riley e Steve Reich, di Philip Glass so-no esperimenti interessanti nell’Inghilterra psichedelica che cerca una colonna sonora per viaggi allucinati, ma anche per

giovani musicisti come Soft Machine o Pink Floyd che cercano di uscire dallo schema canzone dei Beatles, con McCartney che è invece affascinato da Karlheinz Stockhau-

sen, oltre ad apprezzare Magritte. La fine dell’attività concertistica, poco più di tour massa-

cranti da un palco all’altro a tentare inutilmente di ur-lare contro l’urlo continuo di folle in delirio, porta i Beatles a diventare nel 1966 un gruppo da studio lasciando a fi lm e ar-caici videoclip il compito di diffondere la propria immagine in tutto il mondo. A Abbey Road, cominciano a cercare una nuo-va strada oltre il beat. Il terreno di scambio culturale nella me-tà degli anni sessanta è fertile e complesso. Le ricerche sull’elet-tronica cominciano a produrre i primi sintetizzatori basati su oscillatori, e artisti pop come Andy Warhol in America o Ma-rio Schifano in Italia cercano un rapporto diretto con la musi-ca, più aleatorio quello di Schifano, più articolato quello di Warhol che interverrà nella produzione e promozione dei Vel-vet Underground di Lou Reed disegnando fra l’altro la coper-tina del loro primo album (una banana sbucciabile in campo bianco) e aggiungendo alla formazione la modella-cantante e più tardi, realizzando un paio di copertine di album dei Rolling Stones, i jeans con cerniera di «Sticky fi ngers», le foto incerot-tate di «Love you live». Il rock entra prepotentemente anche

nel grande cinema, grazie a Michelangelo Antonioni che af-fronta lo scontro generazionale in Zabriskie Point musicato dai Pink Floyd e la swingin’ London in Blow up in cui compaiono in un cameo gli Yardbirds che imitano la distruzione simbolica e rituale degli strumenti, mutuata dagli Who. La tecnologia de-gli anni sessanta era piuttosto rudimentale. Niente computer, niente transistor, registratori a nastro piuttosto ingombranti sulle cui bobine potevano es-sere incise al massimo 4 tracce, 8 in Ame-rica, negli studi più evoluti. Se fino al 1965 la registrazione dei brani era effet-tuata praticamente in diretta, sceglien-do l’esecuzione migliore, ed effettuando eventualmente poche sovraincisioni a causa della perdita di qualità di ogni pas-saggio in un continuo ping pong da una traccia all’altra, la scelta dei Beatles di usare lo stu-dio di registrazione come un ulteriore strumento portò a vari esperimen-ti. McCartney era soli-to girare per le strade e registrare ogni ti-po di suono, rumo-ri di traffico, uc-celli, da utilizzare successivamente. In assenza di com-puter i lavori di

gli anni sessanta era piuttosto rudimentale. Niente computer, niente transistor, registratori a nastro piuttosto niente transistor, registratori a nastro piuttosto ingombranti sulle cui bobine potevano es-sere incise al massimo 4 tracce, 8 in Ame-rica, negli studi più evoluti. Se fino al 1965 la registrazione dei brani era effet-tuata praticamente in diretta, sceglien-do l’esecuzione migliore, ed effettuando eventualmente poche sovraincisioni a causa della perdita di qualità di ogni pas-saggio in un continuo ping pong da una traccia all’altra, la scelta dei Beatles di usare lo stu-dio di registrazione come un ulteriore strumento portò a vari esperimen-ti. McCartney era soli-to girare per le strade e registrare ogni ti-po di suono, rumo-ri di traffico, uc-celli, da utilizzare successivamente. In assenza di com-puter i lavori di

niente transistor, registratori a nastro piuttosto ingombranti sulle cui bobine potevano es-sere incise al massimo 4 tracce, 8 in Ame-rica, negli studi più evoluti. Se fino al 1965 la registrazione dei brani era effet-tuata praticamente in diretta, sceglien-do l’esecuzione migliore, ed effettuando eventualmente poche sovraincisioni a causa della perdita di qualità di ogni pas-saggio in un continuo ping pong da una traccia all’altra, la scelta dei Beatles di usare lo stu-dio di registrazione come un ulteriore strumento portò a vari esperimen-ti. McCartney era soli-to girare per le strade e registrare ogni ti-po di suono, rumo-ri di traffico, uc-

giovani musicisti come Soft Machine o Pink brano, che si trasforma dal vivo in un rapporto di grande im-patto nei confronti del pubblico e in una solida costruzione strumentale. Gli Stones hanno anche il pregio di restituire al blues la sua fi sicità, la sensualità ruvida e radicale della musica delle origini. Con i Rolling Stones prende sempre più for-ma l’idea blues di una musica strumentale con uso di voce, in cui le due chitarre si alternano nelle par-ti ritmiche e soliste

sica non è mestie-re, non è artigiana-

to, la musica è pensie-ro». Il pensiero che è alla base

della musica dei gruppi degli anni sessanta, come Beatles e Rolling Sto-

nes è che questa deve essere il prodotto

va strada oltre il beat. Il terreno di scambio culturale nella me-tà degli anni sessanta è fertile e complesso. Le ricerche sull’elet-tronica cominciano a produrre i primi sintetizzatori basati su oscillatori, e artisti pop come Andy Warhol in America o Ma-rio Schifano in Italia cercano un rapporto diretto con la musi-ca, più aleatorio quello di Schifano, più articolato quello di Warhol che interverrà nella produzione e promozione dei Vel-vet Underground di Lou Reed disegnando fra l’altro la coper-tina del loro primo album (una banana sbucciabile in campo bianco) e aggiungendo alla formazione la modella-cantante e più tardi, realizzando un paio di copertine di album dei Rolling Stones, i jeans con cerniera di «Sticky fi ngers», le foto incerot-tate di «Love you live». Il rock entra prepotentemente anche

luzioni armoniche o timbriche sempre diverse e imprevedi-bili, coadiuvati in questo da George Martin, produttore del-la Emi che ha invece una cultura classica e una grande dispo-

Se i Beatles danno il loro meglio in studio, i Rolling Stones hanno la loro forza nell’equilibrio delle parti e nel rispetto del brano, che si trasforma dal vivo in un rapporto di grande im-

casa propria. In questo caso Jimi Hendrix, il nostro «quarto elemento». Invece in Inghilterra comincia a farsi sentire presto l’infl uenza del minimalismo. I raga indiani di Ravi Shankar, le composizioni di Terry Riley e Steve Reich, di Philip Glass so-no esperimenti interessanti nell’Inghilterra psichedelica che cerca una colonna sonora per viaggi allucinati, ma anche per

giovani musicisti come Soft Machine o Pink giovani musicisti come Soft Machine o Pink Floyd che cercano di uscire dallo schema canzone dei Beatles, con McCartney che è invece affascinato da Karlheinz Stockhau-

sen, oltre ad apprezzare Magritte. La fine dell’attività concertistica, poco più di tour massa-

cranti da un palco all’altro a tentare inutilmente di ur-lare contro l’urlo continuo di folle in delirio, porta i Beatles a diventare nel 1966 un gruppo da studio lasciando a fi lm e ar-caici videoclip il compito di diffondere la propria immagine in tutto il mondo. A Abbey Road, cominciano a cercare una nuo-va strada oltre il beat. Il terreno di scambio culturale nella me-

brano, che si trasforma dal vivo in un rapporto di grande im-patto nei confronti del pubblico e in una solida costruzione strumentale. Gli Stones hanno anche il pregio di restituire al blues la sua fi sicità, la sensualità ruvida e radicale della musica delle origini. Con i Rolling Stones prende sempre più for-ma l’idea blues di una musica strumentale con uso di voce, in cui le due chitarre si alternano nelle par-ti ritmiche e soliste creando anche

percorsi paralleli armonizzati.

Luigi Nono di-ceva che «la mu-sica non è mestie-

re, non è artigiana-to, la musica è pensie-

ro». Il pensiero che è alla base della musica dei gruppi degli anni

sessanta, come Beatles e Rolling Sto-nes è che questa deve essere il prodotto

giovani musicisti come Soft Machine o Pink Floyd che cercano di uscire dallo schema

invece affascinato da Karlheinz Stockhau-sen, oltre ad apprezzare Magritte. La fine

dell’attività concertistica, poco più di tour massa-cranti da un palco all’altro a tentare inutilmente di ur-

lare contro l’urlo continuo di folle in delirio, porta i Beatles a diventare nel 1966 un gruppo da studio lasciando a fi lm e ar-caici videoclip il compito di diffondere la propria immagine in tutto il mondo. A Abbey Road, cominciano a cercare una nuo-va strada oltre il beat. Il terreno di scambio culturale nella me-tà degli anni sessanta è fertile e complesso. Le ricerche sull’elet-tronica cominciano a produrre i primi sintetizzatori basati su oscillatori, e artisti pop come Andy Warhol in America o Ma-rio Schifano in Italia cercano un rapporto diretto con la musi-

Jimi Hendrix

speciale —

spec

iale

novecento / parte seconda

taglio e collage erano affi dati ad abili tecnici dotati di forbici e nastro adesivo. Altri esperimenti erano compiuti facendo gira-re nastri al contrario o creando dei loop, dei cicli continui, o mettendo in collegamento più registratori. Gli «effetti specia-li» disponibili si limitavano ad apparecchi per la creazione di eco o riverbero, e la saturazione del suono delle chitarre creata dalle valvole degli amplifi catori spinti oltre il limite. Presto il parco giochi del chitarrista si sarebbe arricchito di distorsori, fuzz, wah wah, utilizzati dai Rolling Stones per il riff di Satisfac-tion ideato da Keith nel 1966 a imitazione di una sezione di fi ati R&B e da Jimi Hendrix, vero maestro dell’esplorazione estre-ma del suono nei quattro anni di carriera che precedet-tero la sua morte nel settembre 1970. Ma già nel 1968 gli esperimenti di Robert Moog sui sin-tetizzatori elettronici di suono avevano prodotto un album dimostrativo asso-lutamente innovativo, Switched on Ba-ch di Walter Carlos – oggi Wendy – a dimostrazione di come la frontiera del suono potesse essere ulterior-mente abbattuta. A rendere po-polare questo strumento – già usato sperimentalmente da alcu-ni gruppi dell’epoca come gli Who, fu soprattutto l’uscita nel 1971 del film di Kubrick Arancia meccanica, poco dopo la diffusione sul mercato del Minimoog, versione portatile del-l’«armadio» dai mille cavi del ‘68. L’uso del-l’amplifi cazione e dell’elettricità in se stessa

modifi cano il rapporto fra il musicista e il pubblico e fra il musi-cista e il suo strumento. L’amplifi cazione consente di raggiun-gere platee molto più vaste, e di sottrarsi ad alcune «necessità» dell’era musicale precedente. Se il teatro d’opera necessita di voci impostate, corpose sezioni di violini e sale risuonanti per farsi ascoltare, con la musica elettrica tutto ciò diventa super-fl uo. Come dice Riccardo Cocciante a proposito delle sue ope-re popolari «Adesso c’è il microfono», che consente di cantare con maggiore espressività, di usare modi colloquiali e sussur-rare. Un’intera sezione di archi può essere sostituita da una so-la chitarra elettrica, strumento che – sostiene il violinista Nigel Kennedy – è molto più affi ne per tecnica e suono al violino che alla chitarra tradizionale che – afferma – è più imparentata con il clavicembalo. Jimi Hendrix estremizza il modo di suonare la chitarra elettrica e cambia radicalmente la visione che si ha del-lo strumento. E lo fa in trio. La sua tecnica è totalmente non

convenzionale a partire dall’utilizzo di uno strumento rovesciato

che gli consente di interve-nire più facilmente sui

controlli di tono e vo-lume e sulla leva del

tremolo e variare anche brutal-mente la ten-s ione de l le corde. Hen-drix utilizza pochi effetti speciali ma

lavora molto con il volume. Tutta la storia del rock’n’roll è do-minata da una ricerca di fi sicità, si rapporta con il movimento del corpo, il sesso, la ribellione alle convenzioni. Hendrix in-carna tutto questo. Il suo rapporto con lo strumento è fi sico e sessuale, la sua esibizione eccita e turba facendo sfoggio di un repertorio circense, i suoi assoli sono accompagnati con il cor-po quasi a condurre fi sicamente le note verso l’obiettivo desi-derato. E in questo rapporto fi sico cercato nella musica del tempo è componente essenziale il volume di suono. Il rock (che in inglese evoca la roccia ma anche lo scuotersi) diventa con Hendrix qualcosa che colpisce duro come una roccia e

scuote ma al tempo stesso sa perdersi nei sogni e nelle malinconie del blues. Il volume è usato da Hen-

drix per scuotere e produrre dalla chitarra sonorità estreme grazie all’innesco causa-

to dal suono sui magneti dei pickup. Con l’uso controllato dei larsen, dei controlli di fase, delle distorsioni, della tensione delle corde la chitar-ra di Hendrix diventa uno stru-mento che suona come nessuno aveva immaginato prima. E mai come in lui la chitarra diventa un oggetto di culto che finisce per

bruciare in scena in una specie di ri-to voodoo. Nondimeno Hendrix è

un grande musicista che ha il blues e lo sviluppa immergendosi nella cultura vi-

vace e colorata della Londra psichedelica. Dai Beatles acquisisce la curiosità per l’uso del-

lo studio di registrazione come vero e proprio strumento. Ma alcune sue rivisitazioni di brani di Bob Dylan chiudono alla perfezione il cerchio fra comunicazione poetica e forma stru-mentale. La ricerca sonora di Hendrix è simbolo di un periodo, la fi ne degli anni sessanta, che cerca in ogni modo di superare i limiti della musica popolare, di espandere la conoscenza, di rapportarsi con un pubblico sempre crescente che fa della mu-sica un catalizzatore e la propria principale forma di espressio-ne. A questo mondo fi nisce per rivolgersi anche il jazz con Mi-les Davis che compie, come Dylan nel ‘65, la sua svolta elettri-ca in Bitches Brew riunendo attorno a sé l’intera nuova generazio-ne di jazzisti, da John McLaughlin a Herbie Hancock, da Chi-ck Corea a Joe Zawinul e Wayne Shorter. L’album comincia a essere inciso proprio il giorno successivo all’esibizione di Jimi Hendrix a Woodstock, quella in cui il chitarrista trasferì con il suo strumento nell’inno nazionale americano l’intero dramma sonoro della guerra in Vietnam.

L’infl uenza di Hendrix e del suo stile chitarristico chiusero il tempo dell’adolescenza musicale e aprirono la strada alla ricer-ca e alla contaminazione di un rock (non più solo rock’n’roll) adulto e tecnicamente più elevato, così come l’infl uenza di Bob Dylan (più volte candidato al Nobel della Letteratura e recen-temente vincitore del Pulitzer) aprì la strada alla cosiddetta «canzone d’autore». Le strade erano tutte aperte e l’industria dello spettacolo aveva ormai preso possesso della nuova for-ma di divertimento di massa facendo della musica popolare una forma di arte industriale, con tutte le sue contraddizioni. Ciò che viene dopo, con l’avvento dei computer e la diffusio-ne dell’elettronica, delle macchine da musica più o meno auto-matiche, appartiene ancora più alla cronaca che alla storia. ◼

ma del suono nei quattro anni di carriera che precedet-tero la sua morte nel settembre 1970. Ma già nel 1968 gli esperimenti di Robert Moog sui sin-tetizzatori elettronici di suono avevano prodotto un album dimostrativo asso-

Switched on Ba- di Walter Carlos – oggi Wendy – a

dimostrazione di come la frontiera

fu soprattutto l’uscita nel 1971 del Arancia meccanica,

poco dopo la diffusione sul mercato del Minimoog, versione portatile del-l’«armadio» dai mille cavi del ‘68. L’uso del-l’amplifi cazione e dell’elettricità in se stessa

scuote ma al tempo stesso sa perdersi nei sogni e nelle malinconie del blues. Il volume è usato da Hen-

drix per scuotere e produrre dalla chitarra sonorità estreme grazie all’innesco causa-

to dal suono sui magneti dei pickup. Con l’uso controllato dei larsen, dei controlli di fase, delle distorsioni, della tensione delle corde la chitar-

oggetto di culto che finisce per bruciare in scena in una specie di ri-

to voodoo. Nondimeno Hendrix è un grande musicista che ha il blues e lo

sviluppa immergendosi nella cultura vi-vace e colorata della Londra psichedelica.

Dai Beatles acquisisce la curiosità per l’uso del-

convenzionale a partire dall’utilizzo di uno strumento rovesciato

che gli consente di interve-nire più facilmente sui

controlli di tono e vo-lume e sulla leva del

tremolo e variare anche brutal-

che gli consente di interve-nire più facilmente sui

controlli di tono e vo-lume e sulla leva del

tremolo e variare

The W ho

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novecento / parte seconda

Nella presunzione di esser ascesi su una vetta e di osserva-re dall’alto, ci si domanda: «Che cosa ci ha dato il secolo XX?». La domanda potrebbe essere assennata, se pri-

ma ci si ponesse un altro, più importante quesito: «Che cosa ci ha sottratto, il Novecento?» Avvertiamo con disagio, e ammettia-mo di malavoglia, che il saldo è negativo. Il Novecento ci ha elar-gito tanti utili oggettini, e ci ha derubati subdolamente di beni in-comparabilmente preziosi: ha ridot-to a un margine irrisorio la libertà in-dividuale, ha coartato e imprigio-nato nella gabbia del culturalmen-te corretto (dell’eticamente corretto, del politicamente corretto, del reli-giosamente corretto, del linguistica-mente corretto…) ciò che in un pas-sato prossimo, ma tanto perduto da sembrare remoto, era il λόγος critico e maieutico. E sarebbe ancora il ma-le minore, poiché l’etica, la politica, le norme civiche, sono strumenti uti-li ma rozzi, approssimativi, empiri-

ci, meri puntelli o rattoppi, per non dire della religione che è scioc-chezza puerile, da respingere per decenza e per buona creanza se soltanto si sia adulti. No, il male maggiore è la goffaggine recente dell’esteticamente corretto, e questo è davvero il vulnere mortale in-ferto a una civiltà che ha, non foss’altro, il merito di avere prodotto Tristan und Isolde e la Divina Commedia, la Politeia e le Duineser Elegien, il Pervigilium Veneris e Also sprach Zarathustra. È il colpo di grazia, poi-ché l’estetica è il più alto criterio di giudizio, anzi, l’unico possibi-le, l’unico nobile e onorevole. Quel vulnere, quel colpo di grazia, quella misericordia la cui lama trafi gge a tradimento di notte sulla sponda di un maleodorante canale, è il laido trionfo dello Stato e della Chiesa, della burocrazia e dell’usura (in senso poundiano...), del poliziotto e della toga d’ermellino sull’intelligenza, sulla liber-tà di pensiero, sul concetto di superiorità e inferiorità che dovreb-be esser il sacro fondamento di ogni società, anzi, dell’Essere in sé, laddove di quel concetto, dell’esistenza di una superiorità e di un’infe-riorità, il legislatore e il prete, il giudice e il gendarme, il ricco e il po-tente hanno fatto strame. Lo dico con un animo opposto a quel-lo con cui Tacito si accingeva a narrare gli Annales: non «sine ira et studio», bensì con odio e con ira. E con desolazione. Il secolo XX si era annunciato in un’aura confortante: nell’anno 1899 erano ve-nuti alla luce Die Traumdeutung di Freud e Verklärte Nacht di Schön-berg, nel 1900 Max Planck formulò la teoria dei quanti studiando la radiazione elettromagnetica, nel 1906 Albert Einstein presen-tò la teoria della relatività in forma ristretta, le donne si preparava-no ad ottenere i diritti civili in Occidente. Persino in Italia, da qua-si duemila anni fi accata dal’insanabile piaga di Amfortas, dall’in-cunearsi del potere clericale al centro del suo corpo vivo, la super-stizione religiosa era fi nalmente screditata e derisa. Una ragione laica e austera, elegante e sobria, prometteva d’illuminare i prossi-

mi cento anni. Ed ecco, oggi, il miserando spettacolo, il rigurgito bigotto, arrogante, sovente delinquenziale della peggiore intolle-ranza, per giunta camuffata con i panni populistici e terzomon-distici della «solidarietà», della «carità», di un questuante «non ab-biate timore di aprire le porte», di una «accoglienza» che masche-ra un furbastro tornaconto da magliari e ciarlatani. Lo zerbino su cui pulirsi le scarpe è l’universale Paura, la virtuosa e «non violen-ta» Santa Tremarella di un potere vile e laido, preoccupato soltan-to di conservare sé e i propri organi di riproduzione, e mascheran-te il tutto sotto le sembianze di «apertura» e «democrazia». All’in-torno, il querulo, tronfi o, pacchiano, ostentato fasto di vecchi e nuovi culti e riti che rendono infernale la qualità di vita dei cittadi-ni; masse esagitate, salmodianti, cantillanti, ululanti e annitrenti. Su tutto, il trionfo del Brutto.

Varianti di quest’ultimo sono i tristi trionfi celebrati dal Nove-cento su altre vittime sacrifi cali. Avrei dovuto dire, forse, «dal se-

condo Novecento», poiché la fase co-siddetta «storica» del secolo XX, os-sia la sua prima metà o quasi, fi no al-la seconda guerra mondiale, non la-sciava prevedere con certezza i futuri desolanti fenomeni. Ma la desolazio-ne, epifania innegabile nella seconda metà del secolo e oltre, fi no ad oggi, e oggi protesa verso più crudeli appro-di, era già nelle premesse, anche se ne erano consapevoli soltanto rarissi-mi chiaroveggenti. Fra essi, Ferruc-cio Busoni (Entwurf einer neuen Ästhe-tik der Tonkunst, 1906), e stranamente

il suo avversario Hans Pfi tzner Futuristengefahr, 1917; Neue Ästhetik der musikalischen Impotenz, 1919), insieme con Walter Benjamin (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936) e con la sinistra profezia espressa da Theodor W. Adorno in vari suoi scritti (soprattutto in Einleitung in die Musiksoziologie, 1962): l’immi-nente estinzione della musica d’alta tradizione occidentale, ossia della musica d’autore, rigorosamente scritta e fi ssata secondo nor-me immutabili per la prassi esecutiva, autoreferenziale e fondata su un’estetica del tutto autonoma, a (triste) conclusione di un ciclo durato più o meno cinque o sei secoli. A parte questi vividi lampi di preveggenza, il primo Novecento continuò a rivestire la grande musica di splendidi apparati scenici: compositori acclamati e ve-nerati come eroi nazionali (Wagner, Čajkovskij, Brahms, Johann Strauss jr., Verdi, Puccini, Elgar, ma anche Giordano e Mascagni, e persino Lauro Rossi di cui si ricorda la memorabile traslazione di salma lungo la nostra penisola con incredibile concorso di folla in ogni stazione ferrovaria toccata dal convoglio funebre), diret-tori, cantanti, strumentisti di riconosciuta grandezza divinizzati e sommersi dalla ricchezza acquisita con la loro arte, arroventato in-teresse e attesa spasmodica (non senza l’accendersi di bellicose fa-zioni) per le nuove musiche, teatri d’opera considerati i templi lai-ci della civiltà occidentale.

Il secondo Novecento ha detronizzato i teatri d’opera e ha impo-verito di spazio e d’ossigeno la grande musica strumentale. I teatri d’opera hanno perduto la propria centralità e primalità nella sfera dello spettacolo teatrale e musicale, e oggi sono un’opzione mar-ginale, di minoranza, e (ciò è il peggio del peggio) riguardano il gu-sto residuo delle generazioni anziane. Sono «roba per vecchi». Ciò è avvenuto lentamente e impercettibilmente dopo la prima guer-ra mondiale, gradualmente e con più sensibile accelerazione ne-

Un oscuro, incerto, fragile, forse unico varco d’uscita

di Quirino Principe

gito tanti utili oggettini, e ci ha derubati subdolamente di beni in-

The Invaders, 1961

speciale —

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novecento / parte seconda

gli anni quaranta e cinquanta, rovinosamente e velocissimamente dagli anni sessanta in poi (guarda caso, a partire dalla fase culmi-nante dell’era di Darmstadt). Ha perduto pubblico, e soprattutto pubblico giovane, con una caduta a picco accertata da innumere-voli statistiche. Forse questo non è stato un male: in parallelo con questa perdita di spazio, di respiro e di udienza il teatro d’opera si è anche liberato da un’immensa e spuria zavorra di pattume e di li-quame, espellendo masse di melomani chiassosi, volgari e igno-ranti, e volgendosi a una élite. Dico «volgendosi» almeno poten-zialmente... ancora oggi ci sarebbe da realizzare una drastica pu-lizia, soprattutto in occasione delle serate inugurali di stagione in teatri come la Scala o il San Carlo o il Metropolitan, dove alla pri-ma assoluta di apertura accorre la (ricchissima e potentissima) fec-cia della società: i padroni del vapore, oppure i variopinti esem-plari del genere «grand commis» di Stato. Tuttavia, se il fenome-no suddetto non è interamente negativo, a parte il pauroso invec-chiamento del pubblico che soltan-to in minima parte riproduce il terri-fi cante invecchiamento della popo-lazione, è anche vero che la visione di teste esclusivamente candide o cal-ve in platea osservabili dal loggione è qualcosa che stringe il cuore.

La «reductio ad minimum» della musica non operistica, il disinteres-se delle nuove generazioni per quel-l’incomparabile tesoro che è il reper-torio strumentale e vocale in ambi-to sinfonico, cameristico, pianistico, corale (liturgico e profano), liederi-

stico, madrigalistico, polifonico, medievale, è avvenuta in tempi più recenti. Il fenomeno è stato tanto insidioso da coglierci di sor-presa. Io stesso me ne sono accorto veramente quando tutti i buoi erano fuggiti dalla stalla. Ancora negli anni settanta, una numero-sissima presenza di giovani e giovanissimi ravvivava le sale di con-certo. Giovani, tra i 18 e i 30 anni, erano i sessantottini e post-ses-santottini che andavano in massa ad ascoltare Pollini interprete di Beethoven o di Boulez e polemizzavano con le sue dichiarazioni politiche oppure le condividevano. Ho viva memoria dei ragazzi che alla fi ne degli anni settanta e al principio degli ottanta corre-vano ad ascoltare Matacić dirigere la Nona di Bruckner, o Ceccato che ci faceva ascoltare da par suo la Quarta di Schubert e Verklärte Nacht di Schönberg. Nella primavera del 1978, a Milano, mi trovai su un autobus, diretto al Conservatorio, con la meravigliosa pro-spettiva di ascoltare la Seconda di Mahler diretta da Aronovič. A metà del percorso, con grande disappunto mi accorsi di avere di-menticato a casa la partitura tascabile della sinfonia mahleriana: a quei tempi, coltivavo l’abitudine un po’ infantile (e oggi abban-donata) di portare sempre con me, andando ad ascoltare un qual-siasi concerto, le partiture o gli spartiti di ciò che avrei udito. Na-turalmente, fui colto da un’ossessione, analoga a quella del fuma-tore anche non del tutto dipendente dal vizio, il quale mentre è in viaggio si accorge di non avere con sé le sigarette, i fi ammiferi, la pipa, il tabacco… Fui invaso dalla smania di verifi care sul penta-gramma l’orchestrazione e la sintassi armonica di un certo pas-so dello Scherzo, ed è probabile che quella smania non mi avreb-be assalito se avessi avuto con me il mio amato tascabile «Philhar-monia». Ed ecco, all’improvviso vidi nell’autobus un giovanotto grande e grosso dalla barba nera mal rasata che teneva in una ma-no proprio il «Philharmonia» n. 395: la Seconda di Mahler. Gli chie-

si il permesso di controllare quel passo, gentilmente ma con la na-turalezza delle cose ovvie egli mi porse la partitura, e fui appaga-to e felice. Felice, ma non incredulo: non mi pareva una miracolo-sa coincidenza quell’incontro. Non mi pareva, badate, allora, nel-l’aprile 1978. Ma certo: quella sera c’era a Milano un concerto im-portante, si supponeva che se non proprio folle oceaniche alme-no un cospicuo fl usso di giovani e meno giovani (studenti di Con-servatorio, universitari, persone di buona cultura… ma sì, Milano non era forse una delle città musicalmente più colte e più attive in Italia, con tante orchestre, quella della RAI, quella dell’Angelicum, quella dei Pomeriggi, quella della Scala… ahimé, sto parlando di cenere e di foglie secche, «mais ou sont les neiges d’antan?») si diri-gesse in fretta al Conservatorio. Una supposizione, allora, perfet-tamente realistica; un fenomeno, allora, dato per scontato. Anche il giovanottone non si stupì affatto della richiesta a lui rivolta da un quarantatreenne signore sull’autobus.Anch’egli dava per sconta-

to che Milano fosse piena di giovani e meno giovani attratti dalla Seconda di Mahler e incontrabili su qualsiasi mezzo pubblico.

Tutto questo, oggi, sarebbe impos-sibile, ed è impensabile. E il 1978, nella coscienza e nella memoria di chi appartenga alla mia generazione o a quella dei miei fi gli, è l’altro ieri, è dietro l’angolo. Ho libri acquistati nel 1978 che non ho ancora utilizzato completamente, in casa mia si usano aggeggi domestici acquistati nel 1978 (o prima) i quali funzionano perfet-

tamente, e in casa li sentiamo come «nuovi», «moderni». Rapidis-sima, vertiginosa è stata la metamorfosi con cui i pubblici pote-ri (il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario), vuoi per ottusità vuoi per odio deliberato nei confronti di tutto ciò che è intelligenza, cultura superiorità intellettuale, hanno demolito ciò che io chia-mo «musica forte» (un’aggettivazione di cui rivendico il brevetto e l’esclusiva) e che altri impropriamente chiamano musica «classi-ca» o «colta» o «seria», riservando al fi n troppo noto pattume so-noro la qualifi ca altrettanto impropria di musica «moderna», qua-lora prediligano il pattume suddetto, e tali sono per esempio le ra-gazzotte da spiaggia e da discoteca balneare, o i candidati alla Pre-sidenza del Consiglio, o tanti giovani e meno giovani preti e suore (ma perché «moderna»? forse Boulez e Ligeti sono medievali, o liberty…?), oppure la qualifi ca non meno assurda di musica «leg-gera» (perché, Vivaldi e Chopin e Offenbach e Johann Strauss jr. e Ravel sono «pesanti»?). Con errore di pari calibro, coloro che in-vece detestano il suddetto graveolente pattume lasciano intende-re, parlando di musica «colta» o «seria», che il pattume sonoro sia musica «incolta» e «ignorante» oppure «poco seria» o «tutta da ri-dere», ciò che evidentemente non è, poiché le varie rock stars che raccolgono questa volta sì folle oceaniche nelle piazze consacrate ai comizi di quei formidabili rivoluzionari che sono i sindacalisti espongono, nei testi delle loro creazioni, velleità nientemeno che civili e politiche, e in genere assumono i toni della lamentazione perenne e lacrimante al succo di cipolla. Poiché io mi sforzo (alme-no mi sforzo…) di onorare il λόγος e la logica, giudico pertinente defi nire il succitato pattume acustico «musica debole», e ciò in rife-rimento ai suoi connotati di ripetitività, di lagna sedativa e diure-tica, di appiattimento delle sensazioni anche là dove ci sarebbe la velleità di produrre chissà quali «scosse» o «pugni nello stomaco»,

Max Planck con Albert Einstein

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novecento / parte seconda

di miserevole povertà. Tutto questo va detto in opposizione logi-ca e terminologica a «musica forte», senza alcun intento offensivo e con un richiamo analogico all’opposizione tra pensiero forte e pensiero debole in fi losofi a.

Le opzioni terminologiche che precedono le ho formulate, que-sta volta sì, «sine ira et studio». La defi nizione, rispettosissima, di «musica debole» dovrebbe esserne garanzia, poiché si appella a un aggettivo d’ambito né etico né estetico e neppure utilitaristico ma soltanto a un grado d’intensità dinamica, a un meccanismo di priorità e posteriorità. Dire «pattume» è indicare non qualco-sa di ripugnante, ma un effetto residuale, ossia ciò che avanza, un di più e di troppo, qualcosa d’inutile poiché c’è già l’elemento forte che adempie a tutte le funzioni necessarie. Lo stesso sarebbe par-lare di «liquame»: una materia restante che infastidisce con il suo «di troppo» e con la sua mistura, ma nulla d’immorale e neppure di brutto: infatti non di brutto si tratta, ma d’insignifi cante. Tutta-via, se è vero che il mio giudizio non assolve né condanna ma constata, è altrettanto vero che la constatazio-ne è desolata. Nel suo insieme, lungo le due sequenze che sul terreno della musica percorrono il Novecento sto-rico (mirabile metamorfosi, prolife-razione delle possibilità, moltiplica-zione di linguaggi e stili diversi, crisi) e il secondo Novecento (crisi, allonta-namento dal pubblico, autoreferen-zialità, separazione dal pubblico, in-cubo «adorniano»), il secolo XX ci ha lasciato un asse ereditario in cui la

musica forte è vittima di una sorta di sacrifi cio umano, a vantaggio della musica debole che, quasi interamente oramai, ne ha usurpato gli spazi, i tempi e i ruoli.

L’aspetto più vistoso del lascito è riassunto nella constatazione di Adorno: il pubblico del Settecento ascoltava quasi soltanto mu-sica del Settecento, il pubblico dell’Ottocento ascoltava quasi sol-tanto musica dell’Ottocento, il pubblico del Novecento ha ascol-tato quasi soltanto musica del Settecento e dell’Ottocento. Nel se-colo XX, nessuno saprebbe dire esattamente quando né dove né come né per opera di chi né a partire da quale oggetto specifi co, il giocattolo si è rotto. Lo splendido gioco delle perle di vetro non è stato più giocato, e si è svolta soltanto la ripetizione dei giochi pre-cedenti, prima con ebbra fi ducia di scoprire la nuova vena aurea, poi con stanco sconforto o con cupa rassegnazione o con la fred-dezza del baro.

Ciò che genera maggiore tristezza è il fatto indubbio che nell’in-tero arco cronologico del Novecento è nata moltissima grande musica, grazie al lavoro di compositori di grande talento e di am-mirevole onestà intellettuale che alla musica hanno donato i lo-ro forzi generosi e talvolta eroici, male ripagati e soprattutto non compresi. Ciò è avvenuto poiché è nel destino della musica occi-dentale imporre ai signifi cati tanta ricchezza e tanta tensione da gonfi arli e tenderli al di là del possibile, sino a farli esplodere fran-tumandoli. L’interruzione del rapporto di comprensione e d’in-tesa (vorremmo dire: «di complicità», «d’amicizia») tra la maggio-ranza dei compositori del Novecento e il pubblico dei loro con-temporanei, più che un problema di gusto, è una diffi coltà di na-tura semantica. I signifi cati della musica occidentale nata negli ul-timi decenni non soltanto esistono, ma sono anche forti e pieni di un λόγος implicito. Il pubblico non li coglie poiché non possiede

gli strumenti per coglierli. Perché non li possiede?Rispondere in misura esauriente e in maniera convincente a

questa domanda sarebbe già un primo passo per affrontare l’an-gosciosissima crisi che la musica sta attraversando oggi in occi-dente, mentre in culture «altre» per quanto assimilate o assimila-bili (per favore, evitiamo l’odiosa parola «globalizzazione»), fra cui spiccano quelle dell’Estremo Oriente (Cina, Giappone, Corea, in parte anche l’Asia sud-orientale), la musica forte d’impronta occi-dentale sembra godere di diversi destini, e per ragioni che sarebbe facile e persino confortante analizzare: ma qui, l’analisi c’impor-rebbe una deviazione. Ritorniamo perciò alla domanda cruciale: perché il pubblico occidentale d’oggi non possiede gli strumenti per capire e accogliere i signifi cati della musica forte che nasce nella nostra contemporaneità, e nasce, quasi dopo un misterioso pec-cato originale, «partorita con dolore»?

Una risposta molto illuminante è stata certamente quella di Hans Sedlmayr in Verlust der Mitte (1948), uno dei sommi saggi d’este-tica del secolo XX: ̈ le arti, un tem-po costrette a convivere nello stes-so ambito sia spazio-temporale (l’ar-chitettura di una cattedrale, il tempo sacro) sia mentale (la preghiera, la li-turgia, i referenti cristiani), si proteg-gevano e nutrivano a vicenda, anche se i vincoli della convivenza soffoca-vano o quanto meno rallentavano gli sviluppi di ciascuno dei vari linguag-gi artistici preso in sé. La pittura per eccellenza era la pala d’altare o l’affre-

sco nella navata o nella cappella o il mosaico nell’abside, la scultu-ra per eccellenza era l’effi gie marmorea o lignea di un santo sepol-to nella chiesa stessa, la poesia per eccellenza era la litiurgia (oppu-re la sua dissacrante parodia, come avvenne nei Carmina Burana), la musica per eccellenza era il cantus fi rmus liturgico, il teatro per ec-cellenza era la sacra rappresentazione, dapprima collocata accan-to all’altar maggiore, poi sul sagrato. Più tardi, le arti si separaro-no: la pittura trasmigrò nelle pinacoteche o nei palazzi regali e si-gnorili, la scultura nelle gliptoteche, negli atri e nelle piazze solen-ni, la poesia nei palazzi nobiliari, nella Accademie, nelle Univer-sità dove divenne disciplina didattica, poi sulle riviste specializ-zate e nelle case editrici. La musica fuggì anch’essa nei palazzi del potere laico, poi nei teatri pubblici e negli auditorii di varia natura, nonché nei salotti dei nobili e nelle ricche case borghesi, e anch’es-sa infi ne nei Conservatorii, nella pubblicistica specializzata e nel-l’editoria musicale. Il teatro seguì, in parallelo, una strada simile a quella della musica, e le due arti s’incontrarono nel teatro d’opera: fu un connubio ricchissimo di esiti insperati, straordinari, lungo un prodigioso sviluppo che dall’austera Rappresentazione di anima e corpo di Emilio de’ Cavalieri e dalla seriosa Dafne di Peri giunge fi -no al peccaminoso, dionisiaco e luciferino approdo del Sublime in Tristan und Isolde di Wagner.

Separate, autonome, libere di respirare in vasti spazi e in tem-pi secolarizzati, le arti si sono irrobustite, hanno trovato gratifi -cazioni imprevedibili, al di là di ogni speranza; ma non si sono più nutrite a vicenda. Illanguidita la parentela, esse si sono imma-linconite, e hanno perduto a poco a poco la capacità di parlarsi e di comunicare. Troppe volte si sono decontestualizzate (brutta parola, lo so!), o hanno corso il rischio di esserlo defi nitivamen-te. Oggi è urgente una ricontestualizzazione (parola addirittu-

Theodor Adorno

speciale —

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novecento / parte seconda

ra orrenda, ma comunque ci siamo capiti…) delle arti. Ne abbia-mo le prove. Per esempio, un linguaggio musicale che provenga dall’avanguardia dartmstadtiana pone seri problemi di signifi ca-to alla maggioranza del pubblico, ma diventa accettabile e persi-no emoziona quando si leghi a un testo incisivo nel quadro di un melòlogo. Ma l’esempio più convincente mi sembra quello del ci-nema. Già nel 1930 la Begleitmusik für eine Lichtspielszene di Arnold Schönberg si confi gurò, pur con tutta la sua diffi coltà di accogli-mento da parte del pubblico di allora, come modello di effi cacis-sime e graditissime colonne sonore di fi lm dal tema orrorifi co o misterioso o angoscioso. Vorrei limitarmi, avviandomi alla con-clusione, a un esempio dal quale, a suo tempo, fui molto colpito. Mi riferisco alla serie di cortometraggi The Twilight Zone ideata da Rod Serling e realizzata negli Stati Uniti da Cayuga Productions, e in particolare a un lavoro geniale, The Invaders, diretto da Douglas Heyes e trasmesso per la prima volta da un’emittente americana venerdì 27 gennaio 1961. Il sogget-to è di Richard Matheson, e mette in scena un unico personaggio che abi-ta in un «non luogo», un tugurio che più squallido e pauroso non potreb-be essere su una landa gelida e peren-nemente buia. Il personaggio unico è una donna (?), interpretata da una splendida attrice, Agnes Moorehead (pseud. di Agnes Robertson, 1900-1974), la quale per un’intera notte (ma notte e giorno sono tutt’uno, poiché le tenebre sono eterne) deve combat-tere contro orrendi e microscopici es-

seri che hanno invaso la sua dimora da incubo. Si scopre alla fi ne una mezza verità: la donna (?) combatte contro alieni giunti da un altro pianeta, e ne ha orrore. Ma la verità intera emerge alla fi ne: gli alieni sono terrestri, siamo noi, ed è la creatura «altra» e vagamen-te femminile l’essere di un altro pianeta gelido e tenebroso. Que-sto cortometraggio ha per colonna sonora la musica di Jerrold G. Goldsmith, nato a Los Angeles nel 1929 e autore, fra l’altro, del-le musiche per fi lm come Lonely Are the Brave («Solo sotto le stelle», 1962) di David Miller, Planet of the Apes («Il pianeta delle scimmie», 1968) di Franklin J. Schaffner, Tora! Tora! Tora! (1970) di Richard Fleischer, Chinatown (1974) di Roman Polanski, Alien (1979) di Ri-dley Scott, The Omen («Il presagio», 1976, Oscar per la musica) di Richard Donner, Poltergeist (1982) di Tobe Hopper, L. A. Confi den-tial (1997) di Curtis Hanson, The Mummy («La mummia», 1999) di Stephen Sommers. La musica di Jerry Goldsmith segue uno sti-le diverso per ogni diverso fi lm, e questo induce a defi nire il musi-cista californiano come eclettico, versatile, mimetico, adattabile. Tuttavia nei diversi stili circola un’aria di famiglia poiché i soggetti stessi (e i signifi cati) dei nove lungometraggi che ho citato conver-gono verso un canale collettore: l’angoscia dinanzi all’ignoto, de-clinata nella sue varianti. Nell’ordine con cui abbiamo nominato i fi lm citati: la desolazione della solitudine in spazi immensi, lo stu-pore folle dinanzi all’improvvisa apparizione del diverso (si noti che Rod Serling, ideatore della serie The Twilight Zone, è anche uno degli sceneggiatori di Planet of the Apes), la tensione in seguito a un attac-co tremendo e improvviso di un sanguinario nemico, un sinistro intrico d’inconfessabili misteri familiari, la fantascienza e l’orren-da presenza aliena (un’area narrativa affi ne a quella di The Invaders), il Diavolo nel mondo moderno secondo il fi lone ideativo esalta-to da Rosemary’s Baby e da The Exorcist), i fantasmi e gli scheletri che

infestano la «casa» entro un ambito sfruttatissimo dal cinema, gli enigmi della corruzione di potere politico e polizia, l’orrore «ar-cheologico» alla maniera delle avventure di Indiana Jones celebra-te da Harrison Ford. La fenomenologia or ora descritta è tutt’altro che superfi ciale: declinare in musica, secondo diversi casi e tem-pi e modi, un iper-tema vasto e complesso, ricchissimo sia emo-tivamente sia fi gurativamente sia narratologicamente, dà modo al compositore per fi lm di farsi le ossa e di affi lare gli strumenti di lavoro. La straordinaria musica per The Invaders, che precede cro-nologicamente tutti i fi lm prima citati e dotati di musiche gold-smithiane, è in verità un prodotto di genio. Rispetto alle svariate e abilissime contaminazioni che incontriamo in Planets of the Apes o in Alien o in Chinatown eccetera, essa è pura, radicale, originalissi-ma invenzione d’avanguardia musica, la più dura a digerirsi per le orecchie di un vasto pubblico dei secoli XX-XXI. Eppure, orga-nizzata in The Invaders e ricontestualizzata fi gurativamente, nar-

rativamente e culturalmente, quella musica «passa», e l’ascoltatore medio la capisce perfettamente, e non cer-to perché gli elementi extramusica-li «spieghino» o «raccontino» un di-scorso di suoni organizzati che altri-menti nessuno intenderebbe. No: semplicemente, a contatto con gli al-tri elementi del fi lm (tema, soggetto, sceneggiatura, movimento, sequen-ze…) è come se una bacchetta magi-ca sciogliesse la lingua a quella musi-ca asperrima inducendola a guardar-ci in faccia e a parlarci.

È recente la rifl essione, intrisa di umor funereo, che con rara in-telligenza ci comunica Goffredo Fofi (Memorie al presente, in «Film TV», XVI, n. 6, 29 giugno - 5 luglio 2008, pp. 24-25). Osserva Fo-fi : fi nita l’epoca delle rivoluzioni e della speranza del futuro, torna-no ad essere importanti gli autori che hanno ragionato in termini sovrastorici: Dreyer, Buñuel, Fellini, Kubrick. Per il resto, in Ita-lia e altrove impera la «frenesia damsiana», i critici cinematografi ci sono diventati professori, che fanno al massimo autopsie di cada-veri, oppure i critici-funzionari, che non campano più con i gior-nali, ma con festival, rassegne, trasmissioni, oppure gli assessori alla cultura e il loro modello, il veltronismo. «Il cinema è morto, è morta la funzione democratica e progressista che ha rappresen-tato nel Novecento».

Le parole di Fofi valgono in pieno nel momento presente. Tut-tavia, ci permettiamo di aggiungere che il cinema, grande va-lore culturale in sé e grande lascito del Novecento, può svolge-re anche un compito ausiliario e propellente senza perdere auto-nomia. Il cinema può essere l’oscuro, incerto, fragile, forse uni-co varco d’uscita dalla crisi che investe arti di esso più antiche per nascita storia, ma non forse per destino segnato ab origine, negli archetipi dell’invenzione riservata agli artisti. Certo, la musica è linguaggio assoluto, e i suoi signifi cati possiedono un’eloquen-za integrale. Eppure – ed è un innegabile paradosso – le innume-revoli occasioni in cui la musica si associa ad altri linguaggi dan-no esiti di grande bellezza e di profondo signifi cato, e aggiungo-no «qualcosa in più». Forse il paradosso non è più tale se osservia-mo che quegli altri fattori linguistici aggiungono qualcosa non al-la musica bensì al destinatario del’associazione tra linguaggi: a noi che ascoltiamo. La musica è comunicazione assoluta di signifi -cati, ab aeterno: noi siamo relativi e perennemente incompleti. ◼

Planet of the Apes, 1968

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novecento / parte seconda