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17/08/13 Treccani, il portale del sapere www.treccani.it/enciclopedia/trasmissione-delle-iconografie_(Enciclopedia-dell'-Arte-Antica)/?stampa=1 1/24 Trasmissione Delle Iconografie Enciclopedia dell' Arte Antica - stampa TRASMISSIONE DELLE ICONOGRAFIE (v. vol. iv, p. 84, s.v. Iconografia). - Egitto e Vicino Oriente. - L'iconografia, prescindendo dalla definizione di E. Panofsky, viene qui intesa come analisi di tutto ciò che concerne il significato delle immagini: la loro ermeneutica. Sulla base di questa definizione, le immagini appaiono come elementi del vissuto, della realtà politica, sociale e culturale delle società che in esse si riflettono. E come tali esse esprimono messaggi differenti o quanto meno valorizzati in maniera diversa secondo l'epoca, l'area, il modo e il mezzo di espressione. La storia dei motivi e della loro trasmissione si lega, oltre che al contesto storico, a quella dei «generi» nei quali la produzione artistica si esprime. L'articolazione per «generi», che ha una sua realtà concreta, nel caso specifico dell'antico Oriente è tale da richiedere che le categorie vengano tenute in conto nella considerazione delle espressioni artistiche. La tipologia, infatti, indica le condizioni entro le quali il processo creativo opera, le tradizioni ambientali che incontra e il modo nel quale con queste si confronta; i fattori economici, politici e religiosi dai quali l'artista non può prescindere. La stessa specializzazione artigianale e le funzioni politico-religiose della produzione, che attestano il primo rapporto permanente tra committente e «produttore dell'arte», favoriscono l'emergere di tendenze che portano alla costruzione di patrimoni di conoscenze e di esperienze. La mancanza della coscienza dell'individualità dell'arte e della sua autonomia è alla base dell'aderenza alla tradizione, che sembra caratterizzare il Vicino Oriente, contrapposto alla Grecia. Tradizione che è intesa come modello di riferimento, complesso di scelte tematiche, tecniche e talora stilistiche, di moduli iconografici, ai quali gli artisti erano tenuti a conformarsi per motivazioni legate alle funzioni della stessa arte e delle sue finalità, derivanti dalla originaria tipica natura palaziale-templare e quindi religioso-votiva. E ancora nelle «interconnessioni» che caratterizzano l'arte del Vicino Oriente, l'impronta formativa delle c.d. civiltà superiori si conserva appunto nell'eredità di un patrimonio figurativo di tradizione millenaria, che viene trasmesso diacronicamente, sia pure mediato, anche in Occidente. È evidente che la canonizzazione del modello originario, legato al potere politico assolutistico che lo ha espresso, viene meno nel corso dell'irradiazione; il motivo iconografico subisce inevitabilmente innovazioni, alterazioni, evoluzioni legate anche alla sua utilizzazione nei diversi generi artistici, dai maggiori (rilievo in senso lato) ai minori

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Trasmissione Delle IconografieEnciclopedia dell' Arte Antica - stampa

TRASMISSIONE DELLE ICONOGRAFIE (v. vol. iv, p. 84, s.v. Iconografia). - Egitto e

Vicino Oriente. - L'iconografia, prescindendo dalla definizione di E. Panofsky, viene qui

intesa come analisi di tutto ciò che concerne il significato delle immagini: la loro

ermeneutica. Sulla base di questa definizione, le immagini appaiono come elementi del

vissuto, della realtà politica, sociale e culturale delle società che in esse si riflettono. E come

tali esse esprimono messaggi differenti o quanto meno valorizzati in maniera diversa

secondo l'epoca, l'area, il modo e il mezzo di espressione. La storia dei motivi e della loro

trasmissione si lega, oltre che al contesto storico, a quella dei «generi» nei quali la

produzione artistica si esprime.

L'articolazione per «generi», che ha una sua realtà concreta, nel caso specifico dell'antico

Oriente è tale da richiedere che le categorie vengano tenute in conto nella considerazione

delle espressioni artistiche. La tipologia, infatti, indica le condizioni entro le quali il processo

creativo opera, le tradizioni ambientali che incontra e il modo nel quale con queste si

confronta; i fattori economici, politici e religiosi dai quali l'artista non può prescindere.

La stessa specializzazione artigianale e le funzioni politico-religiose della produzione, che

attestano il primo rapporto permanente tra committente e «produttore dell'arte»,

favoriscono l'emergere di tendenze che portano alla costruzione di patrimoni di conoscenze

e di esperienze. La mancanza della coscienza dell'individualità dell'arte e della sua

autonomia è alla base dell'aderenza alla tradizione, che sembra caratterizzare il Vicino

Oriente, contrapposto alla Grecia. Tradizione che è intesa come modello di riferimento,

complesso di scelte tematiche, tecniche e talora stilistiche, di moduli iconografici, ai quali gli

artisti erano tenuti a conformarsi per motivazioni legate alle funzioni della stessa arte e

delle sue finalità, derivanti dalla originaria tipica natura palaziale-templare e quindi

religioso-votiva. E ancora nelle «interconnessioni» che caratterizzano l'arte del Vicino

Oriente, l'impronta formativa delle c.d. civiltà superiori si conserva appunto nell'eredità di

un patrimonio figurativo di tradizione millenaria, che viene trasmesso diacronicamente, sia

pure mediato, anche in Occidente.

È evidente che la canonizzazione del modello originario, legato al potere politico

assolutistico che lo ha espresso, viene meno nel corso dell'irradiazione; il motivo

iconografico subisce inevitabilmente innovazioni, alterazioni, evoluzioni legate anche alla

sua utilizzazione nei diversi generi artistici, dai maggiori (rilievo in senso lato) ai minori

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(glittica, oreficeria, ecc.), che ne sfumano o ne alterano, fino eventualmente a vanificarlo,

l'originario significato storico o simbolico-religioso a favore di una valenza più decorativo-

ornamentale.

Considerate l'enorme ampiezza della documentazione in senso areale e cronologico nonché

la mancanza di omogeneità delle testimonianze, è inevitabile limitarsi a qualche

esemplificazione del discorso fin qui condotto. Si prenda uno schema tipico come quello del

faraone che afferra per i capelli il nemico vinto e lo abbatte. Le numerose ripetizioni del

soggetto fin dagli inizî della storia (la «paletta» di Narmer e i rilievi rupestri lasciati dai

primi faraoni nella penisola del Sinai) rivelano in Egitto l'indubbio intento propagandistico

della figurazione; anche l'immagine del vincitore che prende come un mazzo i nemici è un

ulteriore esempio del medesimo schema, nato in Egitto per il desiderio di esaltare le

conquiste effettuate, e poi trasmesso con realizzazioni diverse in tutto l'Oriente antico. A

questo stesso prototipo egiziano, attraverso il repertorio iconografico del Nuovo Regno,

risale il modello che appare riprodotto sulle coppe fenicie del VII sec. a.C.: l'immagine, per

quanto preminente, ha carattere allusivo e simbolico che trasfigura l'originaria realtà

storica dell'iconografia, anche se forse non è da escludere un'intenzionale ripresa del motivo

in funzione politica, in concomitanza con le direttive della dinastia saitica.

La scena, frequente nell'arte mesopotamica, dell'eroe che abbatte un mostro, emblema

delle forze distruttrici della natura, ha una realtà simbolico-religiosa, al pari del motivo del

giovane in lotta con il grifone, che tanta parte ha nella documentazione mediterranea di

ambito egeo-cipriota e fenicio. Indipendentemente dal fatto che alla base della

raffigurazione vi siano una o più narrazioni mitologiche, che l'eroe sia Gilgameš, o il Daniele

della Leggenda di Aqhat o l'egiziano Inaro o ancora il «Royal Hero», è evidente che il

motivo, pur con le diversità iconografiche legate alla stratificazione o alle varianti delle

tradizioni locali ovvero alle attestazioni su diversi media artigianali (avorî, gioielli, glittica,

toreutica, ecc.), conserva una sua costante e precipua valenza simbolica, che esula dalla

definizione temporale e che comunque può essere applicata anche a casi specifici e a

ispirazioni concrete con uguale valore semantico. In tal senso può essere esemplificativa la

lettura dell'iconografia quale Eracle in lotta con il leone nemeo, che appare sia nelle coppe

fenicie sia nella glittica di epoca punica accanto alla forma più aderente ai moduli originali.

Altrettanto significativa è l'iconografia della sfinge. La sua immagine in Egitto simboleggia

la potenza e la saggezza riunite nella persona del faraone, del quale quasi sempre la sfinge è

la rappresentazione. In virtù del suo stretto legame con la simbologia regale, nell'area

asiatica la sua figura viene presto adottata e adattata in versione anche femminile da

diversi generi artistici, che vanno dal rilievo alla scultura sia in pietra sia in avorio.

In ambiente fenicio la sfinge è presente in diverse categorie artigianali (avorî, gioielli,

glittica), ove conserva molti degli attributi originali egiziani (doppia corona, barba, ecc.) che

ne rivelano la lettura in chiave regale, come sembra suggerire anche il passo di Ezechiele

(28, 11-14), nel quale il profeta utilizza la sfinge quale simbolo della potenza del re di Tiro.

Ed è principalmente attraverso i «generi» dell'avorio di scuola fenicia e delle coppe, ai quali

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è affidato il patrimonio culturale «classico» proprio dei Fenici, che l'iconografia egiziana,

assieme a motivi assiri ed egei, viene inizialmente trasmessa nell'Occidente, ove passa

come eredità comune dell'Oriente antico. Le tematiche di remota origine orientale si

diffondono quindi nel mondo occidentale attraverso il fenomeno dell'irradiazione sia diretta

sia mediata e in conformità alle esigenze della committenza e alle richieste di un mercato

molto differenziato e totalmente estraneo alle realtà culturali che le hanno originariamente

create ed espresse.

Bibl.: M. Th. Barrelet, Les déesses armées et ailées, in Syria, XXXII, 1955, pp. 222-259;

E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, Torino 1962; P. Matthiae, Il motivo della vacca

che allatta nell'iconografia del Vicino Oriente antico, in RivStOr, XXXVII, 1962, pp. 1-31;

R. L. Scranton, Aestetic Aspects of Ancient Art, Chicago-Londra 1964; A. M. Bisi, Il

grifone. Stona di un motivo iconografico nell'Antico Oriente mediterraneo (Studi

semitici, 13), Roma 1965; W. Stevenson Smith, Interconnections in the Ancient Near

East, New Haven-Londra 1965; S. Moscati, Apparenza e realtà. Arte figurativa

nell'Antico Oriente, Milano 1976; E. Acquaro, Arte e cultura punica in Sardegna, Sassari

1984, pp. 94-103; G. Markoe, Phoenician Bronze and Silver Bowls from Cyprus and the

Mediterranean, Berkeley-Los Angeles 1986; D. Ciafaloni, Eburnea Syrophoenicia (Studia

Punica, 9), Roma 1992; C. Doumet, Un motif «sumérien» sur un cachet phénicien:

archaïsme ou modernité, in Akkadica, 81, 1992, pp. 29-36; G. Pisano, Una sfinge in osso

da Cadice, in RStFen, XXI, 1993, Suppl., pp. 63-73; D. Ciafaloni, Iconographie et

iconologie, in AA.W., La civilisation phénicienne et punique. Manuel de recherche, Leida-

New York-Colonia 1995, pp. 535-539.

(G. Pisano)

Grecia e Mondo romano. - Il problema della t. i. non può andare disgiunto da quello delle

modalità di formazione e diffusione di una cultura figurativa: in questo i due termini della

questione appaiono strettamente interrelati. Per cultura figurativa si intende un «sistema»

di immagini realizzate in base alle esigenze di una committenza - in un primo tempo

esclusivamente religiosa e politica, successivamente anche privata - che suggerisce

tematiche epico-mitiche ovvero storico-politico-sociali (Hölscher, 1987).

Una cultura figurativa si forma per creazione (intendendo con tale termine l'«invenzione» e

la realizzazione di un'opera specifica che costituisca l'inizio di una serie), standardizzazione

(vale a dire ripetizione seriale di un modello) e trasmissione del modello stesso, che viene

scelto non tanto per il suo valore storico-artistico quanto piuttosto per la sua

comprensibilità e funzionalità (Settis, 1989; Bejor, De Maria, Frugoni, Ghedini, 1993).

Opere di grande respiro sono rimaste confinate nell'ambito di una ristretta cerchia di

fruitori e non sono state né copiate né imitate, mentre creazioni artigianali si sono imposte

e hanno trovato diffusione sia all'interno di una determinata koinè culturale sia al suo

esterno.

Il problema della t. i. deve dunque essere indagato non tanto frammentandolo in ambiti

culturali diversi (cultura greca, etrusco-italica, romana), quanto esaminando i presupposti

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e le modalità secondo cui tale fenomeno si è realizzato; il che ci porta a distinguere in primo

luogo fra produzione a tutto tondo e produzione bidimensionale, ovverosia fra

composizione semplice (una o al massimo due iconografie) e complessa (più iconografie

inserite in un contesto narrativo).

La t. i. nell'ambito della produzione a tutto tondo di grandi dimensioni avveniva

sostanzialmente attraverso il sistema della copia da un modello (calco in gesso, copia ai

punti, ecc.: v. copie e copisti), mentre nel caso di prodotti di piccole dimensioni (terrecotte

e bronzi) poteva realizzarsi attraverso l'utilizzo della medesima matrice, eventualmente

riprodotta ed esportata, oppure attraverso la riproduzione a occhio o addirittura a

memoria di modelli consolidati.

La larga circolazione dei manufatti di piccole dimensioni, spesso ispirati alle creazioni

statuarie dei grandi maestri greci, contribuì grandemente alla diffusione del patrimonio

figurativo che in tal modo veniva acquisito da strati sempre più larghi di possibili

committenti.

Attraverso tale diffusione capillare, a cui si deve aggiungere l'ampia circolazione delle copie

delle sculture più rinomate e dei calchi in gesso delle stesse (Landwehr, 1985; De Maria,

1993, p. 229; Barone, 1994), si giunse alla formazione di un patrimonio figurativo

ampiamente condiviso dalla committenza.

Una bottega di scultori poteva dunque proporre al cliente un campionario di statue o

statuette oppure di bozzetti, ma anche creare su commissione del cliente un'opera nuova

che ricalcava, o meno, schemi o modelli largamente noti. Ne consegue che, se il proprietario

di una villa desiderava esporre nel suo giardino la ninfa con conchiglia, non era necessario

che si utilizzasse un calco o una riproduzione in scala del modello originario, in quanto esso

apparteneva al patrimonio figurativo sia del committente sia dell'artigiano. La nuova

creazione poteva dunque essere riprodotta a memoria e ciò rende ragione delle varianti

spesso assai significative che interessano modelli consolidati e che riguardavano

eventualmente ponderazione, attributi, acconciatura e altro.

Il problema risulta ben più complesso quando si passi dalla produzione a tutto tondo a

quella bidimensionale, in quanto questa è per lo più caratterizzata da composizioni

articolate, in cui si trovano ad agire diversi personaggi spesso inseriti in un contesto preciso

e caratterizzante.

E proprio sulla produzione a carattere narrativo (e in particolare sui mosaici) si è fissata

l'attenzione degli studiosi e si è aperta una querelle che vede contrapposti i sostenitori di

una trasmissione che potremmo definire «spontanea», in cui le analogie compositive

vengono giustificate sulla base di una cultura figurativa comune diffusa grazie alla mobilità

di oggetti e persone (artigiani, committenti; Bruneau, 1984), e quelli che sostengono invece

l'ipotesi di una trasmissione «intenzionale», basata cioè sulla riproduzione volontaria e

possibilmente puntuale di un modello specifico, il quale può essere copiato direttamente

dall'archetipo oppure tramite un intermediario tecnico (v. infra) realizzato in funzione della

trasmissione iconografica.

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Fermo restando che uno dei fattori determinanti di persistenza e diffusione degli schemi fu

senz'altro l'apprendistato presso le botteghe, dove si insegnava ai giovani a riprodurre, fino

quasi a giungere all'automatismo, i diversi modelli, sembra ora necessario cercare di

definire il diverso grado di incidenza sulla formazione di un repertorio di immagini di tutti

quei «vettori» che sono chiamati generalmente in causa per giustificare analogie o identità

iconografiche. Questi sono: la tradizione letteraria con le illustrazioni librarie; gli artigiani

itineranti; gli oggetti mobili (stoffe, vetri, manufatti toreutici, produzione ceramica,

emblèmata, sarcofagi); gli intermediarî tecnici (modelli in gesso, cartoni, punzoni).

1. Tradizione letteraria. - L'incidenza della tradizione epico-mitica sulla formazione del

patrimonio iconografico classico è fenomeno ampiamente noto e indagato: essa appare

infatti fonte primaria di ispirazione forse già nel Tardo Geometrico, certamente a partire

dal primo arcaismo e poi via via, seguendo le nuove creazioni e le diverse redazioni dei miti,

fino a età tardoantica. Ciò premesso, va tuttavia sottolineato che non altrettanto

chiaramente definiti appaiono da un lato il livello di dipendenza delle immagini dai testi

(formazione), dall'altro la funzione del testo stesso nella diffusione di uno schema figurativo

(trasmissione: cfr. Lavagne, 1978; Baldassarre, 1981; Gury, 1986). Se infatti appare

indubitabile che la narrazione omerica sia servita come fonte di ispirazione per la creazione

sia di raffigurazioni singole sia di interi cicli figurativi (basti ricordare la serie di tabulae

iliache, opera di Theoros di Samo: Plin., Nat. hist., xxxv, 144; sui cicli epici e mitici v.

Horsfall, 1983, p. 213), è altrettanto documentato che spesso la redazione figurativa si

stacca in maniera anche sostanziale dal testo. Se consideriamo episodî come il

trascinamento del corpo di Ettore, non si può non notare che nella ceramica attica, ma

anche in molte testimonianze posteriori, viene aggiunto un personaggio del tutto estraneo

alla tradizione omerica, vale a dire l'auriga Automedonte (Kossatz-Deissmann, 1981, n. 585

ss., passim); ciò può dipendere dal fatto che l'immagine si è ispirata a una narrazione

diversa da quella omerica oppure che alla sua formazione hanno contribuito altre

componenti, quali p.es. la suggestione della pratica bellica contemporanea che

presupponeva che il guerriero fosse accompagnato dal suo auriga. Analogamente, la scena

del riscatto è resa nella ceramica arcaica con la raffigurazione di Achille disteso sulla klìne,

secondo un costume introdotto in Grecia in età ben posteriore rispetto a quella in cui si è

formato l'episodio epico (Kossatz-Deissmann, 1981, n. 643 ss.; Ghedini, 1993, p. 162 ss.):

anche in questo caso il riferimento al costume coevo travalica sulla narrazione poetica.

Sembra dunque che in taluni casi la tradizione letteraria fornisca solamente il tema senza

influenzare minimamente la resa figurativa, che presenta soluzioni autonome. Di

conseguenza, perché sia possibile ritenere che un'immagine dipenda da una specifica

narrazione, essa deve puntualmente riprodurre i particolari caratterizzanti forniti dalla

narrazione stessa.

Per stabilire relazioni precise fra un dato testo e una data immagine è necessario anzitutto

che il testo presenti elementi caratterizzanti che consentano di istituire con la redazione

figurativa un rapporto sicuro. Se infatti analizziamo p.es. la tradizione iconografica relativa

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al rapimento di Europa da parte di Giove in forma di toro, non possiamo fare a meno di

ipotizzare che le numerose raffigurazioni comprendenti un toro (stante, accovacciato,

natante, ecc.) e una fanciulla (stante accanto all'animale oppure a cavalcioni su di lui, ecc.;

Robertson, 1988) siano da porre in relazione con la tradizione narrativa; e tuttavia risulta

altrettanto evidente che non appare possibile legare l'immagine al testo a causa della

genericità delle indicazioni letterarie che, se anche talvolta descrivono l'abbigliamento della

fanciulla, i gesti, l'ambientazione, danno tuttavia egualmente adito a varianti figurative

anche importanti. Inoltre la precoce fortuna dello schema della fanciulla a cavalcioni del

toro consente di ipotizzare una sua trasmissione autonoma attraverso la tradizione

figurativa senza il continuo ricorso alla descrizione letteraria.

Diversamente, quando si tratta di miti poco noti o di episodî di nuova creazione, è talvolta

possibile individuare uno specifico testo che può essere posto alla base di una tradizione

figurativa. Nel caso p.es. del gruppo di affreschi pompeiani riproducenti l'episodio di

Piramo e Tisbe in una versione che sembra attestata per la prima volta in Ovidio (Met., iv,

55 ss.), è difficile non ritenerli copia di una creazione esemplata proprio sul testo ovidiano

(Baldassarre, 1981).

Anche nel caso dei due mosaici di Aix-en-Provence e Villelaure con la raffigurazione

(altrimenti non documentata) del combattimento fra Darete ed Entello, il riferimento alla

narrazione virgiliana è così puntuale da consentirci di ipotizzare che un colto committente

abbia voluto, per ragioni che oggi ci sfuggono, eternare proprio quello specifico e poco noto

episodio dell'Eneide, che godette di una certa rinomanza nella tradizione letteraria tarda

(Polverini, 1984), ma di poca o nulla fortuna iconografica (Lavagne, 1978 e 1994).

Lo stretto legame che unisce testo e immagine è particolarmente ben esemplificato dalle

raffigurazioni riconducibili alla tradizione teatrale: dalla ceramica attica a quella

magnogreca, dai sarcofagi ai prodotti di lusso, dagli affreschi ai mosaici troviamo

innumerevoli testimonianze di iconografie teatrali (Webster, 1960, 1961 e 1962; Trendall,

Webster, 1971; Moret, 1975, pp. 260-272; Burkhalter, Arce, 1984; per ulteriori

approfondimenti e bibl. v. anche il paragrafo successivo Illustrazioni di libri). D'altronde il

testo teatrale, per sua stessa natura destinato a essere tradotto in immagini, meglio di altri

si prestava a una redazione figurativa, la quale poteva anche essere ulteriormente

influenzata dalle rappresentazioni vere e proprie.

Meno chiara appare invece la funzione dell'èkphrasis nella formazione del patrimonio

iconografico: è infatti assai difficile stabilire se la descrizione di un'opera, spesso puntuale e

minuziosa, nascesse dall'osservazione di un monumento reale, costituisse modello per una

redazione figurativa oppure, infine, fosse mera esercitazione retorica (sul problema v. da

ultimo Heffernan, 1991, pp. 297-316; Zeitlin, 1994, pp. 138-196; Goldhill, 1994, pp. 197-

223; Bryson, 1994, pp. 255-283).

Se prendiamo la descrizione della merenda all'aperto dopo la caccia, che costituiva

l'elemento centrale del quadro intitolato I cacciatori, descritto da Filostrato Minore

(Imag., 3), non si può non notare la somiglianza in numerosi particolari con monumenti di

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poco posteriori, quali il mosaico di Piazza Armerina o il piatto di Seuso: il retore parla infatti

di cinque commensali sdraiati su uno stibadium, di reti appese agli alberi, di servi

affaccendati, di una polla d'acqua in primo piano, elementi tutti che ritroviamo nelle citate

raffigurazioni in cui ritorna anche il commensale che offre un boccone al suo cane (Ghedini,

1992, p. 81). In tal caso Filostrato potrebbe aver tratto ispirazione da un quadro realmente

esistente oppure - ma ciò sembra meno plausibile - il suo testo potrebbe essere servito da

modello per una qualche composizione, poi variamente imitata nei secoli successivi da

mosaicisti, pittori, toreuti, tessitori, ecc. Ma se risulta difficile stabilire un rapporto di

priorità fra testo e immagine, sembra invece indubitabile che la descrizione filostratea

abbia contribuito alla fortuna di un soggetto che stava diventando di moda anche grazie al

trasparente significato di autorappresentazione sociale che era venuto assumendo (per

tutto il problema v. ancheEKPHRASIS).

In conclusione si può affermare che il ruolo della tradizione letteraria può essere

considerato determinante non solo per la formazione di un'iconografia (ricordiamo a tale

proposito che Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum, II, 17, descrive la

committente mentre tiene un libro in grembo e in esso legge «historias actionis antiquas,

pictoribus indicans quae in parietibus fingere deberent»), ma anche per la diffusione di un

tema. Del tutto ininfluente appare invece la tradizione letteraria nella trasmissione di una

determinata iconografia: infatti la lettura di un testo, anche se semplice e fortemente

caratterizzato, può dare luogo a una varietà quasi infinita di soluzioni (cfr. supra le

considerazioni relative a Europa; v. anche le diverse versioni di Danae nella pittura

pompeiana: Andersen, 1985, p. 119).

Accettato il presupposto che per riprodurre una determinata raffigurazione è necessario

conoscere direttamente l'originale o almeno una sua riproduzione, ne consegue che un testo

poteva al più avere la funzione di richiamare un'immagine, a patto che questa fosse già

entrata a far parte del patrimonio figurativo collettivo o personale; in tal caso l'artigiano

poteva decidere di riprodurla a memoria, di copiarla da altro monumento figurativo oppure

di ricrearla liberamente secondo la sua sensibilità.

Illustrazioni di libri. - I libri possono essere serviti anche da «vettori» più specifici per la

trasmissione di determinati schemi figurativi grazie alle illustrazioni che a partire dall'età

ellenistica sembrano aver arricchito prima i testi scientifici poi quelli letterari (Horsfall,

1983; Cavallo, 1989).

Nell'ambito delle illustrazioni di libri dobbiamo tuttavia distinguere fra le raffigurazioni

schematiche che troviamo nei testi più antichi (v. p.es. Papyrus Oxyrinchi, 22.2331;

Cavallo, 1991, fig. 250; Andersen, 1985), le quali appaiono poco più che silhouettes

(Cavallo, 1989, p. 717), e quelle più articolate e complesse, di cui abbiamo testimonianza a

partire dal II sec. d.C. sia su papiro (v. p.es. il frammento di rotolo del II sec. d.C. con la

raffigurazione al tratto di Amore e Psyche: PSI, 919; Cavallo, 1989, fig. 30; il papiro

Monacense 128 del IV sec. d.C. con l’abductio di Briseide, raffigurata sempre al tratto:

Frangini, Martinelli, 1981, p. 4 ss.; il papiro da Antinoe della metà del V sec. con un gruppo

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di aurighi effigiati a colori: Turner, 1973, p. 192 ss.; ulteriori riferimenti in Weitzmann,

1981, p. 48), sia su pergamena (basti ricordare tra l'altro l’Iliade Ambrosiana, la Itala di

Quedlinburg, la Genesi di Vienna, il Virgilio Vaticano).

Le dimensioni ragguardevoli delle raffigurazioni sopra citate, che talvolta si espandevano

fino a occupare l'intera pagina (Cavallo, 1989, p. 718, con bibl. sul problema), unitamente

alla chiara indicazione di particolari specifici e caratterizzanti (gesti, ambientazione, colori,

ecc.), ne fanno certamente «vettore» privilegiato, soprattutto in età tardoantica, non solo

per la diffusione dei temi ma anche per la conoscenza di certe soluzioni iconografiche.

L'interscambio fra le illustrazioni dei testi e le testimonianze monumentali risulta

particolarmente evidente qualora si passino in rassegna le raffigurazioni di soggetto

teatrale: in questo caso infatti accanto a scene genericamente ispirate ai diversi episodi

(che possono essere inserite in quelle esaminate al paragrafo precedente), troviamo

composizioni la cui dipendenza dall'illustrazione di libri sembra suggerita o dall'apposizione

dei nomi dei protagonisti o da precise citazioni di interi brani di dialogo oppure

dall'indicazione di elementi tipici del repertorio teatrale (strutture sceniche, personaggi

mascherati, gestualità accentuata, ecc.: Weitzmann, 1981, p. 45 ss.).

La ricchezza delle testimonianze rende impossibile un'esemplificazione esaustiva. Ci

limiteremo pertanto a ricordare:

le coppe a rilievo ellenistiche (c.d. coppe megaresi; Sinn, 1979; Weitzmann, 1981, p. 45 ss.,

figg. 1-2);

un bicchiere di vetro a Los Angeles (Weitzmann, 1981, p. 39 ss.);

gli affreschi del columbarium di Villa Doria Pamphilj;

il coperchio di sarcofago a Napoli (Schefold, 1976, p. 799, fig. 2);

i mosaici della Casa del Menandro a Mitilene (Kharitonidis, Kahil, Ginouvès, 1970);

alcuni mosaici e affreschi pompeiani (Weitzmann, 1981, p. 43; Ling, 1991, figg. 235-236);

un mosaico da Oéscus (Ivanov, 1994, tav. lxxxii);

alami affreschi di Efeso (Strocka, 1977, p. 53 ss., figg. 62-69, in particolare n. 85);

un mosaico a Fuente Alamo (Daviault, Lancha, Lòpez Palomo, 1987);

gli affreschi della «Tomba dei Ludi» a Cirene (Bacchielli, 1993, p. 91 ss.).

In tutti i casi citati il riferimento teatrale è stato ampiamente provato e l'ipotesi che le

immagini dipendano da illustrazioni di testi piuttosto che da rappresentazioni sceniche,

appare senz'altro plausibile.

Più complesso si presenta il problema qualora si cerchi di distinguere, nell'ambito delle

raffigurazioni epico-mitologiche o cristiane, tra quelle che possono dipendere da vignette e

quelle liberamente ispirate alla narrazione (cfr. paragrafo precedente). Un'indicazione può

venire dall'analisi delle modalità della narrazione: vale a dire quando la scena presenta

carattere riassuntivo, cioè contiene in sé spunti che consentano di ricostruire in sequenza

gli antefatti o le conseguenze del momento raffigurato (cfr. Meyboom, 1978:

Complementary Method), essa può essere più plausibilmente inserita fra quelle in cui il

testo appare determinante solo nella fase della formazione dell'immagine (Baldassarre,

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1981), mentre quando la raffigurazione fissa un momento unico dell'azione, secondo il modo

che è stato definito «monoscenico», allora può forse essere ricollegata al modello librario,

dal momento che una delle caratteristiche delle vignette dei libri consiste proprio

nell'istantaneità della narrazione.

Un ulteriore e più sicuro indizio di dipendenza dalle illustrazioni di testi può essere fornito

dalle citazioni letterarie apposte, a mo' di didascalia, alla raffigurazione stessa.

Sulla base di queste considerazioni potremmo ritenere riproduzione di illustrazioni da libro

il mosaico di Carranque con scene desunte dalle Metamorfosi di Ovidio (Fernandez

Galiano, 1994), gli affreschi pompeiani e il mosaico di Themetra illustranti la metamorfosi

di Aci, il mosaico di Low Ham con l'arrivo di Enea a Cartagine, il mosaico di Mopsuestia con

la storia di Sansone (Kitzinger, 1973, pp. 133-344), il tessuto di Sens con storie di Giuseppe

(Cavallo, 1991, fig. 252).

A ulteriore conferma dell'ipotesi che pittori e mosaicisti abbiano talvolta utilizzato vignette

da libri, possiamo ricordare che Sant'Agostino (Civ., 16,8 = 135, 24 D) descrive alcuni

mosaicisti intenti a decorare la platea maritima di Cartagine con immagini mostruose

«deprompta ex libris velut curiosioris historiae”.

2. Artigiani itineranti. - «Vettori» di cultura figurativa furono certamente gli artigiani che si

spostavano da una città o da una provincia all'altra portando con sé il proprio bagaglio di

conoscenze tecniche e figurative, il quale andava mano a mano arricchendosi anche grazie

alle nuove esperienze. Il ritrovare in aree lontane lo stesso schema iconografico può perciò

essere spiegato ipotizzando la presenza di un artigiano itinerante, che riproduceva a

memoria un'opera vista altrove, oppure realizzava per committenti diversi la medesima

raffigurazione (è ormai noto che gli antichi non erano ossessionati come noi dal presupposto

dell'originalità); tale opera poteva poi, successivamente, venire copiata fedelmente (o con

modifiche) dagli artigiani del luogo (nell'ambito della stessa o di una diversa manifattura

artigianale), dando origine a due serie parallele, ma sostanzialmente indipendenti in quanto

riferibili a due archetipi diversi, pur se opera di uno stesso artigiano.

Gli spostamenti di scultori e pittori di età arcaica e classica sono ben noti e attestati dalle

fonti; tale pratica si generalizzò ovviamente in età ellenistica, grazie al moltiplicarsi dei

centri di potere e all'allargarsi della clientela, come conferma, p.es., la carriera di famiglie di

scultori quale quella di Timarchides (v.), le cui peregrinazioni tra Atene e Roma sono state

oggetto di attenta ricostruzione (v. da ultimo Queyrel, 1991, pp. 448-464).

La forza di attrazione di Roma convogliò nella capitale, fra III e I sec. a.C., le firme più

rinomate nei varî campi della produzione artistica; successivamente, fra la tarda

repubblica e il primo impero, durante la grande fase espansionistica, si registra anche un

notevole flusso, dall'Italia verso le provincie, di botteghe artigianali che ponevano

tecnologia e cultura figurativa al servizio della nuova ricca committenza che desiderava

allinearsi allo «standard» di vita della capitale.

Non desta pertanto meraviglia il ritrovare a Cirta mosaici che possiamo ipotizzare eseguiti

da maestranze campane, giunte in Africa al seguito di quel Sittius di Nocera che ebbe in

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dono da Cesare una piccola porzione di territorio per i suoi servizi (Dunbabin, 1978, p. 255

s.). Sempre restando nell'ambito del mosaico si può ancora ricordare che i legami che

uniscono la produzione africana, almeno fino a età flavio-traianea, a quella italica oppure

quella aquileiese a quella gallica sono stati spesso giustificati proprio con l'ipotesi di

spostamenti di botteghe artigianali (Darmon, 1981, p. 292 s.; Lancha, 1983; Joly, 1988; sui

mosaicisti itineranti v. anche Daviault, Lancha, Lopez Palomo, 1987, p. 54; Donderer,

1989).

Una conferma epigrafica dell'esistenza di artigiani itineranti ci viene dall'iscrizione di

Savaria (CIL,III 4222), in cui sono ricordati pictores peregrini (si ricordi anche l'epitafio di

Perinto: Bruneau, 1988, p. 67; ulteriori riferimenti in Ling, 1991, p. 214).

Il costume divenne così generalizzato in età tardo-antica da lasciare addirittura traccia

nella legislazione: una costituzione emanata da Costantino nel 337 esentava dall'obbligo di

residenza diverse categorie di artigiani, fra cui sono espressamente ricordati gli architecti, i

pictores, gli statuari!, i marmorarìi, i laquearii, gli Sculptores, i musivarii, ecc. (Cod.

Theod., XIII, 4,2), mentre nel 374 Valentiniano concesse ai pittori, oltre a una serie di

esenzioni, la possibilità di mutare il proprio domicilio a piacimento (Cod. Theod., XIII, 4,4;

sugli artigiani itineranti in età tardoantica v. Sodini, 1979).

A ulteriore conferma della mobilità dei tecnici e degli artigiani tardoantichi ricordiamo

anche la richiesta che Teoderico inoltrò ad Agapito, prefetto di Roma, che gli fossero inviati

marmorarios peritissimos per restaurare la Basilica Herculis a Ravenna (Epistulae, I, 6);

analogamente Gregorio di Nissa si fece mandare da Anfilochio, vescovo d'Iconio, degli

specialisti per la costruzione di volte e Teodoreto, vescovo di Cirro, promise a Isocasio di

inviargli un ebanista, Geronzio, richiesto anche dal tribuno Euriciano (Eristov, 1987, p. 118,

nota 31, ivi referenze). D'altronde, ancora nel X sec. l'esecuzione del mosaico della Grande

Moschea di Cordova venne affidata alle capaci mani di un mosaicista fatto venire da

Bisanzio (Stern, 1976).

Quindi, se forse è giusto convenire con C. Balmelle e P. Darmon che il raggio di azione delle

botteghe, soprattutto musive, poteva essere più ridotto di quanto generalmente supposto

(Balmelle, Darmon, 1986), non si può tuttavia troppo ridimensionare l'importanza del

fenomeno degli artisti itineranti che dall'arcaismo all'età tardoantica interessò in vario

modo e con diversi gradi di intensità tutte le categorie artigianali, contribuendo non poco

alla diffusione sia di cultura figurativa sia di specifici schemi iconografici.

3. Oggetti mobili. - «Vettori» di cultura figurativa furono anche i manufatti, oggetto di

esportazione e commercio già in età arcaica lungo le rotte della colonizzazione e,

successivamente, sotto la spinta di una domanda sempre più ampia e allargata, oltre i

confini del mondo greco-romano.

In un primo tempo a far circolare le iconografie furono soprattutto i vasi, le stoffe, i bronzi,

gli avorî, a cui poi si aggiunsero i prodotti di un artigianato sempre più specializzato: vetri,

argenti, gemme, manufatti in terracotta (lucerne, coppe, lastre, ecc.) e in marmo (statue,

rilievi, sarcofagi, ecc.). Tutti questi oggetti, facilmente trasportabili, contribuirono alla

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conoscenza non solo dei temi, ma anche di redazioni particolarmente fortunate di

determinati soggetti.

Stoffe. - L'uso di decorare le stoffe per abbigliamento e per arredo con raffigurazioni

intessute, ricamate o dipinte ne fece fin dall'età arcaica un «vettore» privilegiato di cultura

figurativa: i tessuti più preziosi infatti, oltre a essere oggetto di commercio venivano spesso

esposti nei templi all'ammirazione dei fedeli (basti pensare al peplo di Atena con

raffigurazione di Gigantomachia o al mantello di Alcistene a cui il retore Polemone dedicò

addirittura un breve saggio, come ci informa Ateneo, XII, 541 a-b. Inoltre tali manufatti,

che erano di facilissimo trasporto, presentavano anche il vantaggio di fornire raffigurazioni

policrome.

Le decorazioni delle stoffe arcaiche e classiche ci sono note anzitutto dalle fonti (Hom.,

Iliade, III, 125 ss.; xn, 441 ss.; Aesch., Choeph., 231 s.; Eurip., Ion, 1141 ss., 1421;

riferimenti in Ghedini, 1995), a cui si possono aggiungere alcune significative testimonianze

archeologiche e le raffigurazioni vascolari riproducenti, spesso con minuzia, le eleganti

decorazioni geometriche, fito-morfe o figurate dei tessuti da abbigliamento e arredamento:

ed è grazie alle testimonianze monumentali che è possibile in taluni casi stabilire rapporti

precisi fra il repertorio tessile e quello di altre manifatture (per i mosaici v. Ghedini, 1995).

La nostra conoscenza delle raffigurazioni tessili di età ellenistico-romana resta per gran

parte affidata alle testimonianze letterarie che però difficilmente consentono di istituire

raffronti iconografici a causa della genericità degli accenni. Quindi, se pure è noto che il

mito di Ganimede fu frequentemente riprodotto sui tessuti, come confermano Plauto

(Men., I, 142-144), Virgilio (Aen., V, 250 ss.), Valerio Fiacco (Arg., II, 407 ss.) e Igino

(Fab., 274), tuttavia risulta impossibile stabilire una netta corrispondenza fra le

raffigurazioni tessili e le versioni pervenuteci del tema (Ganimede a terra, stante, in corsa,

in ginocchio, in volo), dal momento che le descrizioni appaiono generiche e non

sufficientemente caratterizzate sul piano iconografico.

Per l'età tardoantica la nostra conoscenza dei manufatti tessili si amplia grazie ai tessuti

rinvenuti nelle necropoli copte, che documentano una scelta tematica quanto mai ricca e

variata tale da consentire più specifici raffronti con la tradizione figurativa coeva.

Fra i numerosi esempî che si possono citare di interscambio con altre manifatture

artigianali, ci limitiamo a ricordare quello emblematico della Venere in conchiglia retta da

Tritoni, di cui abbiamo testimonianza, oltre che sulle stoffe copte (Del Francia, 1984), nel

repertorio to- reutico e musivo (Toso, 1995). Ma accanto ai temi mitologici (Apollo e Dafne,

cicli dionisiaci, trionfo di Nettuno, Selene ed Endimione, ecc.) ampia risonanza ebbero le

raffigurazioni ispirate alla vita quotidiana, fra cui spiccano la caccia e il banchetto en plein

air, che ripropone l'iconografia di cui abbiamo già parlato (v. supra il paragrafo tradizione

letteraria e Ghedini, 1991), pure attestata in ambito toreutico e musivo.

A tal punto il repertorio tessile appare compenetrato di iconografie classiche che in un

merletto prodotto a Venezia nel XVI sec. ritroviamo soggetti mitologici quali le fatiche di

Ercole, Atteone e i cani, Dioniso sul carro, resi in soluzioni figurative chiaramente desunte

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dal repertorio ellenistico-romano, pervenuto probabilmente non per recupero dotto ma

per trasmissione interna alle botteghe tessili (Schmidt, 1965, tav. 395; v. anche Calcani,

1993).

Tuttavia le dimensioni spesso ridotte delle raffigurazioni inserite nei tessuti - perlomeno da

quel che risulta dalla documentazione tardoantica - unitamente alla cursoria trattazione di

molti particolari, ci induce a considerare questi manufatti «vettori» di cultura figurativa

piuttosto che veri e propri modelli da copiare. Analoga funzione i tessuti copti sembrano

aver svolto nella diffusione di certi schemi geometrici (cerchi inscritti in riquadri, cerchi

allacciati intorno a un elemento centrale, quadrati allacciati a formare stelle a più punte,

ecc.), tipici della tradizione musiva tardoantica che condivideva con il repertorio tessile

anche il gusto per le bordure geometriche o vegetalizzate (a trecce, a onde correnti, girali

d'acanto, ecc.; Cantino Wataghin, 1990).

Vetri. - Vetri cammei, vetri incisi, dipinti, smaltati, dorati presentano un repertorio

figurato quanto mai ricco e variato, ispirato in parte alla tradizione epico-mitica, in parte

alla vita quotidiana (scene di battaglia, di caccia, ludi gladiatorî, venationes, corse nel circo,

ecc.; Harden, 1987).

Il raffronto con la tradizione figurativa coeva rende evidente l'interscambio sia tematico sia

compositivo soprattutto con quelle classi di manufatti in cui meglio si esprimeva l'ideologia

delle classi dominanti.

Gli amori di Giove, p.es., che godettero di tanta fortuna nelle raffigurazioni musive delle

ricche case romane (ornavano soprattutto oeci e triclinî e, frequentemente, i cubicoli), sono

presenti in soluzioni iconografiche tradizionali (Europa e il toro, Ganimede e l'aquila) nel

bicchiere da Begram, di fabbrica alessandrina, ora al Museo Guimet.

L'episodio dello scoprimento da parte di Ulisse e Diomede di Achille nascosto a Sciro si

ritrova invece nel bicchiere dipinto di Colonia in cui sono riprodotti particolari quali il

trombettiere con la tuba levata o il cesto di lana ai piedi dell'eroe, che ricorda le mansioni

femminili che Achille svolgeva con le fanciulle (cfr. Stat., Ach., I, 580 ss.), particolari

registrati anche su altri manufatti ispirati al medesimo soggetto (Kossatz-Deissmann,

1981, nn. 54, 98, 121, 175 e passim).

Il mito di Atteone, quale è trattato nelle tazze, forse gemelle, raffiguranti il bagno di Diana

e Atteone sbranato dai cani, rinvenute a Leuna e a Dura Europos, presenta schemi ben

documentati nel repertorio musivo (per i mosaici v. Guimond, 1981, nn. 108, 117 a, b; per i

vetri v. Harden, 1987, n. 107; sui pendants nelle arti suntuarie v. Burkhalter, Arce, 1984),

a cui si ispira anche la straordinaria coppa a rilievo di Licurgo (Harden, 1987, n. 139).

Ancora al repertorio dei mosaici, ma attraverso forse la mediazione della toreutica, si

ispirano le raffigurazioni di caccia, fra cui spicca quella al cervo con le reti della bottiglia di

Chiaramonte Gulfi (v.) che trova raffronti a Piazza Armerina, a Ippona, nel piatto di Seuso,

ma anche nei sarcofagi di tradizione urbana (Ghedini, 1991).

Tuttavia, nonostante le analogie spesso puntuali che legano le varie raffigurazioni, la

precisione nel dettaglio e l'aggiunta talvolta del colore e la larga circolazione di tali oggetti,

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dovuta alla scarsità dei centri di produzione, i vetri possono senz'altro essere considerati

«vettori» di cultura figurativa, ma più difficile risulta ipotizzare che essi siano serviti da

modello per altre classi di manufatti. Sembra invece più verosimile che sia i mastri vetrai

sia i mosaicisti, i toreuti, gli scalpellini, che ponevano la loro capacità artigianale al servizio

della medesima committenza, attingessero a un repertorio comune, fortemente connotato

sul piano dell'ideologia.

Manufatti toreutici. - Le puntuali tangenze esistenti fra le raffigurazioni documentate su

oggetti in metallo e quelle di altre manifatture artigianali sono state da tempo messe in

evidenza dagli studiosi che le hanno poste in relazione con l'uso e, forse, il commercio, delle

matrici utilizzate per la loro realizzazione e dei calchi in gesso che da esse potevano essere

tratti nel corso dell'esecuzione o a prodotto finito. Tuttavia, se pure tale presupposto

appare plausibile, risulta altrettanto evidente che anche l'oggetto, per le sue caratteristiche

di mobilità e per la sua natura di prodotto di lusso, poté svolgere una funzione di «vettore»

di cultura figurativa, analogamente a quanto ipotizzato per altre categorie di manufatti.

Significativo in tal senso appare il raffronto fra la raffigurazione di Danae che si appresta ad

accogliere in grembo la pioggia d'oro di uno specchio greco del IV sec. a.C. e quella

riproposta, con una lieve variante nella posizione del braccio, su alcune lèkythoi plastiche

all'incirca coeve (D'Abruzzo, 1993): dall'analisi di tali manufatti sembra infatti potersi

inferire un interscambio che pare più plausibile ipotizzare dal prodotto di lusso al

manufatto corrente piuttosto che viceversa.

Il fenomeno del passaggio delle iconografie dagli oggetti metallici ad altre classi artigianali

risulta particolarmente evidente nel «Giudizio di Oreste», quale è a noi noto dal Vaso

Corsini: le varie scene infatti riecheggiano su gemme, lucerne, sarcofagi, come ha ben

dimostrato lo Hafner in un saggio ormai classico (Iudicium Orestis. Klassisches und

klassizistisches, Berlino 1958).

Analogie significative si registrano anche con altre manifatture artigianali: si pensi p.es. alla

Venere in conchiglia retta da Tritoni che ritroviamo nello stesso schema figurativo nel

mosaico di Šahba', nel cofanetto di Proiecta e nella Tensa Capitolina (Toso, 1995; Ghedini,

1995 b); o alla scena di toilette del mosaico di Sidi Ghrib che ritorna ancora nel cofanetto di

Proiecta e su un oggetto del tesoro di Seuso (Baratte, 1992, p. 95). Anche il già citato tema

della merenda all'aperto nella soluzione figurativa attestata nel mosàico della Piccola Caccia

a Piazza Armerina appare puntualmente ripetuto nel piatto di Seuso (v. supra), mentre la

singolare Menade con campanello e frusta del mosaico dionisiaco di Sarrin appare identica

nel piatto d'argento della Collezione Ortiz (Baity, 1991)·

Una citazione a parte merita il Bellerofonte che abbevera Pegaso del piatto di Ginevra (inv.

AD 2382): qui troviamo rielaborata una soluzione figurativa ispirata a una creazione

augustea, a noi nota dal rilievo Spada (Helbig4, pp. 765-768) e dall'osteoteca di Megiste

(Strocka, 1984, pp. 203-208; v. anche la base di Como: Frova, 1993), che viene

puntualmente ripresa nel cofanetto di Veroli, databile in piena età medievale (Simon, 1964,

p. 324 ss.; v. anche Sichtermann, 1993). In questo caso, fermo restando che si potrebbe

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anche invocare l'ipotesi dell'intermediario tecnico, probabilmente un calco in gesso (v.

infra), resta tuttavia ipotizzabile anche per il manufatto toreutico la funzione di «vettore»

del soggetto, addirittura oltre i limiti cronologici dell'età classica.

Produzione ceramica. - Fra gli oggetti che contribuirono alla circolazione delle iconografie e

di conseguenza alla diffusione di una cultura figurativa possiamo annoverare anche i

manufatti ceramici, dalle lastre di rivestimento alla suppellettile d'uso domestico (piatti,

coppe, bicchieri, vasi, lucerne, ecc.), decorata a rilievo e a stampo, che riproduceva in

materiale più povero i preziosi servizî in metalli pregiati.

Proprio l'identità del repertorio, più volte sottolineata, consente di ipotizzare che fra

manifattura toreutica e ceramica vi fosse un interscambio di tipo tecnico (uso dei medesimi

calchi o matrici: per la ceramica aretina v. Ettlinger, 1967; per le lastre Campana, Borbein,

1968; per le lucerne, Di Filippo Balestrazzi, 1988, pp. 7-18, con bibl.). Ma la ceramica

decorata, proprio per il costo minore rispetto alla suppellettile in metallo, svolse

ovviamente anche un'importante funzione nella diffusione di soggetti e iconografie,

consentendone l'acquisizione a strati sempre più larghi di utenti che in tal modo facevano

propri i temi prediletti dalle classi dominanti. Tale ruolo di «vettore» di schemi iconografici,

spesso fortemente connotati in senso ideologico, appare ben illustrato p.es. dalla lucerna

dell'Agorà di Atene con scena del riscatto del corpo di Ettore (Kossatz-Deissmann, 1981, n.

710): proprio per il fatto che la versione scelta per decorare il disco della lucerna si

differenzia dal più fortunato schema augusteo, attestato p.es. nella tazza di Hoby e nella

sigillata coeva (Kossatz-Deissmann, 1981, nn. 681 ss., 687), mentre si apparenta

strettamente alla soluzione preferita dagli scalpellini attici (posizione di Achille che distoglie

il capo dalla vista del vecchio padre inginocchiato, aggiunta della coppia Hermes-Teti in

secondo piano: Kossatz-Deissmann, 1981, n. 690 ss. e passim) possiamo dedurre che le

lucerne, così facilmente trasportabili, possono aver contribuito, unitamente ai sarcofagi, a

far circolare questo particolare schema figurativo.

Analoghe considerazioni si possono fare per il singolare gruppo di Perseo e Andromeda

seduti su roccia di fronte a una polla d'acqua, creazione di I sec. d.C. ispirata al gruppo

piramidale di Marte e Venere. Tale soluzione figurativa, che non trova riscontro nella

tradizione letteraria e può dunque essere considerata una creazione ad hoc, probabilmente

di età augustea e verisimilmente connotata sotto il profilo ideologico (Perseo potrebbe

essere Augusto e Andromeda Livia), non godette di soverchia fortuna: le uniche

testimonianze a noi note sono infatti un gruppo di affreschi pompeiani, alcune lucerne e un

cammeo ora a Pietroburgo (per il gruppo di Marte e Venere, v. Andersen, 1985; per gli

affreschi pompeiani, le lucerne, il cammeo, v. Schauenburg, 1981, η. 102 ss.). Il ritrovare

tale singolare raffigurazione in una libera rielaborazione su un mosaico da Brading del IV

sec. d.C. (Schauenburg, 1981, n. 116), quindi a significativa distanza cronologica e areale

rispetto all'archetipo e alle sue derivazioni, sembra suggerire che proprio lucerne e gemme

possono aver contribuito a preservare e far circolare questa particolare soluzione

figurativa.

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A tale proposito appare necessario anche ricordare che fra repertorio ceramico e glittico

esisteva un rapporto altrettanto stretto che fra repertorio ceramico e toreutico (v. anche

Di Filippo Balestrazzi, 1988, p. 11): ne sono significativa testimonianza p.es. la Venere

pudica entro conchiglia, che ritroviamo identica su una gemma di Berlino e su una lucerna

di Cipro (Lawrence, 1967, figg. 16-17), la Leda erotica della lucerna di Preimos e di alcune

gemme (Dierichs, 1990, p. 42,III, 26; Linant de Bellefonds, 1992, p. 244, n. 130), l'Atteone

aggredito dai cani della lucerna di Monaco, della gemma di Bonn, del medaglione in bronzo

di Boston (Guimond, 1981, nn. 58 a, 68, 69, ivi ulteriori confronti), che riproduce forse un

archetipo statuario (cfr. la statua da Lanuvio ora al British Museum: Guimond, 1981, n.

38), acquisito anche dal repertorio musivo (cfr. mosaico di Ivailograd: Guimond, 1981, n.

108).

Emblèmata. - L'uso di inserire nei pavimenti o nelle pareti pannelli musivi eseguiti in

laboratorio, allettando le tessere su lastre di marmo o di terracotta, è attestato già in età

ellenistica e godette di ampia fortuna fino alla piena età imperiale (Balil, 1976; Donderer,

1983; Lavagne, 1988, p. 407); ma in realtà sembra oggi dimostrabile che tale tecnica sia

stata in uso fino in età tardoantica anche se in quest'epoca la tradizionale decorazione

figurata che assimilava l’èmblema a un vero e proprio quadro sembra cedere il posto a

decorazioni di tipo geometrico o floreale.

A tale proposito possiamo ricordare i bipedali di Ostia (Sear, 1977, p. 122 s.) e la lastra

marmorea del Museo Nazionale Romano raffigurante un marmorarius intento a eseguire

in bottega un èmblema geometrico di opus sedile.

Anche il passo della lettera di Simmaco (Ep., VIII, 42, 2), in cui il panegirista latino chiede

all'amico di inviargli un campione del novum quippe musivi genus... vel in tabulis vel in

tegulis...» potrebbe essere interpretato nel senso che i modelli di particolari schemi

decorativi venivano realizzati secondo l'antica procedura dell'èmblema e poi fatti oggetto di

esportazione o commercio (in tal senso èmblema sembrerebbe equivalente al paràdeigma

del papiro Cairo Zenone 59665, su cui v. infra il paragrafo intermediarÎ tecnici: Cartoni e

Cantino Wataghin, 1990, p. 281).

Gli emblèmata, per le loro caratteristiche di facile trasportabilità e per la loro funzione

decorativa, costituirono fin dalla tarda età repubblicana un «vettore» di cultura figurativa

e di schemi iconografici (Suet., lul, 46, ci informa che Giulio Cesare amava esporre nella sua

tenda i tessellata e sectilia preferiti; cfr. anche Wattel de Croizant, 1986, pp. 200-215). A

tale proposito non sembra inutile ricordare gli emblèmata con le raffigurazioni del gatto

che afferra l'uccello e di una natura morta, chiaro esempio di una trasmissione interna alla

categoria (Parlasca, 1975, p. 365; Balil, 1976, p. 14, c), a cui si può aggiungere l’èmblema di

Zliten con la singolare raffigurazione della battitura del grano sull'aia, di cui si coglie l'eco,

sia pure in una soluzione figurativa leggermente variata, nel mosaico della Tomba della

Mietitura della necropoli ostiense dell'Isola Sacra (Angelucci, 1990, fig. 51). Tale soggetto,

non essendo infatti altrimenti attestato nelle arti figurative, potrebbe essere stato

trasmesso di bottega in bottega proprio grazie alla circolazione di emblèmata.

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Infine non si può recisamente escludere che gli esemplari di dimensioni più ridotte

potessero addirittura essere esposti come campionario nelle botteghe dei mosaicisti,

analogamente a quanto ipotizzato per bozzetti e calchi in gesso.

Sarcofagi. - L'incidenza dei sarcofagi sulla trasmissione di soggetti e iconografie appare

tanto innegabile quanto difficilmente valutabile: da un lato infatti la loro destinazione

funeraria li sottraeva all'uso quotidiano, dall'altro però la forte carica emblematica che da

essi promanava e la loro larga circolazione nell'ambito del cospicuo fenomeno del

commercio, che interessò in età imperiale tutto il bacino del Mediterraneo, li qualificava

senz'altro come «vettore» privilegiato di temi simbolici e fortemente autorappresentativi.

Il repertorio dei sarcofagi, riconducibile alla tradizione epico-mitica da un lato, alla vita

quotidiana dall'altro, presenta una varietà di soggetti e di soluzioni iconografiche che

consentono raffronti talvolta assai puntuali con diverse classi artigianali. Per giustificare la

molteplicità delle fonti di ispirazione gli studiosi hanno ipotizzato l'uso di modelli di vario

tipo: libri illustrati, «cartoni», calchi in gesso da opere toreutiche, ecc. (Koch, Sichtermann,

1982; Froning, 1980 e 1981). E che gli scalpellini che realizzavano le complesse

raffigurazioni dei sarcofagi utilizzassero intermediarî tecnici, su cui torneremo anche più

oltre, sembra dimostrato anche dal modo con cui le raffigurazioni complesse potevano

essere scomposte o ricomposte: nei sarcofagi con il mito di Ifigenia in Tauride, p.es., sono

state individuate otto scene originarie che sviluppano in sequenza temporale i momenti

salienti della vicenda, ma che non compaiono necessariamente in ordine cronologico o in

successione logica e vengono diversamente assemblate secondo il gusto dell'artigiano o del

committente (Bonanno, 1993). Tuttavia la fedeltà iconografica dei gruppi originari sembra

suggerire che vignette in serie completa o ridotta fossero a disposizione degli artigiani:

diversamente non si spiegherebbe l'incoerenza di certe successioni narrative,

evidentemente non più comprese dall'esecutore delle nuove sequenze.

Ma non sempre è necessario ricorrere all'ipotesi degli intermediarî tecnici: gli stessi

sarcofagi infatti potevano divenire modello per successive creazioni, come risulta evidente

nell'ambito del fenomeno delle copie locali di opere prodotte nelle officine attiche o urbane

e successivamente esportate nelle varie località. Il sarcofago con battaglia alle navi, di cui ci

è pervenuto un frammento conservato al museo di Torcello, p.es., fu verisimilmente

copiato da un artigiano aquileiese da un originale attico importato ad Aquileia, di cui pure,

significativamente, ci è pervenuta una piccola porzione (Ghedini, 1989).

Anche l'esecutore del rilievo aquileiese con Admeto e Alcesti copiò probabilmente i

personaggi da un sarcofago attico con la raffigurazione del riscatto del corpo di Ettore nella

redazione greco-orientale di cui s'è parlato: le due figure affrontate appaiono infatti così

strettamente esemplate sulla coppia Hermes-Teti, da costringerci a presupporre una

derivazione per copia diretta da un originale attico.

Analogamente il gruppo Priamo-Achille del sarcofago di Woburn Abbey (Kossatz-

Deismann, 1981, η. 706), che si stacca nettamente dalla tradizione consolidata e presenta

una soluzione figurativa chiaramente improntata al gruppo Ippolito-Nutrice del sarcofago

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di Tiro (Linant de Bellefonds, 1990, n. 86 ss., passim), è stato probabilmente realizzato

copiando e reinterpretando lo schema originale.

Sembra dunque che, proprio per la varietà e la complessità delle raffigurazioni che si

dispiegavano sulla cassa e sul coperchio, tale classe di manufatti si offra anche come

osservatorio privilegiato per analizzare procedure di bottega altrimenti difficilmente

ricostruibili.

L'analisi dei manufatti d'uso o di lusso che, circolando entro e oltre i confini dell'impero,

consentivano la diffusione non solo dei soggetti ma anche degli schemi figurativi, potrebbe

continuare ricordando p.es. la produzione glittica in cui il fenomeno della esecuzione in serie

(per copia diretta: v. Dierichs, 1990, IV, 2, 3, 5) è meglio documentato che in altre

categorie artigianali; nell'ambito di tale produzione emergono anche interessanti spunti di

riflessione in merito al problema della specificità del repertorio e dell'interscambio con altre

manifatture specializzate quali quelle toreutica e ceramica. Ma la moltiplicazione degli

esempi poco aiuta a chiarire la reale consistenza del fenomeno: infatti, se è fuor di dubbio

che gli oggetti mobili trasmettessero cultura figurativa e rendessero note anche particolari

soluzioni iconografiche, meno agevole appare definire se e in che modo tali oggetti

potessero fiingere da modello al di fuori della propria classe artigianale. Poiché sembra

improponibile che un maestro mosaicista si mettesse a copiare un vetro, o uno scalpellino

una gemma, per giustificare tangenze puntuali fra iconografie attestate in manufatti

appartenenti a classi artigianali diverse, è necessario ipotizzare altri, più specifici mezzi di

trasmissione, che potessero circolare non solo all'interno della bottega, ma anche fra

botteghe diverse.

Il confronto con la pratica dei modelli in gesso, attestata per la scultura a tutto tondo,

sembra decisamente orientare la ricerca consentendo di ipotizzare analoghe procedure

anche per le arti figurative bidimensionali.

4. IntermediarÎ tecnici. - Modelli in gesso. - L'esistenza di calchi in gesso, riproducenti non

solo opere statuarie, ma anche composizioni a carattere narrativo, è stata ampiamente

confermata dai ritrovamenti di Begrām e Memfi e dai più recenti, ma non meno

significativi, di Sabratha (Reinsberg, 1980; Barone, 1994). Tali calchi in gesso, desunti per

lo più da opere toreutiche, sono considerati intermediarî tecnici privilegiati per la diffusione

di iconografie ispirate al repertorio epico-tragico (Van der Meer, 1975, p. 183; Froning,

1980 e 1981; Burkhalter, 1992, p. 334 ss.), decorativo e anche storico (Hackin, 1954;

Barone, 1994, tavv. LII s., CVII s.).

L'uso di tali calchi non doveva però essere limitato alle botteghe toreutiche, ma può essere

plausibilmente esteso anche ad altre manifatture artigianali. Se, p.es., consideriamo la

singolare iconografia del Ganimede seduto che offre da bere all'aquila, riprodotta su uno dei

gessi di Begräm e la confrontiamo con quella attestata su alcune lucerne anatoliche e su

gemme di varia provenienza (Sichtermann, 1988, nn. 146, 167; v. anche il tondo in

terracotta da Heidelberg: ibid., n. 165), non si può non rilevarne la puntuale identità, che

consente forse di ipotizzare che anche nelle officine ceramiche e glittiche potessero essere

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usati modelli in gesso (si ricordi a tale proposito la perfetta identità iconografica che si

registra fra i gessi di Begräm con Diomede e Odisseo e le gemme con il medesimo

soggetto). Lo stesso schema ricompare anche sull'altare funerario di Stazio Asclepiade

(Sichtermann, 1988, n. 142), confermando la circolazione del modello anche nelle botteghe

di scultori.

D'altronde la Froning ha fornito una ricca ed esauriente casistica dell'uso dei medesimi

schemi figurativi negli argenti della prima età imperiale e nei sarcofagi di II e III sec. d.C.

In particolare sembrano coincidere, come già s'è detto, le raffigurazioni ispirate alle

tragedie: i gruppi di Fedra assistita dalla nutrice o di Medea che contempla i figli, negli

schemi documentati nei sarcofagi urbani e attici, trovano rispettivamente riscontro in uno

specchio da Pompei e nel kàlathos di Monaco, mentre il sacrificio dei prigionieri troiani

ripropone la redazione della coppa d'argento di Monaco (Froning, 1980).

Un'ulteriore conferma dell'uso dei calchi in gesso per la trasmissione delle iconografie viene

dai rilievi a carattere decorativo, dai vasi di marmo, dai candelabri, ecc. (Froning, 1981;

Cain, 1985).

Tali intermediarî tecnici furono forse usati anche da pittori e mosaicisti: se infatti

raffrontiamo l'Europa natante accanto al toro del gesso di Memfi (Reinsberg, 1980, n. 56,

fig. 89) con alcuni affreschi pompeiani raffiguranti nello stesso schema Europa o Frisso o

una Nereide; Icard- Gianolio, Szabados, 1992, n. 54), difficilmente possiamo sfuggire alla

suggestione di ipotizzare che lo schema, che circolava nelle botteghe dei pittori, fosse stato

recepito proprio attraverso un calco in gesso simile a quello egiziano. Analoghe

considerazioni potrebbero essere fatte anche per giustificare l'assoluta identità che esiste

fra la Nereide su toro marino del mosaico di Aquileia e quella del medaglione di Abukir

(Ghedini, 1992 b, p. 307): i due monumenti così lontani nel tempo e nello spazio ebbero

certamente un archetipo in comune, che pure potrebbe essere circolato proprio grazie a

matrici in gesso da opere toreutiche (si ricordi che il diametro del medaglione è di quasi 6

cm).

Cartoni. - Fra i «vettori» di trasmissione delle iconografie i più citati, ma anche i più

discussi, sono certamente i «cartoni» (Skizzenbücher, Musterbücher, cahiers des

modèles), invocati dagli studiosi, a torto o a ragione, ogniqualvolta si registrano precise

analogie iconografiche in opere rinvenute in località lontane o in manufatti appartenenti a

diverse classi artigianali (a favore dell'esistenza dei cartoni si sono recentemente espressi,

fra gli altri: Froning, 1980, p. 324 s.; Besques, 1984, p. 71 ss.; Nowicka, 1984, p. 257;

Andersen, 1985; Balil, 1986; Brilliant, 1987, p. 42; Blanchard Lemée, 1988, p. 380; Cantino

Wataghin, 1990, p. 279 ss.; Ling, 1991, p. 217 s.; e per l'età medievale: Vergnolle, 1984;

contra Bruneau, 1984; Balmelle, Darmon, 1986, p. 246; Bruneau, 1988, p. 71 s.;

Schmelzeisen, 1992, pp. 29 s., 175).

Anche i più accaniti nemici dei «cartoni» (Bruneau, 1984; Balmelle, Darmon, 1986)

sembrano però sostanzialmente concordare sul presupposto che gli artigiani, prima della

esecuzione di un'opera complessa oppure tecnicamente difficile da realizzare (stoffe,

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mosaici, argenti, ecc.), approntassero degli schizzi da sottoporre all'attenzione del

committente e da usare poi come traccia in corso d'opera.

Dell'esistenza di tali schizzi (paradèigmata, exempla) abbiamo testimonianze significative:

basti pensare al papiro Cairo Zenone 59665, in cui si parla di un mosaico a disegno figurato

complesso (graphikòn ànthos) per l'esecuzione del quale si richiedeva il modello (Bruneau,

1980; Daszewski, 1985, p. 6 ss.); ancora un papiro (Cairo Zenone 59445) ci illumina

sull'uso dei paradèigmata in pittura, dal momento che sottolinea come l'affresco del soffitto

voltato di Diotimo doveva essere conforme al modello (o ì o v το παράϑειλμα; Nowicka,

1984). L'uso del modello è ben attestato anche nell'arte tessile: e non solo per le complesse

raffigurazioni che ornavano il peplo di Atena, per la cui scelta si indiceva addirittura un

concorso (cfr. Aristot., Ath. Pol., 49, 4), ma anche per più modesti drappi, quali quello che

Diseris tessè su modello di Praxidike (Anth. Pai., VI, 136). In tale prospettiva sembra porsi

anche la già ricordata testimonianza di Simmaco che richiede che l’exemplum gli venga

inviato vel in tabulis vel in tegulis (Ep., VIII, 42, 2).

La pratica del disegno preparatorio è inoltre confermata da tutte quelle iscrizioni musive in

cui espressamente si sottolinea che l'esecutore materiale dell'opera è persona diversa dal

suo ideatore (Bruneau, 1984, p. 264 s.; Donderer, 1989), implicitamente presupponendo

un modello da copiare.

Ciò detto, sembra difficile seguire il Bruneau nell'ipotesi che tale materiale preparatorio

fosse immediatamente e sempre distrutto dopo l'uso e non potesse invece essere

riutilizzato dall'autore stesso, dalla sua bottega oppure anche dal committente che poteva

riservarsene il possesso. La distruzione dello schizzo preparatorio, oltre a essere una

pratica decisamente antieconomica, sembra anche contraddetta dal passo pliniano relativo

ai graphidis vestigia di Parrasio che, conservati in tabulis ac membranis, costituivano

oggetto di studio da parte degli artisti («ex quibus proficere dicuntur artifices»: Plin., Nat.

hist., XXXV, 168). E che gli schizzi dei grandi pittori potessero addirittura essere oggetto di

esposizione lo conferma Petronio che nella pinacoteca visitata da Encolpio ricorda accanto a

opere di Zeusi anche rudimenta Protogenis (Sat., 83).

Se le opere preparatorie dei grandi artisti erano oggetto di tale interesse o se i quadri più

rinomati venivano copiati da pittori di più modeste qualità (Quint., Inst., X, 2, 6), non v'è

motivo di dubitare che anche gli schizzi preparatori potessero venire conservati o

all'interno della bottega o, in taluni casi, anche all'esterno di essa, divenendo materia di

scambio o commercio. In tale prospettiva acquista spessore la testimonianza di Cassiodoro

(Inst. div., I, 20, 3), in cui l'autore afferma di aver raccolto in un codice diversi tipi di

composizione (multiplices facies facturarum), senza specificare se geometriche, floreali o

figurate, ma sottolineando la loro funzione di modello per successive opere. Ciascun

artigiano dunque e ciascuna bottega dovevano possedere un proprio patrimonio

iconografico, che poteva essere soggetto ad ampliamento o riduzione nel corso degli anni e

che verisimilmente comprendeva sia composizioni complesse riprodotte nei dettagli (si

veda p.es. la perfetta identità iconografica e compositiva che esiste fra i mosaici di Orfeo di

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Henšīr Thina e Sāqiyet ez-Ziz: Liepmann, 1974, pp. 28, n. 33, 29, n. 60) sia schemi

figurativi semplici (personaggio inginocchiato, figura femminile seduta), i quali grazie

all'aggiunta degli attributi potevano servire a raffigurare soggetti diversi (Andersen, 1985,

p. 122).

Scarse, ma non del tutto assenti, le testimonianze archeologiche: per la prima categoria

possiamo p.es. citare il papiro del Victoria and Albert Museum T 15.1946 (Settis, 1982, p.

183), in cui troviamo raffigurato, con una scansione spaziale tipica della produzione musiva

o tessile, Orfeo con gli animali entro un tondo inscritto in un quadrato (secondo taluni

anche la raffigurazione di Amore e Psyche e l’abductio di Briseide sono da annoverare in

tale categoria: v. supra tradizione letteraria: Illustrazioni da libri); per la seconda

possiamo invece ricordare gli schizzi del papiro Vindobonense G 30509 (Andersen, 1985,

p. 122).

Punzoni. - Fra i «vettori» di iconografie si possono annoverare anche i punzoni che

venivano utilizzati nelle officine ceramiche per decorare piatti, coppe, vasi con

raffigurazioni semplici o complesse. Tali punzoni che potevano, come le matrici, circolare o

essere oggetto di scambio o commercio fra le botteghe (Hofmann, 1971), consentivano

attraverso le diverse associazioni di creare composizioni variate, in analogia con quanto

ipotizzato per i cartoni con silhouettes semplici.

I punzoni svolsero certamente un'importante funzione nella diffusione del patrimonio

iconografico: in tal senso interessante appare il raffronto fra la Leda stante inseguita dal

cigno di alcune coppe africane e il medesimo soggetto reso con analoga soluzione

iconografica nel mosaico di Alcalá de Henares (Salomonson, 1969; Linant de Bellefonds,

1992, p. 237, n. 62).

Lo status quaestionis relativo al problema della t. i. si presenta ancora scarsamente

definito e necessita di ulteriori approfondimenti: infatti, se la tradizione letteraria è

apparsa determinante nella fase di formazione della cultura figurativa, se artigiani

itineranti, oggetti d'uso e di lusso, illustrazioni da libri sono sembrati sufficienti per

giustificare la larga circolazione non solo dei temi ma anche di determinate soluzioni

figurative, e se per spiegare identità puntuali è stato necessario ricorrere all'ipotesi degli

intermediarî tecnici (calchi in gesso, cartoni, punzoni), restano tuttavia ancora da chiarire

le modalità d'uso di tali «vettori».

Per la soluzione di tale questione sembra necessario da un lato approfondire le

problematiche inerenti all'organizzazione del lavoro all'interno della bottega, dall'altro

verificare l'incidenza degli intermediarî nei casi di trasmissione interna a una classe di

manufatti e nei casi di trasmissione fra classi artigianali differenti. A tale proposito, e in via

del tutto preliminare, si potrebbe proporre una distinzione fra officine specializzate nella

produzione in serie di manufatti trasportabili (p.es. sarcofagi, gemme, ecc.) e officine

produttrici di opere legate invece al supporto architettonico (p.es. mosaici, affreschi, ecc.).

Nel primo caso infatti, pur essendo gli intermediarî plausibilmente ipotizzabili, le

iconografie si potevano trasmettere anche per copia diretta da un manufatto all'altro,

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mentre nel secondo l'uso dell'intermediario appare indispensabile, non sembrando

plausibile l'ipotesi della riproduzione da oggetti mobili. Analoghe considerazioni possono

valere anche per manufatti appartenenti a classi artigianali diverse che presentano

iconografie identiche, sembrando anche in questo caso poco probabile la riproduzione da un

oggetto all'altro.

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(E. F. Ghedini)