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Editore Associazione “Progetto giustizia penale” | via Festa del Perdono 7, 20122 Milano c/o Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria” [email protected] NOTE SU PUNIZIONE, RIPARAZIONE E SCIENZA PENALISTICA di Giovanni Fiandaca 1. Che vuol dire, per un penalista odierno, affrontare da un punto di vista scientifico il problema della pena? Questo interrogativo, riaffioratomi in mente dopo aver letto un recente articolo di Domenico Pulitanò – intitolato, certo non a caso, Il penale tra teoria e politica 1 –, sollecita riflessioni in varie direzioni: in questo intervento prospetterò soltanto alcuni rilievi di massima (fuori da ogni pretesa di sviluppo minimamente sistematico) suggeritimi appunto da tale lettura, pur consapevole che le molte questioni implicate richiederebbero ben altro spazio e approfondimento. Mi sia consentito prendere le mosse dall’impressione complessiva che ho ricavato a lettura ultimata: l’impressione è che Pulitanò tenti di rendere il più possibile distinguibili una dimensione “teorica” e una dimensione “politica” del problema della pena, pur avvertendo la grande difficoltà di tenerle separate, risultando il loro intreccio assai stretto e fitto (e una difficoltà analoga – aggiungerei – può prospettarsi rispetto ad altre categorie fondamentali del diritto penale). Interpretazione forzata o tendenziosa del pensiero del valorosissimo collega? Forse sì, forse no. Prescindo dal soffermarmi sul dubbio se la etichettatura del penale come “tecnologia del Leviatano”, oltre ad essere molto efficace, possegga un valore conoscitivo supplementare rispetto a usi linguistici più correnti. Mi preme, piuttosto, manifestare subito una piena condivisione del monito che Pulitanò lancia contro l’impiego, da parte di noi studiosi, di formule suggestive o “parole magiche che suonano bene, hanno valenza retorica”, ma che risultano in realtà prive di una funzione conoscitiva od orientativa precisa ed univoca: e tra queste formule magiche egli include – ritengo non a torto – persino concetti basilari di impiego risalente e consolidato quali ad esempio retribuzione, proporzione, bilanciamento et similia, se utilizzati in termini molto generali e astratti quasi possano fungere da chiavi immediatamente risolutive delle complesse questioni che spesso vi sono sottese 2 . Quale sarebbe invece il modo di fare (o tentare di fare) scienza nell’ambito del diritto penale? In proposito, Pulitanò ribadisce il suo ormai noto atteggiamento di critica diffidenza nei confronti della cosiddetta dogmatica, argomentandolo in termini che meritano di essere riportati tra virgolette: “Dogmatica è una parola carica di storia, estranea al linguaggio della scienza e della filosofia moderna. Sembra dare maggiore dignità a modelli concettuali o a principi normativi ritenuti fondamentali. Rischia di trasformare questioni di linguaggio in questioni di verità (appunto, dogmi) e di suscitare 1 Pubblicato in questa Rivista, 9 novembre 2020. 2 D. PULITANÒ, op.cit., 11.

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Editore Associazione “Progetto giustizia penale” | via Festa del Perdono 7, 20122 Milano c/o Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria”

[email protected]

NOTE SU PUNIZIONE, RIPARAZIONE E SCIENZA PENALISTICA

di Giovanni Fiandaca

1. Che vuol dire, per un penalista odierno, affrontare da un punto di vista

scientifico il problema della pena? Questo interrogativo, riaffioratomi in mente dopo aver

letto un recente articolo di Domenico Pulitanò – intitolato, certo non a caso, Il penale tra

teoria e politica1 –, sollecita riflessioni in varie direzioni: in questo intervento prospetterò

soltanto alcuni rilievi di massima (fuori da ogni pretesa di sviluppo minimamente

sistematico) suggeritimi appunto da tale lettura, pur consapevole che le molte questioni

implicate richiederebbero ben altro spazio e approfondimento.

Mi sia consentito prendere le mosse dall’impressione complessiva che ho

ricavato a lettura ultimata: l’impressione è che Pulitanò tenti di rendere il più possibile

distinguibili una dimensione “teorica” e una dimensione “politica” del problema della

pena, pur avvertendo la grande difficoltà di tenerle separate, risultando il loro intreccio

assai stretto e fitto (e una difficoltà analoga – aggiungerei – può prospettarsi rispetto ad

altre categorie fondamentali del diritto penale). Interpretazione forzata o tendenziosa

del pensiero del valorosissimo collega? Forse sì, forse no.

Prescindo dal soffermarmi sul dubbio se la etichettatura del penale come

“tecnologia del Leviatano”, oltre ad essere molto efficace, possegga un valore

conoscitivo supplementare rispetto a usi linguistici più correnti. Mi preme, piuttosto,

manifestare subito una piena condivisione del monito che Pulitanò lancia contro

l’impiego, da parte di noi studiosi, di formule suggestive o “parole magiche che suonano

bene, hanno valenza retorica”, ma che risultano in realtà prive di una funzione

conoscitiva od orientativa precisa ed univoca: e tra queste formule magiche egli include

– ritengo non a torto – persino concetti basilari di impiego risalente e consolidato quali

ad esempio retribuzione, proporzione, bilanciamento et similia, se utilizzati in termini

molto generali e astratti quasi possano fungere da chiavi immediatamente risolutive

delle complesse questioni che spesso vi sono sottese2.

Quale sarebbe invece il modo di fare (o tentare di fare) scienza nell’ambito del

diritto penale? In proposito, Pulitanò ribadisce il suo ormai noto atteggiamento di critica

diffidenza nei confronti della cosiddetta dogmatica, argomentandolo in termini che

meritano di essere riportati tra virgolette: “Dogmatica è una parola carica di storia,

estranea al linguaggio della scienza e della filosofia moderna. Sembra dare maggiore

dignità a modelli concettuali o a principi normativi ritenuti fondamentali. Rischia di

trasformare questioni di linguaggio in questioni di verità (appunto, dogmi) e di suscitare

1 Pubblicato in questa Rivista, 9 novembre 2020. 2 D. PULITANÒ, op.cit., 11.

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falsi problemi”3. Se non nella dogmatica, dove risiederebbe allora il quid proprii di

un’attività del penalista (o più in generale del giurista) definibile scientifica? Pulitanò

tende a individuare il contributo scientifico dello studioso di diritto penale, in primo

luogo, nella costruzione di “un linguaggio rigoroso e ricco, idoneo a tematizzare la

complessità del reale, a far emergere i problemi della tecnologia penalistica, ad essere

utilizzato in chiave critica (…). Un linguaggio antiretorico, non edulcorato, idoneo a

parlare di ordinamenti buoni o cattivi, dando conto di come sono fatti, idoneo a

rispecchiare le tensioni fra contrapposte esigenze o valori, tra diritto e giustizia”4.

Mi chiedo se questo modo di intendere il lavoro del giurista teorico finisca col

riproporre un modello di scienza giuridica tendenzialmente werthfreie, più o meno

riconducibile a quell’indirizzo di matrice giuspositivista che contesta un diretto

coinvolgimento dello scienziato del diritto nelle scelte contenutistiche e nelle opzioni

valoriali considerate di pressoché esclusiva competenza del potere politico. Se si

trattasse di un simile modello, farei fatica a farlo mio senza riserve: ma tenderei a

escludere che Pulitanò intenda riproporlo davvero; è verosimile che gli stia a cuore,

piuttosto, l’esigenza che il giurista non contrabbandi per attività scientifico-conoscitiva

del diritto tesi od opinioni basate soprattutto su giudizi di valore a carattere soggettivo.

Ma fino a che punto è possibile depurare dal soggettivismo valutativo il lavoro del

giurista teorico?

2. Anch’io, in precedenti occasioni, ho detto qualcosa su come concepire il ruolo

della dottrina penalistica nell’attuale momento storico. E, nel cercare di esprimere una

mia opinione, mi è capitato di richiamare il punto di vista di Jakobs, che in proposito

continua in verità ad apparirmi degno di molta considerazione (è merito di questo

studioso prospettare assunti che, anche quando non appaiono accettabili in sé stessi,

sollecitano comunque un approfondimento della riflessione): secondo Jakobs, autentica

scienza penalistica sarebbe quella capace di elaborare concetti, categorie, principi e

modelli di diritto penale idonei a dare risposta ai mutevoli problemi e alle mutevoli

esigenze del controllo penale nelle diverse epoche storiche5. Orbene, non nascondo che

mi piacerebbe far mio un tale punto di vista, che affida al lavoro dottrinale compiti che

vanno ben al di là di un’analisi rigorosa degli aspetti strutturali, contenutistici e

assiologici connessi alla tecnologia penalistica: elaborare tipi di diritto penale di volta in

volta adeguati alle peculiari esigenze dei tempi non può, infatti, non comportare forme

di forte coinvolgimento nelle scelte di fondo della politica penale. Se riserve o perplessità

ritengo di dover manifestare al riguardo, queste non derivano da scrupoli di natura

vetero- o neogiuspositivistica. Nascono, piuttosto, dal ragionevole dubbio che un ruolo

così impegnativo e ambizioso possa essere credibilmente assunto da una dottrina

penalistica (peraltro, non solo italiana) come quella attuale, tutt’altro che omogenea sotto

il profilo politico-ideologico e altresì abbastanza pluralistica – come, del resto, non è

3 D. PULITANÒ, op.cit., 12. 4 D. PULITANÒ, ibidem. 5 G. JAKOBS, El derecho penal como disciplina cientifica, Navarra, 2008.

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sorprendente che sia – nel modo di concepire il diritto penale e la sua missione oggi. Che

per di più stenta a far sentire la sua voce per tentare di esercitare una funzione anche

soltanto orientativa nel contesto di un sistema democratico sempre più conflittuale,

confuso e frammentato (nel quale, per giunta, le conoscenze e competenze specialistiche

vengono avversate o screditate dai movimenti populisti più di recente presenti nello

scenario politico).

Comunque sia, pur prescindendo oggi da irrealistiche prospettive e aspettative

di forte protagonismo dottrinale nello spazio pubblico, questa è e rimane – per quello

che può valere – la mia opinione: una scienza penalistica del tempo presente soltanto

illusoriamente potrebbe mantenere un atteggiamento astinente o neutrale rispetto agli

orientamenti politico-culturali, alle visioni ideologiche, alle concezioni morali e ai

corrispondenti giudizi di valore che condizionano le scelte di politica penale. E la stessa

rilettura in chiave costituzionale del diritto penale, nella duplice prospettiva del

costituzionalismo domestico e del costituzionalismo meta-nazionale, consente ampie

convergenze di vedute finché si rimane su di un piano di enunciazioni di principio

generali e astratte: come sappiamo, i disaccordi tornano ad emergere al momento di

concretizzare, specificare e bilanciare i principi e i valori di riferimento in rapporto alle

peculiari questioni da affrontare6.

Anche nel ruolo di penalisti aspiranti in qualche modo e misura a fare scienza,

tendiamo in verità ad intrecciare e assemblare – in maniera non sempre analiticamente

distinguibile – formalizzazione concettuale, interpretazione di disposizioni scritte,

elaborazione e sistemazione di principi, prese di posizione valoriali di varia fonte e

natura e rilievi a carattere empirico; tutto ciò combinando insieme analisi concettuale,

ermeneutica, approccio costituzionale, razionalità assiologica, razionalità strumentale,

concezioni politiche e convinzioni morali (ancorché spesso non esplicitate) ecc.7. In

poche parole, operiamo da scienziati molto più ‘impuri’ che puri – o finiamo con l’essere

poco scienziati (non ultimo, perché raramente disponiamo di quel vasto e variegato

corredo di conoscenze a carattere socio-criminologico, che sarebbe necessario per

pronosticare o verificare il grado di aderenza alla realtà empirica dei modelli di

6 Rinvio ad alcune considerazioni che ho sviluppato anche nel mio recente scritto Intorno al bilanciamento in

ambito penale, tra legislazione e giurisdizione (in corso di pubblicazione in un volume collettivo che raccoglie le

relazioni a un seminario interdisciplinare sul tema del bilanciamento che avrebbe dovuto svolgersi presso

l’università di Foggia il 18 marzo 2020, ma di cui è stato poi annullato lo svolgimento in presenza a causa

della sopravvenuta emergenza sanitaria). In una più generale prospettiva giusfilosofica cfr. V. VILLA,

Disaccordi interpretativi profondi, Modena, 2016. 7 Per considerazioni più articolate rinvio ai miei seguenti lavori: Spunti problematici di riflessione sull’attuale

ruolo della scienza penalistica, in Riserva di legge e democrazia penale: il ruolo della scienza penale, a cura di G.

Insolera, Bologna, 2005, 41 ss.; Rocco: è plausibile una de-specializzazione della scienza penalistica?, in Criminalia,

2010, 179 ss.; e, più di recente, Nodi problematici del diritto penale di ‘scopo’, tra ieri e oggi, in corso di

pubblicazione in un volume di Studi in onore di Lucio Monaco. Più in generale, sulle componenti assiologiche

della scienza giuridica contemporanea (anche a prescindere dalla specificità delle discipline di settore) si

vedano ad esempio i contributi raccolti nel volume collettivo Unità della scienza giuridica. Problemi e

prospettive, a cura di F. Mannella, Napoli, 2016.

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intervento penale prospettabili sulla base di opzioni teoriche figlie soprattutto di

preferenze assiologico-normative, o anche di sensibilità personale del singolo studioso8).

3. L’incidenza delle pregiudiziali scelte (o preoccupazioni) assiologiche è

particolarmente rilevante nell’approccio teorico al problema della pena, come è

comprovato anche dall’attuale andamento del dibattitto interno alla nostra dottrina.

Ciò, ovviamente, non è casuale ed emerge talvolta in maniera abbastanza

esplicita: ne sono testimonianza emblematica, ad esempio, la dichiarata tensione

umanistica e la connessa esigenza di ri-legittimazione etico-politica in chiave

democratico-dialogica della penalità che ispirano la originale proposta teorica di “delitto

riparato” notoriamente avanzata da Massimo Donini, e sulla quale tornerò nel prosieguo

di queste note (e lo stesso può dirsi rispetto alle motivazioni di fondo del grande favore

nei confronti dei paradigmi della restorative Justice già da tempo manifestato da Gabrio

Forti, Luciano Eusebi, Claudia Mazzuccato, Grazia Mannozzi ed ancora altri studiosi in

periodi più o meno recenti9). Ma vi è di più. Essendo per un altro e complementare verso

ampiamente riconosciuto che il fenomeno del punire continua a essere connotato da

aspetti oscuri e da componenti irrazionali, non sembra invero troppo azzardato neppure

questo sospetto: cioè che le stesse teorie della pena elaborate con approccio razionale

possano in qualche misura risentire, anche a livello inconscio o subconscio, di

motivazioni non razionalizzabili sino in fondo, in quanto – a loro volta – dovute al

maggiore o minore condizionamento che sulla persona di ciascuno studioso esercitano i

sentimenti o le reazioni emotive (come insicurezza, paura, ansia, rabbia e bisogni di

vendetta ecc.) per lo più provocati dalle manifestazioni di criminalità10. Così, ad esempio,

sembra tutt’altro da escludere che uno studioso strenuo difensore del primato della

prevenzione generale intimidatrice quale scopo della pena, al di là delle giustificazioni

razionali adducibili, emotivamente avverta la minaccia della criminalità in misura ben

più accentuata rispetto ad altri studiosi che mettono invece al primo posto l’obiettivo del

reinserimento sociale o, più di recente, quello della riparazione. Perché non dovrebbe

8 Sul carattere a tutt’oggi molto problematico e precario del rapporto tra scienza penalistica e scienze

empirico-sociali sono tornato, di recente, a soffermarmi nel mio sopra richiamato scritto Nodi problematici,

cit. 9 In considerazione del limitato obiettivo di queste mie note, ritengo di potermi in proposito astenere da

citazioni bibliografiche puntuali. Fuori dalla cerchia degli studiosi di diritto penale in senso stretto, il

modello della giustizia riparativa ha – com’è noto – trovato convinti seguaci tra i criminologi (come in

particolare nel caso di Adolfo Ceretti), ma è significativo che cominci ad aprire brecce anche in ambito

costituzionalistico: alludo a un recente libro scritto a due mani da una costituzionalista ex Presidente della

Consulta e da un criminologo esperto della materia, precisamente da M. CARTABIA e A. CERETTI, Un’altra

storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione, Milano, 2020. Nell’ambito della più recente pubblicistica di

matrice magistratuale cfr., ad esempio, M. BORTOLATO e E. VIGNA, Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Roma-

Bari, 2020, 139 ss. 10 Uno tra i più autorevoli psicoanalisti contemporanei, di rilievo anche internazionale, è giunto a sostenere

che la stessa attività di teorizzazione affonda le radici ultime in inclinazioni emotive, per cui le teorie

sarebbero non di rado “una sorta di zattera per non annegare nell’angoscia”: A. FERRO, Evitare le emozioni,

vivere le emozioni, Milano, 2007.

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del resto poter essere così, se ormai diamo abbastanza per scontato che la sensibilità

personale esercita inevitabilmente un peso per nulla trascurabile sull’attività

interpretativo-applicativa anche dei magistrati e sulle scelte relative alla

commisurazione giudiziale della pena?

Mi ha colpito e continua a colpirmi, in proposito, il fatto che un celebre esponente

di un pensiero penalistico molto sofisticato, e al tempo stesso fortemente orientato in

senso critico verso la penalità tradizionale, come Klaus Luederssen abbia potuto – già

alcuni anni fa – esprimersi in questo modo: “Non nascondo la mia totale simpatia per

questa tendenza”, riferendosi proprio alla prospettiva della riparazione11. Orbene,

confessare di provare “totale simpatia” equivale a manifestare un atteggiamento

favorevole di tipo appunto emozionale, prima ancora che argomentabile su basi logico-

razionali. Ed è assai verosimile che una sensibilità in partenza incline a privilegiare una

prospettiva di riparazione delle conseguenze negative del reato, in luogo di un rabbioso

retribuzionismo o di un accentuato (nevrotico?) allarme generalpreventivo, rifletta un

orientamento antropologico tendenzialmente più ottimista che pessimista. Ma ciò non

esime, ovviamente, dalla responsabilità etico-politico e al tempo stesso scientifica di

cercare di giustificare con ragioni forti, e comunque intersoggettivamente controllabili,

una pregiudiziale “simpatia” verso il paradigma riparatorio.

Come ben sappiamo, rispetto alle prospettive, ai modi e ai limiti di possibile

valorizzazione di tale paradigma nell’orizzonte della giustizia penale esistono a

tutt’oggi, non solo nel contesto nostrano, posizioni teoriche differenziate.

4. Sulla base delle considerazioni che vi dedica nel recente saggio sopra

richiamato (in particolare nell’ambito di un confronto critico con Massimo Donini) sarei,

invero, tentato di inquadrare senz’altro Mimmo Pulitanò nel novero degli studiosi che

non mostrano soverchia simpatia nei confronti del modello riparativo – o che, in ogni

caso, contestano la sua idoneità a fungere da plausibile strategia di risposta ad una estesa

gamma di fatti penalmente rilevanti. Provo qui a riassumere le principali obiezioni che

Pulitanò ritiene di dover muovere alla ormai nota proposta teorica del “delitto

riparato”12, che rappresenta finora l’espressione – per così dire – più estremistica o

radicale (quantomeno nel contesto penalistico italiano) di un orientamento dottrinale

favorevole ad una prospettiva della riparazione integrata nel sistema penale. Si tratta di

obiezioni che rispecchiano un “dissenso” riferito sia all’impianto concettuale, sia al

significato anche etico-politico dei messaggi normativi: per cui si esclude che l’idea del

delitto riparato possa ambire da un lato a fungere da paradigma teorico atto (così come

Donini pretenderebbe) a rivoluzionare epistemologicamente il diritto penale, e dall’altro

a sorreggere un convincente programma politico-criminale13.

11 K. LUEDERSSEN, Il declino del diritto penale, trad. it. a cura di L. Eusebi, Milano, 2005, 31. 12 La formulazione più recente di tale proposta è contenuta in M. DONINI, Pena agita e pena subìta. Il modello

del delitto riparato, in Questione giustizia, 29 ottobre 2020. 13 D. PULITANÒ, op. cit., 7 (l’insieme delle obiezioni di questo autore che riassumo di seguito nel testo sono

contenute nelle pagine da 7 a 10).

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Le considerazioni critiche relative in primo luogo all’impostazione concettuale

prendono le mosse dal rilievo che il modello teorico in parola difficilmente può risultare

compatibile con la struttura della norma incriminatrice generale e astratta, considerata

anche sotto il profilo comunicativo. Se ho ben compreso il senso di questa obiezione,

proverei a sintetizzarla con parole mie così: sarebbe sbagliato, o comunque fuorviante

intendere il precetto penale come veicolo di un messaggio al cittadino formulato in via

principale e generale secondo uno schema all’incirca del tipo ‘se commetti il fatto X o Y,

hai l’obbligo di riparare le conseguenze dannose che ne derivano; altrimenti, sarai punito

più severamente (o comunque sarai sanzionato con la pena classica)”; ri-concepire in

questo modo il messaggio normativo – rileva Pulitanò – risulterebbe “disfunzionale nei

confronti di chi si accinga a delinquere”. Anche se non viene esplicitato, ho ragione di

presumere che ci si riferisca a una disfunzionalità attinente anche alla funzione

generalpreventiva: nel senso che un messaggio legislativo nei termini di cui sopra,

anziché disincentivare, potrebbe addirittura incentivare la commissione di reati (il

potenziale autore potrebbe dire a sé stesso: intanto delinquo, e poi cercherò il più

possibile di cavarmela riparando!). Ritengo che l’obiezione sia, in effetti, abbastanza

fondata.

Sul versante dei rilievi critici riferibili ad una futura implementabilità di un

programma politico-criminale orientato in partenza e in linea generale secondo un

modello riparativo, il punto problematico che viene subito in considerazione riguarda

l’interrogativo se una riparazione sia sempre possibile. Pulitanò, criticando la tesi della

plausibilità di forme riparatorie per equivalente applicabili anche a delitti

strutturalmente irreparabili, e tanto più se assai gravi come nel caso emblematico

dell’omicidio (tesi che egli attribuisce a Donini: sul punto cfr. però infra, VII), afferma:

“È un gioco di parole del tutto esplicito: riparazione per equivalente è altra cosa da

riparazione in senso proprio”.

Anch’io avverto il rischio – come emergerà anche dallo sviluppo di queste note –

che dell’idea di riparazione si finisca col fare un impiego dilatato e ‘spiritualizzato’ al

punto da snaturarla, o annacquarla in misura tale da offuscarne una specifica identità.

Tutto ciò premesso, lo stesso Pulitanò ritiene comunque ammissibile ed

opportuna – come, d’altronde, sempre più è dato riscontrare nell’ambito del diritto

positivo – la previsione legislativa secondo soluzioni tecniche diverse (circostanze

attenuanti, cause di non punibilità ecc.) di trattamenti differenziati per condotte

riparatorie post delictum, da tenere in ogni caso ben distinte dalla configurazione del tipo

di reato e della pena-base.

5. L’approccio critico di Pulitanò non ha espressamente toccato la questione – da

tempo controversa, e tuttora controvertibile – se la riparazione possa convincentemente

rientrare nel concetto di pena nel senso del diritto criminale. Il problema non è a mio

avviso di puro – per così dire – ‘begriffismo’ dogmatico, dal momento che riguarda in

maniera non secondaria sia il piano comunicativo rivolto alla generalità dei cittadini (in

una prospettiva di corretta percezione del significato dei messaggi normativi e di

conseguente orientamento comportamentale), sia il grado di sostanziale valenza

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innovativa delle risposte in chiave riparatoria rispetto alla più tradizionale reazione

punitiva (sotto entrambi gli aspetti, esiste possibile convergenza o divergenza tra il

significato di pena socialmente diffuso e i significati attribuibili alla riparazione sempre

da parte della gente comune?).

Non sembri, allora, superfluo ricordare che il problema in questione è stato non

a caso affrontato nell’ambito del dibattito teorico intorno alla Wiedergutmachung (e

all’Ausgleich) sviluppatosi nel contesto dottrinale tedesco a partire dagli ultimi anni ’80

del Novecento14. Ad esempio, Claus Roxin ha cercato di risolvere (aggirare?) la questione

sostenendo che la riparazione, pur non essendo definibile in sé una pena (in quanto – tra

l’altro – la spontaneità che dovrebbe caratterizzarla contrasta col carattere coercitivo

tipico delle sanzioni penali), ne possa tuttavia adempiere i fini (insomma, una sorta di

equivalente funzionale)15. Sempre Roxin, nel celebre manuale, riassume il suo punto di

vista in termini che vale la pena riportare tra virgolette: inserita nel sistema delle

sanzioni penali, la riparazione “non è più un istituto puramente civilistico, ma apporta

un contributo essenziale all’attuazione degli scopi della pena. Essa ha efficacia

risocializzatrice. Poiché induce l’autore a confrontarsi con le conseguenze della sua

azione e a prendere coscienza dei legittimi interessi della vittima. Essa può da lui essere

vissuta – spesso più della pena – come necessaria e giusta e in questo modo favorire un

riconoscimento delle norme. Infine la riparazione può condurre a una riconciliazione tra

autore e vittima e con ciò facilitare il reinserimento sociale dell’autore del reato. Infine la

riparazione è molto funzionale alla prevenzione integratrice, perché essa fornisce un

apporto significativo al ristabilimento della pace giuridica. Infatti da quando il danno è

riparato la vittima e la collettività – molte volte persino a prescindere da una punizione

– considerano rimosso il turbamento sociale provocato dal fatto criminoso”16. A prima

vista convincente, questa idea roxiniana di una piena equivalenza funzionale tra pena e

riparazione a mio giudizio rispecchia una visione forse troppo ottimistica e, nel

contempo, rischia di sovrapporre o ibridare troppo la prospettiva della riparazione e

quella della rieducazione o risocializzazione (o, comunque, di renderne molto fluide e

incerte le rispettive relazioni. Fluidità di confini inevitabile, almeno in una certa

misura?).

Primo interrogativo: poggia su adeguati riscontri empirici la fiducia di Roxin

nell’idoneità della riparazione ad adempiere tutti i possibili scopi che la teoria della pena

ha finora attribuito alla punizione – o si tratta ancora una vota di una illazione teorica la

cui corrispondenza alla realtà effettuale resta tutta da dimostrare? Ho ragione di ritenere

che il dubbio vada, a tutt’ oggi, più fondatamente risolto nel secondo senso. A maggior

ragione – direi – perché già a monte mancano, o risultano del tutto insufficienti le

verifiche empiriche relative alla stessa idoneità della pena classica a conseguire gli effetti

14 Vi fa riferimento di recente, ad esempio, G.P. DEMURO, L’incerta parabola della riparazione del danno nel

sistema penale, in La pena, ancora: fra attualità e tradizione. Scritti in onore di Emilio Dolcini, a cura di C.E. Paliero,

F. Viganò, F. Basile e G.L. Gatta, II, Milano, 2018, 691 ss. 15 C. ROXIN, Zur Wiedergutmachung als einer “Dritten Spur” im Sanktionssystem, in Festschrift fuer Juergen

Baumann, Bielefeld, 1992, 243 ss. 16 C. ROXIN, Strafrecht, AT, Bd. 1, Muenchen, 1994, 65.

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preventivi che teoricamente le si assegnano. Ciò vale – com’è noto – rispetto sia alla

prevenzione generale nella duplice forma negativa e positiva17, sia alla prevenzione

speciale rieducatrice: per cui, ove si tentasse di verificare empiricamente in termini

comparativi il grado di efficacia preventiva della riparazione, mancherebbero in

partenza anche affidabili dati concreti di confronto riferibili alla stessa pena tradizionale.

Come che sia, l’analisi andrebbe in teoria distintamente approfondita rispetto a ciascuna

forma di prevenzione. Basti qui qualche rilievo di massima.

a) Cominciando dalla prevenzione speciale, sembra abbastanza plausibile che

una spontanea disponibilità a realizzare condotte riparatorie dell’offesa prodotta col

reato possa valere come un serio indice sintomatico di una presa di consapevolezza, da

parte dell’autore, del disvalore del fatto commesso e, perciò, di una convinta adesione a

un percorso rieducativo. Ma questa funzionalità della riparazione rispetto alla

rieducazione (prevalentemente intesa finora come risocializzazione o reinserimento

sociale, almeno con specifico riferimento agli autori di reato che in larga maggioranza a

tutt’oggi hanno alle spalle situazioni di deprivazione o emarginazione sociale18) fino a

che punto si può dare per scontata? Dubito (e comunque non sono a conoscenza)

dell’esistenza in proposito di studi specifici e approfonditi ad opera di esperti in

psicologia o in altre discipline scientifiche, che siano in grado di lumeggiare sul piano

empirico i presupposti di una virtuosa interazione riparazione-rieducazione. Ma vi è di

più. Mentre cioè per un verso non è da escludere che la volontaria scelta di riparare possa

anche essere frutto di un calcolo meramente opportunistico (vale a dire finalizzato

soprattutto a evitare un trattamento più sfavorevole), rimane per altro verso aperta la

domanda relativa al numero e al tipo di condannati potenzialmente capaci – per

caratteristiche complessive di personalità, livello di istruzione, conoscenze e competenze

personali, risorse economiche o di altro tipo – di orientare in senso riparatorio il

programma trattamentale: ne sono capaci anche i tantissimi condannati in condizioni di

indigenza economica e con un bassissimo livello di istruzione, o quelli che in numero

progressivamente crescente oggi soffrono di disagi psichici e di disturbi

psichiatricamente rilevanti (rispetto ai quali l’obiettivo della risocializzazione dovrebbe

in teoria essere perseguito innanzitutto in una ottica psicoterapeutica)? Ancora, rimane

da rilevare che una riparazione prevalentemente asservita alla rieducazione finirebbe

con l’essere attratta nell’orbita della finalità rieducativa, perdendo così spazi sufficienti

di autonomia identitaria e operativa.

b) Sul piano della prevenzione generale positiva (o della prevenzione-

integrazione, secondo un’altra nota versione teorica: ma nell’ambito di queste sintetiche

note mi sia scusato qualche eccesso di semplificazione o approssimazione), la

17 Con riferimento specifico alla prevenzione generale cosiddetta positiva, è stata a ragione rilevata – tra

l’altro – l’esistenza di questo circolo vizioso: “(…) si parla di stabilizzazione delle norme, ma se è compito

della sanzione garantire tale esito, allora si deve sapere perché essa stabilizzi. Viene in gioco una vera e

propria illazione sul vissuto interiore delle persone che vivono in una data società e fanno esperienza della

prassi sanzionatoria Esse si lasciano o meno motivare dalla sanzione a seconda di quale significato associno

alla medesima. Ma allora ci troviamo di fronte pur sempre alla questione di quale sia il compito della

sanzione per sé: retribuire, intimidire, neutralizzare, educare?”: così K. LUEDERSSEN, op.cit., 132. 18 Per un aggiornato quadro sintetico di dati e informazioni cfr. M. BERTOLATO e E. VIGNA, op.cit., passim.

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convinzione dello stesso Roxin secondo cui una risposta in chiave riparativa può

risultare idonea – ed eventualmente più idonea rispetto alla normale punizione – a

rimuovere nella coscienza dei cittadini il turbamento sociale provocato dal reato, così da

contribuire alla stabilizzazione normativa, non va al di là appunto – e ancora una volta

– di una fiduciosa illazione teorica: non è certo da escludere che ciò possa verificarsi

davvero, ma non è scientificamente dimostrabile perché, come, quando e quanto di fatto

si verifichi.

Ma, tanto più se risultasse vero che la riparazione possa dare risultati

soddisfacenti sotto ogni angolazione preventiva, perché si dovrebbe cercare di

identificarla con (o di assimilarla a) una sorta di pena o di sua parente? Posto che la

prevenzione quantomeno di alcuni tipi di reato sia davvero assicurabile con strumenti

riparatori, continuare ad assimilare pena e riparazione può ben apparire frutto di un

errore concettuale condizionato da una acritica adesione alla tradizione, da un

persistente ma obsoleto residuo di mentalità retributiva: infatti la prevenzione per via

riparativa di per sé non implica l’inflizione di un male, mentre connotato essenziale della

pena nel senso del diritto criminale è e rimane il suo carattere afflittivo19. Ma vi è di più.

Ove dovessero in futuro (sia pure in un futuro non vicinissimo, considerato l’attuale

punitivismo populista a carattere politico e/o giudiziario) progressivamente maturare

una cultura di fondo e una diffusa sensibilità collettiva inclini a percepire il punire come

una risposta ormai in molti casi (tranne ben ponderate eccezioni) anacronistica, e perciò

poco compatibile co lo Zeitgeist, ci sarebbero buoni motivi per guardare alla riparazione

(o ad altri modelli alternativi di reazione ai fatti socialmente dannosi) con un approccio

mentale emancipato sia dal concetto di pena, sia anche dai termini in larga misura

ripetitivi del plurisecolare dibattito sugli scopi della pena.

Già non pochi anni fa Luederssen ha del resto ben rilevato che, se è andato nel

corso dei decenni aggravandosi il fenomeno dell’ inflazione penalistica, ciò è stato co-

determinato dal fatto che la società e lo Stato hanno avuto a disposizione un diritto

repressivo pronto a impiegare la pena come una risorsa subito a portata di mano e buona

un po' per tutti gli usi; mentre, se fosse stato davvero preso sul serio il principio della

sussidiarietà penalistica, i cultori dei settori extrapenali dell’ordinamento giuridico

sarebbero stati costretti a sviluppare la fantasia per escogitare tecniche di intervento a

carattere non punitivo adeguate a fronteggiare i nuovi fenomeni dannosi o pericolosi da

contrastare; da questo punto di vista, si è assistito a un circolo vizioso (i diritti extrapenali

hanno fatto a meno di inventare inedite tecniche di tutela perché sarebbe stato in ogni

caso a disposto a intervenire il diritto penale!)20. In un orizzonte di pensiero

sostanzialmente analogo, ma in una prospettiva politico-culturale ancora più ampia e

meno condizionata dal riferimento specialistico ad aspetti tecnico-giuridici, la filosofa

statunitense Marta Nussbaum ha più di recente lamentato che il dibattito non solo

politico ma anche scientifico sulla criminalità sia rimasto fino ad oggi confinato entro

19 Cfr. K. LUEDERSSEN, op. cit., 33 ss. 20 Ancora K. LUEDERSSEN, op.cit., 140 ss., 142 (“Ove si negasse qualsiasi legittimazione al punire, è certo che

in materia di riparazione la fantasia si rivitalizzerebbe subito enormemente. La mera esistenza del diritto

penale ha fatto sì che il diritto civile fosse in tal modo tenuto, per così dire, a fuoco lento.”).

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spazi tutto sommato ristretti, non avendo coinvolto con la profondità e l’ampiezza che

sarebbero state necessarie tutte le competenze disciplinari potenzialmente chiamate in

causa. Da qui un monito rivolto anche al potere politico: “(…) un legislatore razionale

dovrebbe rifiutare il modo in cui il dibattito sulla gestione dei reati viene generalmente

impostato, cioè come dibattito sulla ’giustezza della pena’. In realtà io sono incline a

pensare che la cosa più razionale sia rifiutare del tutto e per parecchi anni l’uso del

termine ‘pena’, visto che restringe la mente, inducendo a pensare che il solo modo di

rapportarsi al crimine sia qualche ‘guaio’, come dice Bentham, inflitto al reo. La

questione che ci sta di fronte è come affrontare l’intero problema degli atti delittuosi,

non come punire le persone che ne hanno commesso uno. La pena (…) deve cedere il

passo nella nostra attenzione ad altre strategie per la soluzione del problema, e quindi il

dibattito (…) dovrebbe in realtà vertere sulle misure che una società può utilizzare ex

ante (e in certi casi ex post) per ridurre i reati”21.

Auspicherei che un tale monito di matrice filosofica venisse attentamente

recepito da quei giuristi contemporanei che, forse troppo affrettatamente, inclinano a

unificare (o combinare), piuttosto che a separare, pena e riparazione.

4. Rimane vero, per altro verso, che sotto alcuni aspetti esiste una qualche

parentela o affinità tra pena e riparazione, dovuta – non ultimo – a una ineliminabile

polivalenza ed ambiguità semantiche insite in parole appunto come punizione e

riparazione (o anche risarcimento), specie se utilizzate in un senso molto generale e

astratto. Vale forse la pena richiamare un dato storico-linguistico noto non solo agli

addetti ai lavori, ma di comune conoscenza: in passato si è assistito, e pure oggi si assiste

con una certa frequenza all’impiego di espressioni del tipo “il colpevole deve riparare il

danno provocato dal suo crimine con lunghi anni di prigione” et similia, dove è chiaro

che in questi casi il concetto di riparazione assume un significato ideale o simbolico, per

cui esso funge nella sostanza da equivalente concettuale (ed emotivo) dei concetti di

retribuzione o espiazione22.

a) Può, pertanto, sorprendere fino a un certo che questa risalente contiguità pena-

riparazione possa ricomparire anche nell’ambito di approcci teorici volti (almeno nelle

intenzioni) a porre su nuove basi la teoria della pena. Mi riferisco in particolare alla

originale (ancorché discutibile) teorizzazione di Jakobs su significato e scopi della pena

statale, che sfocia infatti anche nella prospettazione di un “dovere di riparazione”

incombente sull’autore di reato. In sintesi, il quadro concettuale è il seguente. “Mentre

nel diritto civile si tratta di compensare un danno materiale prodotto, nel diritto penale

si tratta di far fronte alla messa in pericolo della vigenza del diritto attraverso un

intervento sul responsabile di questo danno o di questa messa in pericolo, e questo

21 M. C. NUSSBAUM, Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, trad. it., Bologna, 2017, 261 ss., 263. 22 Più diffusamente, M. VAN DE KERKOVE, Sens et non-sens de la peine entre myte et mystification, Bruxelles, 2009,

231 ss.

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finché copra la sua sfera di responsabilità personale”23. “La sua responsabilità per la

messa in pericolo della vigenza della norma legittima a infliggergli un dolore attraverso

la pena; si potrebbe, quindi, parlare di una riparazione in un senso più ampio”24.

Riparazione in una accezione lata, dunque, attraverso una sofferenza di

significato punitivo. Ma perché sarebbe necessario infliggere pur sempre dolore al

colpevole? La risposta che viene fornita è questa: “(…) la contraddizione di un reato deve

avvenire proprio infliggendo un dolore: il dolore serve per la salvaguardia cognitiva della

vigenza della norma: questo è lo scopo della pena, così come la contraddizione della

negazione della vigenza attraverso il delinquente è il suo significato” (un simile assunto

teorico, secondo l’autore, riuscirebbe anche a superare la secolare contrapposizione tra

“punitur, ne peccetur” e “punitur quia peccatum est”)25. Cercando di decodificare il passo

ora citato uscendo dalla astrusa complessità del lessico concettuale jakobsiano (che

mescola insieme presupposti rispettivi di filosofia hegeliana e sociologia sistemica

luhmanniana26), provo a esprimerne di seguito il senso con parole più semplici. Perché

il diritto (più precisamente, il diritto reale che vive nella realtà empirica, non il diritto

astratto o ideale in senso hegeliano) possa orientare il comportamento delle persone (non

solo dei potenziali delinquenti, ma anche delle potenziali vittime), non è sufficiente che

il cittadino sappia che esistono divieti normativi di commettere certe azioni e che

all’eventuale autore di una specifica violazione sarà rivolta una imputazione normativa.

Piuttosto, i cittadini (si pensi ad esempio, come vittime potenziali, a un uomo anziano o

a una donna giovane che temono di percorrere a piedi un parco di notte per la paura di

essere derubati o aggrediti) devono avere anche la consapevolezza – ecco la dimensione

cognitiva – che non è troppo elevata la probabilità di divenire vittime di un reato:

consapevolezza a sua volta derivante dal fatto di sapere che l’ordinamento non si limita

a una formale contestazione di addebito, ma infligge all’autore anche una sofferenza con

lo scopo appunto di far sì che il timore o l’esperienza di un dolore sanzionatorio renda

più improbabile la realizzazione di azioni delittuose27.

Una così complicata trama argomentativa, a ben vedere, suscita alla fine

l’impressione di una botte nuova nel disegno esterno ma che contiene pur sempre vino

vecchio, anzi molto vecchio: l’obiettivo pragmatico della prevenzione dei reati – vuol

dire in definitiva Jakobs – non può far leva sulla mera funzione simbolico-espressiva

della pena (quale medium comunicativo che contraddice sul piano dei significati

l’avvenuta violazione della norma, e ne riafferma comunicativamente la vigenza: questo

effetto comunicativo potrebbe essere conseguito anche con la sola dichiarazione di

colpevolezza contenuta in una sentenza di condanna!), ma deve ricorrere al dolore

sanzionatorio come concreto strumento deterrente. Così riaffiora, quindi,

23 G. JAKOBS, La pena statale. Significato e finalità, trad. it., Napoli, 2019, 96. 24 G. JAKOBS, op. ult. cit., 93. 25 G. JAKOBS, op. ult. cit., 89 e nota 143. 26 Sui compositi presupposti teorici della concezione del reato di Jakobs sono tornato a soffermarmi, di

recente, in G. FIANDACA, Nodi problematici del diritto penale di ‘scopo’, cit. 27 Il tentativo di semplificazione compiuto nel testo si avvale anche delle argomentazioni sviluppate da

JAKOBS nelle pagine da 85 a 88 di La pena statale, cit.

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un’antropologia pessimista: il modo migliore di proteggere i cittadini dalla paura della

criminalità consisterebbe sempre nel fare paura ai delinquenti potenziali e nel fare

soffrire quanti hanno già delinquito. Ma è scientificamente dimostrabile che a tutt’oggi

le cose stiano così?28

b) Il nesso pena-sofferenza andrebbe approfonditamente riconsiderato anche

sotto angolazioni ulteriori. Da un lato, torna a riproporsi la questione della persistenza

nella società contemporanea di quel fenomeno psicosociale da tempo indicato,

nell’ambito della stesa dottrina penalistica, con l’etichetta “bisogni individuali e

collettivi di pena” o con locuzioni analoghe. Si tratta di una questione innanzitutto

empirica, cui – come si è non da ora rilevato – non è possibile dare risposte univoche (le

poche ricerche empiriche condotte per verificare il grado di accettabilità sociale di una

riparazione sostitutiva della punizione forniscono risultati contraddittori, e viene messa

in dubbio anche la validità scientifica dei metodi impiegati)29. Per altro verso, non

mancano approcci esplicativi delle basi psicologiche della giustizia punitiva che tendono

a concepire la stessa punizione legale come uno strumento di canalizzazione dell’ostilità

sociale verso il criminale, percepito appunto come un estraneo, un nemico della

comunità (e questo meccanismo psicologico di costruzione del ‘nemico’ servirebbe, a sua

volta, a confermare e rafforzare la fedeltà dei cittadini ai valori tutelati dalla legge: nella

sostanza, dunque, una versione in chiave psico-sociale della teoria della prevenzione

generale positiva sviluppata dalla dottrina penalistica tedesca)30. Ammesso che – come

sembra peraltro probabile – tesi esplicative di questo tipo abbiano un qualche

fondamento, rimane però sul tappeto l’interrogativo se, e in quale misura sia legittimo

in una democrazia costituzionale degna di questo avallare normativamente bisogni o

meccanismi emotivi di punizione per sfruttarne la valenza strumentale rispetto a

esigenze di prevenzione generale31. Un diritto penale figlio di una democrazia non

autoritaria dovrebbe, piuttosto, sapersi confrontare criticamente con gli aspetti

irrazionali ed emotivi ancora insiti nel fenomeno del punire.

Una ulteriore angolazione visuale del nesso pena-sofferenza è quella riguardante

il versante delle vittime in carne e ossa, sotto l’intuibile profilo della potenziale idoneità

del dolore sanzionatorio a soddisfarne bisogni di riparazione psicologica e/o morale

conseguenti al fatto criminoso subìto32. Si tratta di una questione complessa e delicata;

28 In proposito, si è obiettato che resta ancora senza convincente risposta perché la reazione ordinamentale

alla commissione di un delitto debba necessariamente consistere in una sanzione afflittiva: “L’unica risposta

verosimile è che il punire (con tutto il suo sistema di simboli) rappresenti una convenzione dalla lunga e

consolidata tradizione(…). Un esame razionale della pena, tuttavia, dovrebbe chiedersi se le società

moderne non possano inventarsi qualcosa di meglio, piuttosto che seguire passivamente abitudini

consolidate”: così K. GUENTHER, Responsabilità e pena nello Stato di diritto, trad. it., Torino, 2010, 93. 29 Cfr. K. LUEDERSSEN, op. cit., 33 e bibliografia criminologica ivi richiamata. 30 Emblematica in questo senso la concezione di G.H. MEAD, La psicologia della giustizia punitiva, nel vlume

collettivo Carcere e società liberale, a cura di E. Santoro, Torino, 2004, 154 ss. 31 Interrogativo già sollevato, non a caso, ad esempio da K. LUEDERSSEN, op. cit., 106. 32 Mi sono più ampiamente soffermato su questo complesso e controvertibile aspetto nel saggio Gli obiettivi

della giustizia penale internazionale tra punizione e riconciliazione, in La mediazione penale nel diritto italiano e

internazionale, a cura di F. Palazzo e R. Bartoli, Firenze, 2011, 97 ss. (in particolare, 101 ss.).

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ed è, del resto, noto come da una parte della dottrina la teoria retributiva della pena

abbia continuato a essere difesa proprio in ragione della sua ritenuta attitudine a dare

soddisfazione alle vittime. Ma la domanda preliminare da porsi, in proposito, dovrebbe

essere questa: sappiamo davvero cosa significa in questo caso dare soddisfazione? In

realtà, l’esperienza concreta e le indagini psicologiche disponibili fanno emergere che il

cuore delle vittime è attraversato da reazioni contraddittorie e sentimenti in parte oscuri,

tra i quali un generico desiderio di rivalsa o vendetta insieme a un altro generico bisogno

di solidarietà33. In ogni caso, è assai dubbio che una pena orientata in senso anche

fortemente retributivo possa fungere da medicina efficace per guarire i traumi subìti

dalle vittime di delitti assai gravi o lenirne in modo duraturo le grandi sofferenze patite34.

7. Il rapsodico excursus che precede agevola, a questo punto, una analisi più

compiuta della proposta di “delitto riparato” avanzata da Donini. Si tratta di una

prospettazione teorica che presumo sia suscettibile di ulteriori sviluppi ad opera dello

steso autore che ne ha la paternità, e questa presunzione mi induce a considerarla una

teorizzazione ancora in fieri. Come che sia, assumendo a punto di riferimento la versione

più recente35, provo qui di seguito a indicare l’insieme delle ragioni che – a mio giudizio

– possono farla apparire problematica (anche al di là dei rilievi critici esplicitati da

Pulitanò, cui si è già fatto riferimento in precedenza): pur essendo e rimanendo

condivisibili le motivazioni ideali che la ispirano e ammirevole la forte tensione

umanistica che la connota.

Com’è forse intuibile, la prima riserva è di fondo e riguarda l’inclusione della

riparazione nello stesso orizzonte di senso della pena: ciò ne contraddice, o comunque

ne ridimensiona l’effetto di rottura – sui diversi piani, comunicativo, assiologico ed

epistemologico – rispetto alla pena. Una prospettica politico-culturale e teorica

favorevole a ridurre drasticamente l’area della penalità tradizionale dovrebbe, in linea

di principio, puntare invece a fare della riparazione uno strumento il più possibile

alternativo rispetto alla punizione, e dunque poco suscettibile di essere attratto in una

sia pur riveduta nozione di pena etichettata come “post-riparatoria”.

Quanto poi alla sottolineata caratteristica di pena “agìta” dovuta al carattere

spontaneo e operativo della riparazione, in contrapposizione alla “subìta” e passiva

pena tradizionale, è forse il caso di rilevare che in qualche modo e misura “agìta”

dovrebbe in teoria essere definita anche una pena rieducativa pur in assenza di concreti

atti riparatori: una ottica rieducativa costituzionalmente orientata – per quanto

problematico e difficile possa risultare il perseguimento di un obiettivo di rieducazione

in particolare nel chiuso di un carcere – , va infatti concepita non come percorso

obbligato bensì come offerta di opportunità che richiede, in linea di principio, una

33 Per un approccio in chiave psicologica e psichiatrica cfr. F.R. MOLLICA, Le ferite invisibili, trad. it., Milano,

2007. In una prospettiva anche penalistica istruttivo il confronto a due voci W. HASSEMER – J.P. REEMTSMA,

Verbrechensopfer: Gesetz und Gerechtigkeit, Muenchen, 2002. 34 Si vedano gli autori citati alla nota precedente. 35 M. DONINI, Pena agita e pena subìta, cit.

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adesione il più possibile spontanea da parte del condannato e una sua partecipazione

(non passiva, bensì) attiva e convinta al programma trattamentale. Tutto ciò almeno in

teoria. Solo che, definendo “agìta” soltanto la pena riparativa, si rischia di mettere (anche

involontariamente) in ombra già sul piano dell’impostazione teorica, ma con possibili

effetti negativi sul piano pragmatico, l’esigenza che non risulti subìta e passiva neppure

una pena orientata in senso rieducativo.

È vero che punizione e riparazione per altro verso mantengono qualche

somiglianza, al punto che anche Jakobs ha potuto teorizzare – come si è visto sopra – un

concetto lato di riparazione attraverso la pena. Ma rimane altrettanto vero che un

concetto molto estensivo di riparazione finisce col farle smarrire una specifica e

autonoma identità, riducendola a metafora di una pena persino retributiva.

Se così è, per potere prospettare una riparazione dotata di un significato

sufficientemente percepibile come diverso da quello di pena (nel senso del diritto

criminale), occorre passare dal piano dei concetti generali e astratti (delle “formule

magiche”, nel senso giustamente criticato da Pulitanò) a quello pragmatico delle modalità

concrete attraverso le quali l’atto riparatorio è realizzabile: non possono che essere queste

modalità a fare della riparazione qualche cosa di chiaramente differente, sul piano della

realtà effettuale, rispetto alla punizione classica (rappresentata oggi in forma

paradigmatica dalla pena detentiva).

Ciò premesso, si tratta allora di vedere quale idea abbia oggi Donini della

riparazione e l’ambito di estensione che intenderebbe assegnarle. Ad un esame attento

della sua ultima presa di posizione, emerge in primo luogo che egli considera “una

parte” della sua concezione del diritto riparato la giustizia riparativa strettamente

concepita: al riguardo rilevando che essa “pur contenendo in sé matrici ideologiche

totalmente diverse da quelle della penologia tradizionale, non costituisce una vera

alternativa al ripensamento della pena classica, ma un suo correttivo in ambiti che trovo

ancora circoscritti, perché la giustizia riparativa in senso stretto, modellata sulla

mediazione penale, relativa alla ricostruzione del rapporto personale autore vittima, non

è certo sempre applicabile, in quanto la vastità dei reati senza vittima, e dei reati di

pericolo astratto, rende impossibile un tipo di soluzione come questa in via costante e

principale”36. Se ben comprendo il senso di questo complesso (e un poco contratto)

argomentare, si vuol dire che il modello del delitto riparato si prefigge di segnare

rispetto alla pena classica una alternativa ancora più radicale, dal momento che esso può

avere uno spazio applicativo più ampio di quello ricopribile con la giustizia riparativa

in senso stretto, specie se si fa riferimento alla cosiddetta mediazione autore-vittima

quale suo strumento operativo più tipico. Ammesso che io non travisi, mi sembra che si

imponga un primo rilievo. In realtà, la mediazione e gli strumenti riparatori utilizzati

nell’ambito della restorative Justice non mi sembra che siano da considerare forme sia

pure inedite di punizione (piuttosto, mezzi di intervento diversi dalla punizione anche

quando le tecniche della giustizia riparativa vengano di fatto utilizzate non in via del

tutto autonoma – così come pretenderebbe una giustizia riparativa ideologicamente

36 M. DONINI, op. cit., 3 ss.

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‘pura’ –, bensì secondo una logica integrativa rispetto a un procedimento penale o alla

fase esecutiva della pena, anche caceraria)37: mentre l’idea del delitto riparato (nel senso

di Donini) prospetta la riparazione come articolazione interna di una risposta

sanzionatoria che rimarrebbe sempre e in ogni caso penale (concezione c.d. “post-

riparatoria” della pena). Ed è proprio questa pretesa teorica di unificare, assimilare o

comunque ibridare pena e riparazione (e la stessa giustizia riparativa strettamente

intesa) che induce a ribadire possibili obiezioni critiche.

Un secondo rilevo riguarda, com’è intuibile, lo spazio applicativo del paradigma

riparatorio all’interno del modello del delitto riparato: spazio che non può che essere

abbastanza ambio, se l’obiettivo perseguito con l’elaborazione di tale modello è anche

quello di superare i limiti cui va incontro la giustizia riparativa (soprattutto in chiave

mediativa) laddove vengono in rilievo reati senza vittime in carne ossa, come nel caso

tipico delle tantissime fattispecie a pericolo astratto (negli ordinamenti contemporanei

divenute, peraltro, ormai più ben più numerose delle fattispecie di danno effettivo) poste

a tutela di beni o interesse a loro volta privi di tangibili referenti empirici. Ciò sembra in

effetti trovare conferma leggendo anche l’ultimo scritto di Donini in argomento (dove si

fa più volte fa riferimento a una nozione di riparazione sia in un senso lato, sia in una

accezione corrispondente a quella di giustizia riparativa in senso stretto38): in più punti

infatti si afferma e ribadisce che il modello del delitto riparato è concepito come nuovo

istituto di parte generale (che, in analogia alla figura del delitto tentato, prevede una

generale diminuente ad hoc), perché la prospettiva riparatoria dovrebbe avere un campo

applicativo estensibile ad una gamma il più ampia possibile di fattispecie di reato

(inclusi i reati di pericolo astratto), e dovrebbe altresì potersi avvalere del ricorso ad un

ventaglio altrettanto ampio di strumenti operativi (procedimento mediativo nei casi in

cui è possibile attivarlo, eventualmente anche con vittime simboliche al posto di quelle

reali, restituzione volontaria del profitto, prestazioni a favore della vittima o della

collettività, lavori di pubblica utilità, interventi volti a neutralizzare il rischio di eventi

37 Rinvio in proposito a miei più ampi rilievi sulla giustizia riparativa e sui suoi possibili modi (alternativi o

integrativi) di atteggiarsi rispetto alla giustizia punitiva contenuti nei due seguenti scritti: La riforma

codicistica tra mito accademico e realtà politico-culturale, in Gli ottant’anni del codice Rocco, a cura di L. STORTONI

e G. INSOLERA, Bologna, 2012, 241 ss. e bibliografia ivi citata; e Gli obiettivi della giustizia penale internazionale,

cit., 110 ss. e letteratura ivi richiamata. 38 Inoltre, si accenna anche alla possibilità che la stessa giustizia riparativa in senso stretto, nata in origine

all’insegna di una ideologia comunitarista di matrice religiosa protestante e in termini di conseguente

‘alterità’ rispetto alla giustizia punitiva tradizionale allo scopo di venire incontro soprattutto alle esigenze e

alle aspettative delle vittime concrete emarginate dal normale processo penale giuridicamente formalizzato

(e quindi “disincarnato” in ruoli giuridici astratti), sia di fatto a sua volta piegabile ad usi diversi anche sotto

il profilo delle motivazioni politiche: in questo senso – come anch’io ho avuto occasione di rilevare – si va

da un impiego critico-progressista “da sinistra” per contestare la giustizia punitiva borghese ad un uso

tecnocratico-efficientistico finalizzato a scopi deflattivi della macchina giudiziaria (sul punto, più

diffusamente, G. FIANDACA, La riforma codicistica, cit.).

Più in generale, sui possibili usi impropri e sui rischi di snaturamento della giustizia riparativa cfr. i diversi

saggi raccolti sotto il titolo Giustizia riparativa, comunità, diritto e pubblicati in Studi sulla questione criminale

(Nuova serie di Dei delitti e delle pene), n. 1/2009, 7 ss. (in particolare, segnalo J. FAGET, I “ragionevoli

compromessi” della mediazione penale, ivi, 59 ss.).

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lesivi futuri, nuove ipotesi di messa alla prova con prescrizioni riparatorie, introduzione

di nuove misure alternative orientate in senso riparatorio et similia).

Nel contempo, tuttavia, si riconosce che un simile programma politico-criminale

può da un lato andare incontro a limiti di varia natura e, da un altro lato, prospettare

problemi connessi a una persistente indeterminatezza del concetto stesso di riparazione.

Così, non si esclude la possibilità che esistano buone ragioni per escludere da tale

programma alcuni tipi di reato, per cui quello del delitto riparato si prospetta come “un

modello generale che ammette realisticamente attuazioni differenziate”39. Inoltre, si

prende atto che l’implementazione tecnica della svolta riparatoria richiede ancora molto

lavoro sul triplice versante della elaborazione dottrinale, dell’affinamento ermeneutico

e – non ultimo – delle tecniche di tipizzazione normativa delle condotte riparatorie40.

Così stando le cose, si potrebbe allora rilevare che la proposta teorica di un modello

generale di delitto riparato, per quanto assai suggestiva, appare ancora prematura sotto

il profilo non solo politico ma anche scientifico: un auspicabile approfondimento della

riflessione sulla effettiva possibilità di implementare un tale modello potrebbe, infatti,

anche sfociare nella conclusione che sia complessivamente più corretto o ragionevole

continuare a strutturare gli istituti a carattere riparatorio secondo una logica più di parte

speciale che di parte generale.

Un altro punto meritevole di considerazione riguarda l’aspetto soggettivo. Nella

proposta di Donini, oltre a rimarcarsi che la riparazione deve essere concepita come un

paradigma ben diverso e più comprensivo rispetto all’istituto del risarcimento del danno

patrimoniale (anche per evitare il rischio di discriminazioni di classe derivanti dalla

diversa condizione economica degli autori di reato)41, si puntualizza che essa, appunto

perché deve avere come punto di riferimento l’intera offesa penalmente rilevante,

implica l’esigenza di dare altresì rilievo a una componente soggettiva (riferita al

cosiddetto disvalore di azione) da assumere anch’essa a oggetto di valutazione in sede

giudiziaria42: dovrebbe cioè essere accertata – se ben comprendo – una effettiva

interiorizzazione, da parte dell’autore di reato, della positiva valenza assiologica (valore

di azione) insita nella condotta finalizzata a neutralizzare l’offesa già prodotta, perché

soltanto così la scelta di riparare potrebbe essere considerata frutto non già di un mero

calcolo opportunistico ma di un sopravvenuto ravvedimento autentico.

In proposito, prospetterei un duplice dubbio. Per un verso, non si finisce così con

l’avvicinare troppo, sino quasi a non potere più distinguere le due prospettive della

riparazione e della rieducazione? Secondo dubbio: questa enfasi posta sulla rilevanza

dell’atteggiamento soggettivo riferito al disvalore (o, viceversa, valore) di azione non

sposta troppo il baricentro della valutazione penalistica verso la logica del diritto penale

d’autore?

Ma la novità (quantomeno a prima vista) ancora più originale della proposta del

delitto riparato riguarda una sua ulteriore articolazione, che contribuisce a connotarne

39 M. DONINI, op. cit., 10. 40 M. DONINI, op. cit., 10-11 e nota 22. 41 M. DONINI, op. cit., 6,17. 42 M. DONINI, op. cit., 6, 11.

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la complessiva fisionomia teorica. Si allude all’idea non solo di includere la riparazione

nello stesso orizzonte di senso della pena (prospettiva che – come già visto – è

storicamente affiorata più volte, e peraltro sotto angolazioni teoriche anche

disomogenee), ma di assumerla ad auspicabile paradigma di riferimento anche in vista

di un rinnovato modo di concepire le cornici edittali. Donini è infatti dell’avviso che –

beninteso, fuori dal novero dei delitti più gravi e strutturalmente meno compatibili con

una risposta in chiave riparatoria (genocidio, omicidio e pochi altri) – le scale

sanzionatorie dei delitti riparabili potrebbero essere legislativamente determinate

tenendo sin dall’inizio conto, nel calcolo delle stesse cornici-base di pena, dell’incidenza

del momento riparatorio. Per dirlo con le sue parole: “(…) se per il furto tradizionale la

pena ordinaria è di X anni in astratto (…), la cornice del furto riparato sarà già inferiore;

e se poi il delitto riparato dovesse diventare un titolo autonomo con pena assimilata a

quella del tentativo, una autonoma cornice di pena o anche una attenuante ad effetto

speciale, la categoria della riparazione avrà comunque sottratto al reato consumato il suo

significato paradigmatico di pena-base: perché la pena si fonda ora su una distinta

cornice”43. Se comprendo bene la tesi complessiva che vi è racchiusa, il passo testé

riportato riassume in termini sintetici le possibili (e – mi parrebbe di capire – alternative)

modalità tecnico-normative di attuazione di una scelta politico-criminale comunque

orientata a ripensare il reato e la pena in una ottica post-riparatoria.

Orbene, mi chiedo se in particolare la modalità consistente appunto nel

ricalcolare le cornici iniziali di pena di singoli reati riparabili in base a una valutazione

del grado di meritevolezza (oggettiva e soggettiva) della condotta riparatoria, finisca col

dar luogo sotto il duplice profilo della razionalità politico-criminale e della

implementabilità tecnica a problemi e complicazioni che sarebbe opportuno evitare. In

primo luogo, rileverei che, dal momento che – se capisco bene – lo stesso Donini ritiene

che debbano continuare a essere normativamente previste autonome scale più elevate di

pena rispetto ai delitti consumati (astrattamente riparabili, ma) di fatto non riparati

perché i relativi autori si astengono dal realizzare atti di successiva neutralizzazione

dell’offesa, non risulta irrazionale e troppo complicato prevedere legislativamente in

relazione a singole fattispecie criminose doppie misure edittali di pena riferibili alle

ipotesi rispettive di riparazione non avvenuta o avvenuta?44 In secondo luogo, non sarei

così sicuro – come invece Donini sembra essere45 – che assumere a criterio orientativo

della pena edittale e della sua misura la condotta riparatoria renda sempre più razionale

e meno arbitraria la scelta legislativa perché la riparazione sarebbe in ogni caso più

oggettivabile e meno dipendente da stati soggettivi. Concorrono a porre quantomeno in

forse questa convinzione due rilievi: nella impostazione teorica del delitto riparato –

come si è visto in precedenza – la rilevanza dell’atto riparatorio non sarebbe puramente

oggettiva, ma richiederebbe la corrispondete presenza di un elemento soggettivo; oltre

a ciò, la concezione molto estensiva della riparazione che viene adottata proprio in

rapporto al modello del delitto riparato, che giunge ad includervi atti riparatori anche

43 M. DONINI, op. cit., 14 ss., 20. 44 In proposito, muove un analogo rilievo critico D. PULITANÒ, op. cit., 8. 45 M. DONINI, op. cit., 14.

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privi di tangibile materialità, può – anziché ridimensionare – riproporre il problema di

un eccesso di discrezionalità legislativa nella scelta delle scale edittali di pena.

Vi è ancora un profilo che ha a che fare col ruolo del magistrato, e che viene – non

a caso – esplicitamente tematizzato nell’ambito del modello teorico in esame. Per dare

di nuovo la parola a Massimo Donini: la prospettiva riparatoria “dà una identità diversa

al magistrato (…), che non è più un distributore di pene subìte: egli assume un ruolo

sicuramente meno odioso per tutti, e più positivo ma non buonista, perché il buonismo

non è questo”. E ancora: “Io dico ai magistrati, alla procura, agli studiosi, ma anche ai

cittadini che il compito dello Stato non è innanzitutto il raddoppio del male quando si è

commesso il fatto individuale; il delitto non paga, ed è a favore della vittima la proposta

di un differente percorso di queto tipo: ti do un programma, è la prima scelta, ripara; se

non l’accetti ovviamente ci sarà la pena subìta”46.

Condivido senz’altro la tesi di fondo che una prospettiva di estesa valorizzazione

legislativo-giudiziaria del paradigma della riparazione, anche in combinazione con la

pena tradizionale, comporta un rilevante cambiamento nella cultura e nella psicologia

dei giudici e dei pubblici ministeri: a differenza della pena classica, che mantiene – per

così dire – nel suo Dna tracce di valenza polemogena ed escludente simboleggiate

dall’immagine di una giustizia con la “spada”, la riparazione reca soprattutto il

messaggio di una giustizia irenica che tende non a colpire i rei e a isolarli dalla società,

bensì a rimarginare ferite, a ricostruire rapporti positivi con le vittime offese o più in

generale con la comunità di riferimento. Come è stato ben detto da Garapon, mentre la

logica della pena tradizionale funziona pe sottrazione, “l’economia ricostruttiva è

deliberatamente additiva nello sforzo contrario di rendere positiva l’esperienza sociale

della delinquenza, proponendo a ciascuno di integrare un circolo virtuoso”47. Ed è

appunto per riuscire a farsi promotore di atti riparativi che il magistrato dovrebbe

acquisire un nuovo tipo di formazione professionale.

Rimane, peraltro, da chiedersi se questo riorientamento culturale e professionale

possa sfociare anche in un ulteriore ampliamento degli spazi di discrezionalità

giudiziale. Come ben sappiamo, la discrezionalità del giudice rappresenta da sempre

uno strumento-chiave nel passaggio dalla pena legale astratta alla pena individualizzata

in rapporto alla persona concreta del condannato, ed è anche noto che a seconda degli

ordinamenti essa fa registrare variazioni di ampiezza connesse alla diversità dei sistemi

sanzionatori adottati48. Qui mi limito a rilevare che un maggiore spazio concesso in

prospettiva futura a strumenti riparatori potrebbe non incrementare sensibilmente la

discrezionalità giudiziale qualora il legislatore si limitasse a dare rilievo a forme

materiali, come tali tendenzialmente oggettivabili, di riparazione: la discrezionalità

sarebbe verosimilmente destinata, invece, ad aumentare se fossero ammesse anche

forme di riparazione per equivalente o a carattere ideale o simbolico.

46 M. DONINI, op. cit., 11 ss. 47 A. GARAPON, La justice reconstructive, in A. GARAPONE, F. GROS, TH. PECH, Et ce sera justice. Punir en

démocratie, Paris, 2001, 308. 48 Cfr., di recente, M. VENTUROLI, Modelli di individualizzazione della pana. L’esperienza italiana e francese nella

cornice europea, Torino, 2020, 431 ss.

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8. Nel suo più recente scritto sul delitto riparato, Donini ha affermato con una

certa perentorietà che “la riparazione deve essere all’origine concettuale della pena”49.

Colgo, e posso apprezzare la forte tensione umanistica di questa affermazione.

Nondimeno, mi chiedo: un singolo studioso, una corrente di studiosi o – al limite – una

(ideale) scienza penalistica di orientamento unanime possono davvero ambire a

determinare o ri-determinare sensi e scopi di un fenomeno come il punire?

La tendenza a concepire i fini della coercizione penale come obiettivi elaborabili

scientificamente e/o intenzionalmente perseguibili sul piano politico-legislativo è, in

effetti, di gran lunga prevalente tra noi studiosi fino ai nostri giorni. Ma fino a che punto

non si tratta di una pia o comoda illusione (o di una convinzione condizionata, anche a

livello inconscio o subconscio, dal bisogno di sottrarci come penalisti a un senso di colpa

più o meno latente derivante dalla sempre maggiore consapevolezza della irriducibile

problematicità della istituzione-pena)?

All’incirca nello stesso momento storico in cui v. Liszt teorizzava la pena di

scopo, ponendo con approccio razionale-utilitaristico una particolare enfasi

sull’obiettivo della prevenzione50, Federico Nietzsche dedicava al fenomeno punitivo

osservazioni di rara lucidità e profondità, che dovrebbero in realtà essere tenute a

tutt’oggi presenti come monito contro eccessivi o facili ottimismi riformatori: “Per

quanto concerne (…) il suo significato, il suo scopo, il concetto di pena non presenta più,

in realtà, in uno stadio molto tardo della civiltà (per esempio nell’Europa odierna), un

unico significato, bensì un’intera sintesi di significati; la precedente storia della pena in

generale, la storia della sua utilizzazione ai fini più diversi, finisce per cristallizzarsi in

una sorta di unità, che è difficile a risolversi, difficile ad analizzarsi e, occorre

sottolinearlo, del tutto impossibile a definirsi”; ed ecco la conseguente conclusione: “È oggi

impossibile dire esattamente per quale ragione si addiviene alla pena: tutte le nozioni, in

cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione,

definibile è soltanto ciò che non ha storia”51.

Orbene, ritengo che Nietzsche rivolga implicitamente anche al penalista questo

perdurante messaggio: non ci si illuda di potere spogliare la pena di una ineluttabile e

confusa polifuzionalità; e non ci si illuda neppure di poterne ridurre la eccedenza di

significati e funzioni (alcune anche occulte o latenti), che inevitabilmente ineriscono al

punire come fenomeno “sovradeterminato” (in senso storico, politico, antropologico,

sociologico, psicologico, giuridico ecc.), ma anche di poterla una volta per tutte

emancipare da persistenti componenti inintenzionali e irrazionali a carattere emotivo.

Non ne costituisce, del resto, emblematica conferma la concezione cosiddetta

polifunzionale della pena, dominante da tempo anche nella giurisprudenza

costituzionale?. Certo, ciò non vuol dire che – per rilesso dei differenti contesti politici,

49 M. DONINI, op. cit., 5. 50 F. v. LISZT, Der Zweckgedanke im Strafrecht, in ZStW, 1883 (vol, 3, 1 ss.); trad. it. La teoria dello scopo nel diritto

penale, Milano, 1962. 51 F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, trad. it., Milano, 1984, 69.

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dei mutamenti culturali e di sensibilità collettiva – la dottrina penalistica del momento

storico considerato e i legislatori d turno non possano tendere a considerare prioritaria

l’una o l’altra possibile funzione. Ma, come l’esperienza degli ultimi decenni dimostra,

la preferenza in linea di principio accordata al principio costituzionalizzato della

rieducazione (preferenza, peraltro, divenuta ancora più esplicita nelle più recenti

pronunce della Corte costituzionale) non ha per nulla impedito alla pena in action di

continuare a fungere da strumento comunicativo e operativo veicolante, sia nella

percezione sociale e/o delle vittime concrete sia nella strumentale gestione politico-

populista del penale, persistenti messaggi anche di valenza retributivo-vendicativa.

Così stando le cose, non sarebbe allora più conforme a una razionalità sia

assiologica sia strumentale, e più chiaro da un punto di vita anche comunicativo rivolto

alla generalità dei cittadini, tenere concettualmente, tecnicamente e operativamente

separata la prospettiva di una riparazione non punitiva da quella inevitabilmente

polisemica e polivalente della punizione?52 Una scelta di questo tipo comporterebbe in

teoria , com’è intuibile, un grande impegno della stessa dottrina penalistica a creare –

con l’auspicabile e necessaria collaborazione di esponenti di altri settori disciplinari

(anche extragiuridici) – un binario o comparto giuridico autonomo adatto a recepire

l’insieme delle fattispecie penali (ma domani definibili in linea teorica anche in altro

modo, per spezzare appunto il nesso di corrispondenza con la pena!) da trattare con

parametri di giustizia lato sensu riparativa. Ma è evidente che una eventuale scelta in tale

direzione, che personalmente tenderei a preferire, richiederebbe – per non rimanere nel

libro dei sogni, è forse superfluo ribadirlo – un generale contesto politico-culturale di

riferimento orientato in senso assai meno punitivista rispetto al contesto attuale. In ogni

caso, per tentare di concorrere a promuovere – nel ruolo auspicabile di penalisti teorici

disposti anche a fare opera per così dire di pedagogia collettiva fuori dai recinti

accademici – i presupposti di una propensione futura a dischiudere ampi spazi alla

logica della riparazione, non si potrebbe pretendere di mettere in campo soprattutto

ragioni scientifiche, anche da scienza più ‘debole’ che forte; verosimilmente, pesano di

più le convinzioni etico-politiche, le preferenze valoriali e i cambiamenti di sensibilità

collettiva e individuale. Insomma, concluderei che è una questione – al tempo stesso –

molto più e molto meno che scientifica.

52 Vale la pena ricordare che la distinzione (e non già la combinazione o integrazione) dei due modelli –

punitivo e riparativo-riconciliativo – di giustizia è presente, secondo alcuni studiosi di teologia, nella

Scrittura vetero-testamenteria, e ciò sembrerebbe poter confermare, piuttosto che la conciliabilità, la

diversità dei rispettivi orizzonti di senso: per tutti, G. BELLIA, Diritto e giustizia nella Bibbia: uno sguardo

d’insieme, in Etica, giustizia e diritto, a cura di M. Di Tora, Caltanissetta, 2007, 40 ss.