Novecento I e II, iconografie di un mondo piccolo

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Cristina Voto [email protected] Novecento I e II, iconografie di un “mondo piccolo” 1. Sul bisogno di inventare il vero il 1876 e in una lettera indirizzata alla contessa e patriota Clara Maffei, Giuseppe Verdi ricorda come: “copiare il vero pu essere una buona cosa, ma inventare il vero meglio, molto meglio. Copiare il vero una bella cosa, ma una fotografia, non pittura" 1 . Passano gli anni, cento per la precisione, e un altro epistolario, quello tra il poeta Attilio Bertolucci, padre di Bernardo e Giuseppe, e Cesare Zavattini, padre del neorealismo, ci ripropone quasi lo stesso tema. Il contenzioso qui il film Novecento, opera piuttosto controversa e che all'epoca scaten non poco malumore nei confronti del giovane regista. “Non pu fare altro - ammonisce Attilio al maestro - perch non un <<talento>> , un <<poeta>> (...) voleva parlare soprattutto alla gente: e c' riuscito. Ma non perch abbia rinnegato la sua natura, ma perch l'ha buttata nella fornace della “big production” con incoscienza. Cos ha scontentato i Giorgio Amendola (cos romano, riduttivo, rondista di fondo anche se coraggioso nella lotta), ma ha commosso la gente di Fidenza o del cinema Adriano” 2 . il 1976 e mentre nelle sale vengono proiettati film come Il Casanova di Federico Fellini (Federico Fellini, 1976) Todo Modo (Elio Petri, 1975) e il nostro Novecento, per le strade, in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche, risuonano forti le sollecitazioni degli Indro Montanelli a votare per la Democrazia Cristiana, anche “turandosi il naso”. Il temuto “sorpasso” del partito di sinistra, comunque, non avverr mai ma il PCI ai massimi 1 Giuseppe Verdi (a cura di A. Oberdorfer), Autobiografia dalle lettere, Milano, Rizzoli, 1951, p. 281. 2 Attilio Bertolucci – Cesare Zavattini (a cura di G. Conti, M. Cacchioli), Un'amicizia lunga una vita. Carteggio 1929 – 1984, Parma, Monte Universit Editore, 2004, pp- 357 – 360. 1

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Bertolucci e la sua Bassa, i suoi paesani, il suo Po e i suoi filari di pioppi. La Bassa e la Storia, il socialismo agrario, l'avvento del fascismo, la grande guerra, la Resistenza e la Liberazione. In un valzer tra rievocazione storica e mitologie, il regista tesse la grande tela agreste che racconta del segreto della nostra condizione umana e delle nostre vicissitudini, ancora oggi. La materia viva di quel mondo diventa allora exemplum di vita e di impegno sociale, monito al di là delle ideologie, che ricordi al pubblico della necessità di emanciparsi dai soprusi, da ogni sopruso. E in tutto questo poesia, messe in scena da epica, continui richiami a colori e motivi che hanno visto in quegli stessi paesaggi la loro scenografia naturale. La tensione tra realismo e idealizzazione diventa un continuo richiamo a forme e icone di grande impatto emotivo, e le memorie personali non possono che fungere da traino di quelle culturali. È un cinema che ritorna alla sua forma primitiva e forse più autentica, che fa sognare di mondi lontani, ma che scuote con estrema brutalità riportando alla ragione del presente la trama dei fatti, sempre attuali e di grande valore civile.

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Cristina [email protected]

Novecento I e II, iconografie di un “mondo piccolo”

1. Sul bisogno di inventare il vero

E il 1876 e in una lettera indirizzata alla contessa e patriota Clara Maffei, Giuseppe Verdi ricorda come: “copiare il vero puo essere una buona cosa, ma inventare il vero e meglio, molto meglio. Copiare il vero e una bella cosa, ma e una fotografia, non pittura"1. Passano gli anni, cento per la precisione, e un altro epistolario, quello tra il poeta Attilio Bertolucci, padre di Bernardo e Giuseppe, e Cesare Zavattini, padre del neorealismo, ci ripropone quasi lo stesso tema. Il contenzioso e qui il film Novecento, opera piuttosto controversa e che all'epoca scateno non poco malumore nei confronti del giovane regista. “Non puo fare altro - ammonisce Attilio al maestro - perche non e un <<talento>> , e un <<poeta>> (...) voleva parlare soprattutto alla gente: e c'e riuscito. Ma non perche abbia rinnegato la sua natura, ma perche l'ha buttata nella fornace della “big production” con incoscienza. Cosi ha scontentato i Giorgio Amendola (cosi romano, riduttivo, rondista di fondo anche se coraggioso nella lotta), ma ha commosso la gente di Fidenza o del cinema Adriano”2.

E il 1976 e mentre nelle sale vengono proiettati film come Il Casanova di Federico Fellini (Federico Fellini, 1976) Todo Modo (Elio Petri, 1975) e il nostro Novecento, per le strade, in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche, risuonano forti le sollecitazioni degli Indro Montanelli a votare per la Democrazia Cristiana, anche “turandosi il naso”. Il temuto “sorpasso” del partito di sinistra, comunque, non avverra mai ma il PCI e ai massimi storici: alla camera 227 seggi sono in mano alla fazione comunista e 263 agli esponenti dello Scudo Crociato.

E in questo clima politico che i trecentoventicinque minuti girati tra il 1974 e il 1975 da Bertolucci, intrisi di simboli afferenti al socialismo agrario e bandiere rosse, smuovono l'immaginario collettivo: mentre nelle sale italiane il pubblico ne decreta il successo, un giudice di Salerno, sollecitato dalla denuncia di un membro di un'associazione di reduci, ordina, abusivamente e senza effettivo successo, il sequestro del film3. Negli Stati Uniti, invece, il film viene ritirato dai circuiti distributivi dopo solo alcuni giorni di programmazione per essere riproposto integralmente quasi venti anni dopo, nel lontano 1991.

Fa quasi sorridere oggi, ma il dittico sulla “Bassa” padana disturba allora piu dei documenti “dal vero” di quegli stessi anni, pensiamo giusto per citare un esempio celebre,

1 Giuseppe Verdi (a cura di A. Oberdorfer), Autobiografia dalle lettere, Milano, Rizzoli, 1951, p. 281. 2 Attilio Bertolucci – Cesare Zavattini (a cura di G. Conti, M. Cacchioli), Un'amicizia lunga una vita. Carteggio 1929 – 1984, Parma, Monte Universita Editore, 2004, pp- 357 – 360. 3 S. Socci, Bernardo Bertolucci, Milano, Il castoro cinema, 2008.

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allo scomodo documentario diretto nel 1974 da Paolo Pietrangeli: Bianco e Nero, sulle collusioni di una parte della DC con il Movimento Sociale Italiano, alla volta di un nascente neofascismo. Certo, c'e la questione distributiva in ballo, la “big production” ricordata dallo stesso Attilio. Ma siamo davvero sicuri che il timore nato intorno a quei contadini avvolti in fazzoletti rossi stia tutto nella riconoscibilita della fisionomia di Burt Lancaster o di Stefania Sandrelli? E dov'e finito il meglio cui alludeva Verdi? Bianco e Nero e senza dubbio un documentario “buono”, alla luce anzitutto del sentito impegno politico e sociale messo in scena, ma Novecento e “meglio”, e lo scarto sembra prender forma proprio dal “fare pittorico” della macchina da presa di Bertolucci a dispetto del “fare fotografico” di quella di Pietrangeli.

Su questo stesso dibattito, sulla portata ora didascalica ora poetica del film, si e interrogata anche tanta critica dell'epoca. Le recensioni si dividono tra quelle che accusano il film di semplicita quasi scolastica4, oggetto d'accusa piu frequente le figure di Attila e Regina, colpevoli di simboleggiare una vena troppo sadica anche per il fascismo del Ventennio; e quelle altre che intravedono nelle sequenze del film tutta la portata mitica di un'epoca5. In entrambi i casi sembra, comunque, che tutte le tensioni di un preciso, ma controverso, periodo storico vengano prese di mira: la crisi culturale del '68, il sopraggiungere degli “anni di piombo” e la concorrenza televisiva che mette in discussione la portata nazional-popolare del cinema. A dispetto di un primo periodo attento all'hic et nunc del contesto sociale, il cinema degli anni settanta sembra ora dirigersi sempre piu alla scoperta della storia e della memoria nazionale dell'ultimo secolo. Pensiamo ad Amarcord (Federico Fellini, 1973), alla Trilogia della vita (Pier Paolo Pasolini, composta da Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972; Il fiore delle Mille e una notte, 1972) a L'Albero degli Zoccoli (Ermanno Olmi, 1978) o a C'eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974): voltare il capo verso il passato e il gesto che accomuna tutti questi registi e approvvigionare a quei valori che sembrano scomparsi, la via di salvezza indicata.

E in questi esempi che suona alto e potente il monito a “inventare il vero”, a costruire una memoria collettiva che passi innanzitutto dal filtro dell'esperienza personale, dal filtro dell'autobiografismo, perche come ammettera lo stesso regista: “l'autobiografismo e una malattia dei nostri giorni a cui non si sfugge”6. E sembra proprio il sentimento vibrante di chi sta dietro la telecamera a spaventare tanta critica e tanti giudici. Ecco che allora Bertolucci torna in Emilia, nella sua terra natia, a “lavare panni” e pellicole nel Po, nel grande fiume della sua infanzia. Con il film egli cerca di tradurre in immagini in movimento

4 Si veda la recensione firmata da Natalia Ginzburg e apparsa in “Corriere della Sera”, 2 ottobre 1976: “(...) trovo brutto in Novecento tutto: i contadini, che sembrano usciti a frotte da un vecchio e cattivo testo per le scuole elementari; i borghesi, che dovrebbero apparire stanchi e corrotti, l'immagine di una societa in sfacelo e risultano non appartenenti a nessuna societa e informi (...).”; o ancora quella di Giorgio Bocca in “La Repubblica”, 11 settembre 1976: “(...) In compenso [Bertolucci] avra modo di sapere che nella realta i conflitti di classe di quel tempo furono molto piu interessanti e piu drammatici di quanto lasci pensare il Grand Guignol sparso, qua e la, nel suo film, molto piu preoccupato del bello che del vero”. 5 Pensiamo solo per citare l'esempio piu celebre e altisonante alla recensione di Morando Morandini in “Il Giorno”, 4 settembre 1976: “(...) Ammiro le pagine di bravura spettacolari, quelle palesi (l'intervento della cavalleria, le donne sdraiate che cantano, i signori a caccia in barca) e quelle piu segrete (il duomo nella neve dove il vecchio Berlinghieri conserva le bottiglie). Ammiro le citazioni (quella di Eisentein nella chiesa con Romolo Valli dalla pelliccia di boiardo), la celebrazione dei riti contadini (il pranzo in casa Dalco), le eleganti soluzioni narrative (il treno nella galleria ligure che fa scattare di dieci anni in avanti il racconto).”. 6 Tratto dal documentario di G. Amelio, Bertolucci secondo il cinema, cortometraggio in 16 mm girato durante le riprese di Novecento.

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la lezione poetica del padre7; aspetti del folklore locale a lui cosi vicini, dal melodramma verdiano al teatro di stalla; adattando, infine, stilemi cari anche ai grandi maestri del cinema storico-nazionale come John Ford o Akira Kurosawa. E rifacendosi a questi esempi magniloquenti che la macchina da presa riesce ora a dare forma e vita a un grande affresco di eventi, dove Storia e storie si mescolano e si fondono. Il regista cerca, insomma di tradurre in immagini tutta la portata culturale e sensoriale di quel “mondo piccolo”, cosi come lo definiva Giovannino Guareschi, che si estende dalla provincia di Piacenza sino al mare Adriatico, riportandone alla luce tutta la tradizione iconografica in un dialogo serrato tra settima arte, pittura otto-novecentesca e melodramma.

2. La fiumana travolgente e l'immaginario contadino

Ogni opera artistica, cinematografica e non, contiene generalmente delle forme di invito testuale che servono a mediare progressivamente l'immersione dello spettatore nella diegesi e a garantire un minimo livello orientativo per l'interpretazione. Vediamo allora di capire che cosa succede all'inizio dell'Atto I di Novecento e di leggerne i risvolti nell'opera tutta.

Partiamo dai titoli di testa: dedica agli usi e ai costumi del mondo contadino, senza il quale il film non sarebbe nemmeno immaginabile, e zoomata da particolare a intero sull'icona comunemente piu rappresentativa di questo universo: Il Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo. “Tento la pittura sociale – ci informa sul finire dell'Ottocento il pittore piemontese – la mia aspirazione all'equita mi ha fatto ideare una massa di popolo, di lavoratori della terra, i quali, intelligenti, forti, robusti, uniti, si avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere il luogo ov'ella trova equilibrio”8. E fatto noto come il quadro non ottenne mai quel successo di pubblico che il suo autore si aspettava, a causare le critiche piu aspre fu, poi, quell'accusa di idealizzazione della massa, quanto mai lontana da ogni forma di realismo che la pittura dell'epoca iniziava invece a interrogare (si pensi, solo per favorire l'idea del dibattito, ai celebri esempi del realismo francese). Ironia della sorte, invece, che gia mezzo secolo prima sulle ricche scene del teatro operistico fossero gli emarginati a illuminare i palchi e a commuovere gli spettatori: Rigoletto, nel lontano 1851, al grido di “Pari siamo!” portava all'urgenza del pubblico piu abbiente questioni quali i soprusi sociali e la subalternita della condizione femminile. Ma al di la dei due esempi illustri, l'attenzione al “quarto stato” nel panorama artistico e culturale a cavallo tra Otto e Novecento, e frequentemente un alternarsi di giudizi di asciutto perbenismo e rivendicazioni simboliche. Altra ironia, dal carattere forse piu antropologico, che tutti i nostri artisti siano accomunati da una certa vicinanza geografica col “grande fiume”: Roncole Verdi, frazione di Busseto (Pr) per il drammaturgo; Volpedo (Al) che sorge sul Curone, affluente di destra del Po, per il pittore; e Parma per il regista.

Raccogliamo, allora, tutti gli elementi fin qui analizzati: la celeberrima pittura del

7 Oltre all'influenza della produzione poetica del parde, in un intervista pubblicata su “La Repubblica” il 18 giugno 2006, e lo stesso regista a ricordare come durante la sua infanzia: “(...) Mio padre stava scrivendo il suo romanzo famigliare, La camera da letto, di cui mi era molto piaciuta una sequenza, il racconto del grande sciopero del 1908, quando i padroni, vedendo il grano marcire, si erano messi loro a mieterlo, quasi giocando, finendo col fare allegri picnic nella calura estiva della Bassa, al suono del pianto delle mucche nelle stalle: nessuno le mungeva, le mammelle si appesantivano fino a toccare il pavimento delle stalle (...)” scena che ritroviamo nell'Atto I di Novecento.

8 A. Scotti, Il Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo, Milano, Mazzotta, 1976, p. 96.

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1902, il nostro film, dove ai titoli di testa segue una prima sequenza simbolicamente datata 25 aprile 1945, e poi in flashback il triste e impastato lamento di un Rigoletto di campagna che annuncia la morte di Verdi, collocando cosi l'inizio della nostra vicenda nel 1901. Un aspetto riunisce tutte e tre le opere, il quadro, il dramma e il film: un rapporto piuttosto complesso e ambiguo tra la rappresentazione di una precisa realta storico-sociale, il mondo degli emarginati tra Ottocento e Novecento, e i linguaggi impiegati per la sua messa in scena, aspetto che diventa particolarmente evidente nel film.

Il cinema, infatti, piu di ogni espressione artistica, e riuscito nel corso degli anni a livellare le differenze sociali offrendo la propria visione a prezzi davvero modici e accessibili alle masse. Proprio per avvantaggiare questa caratteristica di universalita, il regista sembra abbandonare gli stilemi piu arditi, che gia avevano caratterizzato la sua produzione, a favore di uno sguardo piu semplice e vicino al melo. Pensiamo alla struttura portante del flashback: in La strategia del ragno (1970) Bertolucci alterna senza stacco alcuno presente e passato fino al limite estremo dell'interazione diretta tra le diverse dimensioni temporali e, ancora, ne Il conformista (1975) il gioco tra memoria, realta e fantasia diventa quell'unico magma che muove il protagonista. Qui, invece, assistiamo a un uso piu semplice dell'inversione narrativa mentre maggior attenzione e lasciata alla rievocazione di luoghi e saperi contadini largamente condivisi.

Anche qui, allora, come nel quadro, le accuse saranno quelle di non aver dato volto alla massa, ma solo a quei tre personaggi che avanzano nella scena cosi come in una coreografia: Robert De Niro, Gerard Depardieu e a turno Stefania Sandrelli e Dominique Sanda. Non convince l'idea di mettere in scena la cronaca della rivoluzione usando “corpi” di fama internazionale. Le contraddizioni tornano e il tentativo di conciliare tecnica narrativa del cinema classico, realismo sovietico con tanto di risvolto simil-cinese nel balletto finale, segnano ulteriormente la portata dello scontro. La storia che intreccia memoria, sogno e mito sembra essere la vittima maggiore di questa contraddizione cosi poco realista, ma a ben vedere il carattere della “saga padana” tesse tutta una trama di simboli ricorrenti che, presi nel loro insieme, racchiudono quella forza perturbante riscontrata all'epoca.

2.1 Al di la dei covoni, forme e icone del musical padano.

Ai titoli di testa segue l'incipit dell'Atto I, “25 aprile, giorno della liberazione” recita la didascalia. Una panoramica in campo lungo segue un giovanissimo partigiano lungo la sua passeggiata per un campo soleggiato, delimitato dall'argine del fiume e dai filari dei pioppi. Primo piano del giovane che avanza cantando melodie di resistenza. Controcampo e primo piano della mitraglia che lo uccide. Arranca il giovane, domandandosi del motivo della sua inutile morte nel giorno tanto atteso. Controcampo e altra panoramica: ed eccola li, a lavoro nonostante l'occasione di gaudio, la Bassa, le greggi al pascolo e il fieno da raccogliere. E sullo sfondo la citta che brucia, la citta dove si combatte la liberazione dal fascismo, mentre nelle campagne altre, e dal sapore atavico, sono questioni da risolvere: la liberazione dai padroni e l'emancipazione dei braccianti, prima di tutto.

Durante i primissimi minuti del film gia una soluzione tecnica segna quel contrasto tra realismo e idealizzazione nella resa dei fatti narrati: il campo lungo e il primo piano segnano corrispettivamente la lontananza e l'idillio del mondo pastorale da contrapporre alla

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vicinanza e alla violenza della societa moderna. La dialettica e ancora una volta quella tra il realismo di stampo documentaristico, che chiede alla macchina da presa di fotografare impassibile e da vicino gli eventi; e l'idealizzazione dell'immaginario autobiografico, che grazie alle luci, alle panoramiche e alle carrellate associate ai movimenti corali dei personaggi rende omaggio alla tela viva di forme e icone del mondo contadino novecentesco.

Lungo lo scorrere della pellicola regista e direttore della fotografia interpellano tutta una serie di immagini che su quegli stessi argini e tra quei filari avevano trovato la loro scenografia naturale. I riferimenti alla pittura tardo ottocentesca, a quella pittura che per prima, nel centro Italia, volgeva lo sguardo al mondo dell'agricoltura, da Giovanni Fattori a Silvestro Lega, sono diversi. Le tinte calde di quelle pitture, pensiamo all'esempio piu noto de Il riposo (1898) firmato da Fattori, sembrano le stesse proposte da Vittorio Storaro per l'Atto I, per segnare simbolicamente i toni della primavera e dell'estate di inizio secolo, come in occasione dell'ultimo “riposo” di Leo Dalco. Di notevole interesse sono poi i continui e diffusi riferimenti all'attivita e alla figura di Antonio Ligabue, pittore di origini svizzere che deve ai suoi trascorsi emiliani i motivi ricorrenti della sua produzione. Il pittore, dal vissuto piuttosto travagliato, diventa nello scorrere della trama un riferimento iconico continuo al punto tale da essere proposto, anche a livello figurativo, nella fisionomia e nei gesti del bracciante “Montanaro”. Il personaggio, che col suo atto estremo arriva a deprivarsi del corpo per liberarsi dalle costrizioni di una vita e affermarsi come individuo libero, piu di ogni altro incarna quella stessa “aspirazione all'equita” che anche Pelizza da Volpedo ricercava nelle sue opere. Durante tutta la sua carriera Antonio Ligabue ha saputo raccontare la vita quotidiana delle campagne padane con una semplicita comunicativa di grande impatto emotivo, alternando ferocia della natura, inquietudine e sofferenza, alla serenita agreste del locus amoenus, cosi come Bertolucci fa con la sua macchina da presa. Non pochi sono poi, nella produzione artistica dello svizzero, i punti di contatto con un altro pittore tardo ottocentesco vicino al mondo agreste, l'olandese Vincent Van Gogh, che ricorre anch'egli nelle immagini del regista, pensiamo alla sequenza della misera cena con polenta a casa di “Montanaro” che tanto rassomiglia alla poverta di cui la tela vanghogiana I mangiatori di patate (1855) porta segno in ogni pennellata. Ecco allora tutti i motivi di un immaginario ricorrere frequenti, facendo appello proprio a quei ricorsi culturali che delimitano quell'ideale pastorale presentato dal mondo diegetico.

In questa stessa direzione, i riferimenti alla pittura di Ligabue sono interessanti anche per dare forma ad altri motivi iconografici presenti nella pellicola, pensiamo ancora una volta al rapporto tra idealizzazione dell'universo messo in scena e effettiva portata di quel mondo nel contesto storico-sociale del Novecento. Ridurre il valore artistico di Ligabue ponendolo al di fuori della “ragione dell'arte” e fatto davvero semplice e scontato, certo l'istinto gioca un ruolo notevole nella sua produzione e la malattia mentale sembra essere il solo motore trainante, ma l'analisi deve avere il coraggio di andare oltre le semplici risposte. Una regola e sicuramente rintracciabile anche nella sua pittura, per quanto empirica e non precisamente accademica, e non sono pochi i critici che vedono in Ligabue un autonomo continuatore del filone primitivista italiano, seppur lontano dai circoli artistici maggiormente ortodossi. Lo stesso Vittorio Sgarbi, nella sua veste di critico, parla del pittore come di un “primitivista diretto”9, giunto a un certo tipo di maniera non attraverso il

9 V. Sgarbi, “Prefazione”, in A. A Tota, M. dell'Acqua (a cura di), Tutto Ligabue. Catalogo ragionato dei dipinti, Parma, Augusto Tota Editore, 2005.

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solito percorso a rebours, ma attraverso un percorso altro, dal gusto piu personale, piu autobiografico diremmo noi. Di questo altro Ligabue certamente non si negano i tormenti ma bisogna riscattare le sue opere dall'esclusiva follia geniale, dal sapore forse troppo romantico, rintracciando piuttosto nella poiesi del pittore il momento di quiete dal dominio della malattia, il “momento dialettico con la natura e con la societa”10. Qualcosa di simile sembra, allora, accadere anche nelle prime sequenze del film, dove i rapporti tra politica, psicologia e natura tessono tutta una trama di intrecci che fa della visione un'esperienza empatica piuttosto che a “ragione dell'arte”. Prendiamo la scena, piuttosto truce delle donne, che, armate di forconi, rincorrono i loro sfruttatori per porre fine ai soprusi subiti. La sequenza e ripresa con maestria e controllo della materia davvero notevoli, con particolari stilemi e riferimenti al dorato mondo del musical americano e che, paradossalmente, per nulla stonano con la violenza dell'episodio messo in scena. L'idea di muovere le donne come fossero parte di un corpo di ballo con tanto di giovane veggente etolie, di seguirle nei movimenti alternando ampi movimenti di macchina e carrellate a mano, a riprese in dettaglio che si svolgono poi in gesti corali, come nel caso della presa dei forconi sulle balle di fieno all'inizio della corsa, nasconde in realta un intento ben piu ampio della semplice citazione di stile. E lo stesso Bertolucci a dar piena forma a questo piccolo esercizio di regia in occasione di un'intervista pubblicata su “la Repubblica” qualche anno fa, egli ricorda come il suo intento nel girare il film fosse quello di creare “un' epopea, in qualche modo anche un musical, per ricordare al nostro paese, e anche fuori di esso, che la nostra cultura per secoli e secoli era nata nelle campagne, e che, se non i nostri padri, i nostri nonni lavoravano la terra. (...) Essendo vicino a Pasolini ero anch'io impressionato da quella cosa che un po' tutti sapevano, ma che lui aveva cosi drammaticamente indicato: il genocidio delle culture locali e popolari, tesoro che il <<consumismo>> (termine di Pasolini) andava soffocando e distruggendo”11. In queste parole e racchiuso il senso ultimo del film, la necessita sentita come dovere intellettuale, di restituire a quell'immaginario in sfacelo la giusta dignita culturale, al di la dell'esattezza storica e della precisa documentazione politica. Qualcosa che anche Antonio Ligabue sentiva nell'avvicinarsi alla tela e che sembra difendere con tutte le sue forze: restituire al mondo pastorale e agreste la dignita di universo fondante la stessa cultura italiana. E, forse, e da rintracciarsi proprio in queste posizioni quella forza perturbante e censoria che il film ha scatenato durante le prime proiezioni. La presa di coscienza della radicalita di quel preciso immaginario contadino sicuramente stona con il momento storico, il 1976 cui si faceva riferimento all'inizio, pensiamo in questo senso, all'esemplarita e alla forza della sequenza dello sciopero del 1908. E lo stesso Bertolucci ad attribuire al padre Attilio l'originalita di questa scena la cui forza sta, ancora una volta, nell'idea di coralita, nella idea di aggregazione come possibile riscatto per i contadini. Poco ci importa sapere dei perche e dei per come sia nata la “Lega”, quello che ribadisce il regista nel film e l'importanza della sua esistenza e la necessita del suo riconoscimento come motore sociale, ancora oggi. E cosi che Bertolucci sembra risolvere tutti i nodi del contenzioso realismo-idealizzazione, ribadendo la necessita di ricostruire un bagaglio comune di memorie, che superi le diatribe della veridicita dei fatti, non siamo di fronte a un documentario, e la testimonianza del vero sembra accarezzare gli eventi, non sorreggerli. Qui il problema e quello di riempire quel vuoto che il regista, assieme a illustri colleghi inizia ad avvertire. Un vuoto creato dalla ricostruzione moderna e dallo sviluppo

10 Ibid.11 Novecento, parola di Bertolucci: “Tutto e cominciato col rito del maiale”, di Beppe Sebaste in “la Repubblica”, 18 giugno 2006.

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industriale, che sembra dimenticare tutto quel patrimonio che aveva caratterizzato la nostra cultura, ben prima dell'unita nazionale. E alla luce di queste riflessioni che trova una corretta giustificazione anche il titolo del film. Perche intitolare “Novecento” un'opera che si ferma ai solo primi quarantacinque anni del secolo? Che ne e degli ultimi cinquantacinque?

3. “Non ci sono piu padroni!”, utopie e realta della Liberazione

Dopo il flashback il film riprende circolarmente li dove lo avevamo lasciato: 25 aprile 1945, un gruppo di donne corre all'impazzata a rivendicare i propri diritti e, ora, dopo aver vissuto assieme ai protagonisti maltrattamenti e ingiustizie, la loro ferocia puo dirsi appieno giustificata. Guidate da una giovane “veggente” che, in cima a un covone, racconta di sogni e speranze all'orizzonte, ecco d'improvviso materializzarsi la realta in tutta la sua brutalita: gli sfruttatori si nascondono e tentano la fuga, e il momento di reagire alle angherie di una vita. La dialettica tra sfruttatori e sfruttati, tra borghesi e contadini ha nel la forma del non-vedere-cio-che-e e vedere-cio-che-non-e un aspetto di particolare interesse. Realizzato dalle due figure femminili chiamate a rappresentare i due universi, la giovane contadina Anita e la futurista Ada, il gioco della visione e reso significativo nella trama come possibilita di affrancamento dalla propria condizione sociale, tant'e che chi si rifiutera di vedere trovera la salvezza solo nella fuga, come ammissione della sconfitta di un mondo.

Quindi i nemici son presi, la guerra e oramai finita e la liberazione avvenuta: ora c'e tutta una vittoria da fronteggiare. Il film, nei due atti, ci ha raccontato di lotta di classe, di avvento del fascismo e della guerra: ora e il momento della liberazione, che nell'ultima parte dell'Atto II assumera risvolti simbolici fondamentali nella dialettica ideologica dell'opera tutta. Se il film si apriva sullo sfondo di una guerra finita, nonostante il dettaglio al locale, al primo piano e alla scanzonata passeggiata del partigiano, ora tutti i protagonisti e tutti quegli stessi volti si trovano a dover fronteggiare gli abusi subiti. Il giovane partigiano e presto ucciso e i fascisti scappano: la liberazione non e ancora del tutto avvenuta e la Resistenza non puo fermarsi ora. La lotta prende sempre piu caratteri universalistici e la forma del trionfo dell'egalitarismo sembra esserne motore privilegiato. Il padrone e catturato e la giustizia sociale puo finalmente iniziare il suo lavoro: abolizione della proprieta privata, ridistribuzione delle terre a chi le ha coltivate e istituzione del tribunale popolare, chiamato a giudicare il nemico.

C'e qualcosa nell'ultima parte della nostra saga padana che ricorda le vicende di un'altra storia di contadini di un altro secolo, pensiamo, infatti, alle “Novelle rusticane” di Giovanni Verga e in particolar modo alla novella Liberta. Certo qui si tratta di altri sfruttatori e di altre ragioni politiche, siamo nella Sicilia di meta Ottocento e nell'isola il contenzioso e la liberta di impossessarsi di quelle terre lavorate per generazioni e generazioni dai contadini. Ma qui, a lotta compiuta, sono gli stessi Nino Bixio e i garibaldini ad arrestare, processare e uccidere i paesani, i sabotatori dell'ordine ufficiale; qui la rassegnazione di una vita, determinata da leggi sociali che non possono essere sovvertite da alcuna azione, risuona forte. Bertolucci e certamente meno pessimista dello scrittore, e l'utopia a prendere il sopravvento sulle valli del Po, la macchina da presa non documenta fatti e personaggi, come fa la penna di Verga, ma narra, reinventando immagini e motivi, una poetica contadina che vuole risuonare come esemplare ancora oggi. E l'utopia e fuori sia

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dalla Storia sia dalla realta, e il disperato monito a “svegliarsi” gridato da Olmo e dalla sua compagna in occasione del brutale incendio alla Casa del Popolo, al quale Bertolucci risponde con un'altra messa in scena da musical: dal dettaglio disperato dei due sfruttati, la macchina da presa si alza, come in una specie di volo, in un sospiro holliwoodiano che restituisce alla scena l'esemplarita della finzione cinematografica. E per quanto la Storia cerchi in ogni modo di entrare nel mondo diegetico, pensiamo all'arrivo del Comitato di Liberazione Nazionale o all'affermazione della vittoria finale del padrone, qui l'urgenza e riprendere il passato come exemplum affinche possa servire da fondamento per il presente della visione cinematografica e per il futuro del contesto culturale. Vividi risuonano cosi gli accenni al clima politico del 1976, al tanto biasimato “compromesso storico”, a quella ricerca di consensi che sembrava mobilitare il Partito Comunista e che Bertolucci, nemmeno troppo velatamente, addita come motivo primo del persistere dell'imperialismo conformista, principale responsabile della perdita di quei valori impressi, con abilita davvero pittorica, nei volti vivi dei paesani.

Se il padrone e ancora vivo, come e possibile spezzare definitivamente la tirannia? Ecco che allora la liberazione assume qui i caratteri simbolici che dovranno servire da base anche per i cinquantacinque anni che seguiranno quel 25 aprile: siamo di fronte a una rivoluzione sociale che deve sapere di poter invertire lo status quo, per quanto mai definitivamente sovvertito, ne nel film ne nella realta. “Il padrone e vivo” puo, infatti, ripetere pacatamente il proprietario terriero, come a dire che dal 1945 al 1976 nulla e cambiato e ancora i padroni sono tutti vivi, forse ora piu mascherati, piu imborghesiti ma ancora li presenti. “Quando Paese Sera organizzo una tavola rotonda con, tra gli altri, Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta del PCI, alla fine del primo atto (dopo l' episodio della morte dei vecchi nell'incendio dei fascisti alla casa del popolo) Pajetta era quasi con le lacrime agli occhi. Alla fine, invece, era furioso, perche il secondo atto si basava, disse, su un falso storico: <<Nel '45 non abbiamo mai fatto il processo ai padroni>>. In quel momento ebbi una specie di brusco risveglio dal mio sogno. Risposi: <<Capisco il momento storico, e che non avete fatto nel 1945 il processo al padrone, coi contadini seduti in cerchio, ma e possibile che avete paura di un film che fa il processo ai padroni nel 1976?>>12. La risposta di Bertolucci sembra essere molto chiara: la possibilita di emancipazione da qualsiasi oppressione esiste, deve esistere e l'utopia, il vedere cio che ancora non e ma che presto sara, e il fucile che il cittadino socialmente cosciente deve imbracciare per potersi difendere, altrimenti e la cecita e alla cecita non puo che seguire la fuga e alla fuga la sparizione, come nel caso della bella Ada.

E Novecento allora non puo che far paura, ieri come oggi, perche memoria espressiva, quasi visionaria, di un'epoca che sembra aver smarrito la propria identita, mortificata da tanto revisionismo storico e narcotizzata da tanto “consumismo”; fa paura perche messa in scena della forza della coralita, anzitutto stilisticamente. Questo e un cinema cosciente del proprio valore etico e sociale, del proprio essere testo e testimonianza viva all'interno di una cultura. E un cinema che porta con se le storie della Storia, mondi dispersi, canti da tanto inascoltati, volti del passato, immortalati solenni dalla suggestiva fotografia di Storaro, che alterna lo scorrere degli anni allo scorrere delle stagioni, impressionando l'unicita dei fatti nell'esemplarita del racconto. Ma non solo, questo e anche un cinema di grande suggestione figurativa, di ampi movimenti di macchina, di tagli arditi

12 Ibid.

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delle inquadrature, di ricco senso compositivo e che bene sa alternare lirica e epica, controllo della materia e trasporto personale, alternando memorie personali e memoria collettiva. In una dialettica che guarda al vero reinventandolo, cosi come insegnava Verdi, Novecento diventa la storia esemplare di tutte quelle storie sussurrate da tanti volti ignoti, roccaforte viva di un mondo che vuole, e deve restare, piccolo.

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