Novecento. Bel paradosso! E su questa linea è - Differenza · facendo la “notte dei morti...

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Anno 2 Numero 07 - 23.02.2009 Il futurismo degli assessori Editoriale di Gian Maria Tosatti La migliore analogia per capire questa roboante celebrazione del Futurismo è quella con il manifesto di Futuroma, la famosa “notte bianca” in stile marinettiano che la giunta Alemanno iniziò a pubblicizzare già all’indomani del suo insediamento. A guardarlo da lontano, da una trentina di metri, sembra ammiccare a Depero, recuperando la dimensione ludica e giocosa del movimento. Poi avvicinandosi ci si rende conto di quanto effettivamente questa accozzaglia di colori e forme sia brutto, disarmonico, privo di struttura, fatto letteralmente coi piedi, dalla composizione generale agli imbarazzanti dettagli. Depero non c’entra proprio niente. Tantomeno il Futurismo. Per qualche sconosciuto motivo si è preso un grafico di mezza tacca e gli è stato chiesto di comporre qualcosa che omaggiasse alcuni tra i migliori pittori che ha avuto il nostro Novecento. Bel paradosso! E su questa linea è tutta l’operazione che come un singhiozzo, o meglio una contrazione nervosa post-mortem, scuote l’intera penisola in questa settimana. Basti ricordare la figuraccia milanese dei giorni scorsi, in cui il neo-assessore Finazzer Flory si è visto bloccare dai vigili urbani (i ghisa) la performance di danza che doveva “scimmiottare” la Rissa in galleria di Boccioni. Alle due del pomeriggio un grappolo di ballerini diretti da Ariella Vidach e vestiti come i “ragazzi di Amici” avevano iniziato a saltellare e ballettare qua e là con la pretesa di rievocare la forza plastica del dipinto originale. Era iniziata male ed è finita peggio con l’assessore che sbraitava di fronte alle telecamere contro l’incursione dei pizzardoni che gli avevano rovinato la prima uscita pubblica. Ora, premesso che la “rievocazione” è cosa che attiene ai morti, essa, applicata al futurismo, che vive di velocità e di progressione, appare ancor di più fuori luogo, accentuando la sua dimensione mortuaria e mortifera. E poi fa certo sorridere il fatto che oggi l’Italia, il paese meno futurista del mondo, il paese più lento del mondo, che da cent’anni, in tutti i suoi compartimenti, tradisce quotidianamente i sogni dei vari Balla, Sant’Elia, Marinetti, voglia celebrare questi disconosciuti profeti. Dopo averli dimenticati, traditi, sminuiti nei fatti più ancora che a parole, di punto in bianco li si tira fuori dallo sgabuzzino per fargli la festa. Difficile allora che essa non finisca per assomigliare ad un funerale, con l’inconveniente del fatto che i lustrini al massimo possano sembrare di cattivo gusto.

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Anno 2 Numero 07 - 23.02.2009

Il futurismo degli assessoriEditoriale

di Gian Maria Tosatti

La migliore analogia per capire questa roboante celebrazione del Futurismo è quella con il manifesto di Futuroma, la famosa “notte bianca” in stile marinettiano che la giunta Alemanno iniziò a pubblicizzare già all’indomani del suo insediamento. A guardarlo da lontano, da una trentina di metri, sembra ammiccare a Depero, recuperando la dimensione ludica e giocosa del movimento. Poi avvicinandosi ci si rende conto di quanto effettivamente questa accozzaglia di colori e forme sia brutto, disarmonico, privo di struttura, fatto letteralmente coi piedi, dalla composizione generale agli imbarazzanti dettagli. Depero non c’entra proprio niente. Tantomeno il Futurismo. Per qualche sconosciuto motivo si è preso un grafico di mezza tacca e gli è stato chiesto di comporre qualcosa che omaggiasse alcuni tra i migliori pittori che ha avuto il nostro

Novecento. Bel paradosso! E su questa linea è tutta l’operazione che come un singhiozzo, o meglio una contrazione nervosa post-mortem, scuote l’intera penisola in questa settimana. Basti ricordare la figuraccia milanese dei giorni scorsi, in cui il neo-assessore Finazzer Flory si è visto bloccare dai vigili urbani (i ghisa) la performance di danza che doveva “scimmiottare” la Rissa in galleria di Boccioni. Alle due del pomeriggio un grappolo di ballerini diretti da Ariella Vidach e vestiti come i “ragazzi di Amici” avevano iniziato a saltellare e ballettare qua e là con la pretesa di rievocare la forza plastica del dipinto originale. Era iniziata male ed è finita peggio con l’assessore che sbraitava di fronte alle telecamere contro l’incursione dei pizzardoni che gli avevano rovinato la prima uscita pubblica.

Ora, premesso che la “rievocazione” è cosa che attiene ai morti, essa, applicata al futurismo, che vive di velocità e di progressione, appare ancor di più fuori luogo, accentuando la sua dimensione mortuaria e mortifera. E poi fa certo sorridere il fatto che oggi l’Italia, il paese meno futurista del mondo, il paese più lento del mondo, che da cent’anni, in tutti i suoi compartimenti, tradisce quotidianamente i sogni dei vari Balla, Sant’Elia, Marinetti, voglia celebrare questi disconosciuti profeti. Dopo averli dimenticati, traditi, sminuiti nei fatti più ancora che a parole, di punto in bianco li si tira fuori dallo sgabuzzino per fargli la festa. Difficile allora che essa non finisca per assomigliare ad un funerale, con l’inconveniente del fatto che i lustrini al massimo possano sembrare di cattivo gusto.

Ma è fin troppo evidente che non è questo l’importante, perché l’operazione ha assai più a che fare con la politica che con la cultura. D’altra parte c’è una destra che ha ripreso in mano il paese (Roma in testa) e che deve in un certo qual modo accreditarsi un patrimonio culturale, che possa nelle migliori delle ipotesi sembrare anche una “coscienza culturale”. Non c’è che questo, infatti, ad esempio dietro gli ultimi exploit di figure improbabili come Graziano Cecchini, il vate del futurismo “de noantri”, che dopo aver azzeccato la tinta alla Fontana di Trevi, ha poi dato prova della sua assoluta inadeguatezza artistica in degradanti occasioni mediatiche in cui i politici più sfacciati non hanno mancato di sorridere compiaciuti.

La notte bianca futurista non è andata meglio. Una costellazione di recuperati da ogni dove, di artisti (?) che non si sono vergognati di fare una proposta, si sono dati il cambio sul ring della capitale riuscendo a dar vita ad un baraccone ancor più improbabile della sagra metropolitana che fu la Notte bianca veltroniana. A girare per le strade non era assurdo chiedersi perché il più grande movimento artistico italiano dai tempi del Rinascimento dovesse essere celebrato “da questa gente”.

E’ il futurismo degli assessori. Non c’entra la destra o la sinistra. C’entra il degrado politico italiano. L’incapacità di rendersi conto del valore delle cose, o ancor più del “senso” di certe operazioni. E’ lo spirito del manifesto di Futuroma, lo spirito della schiuma senza la birra. Dei progetti fatti per andare a finire sui giornali e non per lasciare un segno nella società.Il problema quindi non è omaggiare il Futurismo. E’ una cosa che si può fare, ma non così. Non facendo la “notte dei morti viventi” o “il balletto in galleria”. Gli assessori vogliono il futurismo? Beh ce n’è quanto ne volete di futurismo in Italia, di velocità, di dinamismo, di innovazione, di sogni. Volete sapere dov’è? Ovunque. Sostenere gli artisti è futurista. Permettere a questo paese di sviluppare nuovi grandi movimenti culturali è futurista. A Milano, mentre i ballerini di Finazzer Flory litigavano coi vigili urbani, veniva sgomberato il Cox 18, fucina di talenti contemporanei, di fronte all’indignazione di tutt’Italia e non solo. A Roma, nella città in cui

anche col cambio di amministrazioni «’a nuttata» non passa mai, dopo due anni e mezzo dallo sgombero, l’Angelo Mai, il luogo che ha generato la più profonda rivoluzione culturale che la capitale abbia visto negli ultimi vent’anni, è ancora chiuso. Eccolo il futurismo, disarmato, sconfessato, disperso. Eccolo il futurismo degli assessori. Eccolo il futuro del nostro paese.

Fiat ars, pereat mundusAvanguardia, avanguardisti e trincee

di Attilio Scarpellini

Per la gioia degli assessori e dei curatori, per rendere meno blanda la malinconia degli epigoni che hanno trasformato gli ultimi bagliori di un tragico crepuscolo in una innocua sagra di suoni e luci, riapriamo, con un gesto celebrativo, le pagine di un libretto che fu a suo tempo il giudizio di Dio delle avanguardie. Proprio alla fine del saggio di Walter Benjamin sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica si legge quanto segue: «Fiat ars- pereat mundus, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. E’ questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come uno spettacolo estetico di primo ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte». E’ tra questi due estremi che si compie e si dissolve la parabola dell’avanguardia, nel senso che il suo compimento estetico, divenuto totale – prima nel macello della guerra ’14-’18, poi nell’assoluta desolazione umana della seconda che spingerà Adorno a proclamare l’impossibilità di una sopravvivenza dell’arte – non può che coincidere con la sua radicale negazione artistica. Il mondo e l’arte, contrariamente a quanto credeva Marinetti, la vita e l’arte, contrariamente a quanto credevano altri, non si sono fusi in una definitiva ricreazione (che avrebbe dato luogo a un mondo più artistico o a un’arte indistinguibile dalla potenza rivoluzionaria che si apprestava a sovvertire il mondo) ma sono periti insieme, avvinghiati, nello stesso movimento di decreazione. Persino uno dei testi più illuminanti degli ultimi cinquant’anni, La società dello spettacolo di Guy Debord, resta inchiodato all’idea hegeliano-avanguardista che l’inveramento dell’arte sia inseparabile dalla sua dissoluzione in nome e per conto del compimento delle sue esigenze di superamento del mondo: «L’arte nell’epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo che persegue l’oltrepassamento dell’arte in una società storica dove la storia non è ancora vissuta, è insieme

un’arte di cambiamento e l’espressione pura del cambiamento impossibile. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua vera realizzazione è al di là di se stessa. Questa arte è inevitabilmente d’avanguardia, e non è. La sua avanguardia è la sua sparizione». Fiat mundus – per rovesciare la formula di Benjamin – pereat ars: anche il situazionismo si porta appresso lo spettro di un compimento (e questa parola nel lessico del Novecento vuol dire invariabilmente: sparizione, negazione radicale) ancora da effettuare. L’arte e il mondo si scambiano di posto in una commedia dialettica che gira su se stessa come un palindromo: da qualunque parte la si guardi, produce il risultato della stessa negazione. Per cominciare qualcosa, bisogna farla finita con qualcuno. Imus in girum noctis et consumimur igni. Nel frattempo, lo “spettacolo estetico di prim’ordine” di cui parlava Benjamin è da tempo già avvenuto - ma di esso non può esservi traccia in ogni memoria dell’avanguardia che si rispetti, identitaria (come quella che attualmente si addensa attorno al futurismo italiano) o progressiva che sia.

E’ la guerra, che uno scrittore come Ernest Junger accoglie in tutta la sua potenza travolgente e musicale in una delle sue opere autorali – Il tenente Sturm - a dettare le estetiche future e il futuro dell’estetica. E’ la guerra, e non l’arte, a diventare il soggetto di tutti i superamenti, a rivelare la parte maledetta di una modernità che di colpo depone i suoi ottimismi, i colori sgargianti della sua belle époque, i suoi ludi meccanici – e una tecnica benefica, prometeica – per sbattere in faccia a ciascuna delle sue vittime il lato oscuro del grandioso sacrificio di cui è chiamata a far parte: a società di massa, massacro di massa… L’inversione dell’accumulazione tecnica che Benjamin vede in azione nella prima guerra mondiale, sa di derisione rispetto alle visioni futuriste in cui ogni tecnologia assurge alla plasticità del mito (ma il mito, si sa…): la guerra

imperialistica è una ribellione della tecnica che, invece che incanalare fiumi, «devia la fiumana umana nel letto delle trincee», invece che utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi (o magari volantini dannunziani sulle terre irredente), «li usa per seminare bombe incendiarie sopra le città» e nell’uso bellico del gas trova «un mezzo per distruggere l’aura in modo nuovo». Aura per aura, quella della pittura futurista va in pezzi nella stessa palingenesi che il verbo del movimento, con una petulanza più che ideologica già pubblicitaria, non smette di evocare, immolata, e non solo umanamente, sull’altare della «guerra igiene del mondo». E se riappare oggi – intatta in una tela che lascia ammutoliti come Stati d’animo. Gli addii di Umberto Boccioni – non è per il vigore euforico che ci comunica la parola “futurismo”, quanto, ironia della sorte, per la nostalgia che proviamo davanti alla pittura.

L’arte è morta, sta sempre ancora morendo a forza d i compiers i (Die Kunst i s t tot , proclamavano i dadaisti berlinesi nel 1920 ma ancora negli anni 60 gli azionisti viennesi convocavano chissà come un simposio per accelerare la sua distruzione), la pittura, essendo fortunatamente già morta, si sporge dal suo al di là, e ci guarda, parla al nostro essere mortali. Colti in flagrante delitto di passatismo – anche le locomotive sono invecchiate - sentiamo che questo addio è stato dipinto un momento prima della catastrofe. Il suo treno era carico di uomini inconsapevoli come quello che Renato Serra, un contemporaneo di Boccioni non futurista raccontò in un’icastica visione del 1912 intitolata Partenza di soldati per la Libia: fermo, sbuffante sulla linea di partenza alla stazione di Cesena, salutato da una fiumana di interventisti pronta a tradursi, da lì a qualche anno, nella fiumana di cadaveri che la velocità della storia avrebbe incanalato “nel letto delle trincee”. Di quei soldati in partenza per la prima guerra coloniale italiana Serra intravedeva s o l t a n t o l e n u c h e , u g u a l i e p i e g a t e nell’obbedienza “macchinale” a un comando iscritto nell’aria del tempo, a un destino tornato a manifestarsi sub specie democratica, non più come evento eroico ma come sacrificio di massa. Se ne andarono così, nuche tra le nuche, i Serra, i Boccioni, risucchiati dalla velocità di deviazione

della tecnica in guerra e dell’arte in mondo, vittime della parallasse ideologica che va sotto il nome – non a caso di origini militari – di avanguardia…

Una galassia senza domandeDa Rovereto a Milano a Roma, nel barocco calendario delle mostre l’assenza di un senso essenziale

Di Lorenzo Pavolini

Il futurismo non poteva nascere che in ItaliaPaese volto al passato Nel modo più assoluto ed esclusivo E dove è d’attualità solo il passato.Ecco perché è attuale oggi il futurismoPerché anche il futurismo è passato.

Con queste ultime sei righe della poesia Futurismo Aldo Palazzeschi ragionava sulla celebrazione degli allora sessanta anni del movimento al quale aveva brevemente aderito con il suo Incendiario del 1910, dedicato a F.T. Marinetti anima della nostra fiamma. Nelle menti migliori del paese il futurismo passava, si staccava di dosso come uno strato della vita infantile, sgangherato: la presa di coscienza civile e collettiva di una nazione che si vo leva anche moderna , co smopo l i t a e rivoluzionaria.Alla digestione definitiva contribuirono le mostre degli anni ’80, su tutte quella curata da Pontus Hulten a Palazzo Grassi di Venezia nel 1986. E gli studi definitivi di Calvesi, Salaris, Crispolti, Duranti… gente insospettabile che non aveva mai perso il filo e in alcuni casi (Calvesi) non aveva indugiato nel dopoguerra per scrivere di Boccioni (nel ’53 fu il primo) forte della sua consuetudine con casa Balla e Marinetti. Insomma alla grande occasione culturale della destra avevano scavato un tunnel che la attraversava da parte a parte, ed erano stati critici e storici “di sinistra” in primis, così gli assessori si sono ritrovati tra le mani una palla sgonfia: il centenario della più importante avanguardia storica italiana non aveva niente da dire, né di nuovo né di vecchio. E la rabbia ha fatto loro dimenticare i buoni propositi. Quel genere “cultura e spettacoli” che si era promesso mai più a Roma (e non ancora a Milano) sarebbe stato bassamente impiegato per intrattenere/distrarre le masse, è tornato invece nelle piazze, nelle strade e sul sedere dei bus. Unica novità: prepos iz ion i , cong iunz ion i e v i rgo le s i sostituiscono al segno dell’addizione (mostre+ s p e t t a c o l i + e v e n t i ) . L a s i m u l t a n e i t à contrabbandata come mito… nell’era della nevrosi del tempo. I programmi capitolini e meneghini brillano per inconsistenza. A Milano la scia di cosette è infinita (vedi alla voce Futurismi) e prevede la fiction di risse in galleria (con la notizia che qualche povero vigile urbano non è stato al gioco) e arrampicate sui muri per “la città che sale”… A Roma suoni e luci per i turisti a

Piazza del Popolo e i “Presentismi” di Brian Eno a Palazzo Ruspoli, opportuni fin dal titolo nel dilatare l’arte della lentezza controfuturista. Un solo punto valeva la pena studiare come attuale oggi, e la lettura del libro di Emilio Gentile La nostra sfida alle stelle. Futuristi in politica, edito recentemente da Laterza, sembra opportuno alla bisogna: cosa è che lega a un progetto politico e civile la frangia minoritaria artistica attiva di un paese? Come fu capace il futurismo tra il 1909 e il 1919 di elaborare per questa parte della popolazione - di natura riottosa, anarchica, velleitaria e sempre (come r i t e n e v a C a r m e l o B e n e ) a f f l i t t a d a micromegalomania - uno stile possibile? Una strategia di azione nella quale gli estetismi trovassero soddisfazione accanto alla illusione di incidere sulla realtà? Un catalogo di proposte utili a mettere il bollino “futurista” su tutto ciò che muoveva indipendentemente le gambe (compreso D’Annunzio a Fiume), e l’autodichiarazione di società dei migliori, “i geniali”. Una strategia giovanile «I più anziani fra noi, hanno trent'anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l 'opera nostra. Quando avremo quarant'anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. Noi lo desideriamo!»… Non era forse già scritta in questa proposizione del Manifesto Futurista la data di scadenza di questa idea? Dieci anni e poi passa. Persino Giacomo Balla aveva smontato le psichedeliche tarsie di legno colorato che decoravano l’ingresso della sua casa di via Oslavia e disconosceva quella fase della sua pittura di grande verismo dinamista. Furono poi le figlie, visto il via vai di acquirenti a riallestire l’abitazione come progetto futurista integrale, cacciando fuori dai bauli qualsiasi vecchio rottame. E oggi il narcisismo di Croppi lo fa apparire nella notte televisiva dell’anniversario installato proprio in quel decoro “storico” a parlare (con competenza) della gran figata che fu 100 anni fa provare a mettersi in riga coi tempi. Nulla a confronto dell’improbabile recitazione, nella stessa notte degli assessori futuristi, della fontana malata di Palazzeschi per via di Massimiliano Finazzer Flory.

Altra questione, le mostre. Ho avuto l’opportunità per via della mia collaborazione con Radio3 di visitarle tutte e di intervistare i curatori e i critici (http://www.radio.rai.it/radio3/radio3_suite/elenco.cfm?Q_TIP_ID=797). Non serviva questo per capire alcune cose: che siamo la solita assurda nazione di mille campanili in lotta tra loro (in questo caso Milano e Roma si sono combattute fieramente i prestiti delle opere), che il coordinamento nazionale è solo una butade, che la lezione di Paolo Mieli è entrata profondamente in circolazione per cui usiamo la storia in maniera strumentale-spettacolare e quindi fa sempre comodo dire che sul futurismo pesa la questione fascismo, che la frammentazione di mille iniziative non potrà sostituire nemmeno per diffusione e proliferazione la necessaria organicità che abbisogna a una mostra significativa, tanto più che siamo di fronte a una avanguardia integrale e popolare (almeno nelle intenzioni) e quindi necessaria di una rappresentazione a 360 gradi nel la sua complessa f i l iazione di sperimentazioni in ogni campo della creazione artistica e della vita. È chiaro che per far questo occorre concordia nazionale e il riconoscimento di una autorità indiscussa. Mancando entrambi siamo di fronte al tipico legittimo infuriare di polemiche e risentimenti (soprattutto di coloro che hanno studiato il futurismo per cinquanta anni) e un fiorire in ordine sparso di iniziative anche ben fatte, anche accompagnate da solidi apparati ma in fondo poco utili a chiarire nel complesso l’interrogativo attualissimo che ponevo sopra: come fu capace il futurismo di elaborare un modello di azione artistica che ponesse per molti giovani l’Italia al di sopra della libertà (come veniva dichiarato a Firenze nel Teatro Verdi il 12 dicembre 1913)? Come degenerò il modello della serata futurista nelle dimostrazioni interventiste e poi nelle spedizioni squadriste? O meglio: com’è che nelle avanguardie artistiche novecentesche la violenza, e il sogno delle masse da plasmare come un’opera resta il palo conficcato nell’occhio dei tanti piccoli cittadini-Ciclope?

Per farla breve dico che la mostra in corso a Palazzo Reale di Milano, curata da Ada Masoero e Giovanni Lista, Futurismo 1909-2009 – velocità+arte+azione, è buona per le scolaresche (e non voglia suonar riduttivo) e per chi non abbia i denari necessari a trovare da un remainder l’ottima storia del futurismo di Claudia Salaris edita da Editori Riuniti. Con il merito di vantare qualche opera straordinaria di Sironi, Carrà, Depero e Severini. La mostra in corso al Mart di Rovereto Illuminazioni, avanguardie a confronto curata da Ester Coen ha un catalogo formidabile dove si possono leggere i diari, le lettere e le cronache degli artisti italiani, russi e tedeschi che nel giro di quei pochi anni (la mostra dei futuristi italiani a Parigi è del ’12, la stessa mostra va anche a Berlino pochi mesi più tardi, intanto al Salon des Independants i cubisti si sono ricordati della modernità baudeleriana… Marinetti visita Mosca nel ‘14) elaborarono una rapidissima internazionalizzazione della ricerca nel campo della rappresentazione visiva. Catalogo e relazioni che andrebbero integrate da quelle messe in mostra a Roma dove la mostra arriva dal Beaubourg Futurismo, avanguardia-avanguardie prima di partire per la Tate. Un curatore francese Didier Ottinger, un commissario italiano Ester Coen, e poi uno inglese. La storia si fa complicata. I francesi hanno battuto tutti sul tempo mettendosi in testa di ricostruire filologicamente la storica mostra della galleria Bernheim-Jeune, dove nel febbraio del ’12 l’anarchico Felix Feneon accolse a braccia aperte i futuristi italiani accanto ai cubisti. Naturalmente si sono assicurati i prestiti più importanti. Su tutti i Boccioni del Moma. La mostra è molto importante per trovare una possibile risposta a quell’attuale interrogativo di sopra. La grande competenza di Ester Coen nello studio delle avanguardie chiarisce un grumo di relazioni e di sguardi - ripeto ci vorrebbe la lettura del catalogo di Rovereto e la visita della mostra di Roma in parallelo – cioè quanto fu importante il confronto e l’apertura al mondo, il reale cosmopolitismo di Marinetti e compagni in quel breve giro di anni che precedette la Grande Guerra. Apertura e confronto che furono la chiave del loro successo.Ah dimenticavo, prima di scendere alle scuderie del Quirinale, vale la pena a Rovereto di visitare la ristrutturata “casa d’arte futurista Fortunato Depero”, perché ci ricorda che anche i futuristi alla fine volevano il museo, e che Depero è l’unico che ha fatto qualcosa di futurista che non passa mai: la bottiglietta del Campari soda.

In libreria: Emilio Gentile La nostra sfida alle stelle. Futuristi in politica, Laterza 2009, pp.147, 15 euro.

Attorno alle responsabilità del FuturismoUna conversazione con Gregorio Botta

di Graziano Graziani

Il 20 febbraio, centenario della pubblicazione del manifesto marinettiano e data simbolica scelta per la commemorazione del Futurismo da parte di istituzioni politiche e culturali, abbiamo raggiunto Gregorio Botta, che segue la scena dell’arte con il doppio sguardo di artista e di commentatore giornalistico, per chiedergli un’opinione su questo rinnovato interesse per un’avanguardia artistica che ha segnato la storia (non solo quella dell’arte) del nostro paese. Ma anche per farci raccontare il suo pensiero, controcorrente, su quella stagione dell’avanguardia.

Rispetto alla grande rivalutazione odierna dei futuristi, tu hai un’idea contro corrente. Ce la spieghi?Il Futurismo è l’unica avanguardia dei primi del Novecento che da movimento culturale si è trasformato in un movimento di regime. Nella sua seconda fase i suoi principali esponenti abbracciano il fascismo. Marinetti, in particolare, diventa complice del regime mussoliniano. Mi sono domandato perché è successo a questo movimento e non alle altre avanguardie. Anche le altre avanguardie, come il Futurismo, hanno avuto un inizio esplosivo e dirompente. Poi alcune si sono esaurite, dissolvendosi; altre invece, pur mutando, hanno mantenuto un atteggiamento di critica dell’esistente. L’unico movimento che aderisce all’esistente è il Futurismo. La spiegazione che mi do è che il sistema di pensiero che c’era dietro il futurismo era debole, superficiale. Le ragioni ideali che lo muovevano erano poco consistenti, e di conseguenza ha avuto questa parabola.

Ma ha avuto anche dei meriti come avanguardia?Il Futurismo ha avuto grandi meriti. Li possiamo sintetizzare nei suoi slogan: la rottura col passato, la macchina, il movimento, la velocità. A questo si aggiunge l’idea di un’arte totale, che fosse in grado di investire tutti i settori della società, dalla pittura ai vestiti al design. Tuttavia, si tratta di spunti e temi che in realtà si stavano diffondendo in tutta Europa. Erano nell’aria. Marinetti ha sicuramente una incredibile capacità di coglierli, sintetizzarli e ridiffonderli. Lo fa, per altro, con una dose di istrioneria e superficialità sconcertante. Sembra che il Futurismo sia stato un grandissimo movimento di superficie. Epidermico.L’altra cosa che io penso non possa essere sottaciuta – e che invece in questi giorni viene so t tac iu ta i n tenz iona lmente – sono l e responsabilità politiche del futurismo. Che sono strutturali alla sua superficialità. L’atteggiamento dei futuristi italiani rispetto all’avanguardia è quello di esaltazione dell’avanguardia stessa, non dei suoi temi. Era un’estetica dell’avanguardismo, più che un’avanguardia artistica vera e propria. Un’ideologia della rottura per la rottura, dello scandalo per lo scandalo, che creava l’humus

culturale perfetto per la diffusione del fascismo. Entrava in risonanza con il “menefreghismo” fascista. Pensa solo allo slogan famosissimo sulla guerra, come “sola generatrice del mondo”. Il Futurismo non può essere assolto per quello slogan. Per quanto lo voglia contestualizzare, calarlo nel suo tempo, non si può dimenticare che questo slogan ha avuto delle responsabilità pensanti sulle sorti della gente, giustificando culturalmente una politica di morte. L’amore della morte degli squadristi, e tutte le altre simbologie macabre che hanno nutrito la peggiore cultura fascista, non sono affatto estranee a quegli atteggiamenti del Futurismo.

Il tema della guerra è forse il peccato peggiore di questo mov imento, ma ne è anche l’emblema: è proprio a causa della guerra che moriranno diversi esponenti della prima fase futurista, quelli più incisivi.Certo. Boccioni ad esempio, che fu un artista immenso. Chiaramente ci sono state delle singole personalità artistiche di grandissimo livello nel movimento futurista, come appunto Boccioni. I suoi lavori erano strepitosi, e se non ci fosse stata la guerra a stroncarlo avrebbe probabilmente avuto una carriera lunga e fertile. Ma Boccioni era un artista estremamente interessante già prima di aderire al futurismo, e sicuramente è stato un’eccezione.Ad esempio, io credo che nella produzione di Balla sia assai più interessante la sua fase precedente all’adesione al Futurismo, che non quella successiva. Il Balla futurista è un Balla piatto e meno intrigante. Il resto è ben poca cosa dal punto di vista dei risultati artistici, personaggi come Russolo non hanno prodotto molto di significativo. Si tratta, anche in questo caso, di una grande produzione di superficie.

La vera peculiarità del Futurismo secondo te è quella di aver saputo promuovere se stesso, cavalcando un’estetica dell’avanguardismo con risultati artistici però superficiali. Insomma, oggi si tratterebbe di un’attenta strategia di “marketing”…Esatto. Mi è capitato di leggere una ricostruzione secondo cui Marinetti avrebbe posticipato l’uscita del Manifesto Futurista su Le Figaro – conscio dell’effetto che voleva scatenare – affinché la notizia della pubblicazione non fosse oscurata dal terremoto di Messina.

Almeno da questo punto di vista sono stati dei precursori di certa arte contemporanea…Assolutamente sì. C’è molta arte che lavora sul confine dei mass media, sulle icone che producono, ma anche sui mass media in quanto tali. I futuristi sono stati certamente tra i primi a comprendere l’importanza dell’apparenza in pubblico. Pensa alle serate futuriste: erano pensate come veri e propri eventi. La provocazione diventa un meccanismo perseguito scientemente con lo scopo di attirare l’interesse su quello che si fa. Da questo punto di vista

Marinetti è un sapientissimo “prestigiatore dei media”. Chiaramente stiamo parlando dei media dell’epoca, che avevano un andamento molto più lento, ma comunque sia il Futurismo sapeva ottenere i risultati che si prefiggeva. Sono i primi a capire che la provocazione rende. Loro dicevano «Bisogna distruggere Venezia!», e il New York Times titolava «In Italia ci sono delle persone che vogliono distruggere Venezia». È anche grazie a questo meccanismo che Marinetti si è fatto conoscere in tutto il mondo.

M a c o s a i n t e n d i e s a t t a m e n t e c o n “superficialità”?Ti spiego con un esempio. Tempo fa c’è stata una polemica sul fatto se il primo acquerello astratto sia stato dipinto da Balla o da Kandinskij. Trovo che si tratti di una discussione abbastanza inutile, perché il punto fondamentale è il sistema di pensiero che c’è dietro quei due acquerelli. Qual è il sistema di pensiero che porta Kandinskij ad arrivare alla pittura astratta? Dietro c’è un’idea del mondo molto forte, una concezione spirituale, la ricerca di forme che hanno effetti precisi, che parlano di possibilità diverse, che lui produce in quantità cercando di costruire un “catalogo di un mondo nuovo”. Dietro quell’acquerello, insomma, c’è un sistema di pensiero che dà luogo a una concezione da cui nascerà un filone artistico ancora esistente. Che cosa c’è dietro l’acquerello astratto di Balla? Quasi nulla. Il Futurismo arriva all’astrattismo quasi per sbaglio, cercando di tracciare delle linee di velocità – che era uno dei temi del movimento. E di fatti si tratta di un’opera episodica di Balla. La casualità di questo incontro fa si che le linee astratte diventino immediatamente un motivo decorativo, che viene sfruttato dal design per un po’, ma che poco dopo – come qualunque altra moda – viene abbandonato. Anche in questo episodio non c’è stato approfondimento, perché i futuristi non vanno mai sotto la superficie.

La celebrazione del Futurismo che ha luogo in q u e s t i g i o r n i n o n s t a p r e n d e n d o i n considerazione tutta una serie di aspetti secondo te negativi. È così dappertutto?No. In Francia le responsabilità politiche del Futurismo non sono state rimosse. Ma d’altronde in Francia si è ampiamente e vivacemente discusso anche delle responsabilità politiche dell’adesione del movimento surrealista al

comunismo, che ha generato altri tipi di dittature. In Italia è uscito un libro sulle compromissioni politiche del Futurismo, ma nulla più. Per il resto, negli articoli di giornali, nelle presentazioni degli eventi commemorativi, nel dibattito pubblico che ha luogo attorno al centenario del manifesto futurista, si evita accuratamente di evocare questo “peccato originale” del Futurismo. È una rimozione che cerca di scorporare l’arte dal contesto sociale, che sostanzialmente esalta il movimento artistico per poter dire «il passato è passato, azzeriamo le colpe».

Insomma, si tratterebbe di una celebrazione acritica?Dal punto di vista delle forze politiche che la promuovono decisamente sì. Ma un po’ acritica lo è anche dal punto di vista dei risultati formali del movimento, che sono stati piuttosto esigui. Si assolve e si promuove il Futurismo in quanto avanguardia, visto che si tratta dell’unica avanguardia italiana e perciò non si può criticarla, altrimenti resteremmo senza un’avanguardia storica di cui vantarci. Io penso che questo non faccia bene alla storia dell’arte e alla cultura: bisogna guardare le cose con lucidità, e rendersi conto di quali sono i risultati che ha ottenuto questo movimento, i suoi lasciti, le influenze che ha prodotto.

Quale è stato l’atteggiamento di critica e politica in Italia?Basta pensare alla Notte Futurista organizzata dal Comune di Roma. Paradossalmente la destra può fare operazioni come questa proprio in quanto spoglia della sua colorazione politica il movimento futurista, per poi esaltarlo come patrimonio collettivo. Ma è un patrimonio che va poi a posizionarsi in un preciso quadrante politico-culturale, è non è un caso, perché la destra sente un vuoto culturale e vuole colmarlo con operazioni di questo tipo.È vero che la politica è da sempre stata attenta al Futurismo; persino Gramsci prima del clamoroso abbraccio con Fascismo cercò di interpretarlo come un movimento rivoluzionario. Ma anche all’epoca ci fu chi invece definì Marinetti un buffone di grande effetto e di poca sostanza. Tornando all’oggi, il processo è stato il seguente: da una parte la critica ha pomiciato col metter da parte il lato politico del movimento, come se non ne facesse intrinsecamente parte; dall’altra parte la destra politica, sempre sottacendo questa compromissione, contemporaneamente se ne riappropria cercando di spendersi il Futurismo come un “padre nobile” delle sue radici culturali.

Quindi si tratta di un’operazione di una parte politica che vuole fortificare le proprie basi culturali?A me sembra di sì. La destra è arrivata al potere con un’enorme forza politica ma con uno scarso spessore culturale, che è un tratto cardine del berlusconismo. Ha cercato di colmare questo vuoto da un lato con operazioni come quella del Foglio di Ferrara, che cerca di dirottare valori

reazionari di stampo cattolico in un campo politico di stampo liberale. Dall’altro lato, cerca padri nobili, un tessuto di radici di cui potersi ammantare, e nel centenario del Futurismo ha trovato un’occasione e un terreno fertili. Il risultato, però, è un calderone contraddittorio, dove c’è tutto e il contrario di tutto. Non c’è niente di più contraddittorio che una triade che mette insieme berlusconismo, Chiesa e Futurismo. Ma è anche vero che oggi i l l ivello di approssimazione è tale che tutto è possibile.

I risultati, a volte, sono anche un po’ ridicoli, come nel caso della performance futurista nella galleria di Milano bloccata dall’intervento della polizia municipale, che ha suscitato le ire dell’assessore che l’aveva organizzata.Il ridicolo è nell’idea stessa di resuscitare il Futurismo. Diversi interventi sui giornali hanno parlato della necessità di far rivivere il Futurismo, o addirittura del fatto che saremmo ancora in una “ep i s t eme fu tu r i s t a” . Ma s i t r a t t a d i un ’operaz ione a r t i f i c i a le , fo s se anche l’operazione di una sola notte come a Roma. Il Futurismo è qualcosa di molto lontano. Operazioni di questo tipo possono al massimo essere un divertissement, ma lasciano comunque il tempo che trovano.

È vero però che la celebrazione degli anniversari non è una prerogativa del Futurismo. Negli ultimi anni media e politica non fanno che cavalcare commemorazioni. D’altro canto è anche vero che in questo modo si muovono risorse economiche, ma un simile atteggiamento fa bene all’arte?Dipende dalle operazioni. Se si tratta di operazioni fatte bene, sì, altrimenti no. Il “come” non è mai neutro. Se si tratta di operazioni che

puntano sull’ovvio, e che hanno le finalità di cui abbiamo parlato, fanno assolutamente male all’arte. Ma se si tratta di operazioni incentrate sulla memoria di un certo passato, considerato però nella sua complessità, nella pluralità dei suoi aspetti, allora fanno bene. Sia ai singoli che possono apprezzare un percorso artistico, sia a livello collettivo, perché aiutano la costruzione di una memoria condivisa. L’onestà, da questo punto di vista, è fondamentale.

Che rapporto c’è stato nel Novecento tra avanguardie e totatalitarismi? Un rapporto di connivenza o di contestazione?È stato sicuramente un rapporto impostato su un parallelismo. Le avanguardie nascono assieme alle grandi utopie. Alcune di queste utopie, come il comunismo, si trasformano poi in totalitarismi. Come accade? Accade perché tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si “osava pensare il mondo”. Quelli che partoriscono le utopie sociali sono sistemi di pensiero forte, e anche le avanguardie vi attingono, nella volontà di incidere sul reale. I sistemi politici come il comunismo (e persino il nazismo, nel suo orrore) sognano la possibilità di cambiare la realtà. Un sogno che è diventato incubo, ma comunque sia un sogno che è stato fatto, che ha osato plasmare la realtà. Parallelamente le avanguardie sognano un mondo nuovo, un uomo nuovo, e per questo pretendono se stesse come movimenti di un arte che “cambia il mondo”. Questo a vari livelli – pensa ad esempio alla Bauhaus. C’era un fermento diffuso e vivissimo che faceva pensare che tutto fosse modificabile a breve. Questo ha prodotto grandi movimenti politici e culturali ma ha prodotto anche grandi orrori. Non è un caso se oggi ci siamo tutti rifugiati in una visione più frammentaria, ridotta, piccola. Una visione da pensiero debole. Perché il risveglio dal sogno è stato di paura. Il problema, l’eredità che ci ha lasciato quel sogno trasformato in incubo, è la paura di pensare il mondo: se il pensiero forte produce totalitarismi, nessuno poi osa più pensare.

Avanguardia di un’emancipazioneIl ruolo delle donne “Futuriste” nell’omonimo libro curato da Giancarlo Carpi

di Mariateresa Surianello

Finalmente questo 20 febbraio 2009 è arrivato e Roma ha avuto la sua serata futurista, cupa e livida non solo per il freddo. Del resto la giunta Alemanno – primo sindaco post fascista dal dopoguerra - come avrebbe potuto perdere l’occasione di celebrare il centenario della nascita di un movimento che poi il regime di Mussolini ha imbrigliato a suo uso e consumo? Della serata romana si dà conto in un altro articolo della Differenza, qui forse vale la pena di riportare solo

la sensazione di spaesamento provata nel passaggio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove il reiterato binomio fascista-futurista ha precettato decine di giovani militanti della destra, rendendoli spettatori di un lavoro teatrale davvero distante dal loro pensamento (in scena era la compagnia Solari Vanzi).Q u e s t o g i o c o a l r i b a s s o , q u e s t a strumentalizzazione della vulgata futurista rischia di far perdere un’occasione di conoscenza di un’avanguardia che in quel Manifesto del 1909 – non a caso pubblicato da Marinetti su “Le Figaro” – condensa la volontà di appropriarsi delle rivoluzioni tecnologiche di quegli anni, negando ogni legame con il passato romantico e decadente. Sollecita invece la riflessione il corposo volume Futuriste – Letteratura. Arte. Vita, pubblicato in questi giorni da Castelvecchi con la cura di Giancarlo Carpi. Settecento pagine ben organizzate che ricostruiscono la presenza femminile nel movimento marinettiano e in qualche modo la fatica anche di queste donne di procedere verso l’emancipazione.Ricco di un apparato iconografico che comprende dipinti, foto di scena, tavole e volantini di parolibere, il libro ripercorre la parabola futurista femminile, seguendo la cronologia 1909-1944, quindi a partire dalla forte misoginia iniziale del movimento, alla quale risponde con veemenza Valentine de Saint-Point, considerata la prima personalità femminile futurista. La sua è una risposta al proclama del 1909, che la scrittrice e pittrice francese legge con la complicità di Marinetti nella sala Gaveau di Parigi, nel 1912. A questo “Manifesto della donna futurista”, che negava alla donna l’esclusiva della femminilità, riequilibrando in qualche modo la dose di maschile e di femminile nell’uomo e nella donna, Saint-Point ne fa seguire un secondo che la eleva a pietra miliare anche nel dibattito successivo, nonché la rende avversa a Benedetta Cappa, moglie di Marinetti, altra artista di riferimento del movimento. Si tratta del “Manifesto futurista del la lussur ia”, nel quale la f rancese, considerando la lussuria stessa un principio dinamico, non si perita di scrivere frasi iperboliche che arrivano ad ammettere lo stupro dopo la battaglia come atto generatore di vita in una terra conquistata. Saint-Point qui stabilisce anche la dicotomia tra donna madre e donna amante, nodo che, negli ultimi anni del movimento Maria Goretti, criticherà come retaggio positivista. Nel 1941, Goretti legge come un intellettualismo razionalista la danza ideista di Sanit-Point, quella che voleva invece essere “cerebrale e sottomessa alle leggi della geometria”, riconoscendo comunque alla francese il merito di aver “impostato la vita e l’arte femminile sui piani nuovi del Futurismo, combattendo in pari tempo il tradizionale sentimentalismo e i l femminismo allora trionfante”.Ciascuno dei sette capitoli del libro si apre con un’introduzione di Carpi, per proporre di seguito un’antologia di scritti anche teorici e una parte di critica a quegli stessi scritti, in modo da delineare

la figura di ogni artista presa in considerazione. Così per la citata Benedetta, vengono ripresi stralci dei suoi tre romanzi, oltre alla sua tavola parolibera Spicologia di 1 uomo di risposta alla misoginia futurista, e la dichiarazione di poetica Sensibilità futurista. Una nuova sensibilità che spiega come “passione per la complessità” e per “ la profondità”, sotto l ineando che “ la simultaneità futurista è specchio della volontà di trascendere l’io individuale”. Si dedicherà poi Benedetta, dopo il ’35, solo alla pittura, esplorando il concetto di energia come sinonimo di vita, trasmessole da Balla, ma sotto l’influenza anche di Fillìa e Gerando Dottori.

Molti di quei contributi sono accolti ne “L’Italia futurista”, rivista che dal 1917 diventa centro del Futurismo femminile e riportati nelle pagine del libro di Carpi delineano due tipi di interventi, quelli più vicini al Futurismo marinettiano e quelli che si rifanno alla teosofia di Rudolf Steiner, di stampo cerebrale e spiritualista della “pattuglia azzurra”. Più legati a Marinetti sono, tra i molti, gli esperimenti che Enif Robert compie con il suo romanzo chirurgico Un ventre di donna, un’esposizione della malattia senza reticenze lessicali, basata sull’addizione “coraggio + verità”, per spiegare cosa significhi “donna futurista”. Marinettiani sono anche le tavole di parole in libertà di Emma Marpillero, Silenzio – Alba, e di Enrica Piubellini, Campo di Marte e Paesaggio + Forte austriaco, sul tema della guerra, composte tra il 1916 e il ’17.Tra le donne della “pattuglia azzurra” Rosa Rosà, nel 1917, si batte per contrapporre gli individui – uomini e donne - tra superiori, forti, sani e intelligenti e deficienti, cretini, monchi, fiacchi e non semplicemente tra belli e brutti, nel suo scritto Come si seducono le donne, stesso titolo

del romanzo che Marinetti pubblica in quell’anno. E poi in un altro intervento afferma ancora che con il “metacentro astratto” le donne finalmente stanno cambiando, stanno acquistando la “coscienza di un libero Io immateriale che non si dà a nessuno e a nulla”.Al romanzo di Marinetti plaude Fanny Dini, la quale con una lettera aperta dice che ogni donna deve essergli riconoscente per quella costruzione di creature ferine e voluttuose, mentre Enif Robert, in un’altra lettera aperta, rincara la dose parlando di amore come diritto delle donne, che hanno abbandonato “l’ingombrante bagaglio di sentimentalità decadenti”. Con il verbo “sedurre” che ha perduto ogni significato - afferma Robert – l’amore diventa “un’intelligente cooperazione tra due esseri che cercano insieme con uguali diritti e ugual volontà la soluzione di un problema psico-fisiologico più o meno urgente”.Certo questa parte marinettiana delle futuriste utilizza un linguaggio forte, dal quale traspare la volontà di combattere una società arretrata che considera la donna un essere inferiore e totalmente assoggettato al volere dell’uomo. A parte il diritto di voto che le donne – futuriste, fasciste e antifasciste - conquisteranno solo nel 1948, si dovrà attendere l’ultimo quarto del Novecento per vedere riconosciuti almeno sul piano legislativo – col nuovo diritto di famiglia - alcuni diritti fondamentali della persona. Ma proprio questo linguaggio dell’avanguardia futurista propeso alle conquiste civili è interessante più di quello delle scrittrici azzurre, con il loro trasporto verso l’occultismo e l’irrazionale, quali Maria Ginanni o Irma Valeria.

Seguendo lo sviluppo cronologico, il libro di Giancarlo Carpi arriva al “Manifesto del

Tattilismo” (del 1920) e a quello della moda femmini le futur i s ta, senza d iment icare l’intervento “Contro il lusso femminile” e riportando anche il contributo di Una donna futurista da quasi sette anni che rivolgendosi a Volt dichiara la possibilità, di spendere molti soldi per ricercate toilette, negata alle donne che vogliono mantenersi da sole, affrancandosi da padri e mariti. Seguono le Case d’arte futurista che lanciano mode di tessuti e desing da diverse città italiane, come quella di Palermo di Gigia Zamparo e Vittorio Corona, nel ’26, e le arti plastiche della boema Ruzena Zatkova. E poi il “Manifesto tecnico dell’aeroplastica”, firmato da Furlan, Manzoni, Munari, Regina (Bracchi), Ricas, nel 1934, con i loro progetti di paesaggi, “complessi plastici polimaterici tattili da viaggiarvi dentro, volarvi dentro” innaffiati di ottimismo e di tutta la retorica fascista. Sono “ambienti aeroplastici termici tattili olfattivi” – rigorosamente senza punteggiatura – “case quartieri città” costruiti “deviando fiumi” e piantando boschi... La febbre del volo aereo produce un’estetica dell’aria, con la sua aeropoesia e aeropittura. Per le futuriste sono gli anni di celebrazione del regime, con la catanese Adele Gloria (FF.SS. “89” Direttissimo), Pina Bocci (Decollaggio) e Laura Serra (Campi Flegrei), che alla fine risolve il dualismo espresso da Valentine de Saint-Point e l’amore materno diventa “complementare all’amore letterario per la macchina” come spiegano gli scritti teorici di Maria Goretti.All’aeropittura futurista sottoscritta nel ’26 da Balla, Benedetta (Cappa Marinetti), Depero, Dottori, Fillìa, Marinetti, Prampolini, Somenzi, Tato fanno riferimento Marisa Mori e Barbara e Magda Falchetto. L’impianto è affascinante con le sue prospettive mutevoli permesse dal volo. «Una realtà nuova che non ha nulla in comune con la realtà tradizionale costituita dalle prospettive terrestri». Punto dopo punto si enuncia anche qui l’annullamento del passato e si afferma la “mobilità perenne” con il pittore che partecipa alla velocità degli elementi di questa realtà. Dall’alto è tutto trasfigurato e «il paesaggio appare al pittore in volo schiacciato artificiale provvisorio appena caduto dal cielo» e ancora «folto sparso elegante grandioso». Un doppio movimento determina l’aeropittura, quello dell’aeroplano e quello della mano del pittore «che muove matita, pennello o diffusore», per giungere «a una nuova spiritualità plastica extraterrestre».Giancarlo Carpi raccoglie in fondo i contributi delle futuriste in radio, cinema, cucina, fotografia e danza, con gli esperimenti di Giannina Censi – alla quale il curatore dedica la copertina. Le ultime pagine di questo volume avaro di commenti politici raccolgono le biografie delle futuriste, un’ampia bibliografia e un utile indice dei nomi.

In libreria: Futuriste - Letteratura. Arte. Vita, a cura di Giancarlo Carpi, Castelvecchi, 2009.

Che ne resta del futuroPellegrinaggio notturno lungo le rotaie della notte (bianca) futurista

di Andrea Cosentino*

Quest’anno fa un secolo dal primo manifesto di Marinetti. Quest’anno ricorrono anche i quarant’anni dallo sbarco dell’uomo sulla luna. Sarà più avanti, il 20 di luglio. Anche se c’è tutta una corrente negazionista, che afferma che lo sbarco sulla luna sia una montatura, e addirittura che l’autore dei falsi filmati sarebbe Stanley Kubrick. Comunque, quarant’anni non sono cento e neanche cinquanta, ma sempre di decine si tratta, e il Comune di Roma celebrerà anche quelli. Magari con minor sfarzo e sforzo, ma li celebrerà. Almeno così mi è stato riferito già a inizio dell’anno da un informatore del Comune; che buona parte dei fondi e i bandi delle attività culturali romane del 2009 sarebbero ruotati attorno a queste due ricorrenze. Tant’è che la mia idea era di fare l’en plein di finanziamenti mediante una rievocazione futurista dello sbarco sulla luna, con un razzo che sfrecciava (si fa per dire) nello schermo sfondato della mia Telemomò, con sottofondo di zang tumb vroom, e un Armstrong versione barbie-astronauta che faceva il suo primo piccolo grande passo sulla superficie lunare con un bello splish splash. Credo ne sarebbe uscito qualcosa di sufficientemente breve da piacere a Marinetti, e un gesto dotato di un bello spirito di teppismo culturale: se per i futuristi il teatro tutto dev’essere sintetico, un teatro su commissione – nel gergo “marchetta”- dovrebbe a mio avviso risolversi in una sveltina. E io addirittura avevo l’idea buona per un paio di sveltine simultanee: la luna e il futurismo, una bella sinestesia di finanziamenti. Il titolo non l’avevo ancora, ma il sottotitolo doveva essere qualcosa come: «che ne resta del futuro» con o senza punto interrogativo alla fine. Lo riciclo mestamente come titolo di questo articolo, dato che intanto il futurismo l’ho saltato, e mi accingo ad affrontare da semplice spettatore, inviato speciale quanto poco attrezzato de La Differenza, la serata futurista di Roma. Quello che so: è veramente poco, ricordi dei tempi della scuola e dell’università. Diciamolo pure: sul futurismo parto con dei pregiudizi. Ho sempre pensato che fosse un movimento un po’ superficiale. Probabilmente è questo giudizio ad essere superficiale, e questa può essere l’occasione buona per rivederlo. Ma intanto ecco quello che so: il futurismo è stata la prima avanguardia, prima di dadaismo, surrealismo eccetera, e lo spirito italico lo chiamò futurismo, che con avanguardia è quasi una tautologia, o un ribadire pedissequamente il concetto. Forse per questo non l’ho mai approfondita. Mi pareva provinciale già dal nome. E poi so che tentò di arruolare Ettore Petrolini nelle sue fila.

Ore 15 e 30. Scuderie del Quirinale. FUTURISMO. AVANGUARDIA-AVANGUARDIE

Per informarmi un po’, e dato che la sera è ancora lontana, decido di andare alle scuderie del Quirinale. Prima ancora di acquistare il biglietto, mi fornisco del pieghevole di Futuroma curato da Zètema, che promette di diventare la mia guida per la serata. La mostra a sua volta promette di riaffermare «il ruolo primario del Futurismo nel complesso disegno del lessico artistico delle prime avanguardie del ‘900». A me a occhio e croce i primi quadri futuristi sembrano dei quadri cubisti con aggiunta di linee dinamiche, che poi non sono altro che quelle lineette che nei fumetti accompagnano i supereroi - da Nembo Kyd a Superman - in azione. Cioè in corsa o in volo a seconda delle caratteristiche di andatura di ciascun supereroe, e in inseguimento o in fuga a seconda del contesto e del coraggio e dei rapporti di forza del momento. Mi chiedo se all’epoca dei futuristi esistessero già i fumetti. Probabilmente no, ma vi consiglio di non fidarvi, e se volete approfondire cercate su google. Io non posso, non so se qui ci sia la connessione, ma in ogni caso il portatile l’ho dovuto lasciare nel guardaroba. La faccenda del dinamismo è più palese nei soggetti dei quadri: mentre in qualche tela esposta Braque, Picasso e affini indulgono in violini e tazze e brocche, i futuristi si cimentano nel ritrarre automobili, passanti, città di giorno e di notte con inevitabili treni, tram o altri mezzi pubblici su rotaie e non. Evidentemente nei primi novecento il tram era sinonimo di modernità e velocità. Non so quanti utenti del servizio pubblico romano sottoscriverebbero oggi questi entusiasmi, in compenso all’ingresso ho pagato 7,50 euro anziché 12 in quanto possessore di Metrebus-card annuale. Zang tumb tumb.La mostra non è gigantesca, ma non starò qui a descrivervela. Se non pensate di passarvi, potete sempre digitare su google Balla, Boccioni, Severini, Carrà. Certo su schermo le opere mancheranno di aura, ma vi garantisco che l’aura manca anche qui. Quelli futuristi sembrano quadri pronti per essere stampati su manifesti in carta lucida, perfettamente adattati all’epoca della loro riproducibilità tecnica. Percorro veloce le sale. Di sicuro questa era gente che cercava di riprodurre la simultaneità, il dinamismo e la velocità. E di fermare il tutto sulla tela. Epperò non prevedevano neanche loro, i futuristi, lo spettatore in rapido movimento, che in quanto tale ha bisogno di oggetti percettivi ben fermi e saldi a livello di fenomenologia se non di ontologia, per poterne fare egli stesso la sua sintesi simultanea. In questa mostra di futuristi, cubisti, suprematisti e quant’altro, le linee di forza e il dinamismo dei piani e dei colori, attraversate alla mia velocità, diventano delle rette senza soluzione di continuità tra quadro e quadro, e i colori e i piani già spezzettati si fanno poltiglia nelle mie retine super stimolate. Mi crogiolo all’idea di essere io stesso una linea di dinamismo che attraversa e doppia rapida gli sguardi passatisti dei cultori di mostre e musei. Alle 15 e 30 entro, alle 16 in punto sono fuori, mezz’ora esatta. Zang tumb tumb. Dato che ho due ore di tempo prima dell’apertura della mostra

a Macro, mi soffermo a seguire un documentario all’ingresso delle Scuderie. Dura 22 minuti, è annunciato. Sufficientemente sintetico e divulgativo, ripercorre rapido nascita sviluppo e fine della breve stagione futurista, e la sua ansia di declinarsi in tutti i campi. Poi arriva la guerra, cantata e invocata come pulizia, e Boccioni muore. Mi infastidisce un poco la voce grottesca e roboante degli attori che leggono stralci dai manifesti marinettiani. Uno di questi dice: quando avremo 40 anni altri ci scalzeranno eccetera. Io ne ho già 41. Questo anche mi infastidisce. Ma in fondo c’è qualcosa di più di cui diffido in questa avanguardia al quadrato, in questo esaltare la novità per la novità. Penso che è qui che il futurismo ha davvero precorso i tempi e avuto partita vinta: ci trovo dentro il sistema del consumo come continua produzione e dis-appagamento di desideri indotti. L’arte stessa che scivola nella moda e nel mercato, e ci si trova bene. Quanto alle opere: eccole qui in un museo. «Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie». Ore 18 e 30. Piazza Giustiniani, Futurismo manifesto 100x100Il futurismo sono convinto che il meglio di sé lo abbia dato nelle provocazioni e nei proclami, insomma nei manifesti. Che sono proprio la cosa che invidio di più di quella stagione delle avanguardie storiche. Sembrava si fosse nel pieno di una battaglia culturale che doveva riguardare il mondo intero e la sua ristrutturazione. Oggi le più ardite provocazioni avvengono nel calduccio degli auditorium e dei teatri, sotto il patrocinio di istituzioni e fondazioni bancarie, e le generazioni di giovani artisti si susseguono e si gareggiano tra loro a far le smorfie e la faccia cattiva, ma sempre invocando le misere sovvenzioni dovute a un supposto status di eccezione culturale. Quanto più a parole e nelle opere ci dilettiamo col trash e il pop e gli sconfinamenti, tanto più abbiamo bisogno nei fatti di tenere salda la distinzione tra cultura alta e bassa. Perché alla fine la cultura bassa è il mercato, e noi non abbiamo la forza e il coraggio di affrontarlo, e men che meno di distruggerlo. Mi duole ammetterlo, ma l’acqua arrossata della fontana di Trevi e le palline rotolanti per la scalinata di Trinità dei Monti, non erano mica male come azioni, se il metro dev’essere la capacità di comunicare e provocare. Sono le 18 e 30 e arrivo a Macro, in piazza Giustiniani. Dal pieghevole di Zètema Bonito Oliva promette una full immersion di stimoli visivi e sonori per “massaggiare il muscolo atrofizzato dello spettatore”. L’ingresso è un attraversamento di piccoli santini, fotografie che cambiano a intermittenza e che brillano nella semioscurità, disposte a file e ranghi sulla parete di destra come le immagini dei defunti sui loculi di un cimitero di paese. Solo che qui il morto è solo uno, Marinetti, ritratto a tutte le età e in ogni foggia e posa. Sulla s in istra invece la re l iquia: la lampada arabeggiante del salotto del defunto stesso. Da questo corridoio in penombra si passa alla prima grande sala, dove inizia il “massaggio”. Una

decina di proiettori che disegnano sulle pareti di ambo i lati i manifesti e i proclami futuristi, mentre altrettante casse ne diffondono le voci, in un esercizio di simultaneismo di materiali già di per sé poco comprensibili. Leggo a caso: l’uso audace e continuo dell’onomatopea. Gulp, esclamo. E ancora, le parole d’ordine e quelle in libertà, schegge, polvere, eroismo… Di che libertà si tratta? Se il dadaismo poco più avanti si abbandonerà a l caso, e i l su r rea l i smo all’inconscio, su quale aria impensata si sorreggono per volare le parolibere futuriste? Patria, sbum, ratàtàtà… Al centro della sala e per tutta la sua lunghezza, come pareti divisorie, pendono schiacciati tra lastre di vetro – come foglie morte o fiori secchi – gli innumeri manifesti che testimoniano la pulsione onnivora, e forse un po’ cialtronesca, dei futuristi: manifesto della cravatta italiana, il vestito antineutrale, della lussuria… In posizione d’onore, a fine sala, il numero de “Le Figaro” del 1909, quello del primo manifesto marinettiano. E poi ancora una stanza con il Lacerba e altri fogli futuristi, ahimè ingialliti, e sempre a sovrastare la nostra capacità percettiva e massaggiarci ulteriormente, scritte sui muri: l’abolizione della pastasciutta, vogliamo che i nostri figlioli seguano allegramente il loro capriccio, avversino brutalmente i vecchi e sbeffeggino tutto ciò che è consacrato dal tempo. Torno indietro ripercorrendo le stanze di cui sopra, su una parete son comparse le immagini dei balli plastici di Depero, che paiono tanto l’omino Bialetti e altre grafiche e animazioni del Carosello della mia infanzia. Vado orecchiando un po’ i discorsi dei visitatori a gruppi o coppie, e mi accorgo che, mentre si fanno massaggiare dagli stimoli simultanei di Bonito Oliva, perlopiù sono intenti a scambiarsi informazioni sul programma della serata che sta per aprirsi, e quel che faranno a Piazza del Popolo e cosa avverrà a piazza Colonna, tutti anch’essi proiettati sul futuro per quanto immediato. Io non leggo i manifesti, lo farò su wikipedia semmai me ne verrà il desiderio, mi faccio massaggiare ancora un poco dal simultaneismo dei rumori e delle voci e delle scritte e delle immagini, e decido di uscire.All’ingresso c’è un piccolo totem con uno schermo sul quale campeggia una faccia di Marinetti in bianco e nero lievemente seppiato. Circondata da un crocchio di persone, una ragazza con una cornetta di telefono in mano collegata all’istallazione, parla con l’avatar di Filippo Tommaso. Al suo fianco un’amica le suggerisce le domande: chi sono i passatisti? cosa pensi di Mussolini? La scena ricorda un po’ Ubik di Philip K. Dick, con i parenti impegnati a parlare al telefono con i semivivi. Ma questo è invece un esperimento di intelligenza artificiale futurista, la voce di Marinetti è un po’ meccanica, ma meno di quelle che ti ringraziano dopo aver passato un casello autostradale, ricorda piuttosto il robot Hal di 2001 Odissea nello spazio. Ad ogni domanda la faccia pare un attimo pensare, batte le palpebre, inclina lievemente il viso all’in su, poi scompare lasciando per qualche istante lo schermo nero. Quindi ricompare e risponde a tono, tra la

sorpresa e il compiacimento degli astanti. Finché la ragazza dice: «grazie, ciao». La faccia pensa, batte le ciglia, guarda in alto, scompare, riappare e dice: «sale, iodio, bromo». Evidentemente sui saluti ha dei problemi. La ragazza insiste e rincara: «addio». Marinetti farfuglia qualcosa, temo per un attimo che la situazione degeneri e lui inizi a regredire cantando giro-giro-tondo. Anche lei deve avere i suoi problemi con le separazioni, tant’è che continua a parlargli, lui recupera il senno e risponde bene a un altro paio di domande sulla velocità e su Balla, argomenti che evidentemente lo rassicurano. Lei è lì con la cornetta del telefono in mano che non vuole cedere ai tanti pretendenti, si considera ormai l’intermediaria privilegiata col semi-vivo, si guarda attorno esautorata di argomenti. Mi faccio avanti, propongo: «gli chieda se Dio esiste». Lei esegue perplessa. Lui risponde che ha già abolito l’io e adesso toccherebbe a Dio se non fosse che il Vaticano eccetera. Allora lei gli chiede del papa, lui insulta spavaldo il capo-chiesa e tutti i porporati, lei ci prende gusto e gli chiede dell’eutanasia. Marinetti si dichiara contrario all’attaccamento ostinato alla vita. Il crocchio di persone fin qui passivi spettatori, si scalda e incalza proponendo domande. Io mi allontano di soppiatto dopo avere innescato il pericoloso dibattito, e prima che degeneri. Sono le 19 e 40. Esco in strada e percorro a piedi via Galvani. Mi sorprendo a guardare il traffico di via Marmorata e mi pare bello. Guardo in alto, è notte ma non ci sono stelle, o se ci sono la loro luce è inghiottita da quella dei lampioni, e ne gioisco. Persino le facciate dei palazzoni di vetro e cemento a piazzale Ostiense mi sembrano belle, e le automobili che sfrecciano. Si, decisamente il massaggio ABO ha sortito qualche strano effetto. Spero transitorio.

Ore 20 e 15. Palazzo Ruspoli. PRESENTISM. Time and space in the long nowIn via del Corso, attraversata da un paio di raggi verdi che collegano piazza del Popolo a piazza Venezia. Sono come i piccoli laser che qualche anno fa erano di moda, ma quelli erano rossi e molto meno potenti, venduti dagli ambulanti cinesi e utilizzati dai ragazzetti per mettere alla berlina dettagli scabrosi del corpo di sfortunati quanto ignari passanti, o particolari di star cinematografiche in azione sui grandi schermi dei cinema all’aperto a Torbellamonaca. Ah, il decentramento. La periferia non è toccata invece da questa serata futurista, siamo nel cuore di Roma, e via del Corso è l’unica strada dritta e suff icientemente lunga da poter essere attraversata apprezzabilmente da una luce. Mi metto in fila per vedere l’istallazione di Brian Eno. Discorsi da coda, gente che si congratula con sé stessa per essere qui anziché a vedere Sanremo in tv, stasera sono previste le conigliette di Playboy sul palco dell’Ariston, non si è mai abbastanza lontani dal pop da poterlo ignorare. Un pensiero ozioso mi attraversa: Marinetti sarebbe stato a vedere le conigliette a Sanremo o in coda per Brian Eno? Comunicazione simultanea

futurista e teatro di varietà. Man mano che qualcuno esce si spera che la coda avanzi, ma gli avanzamenti apprezzabili sono quelli per abbandono. Un ragazzo dietro di me chiede ad una coppia di anziani che sta uscendo: «com’è dentro, signore, vale la pena aspettare?» Lui batte le palpebre, inclina lievemente il viso all’in su, mi aspetto quasi che scompaia per un istante, poi dice farfugliando: «Mah secondo me… non ho capito» e scivola via scambiandosi uno sguardo con la moglie che gli stringe il braccio, in tacita ma solidale approvazione. Una coppia di ragazzi parlano tra loro dei fasci di luce a piazza del Popolo: «una volta che l’hai visti che se muovono…» Ascoltando le chiacchiere sono già a metà coda, ho appena varcato il portone di palazzo Ruspoli. Mi informo dal commesso della durata: «la ciclazione completa è di 30 minuti, ma stasera dopo 5 minuti c’è Brian Eno che vi caccia. Poi potete tornare, tanto c’è fino al 15 marzo». Immagino si riferisca all’istallazione, non a Brian Eno, lui c’è solo stasera suppongo. Finalmente è il mio turno di entrare. All’ingresso c’è un nuovo totem, ma stavolta sullo schermo non campeggia la faccia seppiata di Marinetti, ma l’avatar colorato e dai lineamenti artificiosi di tale Lucia, le istruzioni avvisano che premendo il tasto Speaky di un telecomando le si possono chiedere informazioni sul futurismo. L’interazione con la tecnologia pare essere un leit motiv della serata. Passo avanti, ho già parlato col fondatore del futurismo e questa Lucia ha l’aspetto di una hostess solerte ma stolida. In effetti nessuno le sta chiedendo nulla. Scommetto che non abbia un’idea propria neanche sul testamento biologico. Nell’anticamera c’è Brian Eno attorniato da gente che lo interpella e lo fotografa con i cellulari e varie apparecchiature più sofisticate. Tutti lo fotografano, ergo deve trattarsi di Brian Eno. Entro in una stanza buia assiepata di persone, alcuni i più fortunati seduti per terra al centro, gli altri che si affollano nelle retrovie. Sulla parete in fondo un disegno di quadrati e rettangoli e figure geometriche luminescenti disposte con evoluta simmetria. Per terra un cono di qualcosa che da dove mi trovo sembra essere sabbia, e un cerchio di luce verde proiettata sul pavimento. Rumori ambient: gong, acqua, crepitii… non si tratta più di essere massaggiati dalla simultaneità, ma accarezzati dolcemente. Se potessi descrivere meglio a parole quello che vedo e sento Brian Eno perderebbe il lavoro. Non posso, non sono in grado. Dubito persino che riuscirei a discernere la “ciclazione completa”: darei un’occhiata all’orologio, conterei mezz’ora, e via, in pace con la coscienza. Immagino che sia anche questo uno degli obiettivi dell’installazione, la pace di coscienza. Cito dal programma: «Eno è un musicista e un artista visuale insieme. (…) Presentism si offre quindi come una sinestesia, una tavolozza di sensazioni dilatate nello spazio dell’ascolto come pure della visione». Dilatarsi stasera non è possibile, la fila preme, e decido di uscire dopo dieci minuti scarsi e prima di essere cacciato. Mentre vado via sento una ragazza che dice: «Io starei le ore a guardarlo» E il ragazzo al

suo fianco: «Eh insomma… questo merita». Lei ha detto guardarlo, non ascoltarlo. Sinestesie riuscite e dichiarazioni programmatiche rispettate, non c’è che dire.

Ore 21 e 15. Piazza San Lorenzo in Lucina. VISIONI SIMULTANEEA palcoscenico buio, piazza san Lorenzo in Lucina, una piccola folla assiepata in attesa, e dagli amplificatori rumori meccanici come di fabbrica in sottofondo. Scalpiccii, passi, rombi, scrosci. Non è più il presentismo, siamo tornati al futuro. In avvìo di spettacolo una linea di fil di ferro che prende fuoco in scena disegnando forme illeggibili. Poi un gruppo di giovani attori irrompono tra il pubblico portando cartelli di parole VELOCE, AH, SORPRESA, MENTE e simili. Finalmente si accende un piazzato sul palco e un Marinetti con accento francese e un po’ blasè presenta i suoi compagni: Balla, Cangiullo, Petrolini e compagnia bella, in abitucci variopinti adatti a queste giornate di Carnevale, che si assestano tutti sul fondo scena seduti davanti a macchine da scrivere. Quindi uno a uno o a coppie o a terzetti vengono avanti e prendono a recitare qualcosa, prima di rientrare nei loro ranghi. Petrolini di tanto in tanto si avanza con sottofondo delle ben note musichette e declama Gastone, Nerone o un Fortunello a dire il vero un po’ al ralenti. Gli attori leggono su dei fogli parte dei testi che vanno declamando. Le scenette sono intervallate dai giochi mimici di un gruppo di ragazzi, che battono i tacchi e si muovono a scatti per la danza della mitragliatrice, e cose di questo tenore. A metà spettacolo mi accorgo che sulle pareti degli edifici che circondano la piazza stanno levitando nitide sagome, proiettate come ombre, che volano, o dondolano, o si muovono a scatti, o ingoiano coltelli, macchinette del caffè e altri materiali difficilmente digeribili. Molto belle e suggestive. E che giustificano la simultaneità visiva annunciata nel titolo. Intanto va in scena qualche dramma sintetico futurista. Con i ragazzi che continuano a intervallare con danze e siparietti mimici questo teatrino di varietà più rievocato che agito. «Più sintetico, il teatro non è mai abbastanza sintetico». E ancora proclami, anche qui la declamazione acidula da Istituto Luce la fa da padrona. «In questo paese di parvenus non c’è abbastanza teppismo intellettuale». E naturalmente la famosa voluttà di essere fischiati… E giù puntuali fischi e tumulti da serata futurista, ma niente paura, sono campionati e sparati dalle casse. Questo futurismo non fa più scandalo, e non sorprende. Vi si assiste come a una lezione di letteratura che una simpatica professoressa tenti di rianimare a forza di giochi, o con l’attenzione condiscendente che si deve a un nonnetto un po’ stravagante che rievoca dubbie battaglie e avventure e amori del suo passato con voce sopra le righe e una emozione che non contagia.

Ore 22 e 10. Piazza Colonna. PITTURA ESTREMAArrivo che il pittore-performer, Giuliano del Sorbo, è già appeso e il disegno già per metà finito.

L’evento era annunciato per le 22, niente da dire, tempi rispettati. Vedi la destra? Non sarà più fascista, ma ha mantenuto l’eredità buona di Mussolini, quello che avrebbe dovuto fare il capostazione, per dirla con Troisi. La gente assiste a testa in su, e c’è musica sparata sulla piazza. Mi informo, trattasi di Inno alla vita di tal Francesco Pratella, eseguito dal duo Diaghilev. Per informazioni ulteriori, andate tosto su wikipedia, naturalmente. Il pittore, appeso alle funi, usa solo colore nero, e volteggia sotto l’orologio di Palazzo Wedekind disegnando un uomo senza braccia e con due gambe e cosce possenti, tra Boccioni e Michelangelo. Tutti fanno foto o video, come a dire io c’ero. Mi trovo a pensare a Rousseau, e alla sua concezione di festa senza spettacolo, dove col solo ausilio di un palo piantato in una piazza il popolo si offre lo spettacolo di sé stesso. Qui la piazza c’è, ed è bella, e il palo è la colonna di Marco Aurelio. E per condimento questa figurina in alto sorretta da funi e da carrucole, con un paio di inservienti dal balconcino sottostante che lo sorreggono e lo issano e lo riabbassano come campanari, oppure come i complici di un Diabolik o Fantomas che scali il palazzo per entrare da una qualche finestra a rubare i diamanti della tal duchessa senza far suonare gli immancabili allarmi. Salvo che qui le finestre sono lontane e serrate, e al fianco del performer brilla luminosa la scritta blu IL TEMPO, quale sponsor non so quanto consapevole e grato dell’operazione. Ma forse sì, in fatto di pubblicità e comunicazione nulla si lascia più al caso, e niente si regala. E questo è forse il vero lascito ancor vivo del futurismo, temo. Un ciclista passa, scatta una foto col telefonino, e pedala via. Forse oggi il popolo, più che darsi in spettacolo, si contenta di documentare la sua presenza. Dieci minuti sono passati, colpo di scena: l’ardito pittore si fa issare di nuovo dai piedoni della figura verso il tronco focomelico, e vi traccia ai lati rapido due linee rosse, come di movimento dinamico, chiaro omaggio al futurismo, quindi sempre col colore rosso pescato chissà quando e chissà dove firma l’opera, e vien calato sul balcone sottostante. Applausi.

Ore 22 e 30. Galleria Alberto Sordi. DONNE VELOCITA’ PERICOLODa dietro una torretta circondata di sacchi da trincea, un dj vestito da alpino con tanto di

cappello e piuma, diffonde per l’aere rumori e fischi e sussultar di ferro su rotaia e treno che corre rumoreggiando ritmicamente sulle traversine, il tutto campionato e riarrangiato su ritmi techno. In fatto di musiche la techno pare essere il futuro più presente e a buon mercato. Il treno di questo spettacolo parte. L’attore principale – è chiaro che qui si tratta di recital mattatoriale con contorno di figurette più o meno ben disegnate – sussulta col treno, si muove a scatti e declama le ormai trite onomatopee, parole in libertà e proclami: velocità, guerra e quant’altro. Qui non c’è più lo scimmiottare dei poveri speaker dell’istituto Luce, bensì un più accademico scandire di sillabe e finali di ogni parola, foss’anche un avverbio transeunte di una proposizione subordinata. Che nessuna parola venga sprecata. Lo spettacolo prosegue tra declamazioni e scenette e canzoncine sempre su dovuto sottofondo tecno ed effetti acustici da d i scoteca, a sotto l ineare le intenz ion i attualizzanti dell’operazione. A rincararne l’audacia, un ragazzo e una ragazza del pubblico vengono coinvolti nell’interpretazione di una scena. C’è energia e ottimismo. Poi arriva la guerra e non si scherza. L’alpino attacca un dj set con versione tecno de Il piave mormorava, il mattatore declama con zaino in spalla la sua disperazione, e scrive con gessetto patrio il nome di Boccioni, che in guerra cadde. Due attrici con voci distorte e risate degne della strega di Biancaneve delineano il pathos onirico e struggente della scena. Poi ancora qualche attraversamento di attori sbeffeggianti in mezzo a g l i s p e t t a t o r i , c o s ì p e r f a r e t e a t r o anticonvenzionale. Ma dai primi del Novecento ne è passata di acqua sotto i ponti, c’è stato Artaud e il Living e Brook e Grotowski e tanti altri. Qui ci sono attori d’accademia che pretendono di sovvertire una tradizione già morta, laddove si tratterebbe semmai di resuscitarla. Il risultato è un one man show freddino di declamazione compìta e gesticolazione nervosetta. Il futurismo ne vien fuori come una povera corrente di stravaganti del passato. E’ la seconda proposta strettamente teatrale della serata futurista, e mi vado convincendo vieppiù che il teatro del futurismo non sa che farsene, e viceversa. E’ già così difficile stare in piazza. Gli spettacoli della serata, pur appartenendo a realtà teatrali molto diverse e potrei dire opposte, mi regalano entrambi l’impressione di essere lì ad illustrare una materia che non li scalda, con la quale non intrattengono nessuna relazione vitale né intellettualmente feconda. Qui c’è un attore di quelli che se indicano la luna è per il gusto di farsi ammirare il dito. Comunque applausi. I fischi e la voluttà non sono previsti. D’altra parte se il chiaro di luna è stato abolito dallo stesso Marinetti, perché non dovremmo accontentarci delle dita?

Ore 24. Piazza del Popolo. NUOVE IRIDESCENZEHo fatto tutto, mi pare. Mi avvio scettico verso piazza del Popolo, per dovere di cronaca, immaginando di vedere qualche fascio di luce in movimento. E invece… bello. Si tratta in effetti di

fasci di luce in movimento, ma anche, a mio vedere, della cosa più sensata della serata. Meno informativo-celebrativa e più viva. La piazza, oscurata per l’occasione, è attraversata da laser che si dipartono da tre torrette, dalle quali al contempo si spandono nuvole di fumo, e sulle quali sono posizionate delle potenti casse queste sì da vero dj set (il dionisiaco è nell’intensità, ben prima che nelle modulazioni) che spandono asincronicamente suoni, gorgoglii, singulti, frammenti di parole e di urla, e poi sirene e rombi e tuoni, e improvvisazioni vocali a metà tra parole in libertà e gorgoglii alla Maria Pia De Vito. Il fumo viene attraversato da pareti di luce che le persone avvolte nel buio si divertono a rincorrere e a t t r a v e r s a r e . S i a m o n e l m e z z o d i u n bombardamento atipico, un fuoco d’artificio futurista e futuribile. Niente da dire, rimango a bere una birra, fumare un sigaro e farmi avvolgere, massaggiare, violentare da questa dimostrazione di potenza. Bravi. Finché il freddo non prende il sopravvento.

È tardi ma non troppo, sarà mezzanotte e mezza, ma questa è una serata futurista, non una notte bianca. Apro un’ultima volta il pieghevole di Zètema, ormai spiegazzato, mettendo croci su tutti i posti dove sono stato, come su incrociatori e portaerei affondate in una battaglia navale a quadretti, e mi accorgo che per quanto la flotta nemica non fosse poi così imponente, ho saltato il PERFORMING MEDIA.POINT in piazza di Pietra. Leggo: «ambiente interattivo (…) dove navigare nel geoblog attraverso le mappature dei luoghi della memoria futurista e degli eventi della serata». Poco male, mi dico. Della memoria i futuristi poco si sarebbero curati, quanto agli eventi della serata, me la sono cavata con il mio pezzo di carta. Mi infilo con un’amica a tirar tardi e riscaldarmi in un bar sempre aperto di piazza Venezia. Prendiamo un whisky e un cornetto caldo, un danese con crema e mandorle. Nel bar hanno tanti tipi di paste, ma un solo wc, unico per uomini e donne. Faccio la fila. Dieci minuti. Sguardi tra il complice e l’imbarazzato con la ragazza che mi precede, ma senza scambiarci una parola. Finalmente lei entra. Quando esce mi dice: fa davvero schifo. È il mio turno di entrare: ha ragione, fa davvero schifo. Faccio, esco, c’è un’altra ragazza che si accinge ad entrare. Non riesco a trattenermi, mi discolpo anch’io: fa davvero schifo, sussurro e fuggo via. Che le colpe ricadano sempre sul passato.

Aspetto l’autobus notturno per tornare a casa. Venti minuti di attesa. Prima di salire guardo di nuovo il cielo: ancora stelle non se ne vedono, e neanche la luna, benché dovrebbe essere all’ultimo quarto. Poco male. D’altra parte lì ci siamo già stati. Forse.

*Andrea Cosentino è un attore-autore, uno dei principali rappresentanti della “Non-scuola romana” (la definizione è di Nico Garrone). Inventore di un teatro satirico basato sulla reinterpretazione della meccanica della comunicazione mediatica. Tra i suoi principali lavori L’Asino Albino e Antò LeMomò. Alcuni suoi testi sono contenuti nel volume Andrea Cosentino. L'apocalisse comica (a cura di Carla Romana Antolini, Editoria & Spettacolo, 2008). Questa rivista si è occupata del suo lavoro in diversi articoli (vedi l’archivio).

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direttore responsabileGian Maria Tosatti

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La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.