Nostra patria è il mondo intero nostra legge è la libertà · persone e anche la storia del...

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 215 282 29 aprile 2017 Nostra patria è il mondo intero nostra legge è la libertà Pietro Gori, mica gli Eiffel 65 Maschietto Editore

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Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

215 282

29 aprile 2017

Nostra patria è il mondo interonostra legge è la libertàPietro Gori, mica gli Eiffel 65

Maschietto Editore

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dall’archivio di Maurizio Berlincioni

immagine

NY City, Agosto 1969

La prima

Tarda mattinata,

in mezzo al

Central Park,

il grande polmone

verde della città.

Ricordo bene

di essere stato

colpito dallo

sguardo diretto

di questa giovane

donna. In generale

le persone non

ti guardavano

quasi mai negli

occhi, andavano

sempre di fretta

cercando di evitare

questo tipo di

contatto. Questa,

almeno fino a quel

momento era stata

la mia impressione.

Un po’ il

contrario delle

nostre abitudini

mediterranee.

Spesso avvertivo la

sensazione che le

persone cercassero

di mantenere una

certa distanza “di

sicurezza” nei

confronti degli

altri.. Questo

sguardo diretto mi

ha fatto pensare

che forse le mie

erano solo delle

strane fantasie

senza alcun

fondamento.

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Direttore

Simone SilianiRedazione

Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

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Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Numero

215 282

29 aprile 2017

In questo numeroIl 1921, la cooperazione e i partiti della

sinistra

di Emanuele Macaluso

La porta

racconto di Carlo Cuppini

La voce della notte

di Alessandro Michelucci

Il tempo sospeso

di Laura Monaldi

Alessandra e la composite photography

di Danilo Cecchi

Il bisogno di ricordare tutto

di Simone Siliani

Storia del by-pass del Galluzzo - 2

di John Stammer

Dog’s shit

di Claudio Cosma

Parigi merita di non essere tradita

di Simone Zanuccoli

L’uomo che ricorda di saper ruggire

di Elisa Zuri

Fast and furious

di Melia Seth

Marisa Mori al Lyceum

di Cristina Pucci

e

Mariangela Arvanas, Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Michele Rescio, Paolo Marini, Sara Chiarello...

Giani Democratico e progressista

Le Sorelle MarxRidi Pagliaccio

I Cugini Engels 

Il direttore artistico perplesso

Lo Zio di Trotzky

Riunione di famiglia

Da nonperdere

Maschietto Editore

DIALOGO SUL CONTEMPORANEOa partire dalla figura di Lara Vinca Masini

Sabato 29 aprile 2017, ore 17.30Ristorante Caffetteria La Loggia, Piazzale Michelangelo

Durante l’incontro sarà proiettato un filmato inedito con una conversazione tra Lara Vinca Masini, Fabio Cavallucci, Laura Lombardi e Claudio Nardi, organizzata da Cultura Com-mestibile nell’ambito delle iniziative per la tutela dell’archivio della grande critica d’arte. Nei mesi scorsi Cultura Commestibile ha lanciato un appello per chiedere alla Presidenza del Consiglio l’applicazione della Legge Bacchelli a favore dello straordinario archivio di Lara Vinca Masini, raccogliendo oltre 300 firme di personalità della cultura e dell’arte.

con Antonio Natali e Adolfo Nataliniintroduce Simone Siliani, modera Francesca Merz

“Dobbiamo parlare con la gente, trasmettere loro le stesse emozioni che proviamo noi davanti all’arte contemporanea”

Lara Vinca Masini

Questo incontro è il primo di una serie di appuntamenti culturali organizzati da Maschietto Editore con Cultura Commestibile presso il Ristorante La Loggia al Piazzale Michelangelo a Firenze.

Per informazioni: tel. 055701111 - [email protected] - www.maschiettoeditore

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429 APRILE 2017

Pubblichiamo qui la lectio magistralis che Ema-

nuele Macaluso ha tenuto a Livorno il 7 aprile

scorso in occasione delle iniziative di Legacoop

per il suo 130° anniversario. Durante quella

giornata è stato presentato il restauro, avvenuto

grazia al contributo della stessa lega delle Coo-

perative, della facciata del teatro San Marco di

Livorno, che fu il luogo in cui si radunarono gli

scissionisti del Partito Socialista, in congresso

al vicino teatro Goldoni, per dare vita al Partito

Comunista d’Italia. Proprio a partire da quella

ricorrenza il movimento cooperativo ha chiesto

al dirigente della sinistra italiana una riflessio-

ne sull’intreccio tra movimento cooperativo e

la più vasta storia della sinistra italiana. La re-

dazione ringrazia Legacoop toscana per averci

concesso la pubblicazione in esclusiva dell’in-

tervento.

A me sembra molto significativo e interessan-

te il tema che mi è stato chiesto di svolgere in

questa conversazione con voi, perché si tratta di

vedere e di ripensare cosa è stato il movimento

cooperativo italiano nel rapporto con il grande

movimento dei lavoratori, con la sinistra, con

l’emancipazione che ha segnato la vita di tante

persone e anche la storia del nostro Paese.

Io penso appunto che ci sia stato un intreccio

profondo tra questi movimenti, ed è un rappor-

to che nasce da un modo di pensare la società,

un sentimento antico: l’idea che le persone, gli

uomini e le donne, nascono uguali.

L’uguaglianza delle persone: è questo il tema

che ha animato per tanti anni la società, tante

persone, tanti lavoratori e tanti intellettuali. I

primi socialisti utopisti, basti pensare a Tom-

maso Campanella, sono della seconda metà

del cinquecento e si ponevano già il problema

di dove va la società e se questo tema, il tema

dell’uguaglianza, fosse un tema da porre già in

quel momento storico.

A questo è seguito uno sviluppo impetuoso e

diverso quando si è affacciato il capitalismo e

quindi il problema del socialismo; il problema

del rapporto dei lavoratori con la società e con

il capitale. È il tema che ha animato il secolo

scorso, ma io penso animi anche l’attualità,

quello della lotta di classe. Lotta di classe che

oggi cambia senso, cambia anche i modi di por-

si; perché cambiando il capitalismo e la società

sarebbe schematico pensare che anche le forme

di lotta di classe siano uguali a quelle dell’otto-

cento, del novecento, o del duemila.

Tuttavia la questione essenziale di cui io parlo

e cioè il problema dell’uguaglianza, il problema

di Emanuele Macaluso Il 1921,la cooperazione e i partitidella sinistradell’emancipazione dei lavoratori, resta un pro-

blema ancora attuale.

Come si colloca il movimento cooperativo

in questo contesto? Già nel 1860, alla metà

dell’ottocento, a Firenze si stampava un gior-

nale, che si chiamava il Proletario e già allora

in un articolo, Francesco Piccini, che era un so-

cialista di Lugo, affrontò questo tema. Siamo in

anni in cui il capitalismo comincia a svilupparsi

e comincia a organizzarsi il movimento dei la-

voratori. Cosa dice quindi in questo articolo ap-

parso nel 1865 Piccini? “Bisogna riunire nelle

stesse mani lavoro e capitale e perciò gli operai

debbono associarsi e formare cooperative, dove

essi lavoreranno nel loro interesse e godimento

dell’intero frutto dell’opera loro.”

Cioè il movimento operaio capì subito che non

basta l’organizzazione politica: che è necessario

che i lavoratori abbiano il sindacato (e quindi la

organizzazione del movimento sindacale che

comincia a costruirsi), ma anche il movimen-

to cooperativo. Perché quest’ultimo questo si

pone già come uno strumento per dare potere

ai lavoratori e di godersi, come dicono già questi

primi segni della organizzazione del movimen-

to cooperativo, i frutti del proprio lavoro sottra-

endolo al capitale.

Questa intuizione e questa direttiva divente-

ranno sempre più concrete quando fu sancita

la sconfitta della strategia insurrezionale che

era stata messa in atto dall’organizzazione

dell’Internazionale. Era il periodo in cui si pen-

sava di agire attraverso forme insurrezionali,

ricordiamo i grandi moti del 1874, che finirono

però tutte nel massacro e nel carcere. Parlo de-

gli anni di Bakunin, di Malatesta.

Rispetto a questa battaglia, anche generosa e

che coinvolse tanti lavoratori che pensarono

quella insurrezionale fosse la strada, fu la forza

e il potere dello Stato, che già avevano assun-

to una capacità di intervento anche violento, a

prevalere. Noi oggi sappiamo che i risultati di

quella stagione furono drammatici, per gli uo-

mini e le donne del movimento operaio.

Fu questo un momento importante perché

anche uno dei fondatori del Partito Socialista,

Andrea Costa, che era nel movimento inter-

nazionalista, e tanti altri esponenti di quel mo-

vimento, cominciarono ad intrecciare questa

visione anche con l’attività parlamentare. Io

ricordo che anche l’esponente del movimento

internazionalista in Sicilia, un medico di Sciac-

ca che si chiamava Friscia, fu anche lui parla-

mentare. Furono questi i primi parlamentari

socialisti; però non c’era ancora in quegli anni,

che pure sono importanti per la formazione di

una coscienza collettiva che poneva il proble-

ma dell’emancipazione del lavoro come essen-

ziale anche per il progresso del Paese, una agi-

bilità politica e sociale. Furono anni di travaglio

profondo, che ha coinvolto tante persone, e che

ha avuto già alla fine dell’ottocento le prime for-

me di organizzazione strutturata: penso ai fasci

siciliani, colpiti da Crispi poi con una violenza

incredibile e con arresti, processi e morti, e pen-

so alle organizzazioni dei lavoratori del nord,

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repressi da Bava Beccaris che faceva canno-

neggiare i lavoratori di Milano. Tutti momenti

in cui lo Stato si incarnava e si intrecciava con

gli interessi più conservatori e reazionari che

pensavano che quel movimento potesse essere

represso con la violenza.

La nascita del Partito Socialista nel 1892, del

partito dei lavoratori, segna un momento essen-

ziale, non solo per dare una organizzazione na-

zionale ma per la formazione dei primi gruppi

dirigenti, per dare alla battaglia politica anche

un rapporto con la battaglia parlamentare e

quindi con l’intreccio della lotta di massa con

l’organizzazione dei lavoratori, nel sindacato,

nel movimento cooperativo, in quello associa-

tivo. Fu questa appunto l’intuizione di uomi-

ni come Filippo Turati, come Andrea Costa,

Modigliani, Treves, i fondatori del Partito So-

cialista; il quale ebbe uno sviluppo impetuoso

soprattutto in rapporto al tipo di sviluppo del

capitalismo.

Con Giolitti il capitalismo infatti assume uno

sviluppo nuovo a cui corrispose un interesse

del governo diverso rispetto a quello che era

già un forte movimento dei lavoratori; diverso

rispetto a quello che aveva avuto Crispi. È in

questo momento che anche il movimento coo-

perativo assume una fase nuova, più forte

Sappiamo poi cosa avvenne con la guerra del

’14-18, sappiamo come in quel momento il

neutralismo socialista, e anche il neutralismo di

Giolitti, furono sconfitti. La guerra è stata quel-

la che sappiamo: fu un grande macello. Macel-

lo dei lavoratori, dei contadini del mezzogiorno,

di migliaia e migliaia di giovani, di ragazzi, i

quali andarono a morire in massa.

È nel primo dopoguerra tuttavia, con quella

terribile esperienza consumata negli anni della

guerra, che il socialismo ha un impulso e con

il socialismo ha un impulso per la prima volta

l’organizzazione politica dei cattolici, con Luigi

Sturzo. Il quale aveva proprio un retroterra co-

operativo; perché lui in Sicilia aveva costituito

decine e decine di casse rurali, ritenendo che

la possibilità di aiutare i contadini nel sottrar-

si agli strozzini, agli agrari e alla mafia, l’unica

possibilità era quella data dal credito. In Sicilia

sorsero quindi con Sturzo decine e decine di

Casse rurali, di cooperative agricole, un tessuto

fondamentale, sviluppatosi poi in tutto il Paese,

per la formazione del partito popolare, del par-

tito che Sturzo organizza.

Questo è un corso parallelo: nel primo dopo-

guerra noi abbiamo un grande sviluppo del

movimento e del Partito Socialista e un grande

sviluppo del Partito Popolare; insieme anche a

grandi lotte sociali, nel mezzogiorno e nel nord.

In Sicilia ci furono allora le occupazioni delle

terre che iniziano nel ’19: anche con l’organiz-

zazione degli ex combattenti si costituiscono le

cooperative per gestire le terre incolte, le terre

sottratte agli agrari e alla mafia. Ci furono allo-

ra tanti morti. Nella mia provincia, io sono di

Caltanissetta Riesi, furono uccisi 19 lavoratori

proprio mentre occupavano quelle terre.

Ricordiamoci però anche le grandi lotte ope-

raie: le grandi lotte alla FIAT, a Torino nasce

l’Ordine Nuovo, con Gramsci, con Togliatti,

con altri giovani intellettuali e operai. Ci fu poi

la grande occupazione operaia delle fabbriche.

Un dopoguerra molto animato, socialmente

forte ma allo stesso tempo forse incapace di

dare uno sbocco a questa forza.

Nel 1919 in Italia fu anche introdotto il sistema

proporzionale: il superamento del localismo,

dei collegi dominati dalla mafia nel mezzogior-

no, dalle consorterie massoniche. Già con Gio-

litti nel 1911 si era esteso il suffragio universale

maschile e quindi da allora le elezioni assume-

vano un significato diverso da quando erano

limitate solo ai gruppi sociali più forti. Anche

questo comportò una nuova forza al Partito so-

cialista e al Partito Popolare, che aveva superato

il non expedit della Chiesa Cattolica.

Ebbene nel 1919 con la proporzionale, i due

partiti costituiscono la maggioranza del par-

lamento. Il Partito Socialista ebbe un grande

successo e un successo ebbe il Partito Popolare;

anche il movimento sindacale e il movimento

cooperativo in questo contesto si rafforzano e

diventano momenti essenziali, perché questo

intreccio tra quello che è stata l’avanzata del

movimento politico e contestualmente del

movimento sindacale e del movimento coope-

rativo è stato un intreccio continuo. Sia nella

avanzata, sia nella repressione, perché quando

ci sono state le repressioni, queste hanno ri-

guardato l’organizzazione politica, il sindacato

e il movimento cooperativo.

Questa è l’esperienza degli anni del primo

dopoguerra quando nasce nel 1921 il Partito

Comunista d’Italia, proprio qui a Livorno nel

teatro di cui oggi pomeriggio andremo a inau-

gurare il restauro, grazie proprio al movimen-

to cooperativo. Il Partito socialista nel 1921 si

scisse e nasce il PCd’I, con l’Ordine Nuovo di

Gramsci, di Togliatti, di Tasca, di Terracini,

nasce con il gruppo meridionale di Bordiga,

col Soviet, il nome del giornale napoletano

di Bordiga, che aveva un gruppo fortissimo e

maggioritario. Era quello napoletano il gruppo

astensionista: cioè proponeva di non partecipa-

re, nella tradizione dell’internazionalismo, alla

competizione elettorale.

Ebbene si è discusso anche in questi anni se la

scissione comunista sia stata utile, necessaria e

giusta. Ancora recentemente ho visto una po-

lemica, sul tema delle scissioni, perché questo

piccolo gruppo che si è scisso dal PD ha ricor-

dato che le scissioni nella sinistra, purtroppo,

sono state momenti continui: cominciò coi

riformisti di Bissolati, poi c’è stata la scissione

comunista, nel dopoguerra la scissione di Sara-

gat, poi c’è stata la nascita del PSIUP, di altri

gruppetti; quindi questi compagni hanno detto

“noi capiamo, ma siamo dentro a questa storia”.

Del resto anche negli anni in cui il Partito Co-

munista aveva un ruolo e una forza, questo pro-

blema, se è stato giusto fare la scissione del ’21,

è stato sempre discusso. Io ricordo bene che già

Gramsci aveva posto il problema nei Quaderni

del Carcere; lo stesso Terracini aveva detto che

bisognava ripensarla. Tuttavia c’è una frase di

Giorgio Amendola, che a me personalmente,

è sempre sembrata la più giusta. Lui definì la

scissione di Livorno “un errore provvidenzia-

le”.

Amendola quindi mise insieme l’errore e il fat-

to che da quell’errore era nato un grande par-

tito, una grande forza che aveva combattuto,

come aveva combattuto, il fascismo e che ebbe

quel ruolo dopo la Liberazione.

In ogni caso per tornare a questi compagni di

oggi, ecco io ho detto loro: badate, che quando

ci fu la scissione del ’21 era avvenuto nel mon-

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do qualcosa di diverso da oggi. C’era stata la

Rivoluzione di Ottobre.

Si può avere tutti i giudizi, oggi, su quella rivo-

luzione, ma non c’è dubbio che quella rivolu-

zione cambiò il mondo e quindi il fatto che la

scissione aveva come spartiacque aderire o non

aderire alla terza internazionale, fa molta diffe-

renza.

Aderire o non aderire al sostegno totale della ri-

voluzione di ottobre, era questa la posta in gio-

co. I famosi 10 punti, uno dei quali era purtrop-

po, per dare il segno di questo impegno, che i

partiti socialisti dovevano espellere i riformisti.

Quindi anche qui l’errore e la provvidenza

come diceva Amendola. Perché non si può

pensare che scissione del ’21 è come tutte le

altre piccole scissioni che ci sono state, perché

c’era qualcosa nel mondo, il mondo cambiava.

In un grande Paese era avvenuta quella rivolu-

zione proletaria: quella presa del potere, lascia-

mo stare come era avvenuta e quali sono stati

gli sviluppi, aveva cambiato il mondo e lo stava

cambiando.

Perché dobbiamo pensare al rapporto che ha

avuto, nel bene e nel male, l’Unione Sovietica,

con la storia del mondo: se penso a cosa ha si-

gnificato il contributo dato alla seconda guerra

mondiale, un contributo essenziale per sconfig-

gere il nazismo e per sconfiggere il fascismo. O

il contributo, con tutte le contraddizioni, dato

alla lotta anticolonialista, che ha significato la

liberazione in tanti Paesi grazie all’appoggio e

al sostegno dell’Unione Sovietica.

Non fu quindi quella una scissione come le

altre; fu una scissione che riguardava un cam-

biamento d’epoca politica. Eppure io penso che

la discussione anche sulla giustezza di quella

scissione, sia una discussione più che legittima,

da parte di chi pensa che la scissione indebolì

fortemente il partito socialista e la sinistra nel

momento in cui il fascismo nel 1922 fece quel-

lo che fece.

Perché nel 1922 il fascismo significò la fine

della democrazia, la fine della libertà. Lo scio-

glimento dei partiti. L’attacco violento al sin-

dacato e al movimento cooperativo. Perché

l’intreccio era quello. L’attacco reazionario, vio-

lento, del fascismo e del grande capitale, fu di-

retto contro tutto quello che significava, aveva

significato, lo sviluppo negli anni a cui abbiamo

accennato.

Fu quella una grande esperienza, un’esperien-

za terribile: perché il fascismo ha cambiato tan-

te cose nella vita e nella coscienza del nostro

popolo fino alla guerra e alla distruzione e alla

mortificazione del nostro Paese; il quale si risol-

levò anche grazie alla resistenza, grazie al fatto

di quella provvidenza di cui parlava Giorgio

Amendola. Perché il ruolo che ebbe, diciamo

le cose come stanno, il Partito Comunista nella

resistenza, fu importante, determinante.

E tuttavia la nostra non fu una resistenza co-

munista, stiamo attenti, la resistenza è stata

nazionale: è stata la resistenza dei socialisti,

dei comunisti, dei cattolici, dei monarchici, di

parte dell’esercito, dei carabinieri: ricordiamoci

quanti militari furono uccisi a Cefalonia.

La resistenza è stata un grande fatto unitario.

Ma sarebbe ipocrita non ricordare il ruolo che

ha avuto la resistenza comunista, il ruolo che

hanno avuto uomini come Ilio Barontini, mili-

tante comunista livornese.

Barontini, io l’ho conosciuto bene, era per me

l’esempio di cosa era stata la resistenza. Perché

lui era andato in tutte le guerre in cui bisognava

lottare il fascismo: andò in Africa, alla guerra

etiopica, andò in Spagna, fece la resistenza.

Cioè ci furono degli uomini, i quali pensarono

che laddove c’era il fascismo, ci doveva essere

l’antifascismo e dove c’era la violenza fascista,

la guerra fascista, bisognava replicare con le

armi anche.

Questo ruolo che hanno avuto nella guerra di

Spagna, nella guerra di Liberazione, uomini

come Barontini e tanti altri è un fatto che ri-

guarda la nazione, non riguarda un partito, ri-

guarda la storia nazionale. Perché pensare che

la storia del Paese non sia, nel bene e nel male,

anche la storia del ruolo che ha avuto questo

partito io credo che sia un grave errore che può

essere pagato e forse in questo periodo stiamo

pagando.

Io però ora vorrei ricordare una questione che

ha un intreccio con il movimento cooperativo:

quale è stato il ruolo del Partito Comunista in

rapporto alla cooperazione. Io voglio ricordare

un fatto che a mio avviso è significativo, mol-

to significativo, di cosa è stato appunto questo

rapporto. Nel settembre del 1946, Palmiro

Togliatti andò a Reggio Emilia dove tenne due

discorsi: fece un discorso al popolo, in un gran-

de teatro, in cui invitò il ceto medio dell’Emilia

rossa e poi Togliatti tenne un altro discorso ai

soli iscritti al partito.

Fu quest’ultimo un discorso molto importante

che io ho ripreso nel mio ultimo libro su To-

gliatti; in questo discorso Togliatti fa un attacco

durissimo alle cosiddette volanti rosse, al ter-

rorismo che già allora alcune frange del parti-

gianesimo come le chiamava Togliatti, avevano

fatto anche in Emilia. Fu un discorso molto

importante.

Però io qui voglio ricordare Togliatti nel discor-

so che fa al popolo, all’Emilia, al ceto medio

dell’Emilia Rossa, come si chiamava allora.

Ebbene lui, in questo discorso, esalta le figure

del riformismo emiliano: Andrea Costa, Ansel-

mo Marabini, Giuseppe Massarenti, Camillo

Prampolini. Erano gli artefici del riformismo

emiliano, i costruttori del movimento coopera-

tivo emiliano; e verso di loro Togliatti usa una

frase straordinaria, dice: “voglio onorare queste

persone, noi le dobbiamo venerare”. Usa la pa-

rola venerare.

Poi naturalmente fa anche una critica a questi

uomini che venerava e onorava. Non critica

certo la grande opera organizzativa che fecero,

il grande movimento cooperativo che sappia-

mo, anche in Toscana, cosa ha significato. La

critica che faceva era questa: “Io faccio una

critica perché molti bravissimi – usa questa

frase – dirigenti delle cooperative, ritenevano

di esaurire la loro funzione nel buon funziona-

mento della loro cooperativa e in molti avevano

perso il problema del complesso del movimen-

to operaio”

Io ho ascoltato quello che ha detto prima di me

il vostro presidente toscano, Roberto Negrini, il

quale ad un dato momento ha detto una frase

molto interessante, quando ha detto “bisogna

avere in testa un modello di sviluppo”, “un’idea

di società”. Ed era questa la critica che faceva

Togliatti, cioè che non bisogna perdere l’idea di

società.

L’idea di società, badate, negli anni a cui mi

riferisco, era l’idea che con la democrazia, l’or-

ganizzazione delle masse, la battaglia per le ri-

forme, via via si andava verso il socialismo. La

via italiana democratica al socialismo.

Non più la rivoluzione, che era la parola d’or-

dine qui a Livorno degli scissionisti comunisti:

“faremo con in Russia”, affermavano. No, a Na-

poli nel primo discorso che fa Togliatti rientra-

to in Italia nel 1944, dice: “non faremo come

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la Russia”. Quella fase era finita, era chiusa. Le

sconfitte che c’erano state in Germania con gli

spartachisti, le sconfitte che poi anche successi-

vamente anche dopo la guerra, avverranno in

Grecia, dimostravano la non fattibilità della via

insurrezionale. Togliatti disse la via democrati-

ca è inevitabile, non ci sono alternative.

Quindi il nuovo orizzonte diviene la demo-

crazia e il movimento cooperativo sta, in quel

momento, nel disegno di una forza che orga-

nizzando il lavoro e intrecciando il movimento

con le quelle che chiamava le grandi riforme di

struttura, portava alla via italiana al socialismo.

Del resto c’era stata già un’attività molto forte

nel dopoguerra quando ci furono le grandi oc-

cupazioni delle terre, nel mezzogiorno. Io vo-

glio che questa questione sia ricordata, perché

lì nasce un nuovo movimento delle cooperative

grazie alle grandi lotte che costarono tanti mor-

ti.

Quest’anno ricorre il settantesimo anniversa-

rio della strage di Portella della Ginestra, che è

stata una cosa terribile e fu un tentativo, quella

strage e i 36 dirigenti sindacali uccisi, di dire:

“da qui non si passa”. Invece il movimento con-

tinuò dopo la strage e l’agricoltura e la società si-

ciliana, calabrese e il mezzogiorno cambiarono.

Sì la mafia c’è ancora, sappiamo cosa è successo

dopo, però la società e la struttura è cambiata:

non c’è più il baronaggio, non c’è più il feudo.

Il risultato essenziale di quella lotta furono le

cooperative, le cooperative che gestivano la

terra. Oggi quando si vedono i vini siciliani che

vanno ora in tutto il mondo con una produzio-

ne straordinaria, dobbiamo ricordare che le pri-

me attività, le strutture per i vigneti nel Belice e

altrove, sono delle cooperative.

Quelle cooperative sono state un battistrada

dello sviluppo economico anche di quello che

poi sarà lo sviluppo capitalistico del mezzogior-

no. Molta parte dello sviluppo meridionale è

dovuto a questo fatto straordinario che è stato

il movimento cooperativo. E badate che se il

Mezzogiorno non fosse uscito dalla feudalità,

l’Italia non poteva pensare di fare miracoli eco-

nomici e lo sviluppo che poi c’è stato. Di questo

si deve tener conto.

Quindi il percorso nel secondo dopoguerra

qual era? Che queste riforme, lo sviluppo di

un’industria e attività pubbliche, un forte movi-

mento cooperativo, avrebbero via via trovato le

forme, graduali, modificando progressivamen-

te l’economia, la coscienza e la società, perché

quell’ideale straordinario dell’uguaglianza po-

tesse avere uno sviluppo democratico.

Poi cosa è accaduto? C’è stato un momento

dopo la crisi del 1991, la fine dell’Unione So-

vietica e la sua implosione, in cui il mondo sem-

brava appunto non avesse più niente a che fare

con noi, perché era rimasto solo il dominio del

capitalismo nel mondo; c’era la globalizzazione

capitalistica, c’era il capitale finanziario domi-

nante, e in parte è stato ed è ancora così.

Però proprio in quel momento uscì un libret-

to di Bobbio, sulla sinistra, in cui si diceva: no,

attenzione! La sinistra, comunque si incarni,

come partito, come forza sociale, come sindaca-

to, come cooperativa... deve comunque mante-

nere un obiettivo, e l’obiettivo è l’uguaglianza.

Tendere all’uguaglianza non all’egalitarismo, il

siamo tutti uguali e quindi dobbiamo dividerci

tutto. No, la tendenza all’uguaglianza e al pro-

gresso, disse Bobbio. A me pare appunto questa

la chiave di un’idea di società; quello che dob-

biamo cercare nella condizione attuale. Tenen-

do conto che in questi anni non è andata avanti

l’uguaglianza; è andata avanti la disuguaglian-

za, sono aumentate le disuguaglianze.

C’è qualcosa che è avvenuto, non possiamo

ignorare questo fatto. Le disuguaglianze di cui

ha parlato Obama per il suo Paese, ma che ri-

guardano la società anche nostra, sono cresciu-

te e dunque il problema è: le forze politiche e

l’intreccio che le forze politiche dovrebbero

avere col movimento cooperativo, col sindaca-

to, mantengono qui il problema di un’idea di

società?

Questa è la questione. Io ritengo che questo

problema è aperto compagni. Sarei un ipocrita

se dicessi il contrario. E’ molto aperto perché

oggi, in questi anni, dopo la crisi della cosiddet-

ta Prima Repubblica, la crisi dei partiti (io non

voglio qui ricordare tutte le ragioni di quella cri-

si e le responsabilità anche politiche di quella

crisi), non si è ricomposta una forza di sinistra

che abbia come obiettivo quello a cui ho accen-

nato e quindi che abbia anche un rapporto col

sindacato, un rapporto col movimento coopera-

tivo, con l’associazionismo, con tutto quello che

è necessario, giusto, utile, possibile, per andare

avanti su questa direzione dell’uguaglianza.

È questo il punto e se tale soggetto non c’è, io

ritengo che non c’è un vero partito di sinistra.

Un partito che vuole iscriversi, comunque si

chiami, nella tradizione e negli ideali e nei va-

lori di una sinistra del 2017, non certo quella di

cento anni fa e nemmeno quella di 20 anni fa.

Oggi, con il progresso che sappiamo, con la ri-

voluzione digitale, che sono un punto essenzia-

le da valutare per costruire una forza politica,

anche se non cambiano l’obiettivo essenziale di

una forza di sinistra. Cambiano le forme di lot-

ta, cambiano il modo con cui questi processi po-

litici possono avvenire, cambiano gli strumenti

con cui fare la lotta politica ma non l’obiettivo

fondamentale. Perché se non c’è quell’obiettivo

fondamentale, quello di tendere sempre all’u-

guaglianza, quindi al miglioramento, non c’è

a mio avviso forza di sinistra. La sinistra deve

mantenere questa caratteristica, è questo l’im-

pegno che deve tornare.

In questo processo il movimento cooperativo,

ha detto bene il vostro compagno presidente,

deve verificare il suo ruolo. Dopo la Libera-

zione il fatto nuovo che è avvenuto è che la

cooperazione assume un ruolo costituzionale.

L’articolo 45 della Costituzione dice “La Re-

pubblica riconosce la funzione sociale della

cooperazione a carattere di mutualità e senza

fini di speculazione privata. La Legge ne pro-

muove e favorisce l’incremento con i mezzi più

idonei e ne assicura con gli opportuni controlli

il carattere e le finalità”. È la stessa costituzione

che ci dice qual è la grande funzione della coo-

perazione nella società. Sappiamo che c’è stato

un attacco alla cooperazione anche perché c’è

stata qualche ignobiltà vestita da cooperativa,

non voglio dire altro anche di quello che è av-

venuto anche a Roma, però il movimento deve

trovare la forza e la capacità, l’impulso di darsi

di nuovo questo carattere.

Oggi le cooperative hanno i consorzi, hanno la

grande distribuzione, hanno tante cose; io cre-

do che sia assurdo pensare che nella modernità

dei mezzi di produzione la cooperazione dove-

va restare quella che ho conosciuto quando si

apriva una piccola bottega con scritto Coope-

rativa. È chiaro che bisogna avere la capacità

di stare con il nuovo ma senza perdere quei ca-

ratteri che la stessa Costituzione afferma. Quei

caratteri che sono fondativi del movimento

cooperativo e sono intrecciati con una idea di

società, questa io credo che debba essere la lotta

e il movimento negli anni venturi.

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829 APRILE 2017

Lo Zio diTrotzky

“La commedia è finita!”, conclude rivolto agli

spettatori, Canio il capocomico della compa-

gnia teatrale itinerante, nell’opera lirica di

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci. Si sa che il

sindaco Nardella ama la musica e forse, nella

vicenda della moschea a Firenze, avrà voluto

vestire i panni del capocomico, riuscendo

perfettamente nell’intento. Ma, come per

Leoncavallo, il vero facitore della farsa non

è il pagliaccio Canio bensì il delatore Tonio

che svela a Canio la tresca fra la di lui moglie

Nedda e il contadino Silvio, così nella farsa

fiorentina il vero factotum è Renzo che ha

spiegato – tecnicamente e giuridicamente,

s’intende – a Canio-Nardella che la moschea

alla caserma Gonzaga non si poteva fare.

Del resto che la moschea, né alla Gonzaga né

altrove, non s’aveva da fare, Tonio-Renzi lo ha

fatto intendere più volte nei cinque anni della

sua sindacatura, caratterizzata più per i “non

si può” che pure il “fare”, con buona pace

della sua retorica.

Ha voglia Canio-Nardella a intonare il “No,

Pagliaccio non son”: sulla scena il re è nudo

ed egli appare con il suo cerone bianco, il truc-

co pesante e grottesco, le vesti sgargianti da

clown, a dimostrare la sua vera natura, quella

del capocomico indotto all’efferata azione

dall’altrui volontà. Allora noi gli diciamo, tut-

ti in coro: “dai, Canio-Dario, vesti la giunta!

Facce’ ride’”. E altrettanto coralmente invo-

chiamo Tonio-Matteo: “Son qua, ritornano!”,

indimenticato è vero sindaco di Firenze.

Le SorelleMarx

I CuginiEngels

Giani Democraticoe progressista

Ridi Pagliaccio

Grandi sconvolgimenti sono alle viste nella

politica toscana: il nostro mito assoluto

Eugenio Giani, presidente del Consiglio

Regionale e lo Zelig della politica toscana,

sta per cambiare (nuovamente) casacca e

si sta avvicinando, con il suo solito passo

felpato, verso la nuova formazione della

sinistra, Articolo 1 Movimento Democra-

tici e Progressisti. Vi sembrerà impossibile,

ma le nostre informazioni sono di prima

mano. Ne è fortissimo indizio una delle

(infinite) celebrazioni storiche cui Eugenio

ha partecipato, e si sa, il Giani non fa mai le

cose a caso. Il 27 aprile Eugenio ha ricorda-

to questa fatidica data del 1859 quando la

Toscana dopo secoli diventa Stato senza di-

nastie regnanti, con la partenza da Firenze

di Leopoldo II Lorena. Eugenio ci informa

che allora, in quella che è oggi Piazza In-

dipendenza, ci fu una pregevole iniziativa:

una grande e partecipata manifestazione

durante la quale si costituì il Governo

provvisorio della Toscana guidato prima da

Ubaldino Peruzzi poi da Bettino Ricasoli.

Eugenio si è precipitato, come da foto, in

piazza Indipendenza, con i nostalgici del

Risorgimento, ad omaggiare il monumento

a Giuseppe Dolfi, leader dei Democratici

Progressisti seguaci di Mazzini e Garibal-

di. Certo, non c’è Movimento (trattasi di

statua, appunto), ma Democratici e Progres-

sisti ci sono tutti.

L’amico Ventrella ci fa sapere su Facebook,

ricordano una bellissima iniziativa nel car-

cere di Sollicciano, che lui, sul tema notte

bianca, è sempre stato perplesso. Caspita,

non ce ne eravamo accorti negli anni in cui

ne era stato Direttore Artistico e, da bravo

professionista, organizzava e magnificava

al meglio l’evento. Peraltro non dice che è

diventato perplesso dopo che l’evento, da

novità, si è trasformato inevitabilmente in

consuetudine. No dice che lui, perplesso, lo

è da sempre. Figurarsi noi, caro Riccardo,

che abbiamo sempre trovato la notte bianca

un’altra manifestazione del provincialismo

cosmopolita della nostra città; averlo sapu-

to ti avremmo chiesto, allora, un bell’edito-

riale per questa rivista.

Il direttore artisticoperplesso

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929 APRILE 2017

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

Nel miglioredei Lidipossibili

Basta con le vecchie cromie tripartite di inciuci colorati, prendete atto che non esistono più né verde, né bianco, né rosso

Ridi Pagliaccio

Segnalidi fumo

Sconsigliato. Lo dico ai fiorentini e ai tanti

turisti con destinazione Firenze: evitate di

arrivare all’aeroporto di Pisa dopo le 22.15.

Per la semplice ragione che l’ultimo treno

per Firenze parte alle 22.30. Un viaggio

lento (un’ora e venti) ma con un arrivo civi-

le. Da lì per le varie esigenze ci sono, como-

damente, taxi e tramvia.

Peccato che l’intermodalità resti da noi una

pia illusione. Lo dico per esperienza per-

sonale, essendo rientrato giovedì da Malta

con arrivo a Pisa alle 22.35. Stessa fascia

oraria di altri voli provenienti da Roma,

Tenerife, Londra, Bari, Catania e Lisbona.

Atterrati tutti tra le 22.30 e le 22.45. In

perfetto orario per perdere, anche se solo per

pochi minuti, la coincidenza con il treno

per Firenze.

Ai fiorentini e ai tanti turisti non resta

quindi che l’alternativa del bus. Poco male

direte voi. In teoria si arriva sempre a SM

Novella in poco più di un’ora di viaggio. In

pratica le cose, per come sono di-sorganiz-

zate, stanno diversamente. A quell’ora la

Toscana accogliente, organizzata e moder-

na o è a dormire o è distratta. Ad accogliere

i viaggiatori c’è un’altra Toscana, quella di-

sorganizzata, cialtrona e anche maleducata,

in pratica una regione che nel giro di poche

ore scivola nel profondo Sud del mondo.

Vi racconto la nostra odissea. Il primo bus

disponibile parte un’ora dopo, alle 23.30.

Nel frattempo i viaggiatori aumentano.

Quando arriva c’è l’assalto all’Ok Corral,

rallentato da un lento e inutile controllo del

biglietto. Il tutto sotto la pioggia, al capoli-

nea di una pensilina scoperta. Non c’è po-

sto per tutti e alcuni restano fuori. Sembra

ci sia ancora una corsa, ma non si capisce

bene. Per i fortunati che arrivano a Firenze

(intorno all’una) il bus, causa ingorghi (?!),

non arriva più alla stazione ma si ferma in

viale Strozzi, di fronte alla passerella che

porta al binario 16. Luogo buio e privo di

indicazioni. Il gruppo di francesi e tedeschi

persi e smarriti. Noi indigeni increduli ma

rassegnati. Si imbocca la passerella ma, sor-

presa, l’ingresso alla stazione è sbarrato da

un cancello. Non ci sono alternative: sotto

la pioggia, trascinando bagagli, saltando

cordoli e attraversando strade la lunga

fila indiana imbocca il marciapiede di via

Valfonda. Si arriva alla stazione. Per fortu-

na i taxi ci sono ancora e l’odissea finisce.

Stupisce che nessuno abbia pensato che a

quell’ora i bus potrebbero. senza problemi,

raggiungere la stazione, evitando a tutti

una notte da maratoneta. Così se l’intermo-

dalità resta un sogno, il buon senso è come

l’araba fenice: che vi sia ciascun lo dice,

dove sia nessun lo sa.

di Remo Fattorini

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1029 APRILE 2017

Le fotografie di Maria Di Pietro evocano una

bellezza ancestrale che si perde nella notte dei

tempi; si lasciano assaporare nella loro totalità

cogliendo al tempo stesso le sfumature imper-

cettibili all’occhio umano; sono narrazioni visi-

ve dall’alto slancio poetico e metaforico, in cui

il colore o le scale di grigi non fanno altro che

aggiungere enfasi alla visione. Il fotografo è per

antonomasia un predatore di immagini, ma per

Maria Di Pietro la fotografia è un cosciente di-

venire di bellezze, verità e libere associazioni

del pensiero; è la sintesi completa fra la rifles-

sione e la rappresentazione dell’esistente, non-

ché il sentimento di un oblio inarrestabile a cui

è impossibile non partecipare. Scorci, paesaggi

e particolari sono il resoconto diaristico di un

soggettivo modo di vedere e carpire il mondo

circostante, attraverso uno sguardo penetrante

e onirico dentro e oltre il reale. Nella serie Il

tempo sospeso – in mostra alla Biblioteca San

Giorgio di Pistoia fino al 3 giugno – l’immagi-

nazione su ciò che era e su ciò che sarà si fon-

de con il senso di abbandono allo scorrere del

tempo. Una creatività che lascia emergere l’i-

dea dell’esistenza della Storia, in cui l’uomo e il

mondo si stagliano in un piano secondario, fa-

cendo emergere l’essenza intima di uno spazio

dominato dalla Vita e di tutto ciò che rimane di

essa nell’eterno ritorno del nulla, della dimen-

ticanza e della distruzione che il Tempo opera.

I treni fotografati da Maria Di Pietro sono la

metafora di un viaggio ai confini degli ingan-

ni dell’apparenza: tra presente e passato, tra

malinconia e gioia della scoperta, l’archeolo-

gia ferroviaria del fotografo lascia presagire la

necessità di una realtà da vivere e toccare con

mano. Riesumati da un antico sogno e ripor-

tati con vigore alla ragione attuale attraverso

la stampa fotografica, i treni di Maria escono

dalla fotocamera interpretati sotto una nuova

luce, in cui l’emozione del ritrovamento e la co-

scienza del filo sottile che separa il domani dal

remoto spiccano su paesaggi desolati e resti di

mondo che hanno ancora molto da raccontare.

Al fotografo moderno spetta l’arduo compito

di offrire al pubblico una visione inedita della

realtà, di veicolare lo sguardo oltre ciò che il re-

ale può offrire e Maria Di Pietro ci riesce con

una maestria inimitabile.

In ogni città vive un tempo sospeso.

Scorre sui margini delle mura, s’insinua nelle

nervature delle crepe,

ha il volto della solitudine e il suono di vite vis-

sute.

Vive in un momento come una fitta nebbia av-

volta

nel suo corpo.

Come un’interruzione improvvisa tra gli angoli

le curve

in ogni forma diventata scrigno di una storia

una solitudine dei luoghi avvolta da suoni vivi

nel silenzio e nell’immaginario.

Si colgono i profumi, le gioie e le paure.

La sostanza del tempo s’incolla alle mani che

Cercano di toccare quel tempo,

le labbra provano a raccontare

negli occhi come acqua che dilata le pupille

fino a vedere immagini infinite

di vite esistite,

lì per sempre come tracce, come note,

aspettando chi sappia fermarsi a reinventare

tra un bianco e nero,

le sfumature dei colori e dei suoni.

di Laura Monaldi

Il tempo sospeso

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1129 APRILE 2017

disegno di Massimo Cavezzali

e attenta alle sfumature, Roe aggiinge alla

propria discografia un disco di grande inte-

resse. Chi volesse approfondire la figura del

musicista irlandese può leggere il libro John

Field and the Nocturne (Xlibris, 2006),

scritto da Allan Wagenheim.

Il fascino della notte ha ispirato artisti di

ogni tipo. Pensiamo agli Inni alla notte,

ciclo poetico di Novalis (1800); alla Notte

stellata di Vincent van Gogh, olio su tela

del 1889; al libro di Kazuo Ishiguro Not-

turni. Cinque storie di musica e crepuscolo

(Einaudi, 2009).

La musica non fa eccezione, tanto è vero

che il termine notturno indica brevi com-

posizioni pianistiche tipicamente romanti-

che, dove i toni lirici e sognanti si alternano

a quelli cupi o malinconici. Molti compo-

sitori europei, fra i quali Debussy, Grieg e

Liszt, hanno utilizzato questa forma espres-

siva, ma quello che le viene comunemente

associato è Fryderyk Chopin (1810-1849),

che compose i celebri ventuno Notturni fra

il 1827 and 1846. Eppure non fu il musi-

cista polacco, ma l’irlandese John Field

(1782–1837), a concepire per primo il not-

turno.

Nato a Dublino in una famiglia di musici-

sta, allievo di Tommaso Giordani e Muzio

Clementi, Field era particolarmente sensi-

bile al fascino della notte. Nel 1810,quan-

do nacque Chopin, era già un pianista af-

fermato. I due si conobbero e il musicista

polacco divenne un grande ammiratore

dell’altro, restando influenzato dalla sua

tecnica compositiva.

I notturni del compositore irlandese, scritti

fra il 1812 e il 1836,

sono stati registrati da vari interpreti. Il

lavoro più recente è Complete Nocturnes

(Decca, 2016), realizzato da Elizabeth Joy

Roe. La pianista statunitense di origine

coreana vanta un curriculum prestigioso.

Ha collaborato con artisti come Leonard

Slatkin e Daniel Hope. Insieme al pianista

Greg Anderson forma un duo che riscuote

grandi consensi.

Complete Nocturnes ci permette di capire

le differenze fra i notturni di Field q quelli

di Chopin. Il secondo possiede una gamma

espressiva meno ampia: ascoltando il disco

si percepisce qua e là una certa monotonia

timbrica e melodica, temperata comunque

da un lirismo intenso. Interprete incisiva

di Alessandro Michelucci

La voce della notte

MusicaMaestro

SCavezzacollo

Il tempo sospeso

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1229 APRILE 2017

Storia di un uomo che osserva dall’alto di un

bastione un altro uomo più giovane fermo ac-

canto a una grande porta fortificata. Il secondo

uomo, con ogni evidenza, è il se stesso di molti

anni prima, capitato chissà come sotto i propri

occhi. Con il passare degli anni si era comple-

tamente dimenticato di lui, e ora la visione lo

cattura.

È quasi sera. Dal modo in cui si muove e sem-

bra attendere qualcosa, si comprende che l’uo-

mo più giovane è il custode o il guardiano della

porta, o forse semplicemente l’incaricato ad

aprire i battenti la mattina e chiuderli la sera.

All’improvviso, come rispondendo a un se-

gnale preciso, il giovane passa sotto l’arco im-

ponente della soglia, afferra un’anta e se la tira

dietro chiudendola. Quindi rientra per fare

lo stesso con l’altra. Il meccanismo della por-

ta permette alla serratura di scattare soltanto

quando i battenti vengono tirati con forza

dall’esterno: non c’è chiave, e chi chiude la por-

ta è destinato a rimanere fuori dalla città. L’uo-

mo che osserva dall’alto pensa che il giovane se

ne stia andando per sempre, dato che non sarà

possibile riaprire la porta, né per lui, né per chi

resterà all’interno.

Afferrata la seconda anta, però, il giovane si

blocca sorpreso da una visione inattesa. A

pochi metri da lui, lungo una seconda cerchia

muraria più interna, c’è un’altra porta, più pic-

cola, anch’essa munita di pesanti ante di legno

che in questo momento sono socchiuse. Un

puledro snello e muscoloso, con il manto che

va dal bianco al rossastro, si sta affacciando tra

i battenti, scosta i battenti spingendo con i fian-

chi quel tanto che gli basta per passare e proce-

de dritto fino alla porta più grande.

L’uomo, rimasto immobile, si fa da parte tiran-

do l’anta verso l’interno, per aprirla del tutto

e permettere al cavallo di passare. L’animale

trotta libero, spettrale con il suo manto chiaro

che riluce nella notte ormai sopraggiunta.

Quando la visione è sparita, il giovane torna

alla sua occupazione: afferra l’anta che aveva

spalancato e fa di nuovo per chiuderla, per

chiudere se stesso fuori dalla città. Ma di nuovo

una visione lo interrompe. E questa volta lo rag-

gela. Una figura femminile appare tra i batten-

ti della porta più piccola, confusa nell’oscurità,

nel silenzio tombale che adesso permea ogni

pietra. È una donna anziana, completamente

nuda tranne che per uno straccio bianco, molto

liso e quasi trasparente, che le copre l’addome.

La sua pelle è avvizzita, lucida e rosea come se

fosse stata cotta nell’acqua bollente. Il volto è

intriso di una sofferenza immobile. Gli occhi

sono due fessure, i capelli sembrano paglia get-

tata sulla fronte. Avanza verso la grande porta

esterna, le braccia tese in avanti a indovinare

la direzione, nell’evidente impossibilità di fare

affidamento sui propri occhi.

L’uomo, paralizzato dallo sgomento, pensa

soltanto: “No. Mamma, non avrei mai voluto

vederti così.”

Mentre la donna si avvicina, lui si scosta ba-

dando di non fare rumore. Tiene ben aperto il

battente e trattiene il respiro per far sì che la

donna passandogli accanto non percepisca la

sua presenza. Aspetta che abbia attraversato

la soglia e che sia giunta fuori dai confini della

città. Poi con uno slancio attraversa a sua volta

la porta, senza curarsi di sbattere l’anta per ser-

rarla, e raggiunge la madre.

Adesso la donna non appare più nuda, non

sembra scorticata né ustionata, non è più mor-

ta. Però è chiaro che sta per andarsene. Per

questo motivo se ne sta china, a occhi chiusi,

immersa in una dolente e muta meditazione.

Il giovane uomo le si avvicina tremante, la sfio-

ra con le dita, aspetta un suo sussulto, una sua

reazione che non arriva. Allora la abbraccia

con vigore, la stringe a sé, accarezza il suo viso e

le dice: “Mamma, ti voglio bene. Mamma, sono

carne della tua carne. E anche se tu adesso mo-

rirai, questa cosa resterà vera per sempre.”

Piange. La madre resta impassibile. Si sta già

inoltrando dentro il territorio distante della

morte. Nemmeno apre gli occhi, se non dopo

un lungo tempo. Solo allora l’abbraccio ha

termine e il giovane si stacca lentamente. In-

sieme, in un muto accordo, il figlio e l’anziana

si avvicinano di nuovo alla porta, con l’intento

di chiuderla finalmente, una volta per tutte, ti-

rando insieme i battenti, chiudersi alle spalle il

ricordo della città.

Entrambi afferrano con una mano l’estremità

dell’anta ancora aperta. Ma quando si accingo-

no finalmente a tirarla, l’irruzione di una nuo-

va, rumorosa presenza li interrompe. Un uomo

basso, grassoccio, eccessivamente elegante e ri-

dicolo, sbuca dalla porta più interna, come pri-

ma il cavallo e la madre. L’uomo ha una bom-

betta calata sulla fronte, grandi occhiali tondi

sul naso, un vestito nero con la camicia bianca.

Se ne va spedito, trotterellando su gambette

troppo corte, con un passo da sempliciotto be-

nestante. Senza guardare in faccia né l’uomo

né la donna guadagna l’uscita e se ne va per la

sua strada fischiettando.

La madre si volta verso il figlio e per la prima

volta pronuncia delle parole: “Quello è il coc-

chiere.”

Restano lì, nello spazio tra l’anta chiusa e quel-

la aperta. Il giovane sa che questa volta la porta

verrà chiusa davvero; il momento è delicato,

sente l’aria che vibra intorno a sé. Si prepara a

compiere il gesto finale.

Da lontano, intanto, dal cuore della città, pro-

vengono rumori sordi: sono i tonfi e i rantoli

degli acrobati – alcuni dei quali farabutti e as-

sassini – che in piazza si cimentano con il qua-

druplo salto mortale. Lui sa bene che una sola

ragazza ci può riuscire agilmente; tutti gli altri

cadono male, e restano stesi per terra urlando

come morsi dal diavolo, i denti che stridono

per i dolori lancinanti e le convulsioni causate

dall’impatto violento col suolo.

La porta viene chiusa. Il giovane ascolta lo scat-

to della serratura. I suoni della città sono rima-

sti chiusi dentro. Fuori è silenzio, nella grande

notte che ascende.

Non si vede più niente: il cavallo, il giovane, la

madre, sono spariti nel nero. Fuori dalla città

non c’è più nessuno. L’uomo sul bastione sol-

leva gli occhi da terra. Il cielo è buio, pieno di

una luce nera che si spande vorticosamente

in tutte le direzioni. Ha assistito a tutti questi

accadimenti mirabili senza fiatare. Il gelo gli

scende dagli occhi e penetra nel cuore.

di Carlo Cuppini

La porta

Il mondosenzagli atomiillustrazioni di Aldo Frangioni

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1329 APRILE 2017

ripensare al Clint Eastwood di “Gran Tori-

no” e anche di “One Million Dollar Baby”.

I personaggi di Amelio, che si stagliano nel-

la narrazione grazie alla notevole prova de-

gli attori, a cominciare dal protagonista fino

alla breve, ma molto significativa sequenza

affidata a Greta Scacchi, camminano maci-

nando le angosce e i dubbi a lungo, inseguiti

da motorini e auto per le strade di una Na-

poli, anch’essa non retorica, caotica come le

metropoli odierne, ma senza eccessi di de-

grado e con sprazzi di bellezza e lentamen-

te, alcuni, soprattutto nella seconda parte

del film, riescono a dipanare la matassa del

non detto, degli equivoci, segreti e misteri

del passato, fino a fa riemergere tra loro,

appunto, la tenerezza. Sono famiglie senza

maschera quelle che il regista ci suggerisce

e ci mostra, dal padre anziano che ammette

di non riuscire ad amare i suoi figli da quan-

do sono diventati grandi, all’altro giovane

genitore che confessa di non saper di cosa

parlare ai suoi bambini.

La storia evolve con lentezza perché è fati-

coso far emergere e venir fuori il sentimen-

to autentico della tenerezza, ma il film è

teso e non perde mai il ritmo, non ci sono

cadute e questa limpidezza è, a mio avviso,

legata non solo alla completa assenza di

pregiudizi, ma soprattutto alla capacità di

non giudicare nessuno dei personaggi, pur

negli errori, nelle avversità, nella tragedia e

nelle piccole debolezze; credo sia questo il

presupposto che ha permesso al regista di

guidare magistralmente gli attori , consen-

tendo loro di “farsi raggiungere dai perso-

naggi in profondità”, come dice Elio Ger-

mano, interprete del giovane padre. Forse

proprio il conseguimento di un’età avanzata

sia da parte del regista sia del protagonista

che, in buona misura, lo rappresenta fa av-

vertire come una vera e propria necessità

rinunciare a giudicare non tanto per non

essere giudicati, quanto per comprendere

e calarsi a fondo nella realtà umana fino a

riscoprire sentimenti autentici, riscattando

così almeno in parte il proprio destino di

solitudine.

Una misericordiosatenerezza

Il termine ebraico rechem/rachamim, pre-

sente nel Vangelo all’interno di una varietà

lessicale più ampia, solitamente tradotto in

italiano con “misericordia”, potrebbe essere

meglio reso con la parola “tenerezza”, così

suggeriscono le quattro bibliste, Rosalba

Manes, Annalisa Guido, Rosanna Virgili,

Marisa Nicolaci che hanno pubblicato nel

2015 un commento ai Vangeli, fondato su

un’accurata analisi del testo, da un’angola-

zione e con interpretazione femminile. In

effetti, mentre la misericordia sembra con-

tenere implicitamente un passaggio dall’al-

to al basso, la tenerezza appare più orizzon-

tale, comprende il riconoscere nell’altro le

proprie fragilità ma anche la forza vitale e

soprattutto è un sentimento concretamente

umano, come la sua etimologia suggerisce;

il lat. tenerus indica ciò che ha poca durez-

za, che acconsente al tatto e non è un caso

che la sequenza finale del film di Amelio

consista nell’avvicinamento anche fisico di

padre e figlia, lontani per tutto il film sia nel

linguaggio verbale che in quello non verba-

le, che finalmente si accarezzano le mani.

E la tenerezza, la capacità di provarla ed

esprimerla è profondamente legata in que-

sto film alla felicità possibile che, come dice

uno dei personaggi nella parte finale, “è una

casa a cui tornare” (l’ispirazione della storia

viene dal romanzo di Lorenzo Marone, “La

tentazione di essere felici”).

Ma la tenerezza, nonché la felicità sono

traguardi non scontati e molto difficili da

raggiungere; lo sguardo di Amelio sulla fa-

miglia o meglio sulle due famiglie che ci fa

incontrare nel film è uno sguardo privo di

quella asfissiante retorica che da decenni

una parte dell’opinione pubblica italiana,

in basso e in alto ci infligge; emerge l’acu-

ta consapevolezza che genitori e figli non si

scelgono e si possono non amare; l’amore

autentico non è conseguenza né dei lega-

mi di sangue né tanto meno dei contratti

matrimoniali. Talora anzi, come in questa

narrazione, sono i sentimenti di sponta-

nea tenerezza che sorgono verso estranei

e la comunicazione con loro che possono

consentire di liberare dai pesi delle incom-

prensioni passate anche i rapporti familiari;

talvolta, ma niente è scontato e la tragedia

può essere dietro l’angolo, svolgersi nella

casa accanto, solo dopo qualche avvisaglia

di significato ambiguo. Già un altro regista,

di recente, ha sondato questo terreno con

maestria e con grandi film; impossibile non

di Mariangela Arnavas

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1429 APRILE 2017

una collettiva riattivazione della memoria

dei morti sotto il crollo. Ecco, penso spesso

che questa minuziosa e mai completa rico-

struzione e assemblaggio di lacerti del pas-

sato, dei fatti piccoli e locali (dalle stragi

alle biografie, dalle passeggiate nei luoghi

della Resistenza alle ricerche, spettacoli,

film, lavori nelle scuole), possano restituir-

ci il senso della felicità di quella mattina di

fine aprile di 72 anni fa.

Oggi vorrei odiarvi, ma non riesco. Sì, voi,

sparuto manipolo di reduci e nostalgici

che ogni anno vi riunite al cimitero di Tre-

spiano per rendere omaggio ai morti della

Repubblica di Salò. Voi che pretendete

di trasformare aguzzini e traditori della

Patria in eroi al pari (e per voi ben sopra)

di quelli che dettero la loro vita per libe-

rare l’Italia dal giogo fascista e nazista e

restituire dignità a questo Paese. Voi che

pretendete pietà da morti per chi non ne

ebbe in vita. Conosco alcuni di voi per aver

frequentato le stesse aule consiliari, quali

eletti democraticamente dal popolo, e non

posso non salutarvi cordialmente come ho

fatto ogni giorno in quelle aule della de-

mocrazia. Dovrei odiarvi, eppure provo un

misto di rabbia e compassione per queste

vostre patetiche celebrazioni. La rabbia è

perché a oltre 70 anni di distanza ancora

non avete capito che se potete liberamente

manifestare la vostra opzione politica per i

vinti e se qualcuno di voi ha potuto essere

eletto dal popolo nei consigli comunali o

provinciali è perché coloro che omaggiate

sono stati sconfitti e perché quelli che di-

sprezzate in questo 25 Aprile hanno vinto.

Non avete capito che la libertà di cui voi

anche oggi godete è il frutto del sacrificio

di migliaia di ragazzi, donne e uomini che

hanno combattuto i vostri eroi. Ma la rab-

bia più grande la provo per me, per noi che

non siamo riusciti pienamente, in oltre 70

anni, a far crescere, non tanto in voi che

vi immagino risoluti nell’errore fino alla

fine dei vostri giorni, ma in tanti giovani

di oggi la consapevolezza del valore della

libertà, della democrazia. Dove e quando

abbiamo sbagliato? mi chiedo con tormen-

to. Perché, se alcuni dei vostri rappresen-

tanti istituzionali hanno potuto dire qual-

che anno fa – senza provare vergogna e

sollevare pubblico scandalo dei suoi – che

Mussolini non fece poi male (salvo guer-

ra e leggi razziali) nell’aula dove il Duce

si assunse nel 1926 la responsabilità del

delitto Matteotti, allora qualcosa non ha

davvero funzionato. C’è, dunque, ancora

tanto da fare per ricostruire memoria viva

e attuale di ciò che precedette questo mat-

tino di libertà. Joshua Foer, nel suo libro

L’arte di ricordare tutto, racconta di come

il poeta Simonide di Ceo nel V secolo a.C.

ricostruisce la memoria della tragedia del

crollo della sala in cui si celebrava il nobile

tessalo Scopa: la sua paziente e meticolosa

ricomposizione delle macerie permettono

di Simone Siliani

Il bisogno diricordare tutto

Foto diPasqualeComegna

Il sole basso all’orizzonte

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1529 APRILE 2017

mettere mano al rifacimento del Ponte del-

la Certosa. Il vecchio ponte in pietra, fatto

saltare dalle mine tedesche nell’estate del

1944, era stato sostituito nel primo dopo-

guerra con un ponte in cemento armato, ma

senza tenere in debito conto del fiume sot-

tostante. Che infatti nel 1966 e poi per due

anni consecutivi nel 1991 e nel 1992 aveva

tracimato nella zona ora occupata dai giar-

dini di Viale dei Tanini, allagando buona

parte dell’abitato e tutta la piazza Acciaiuo-

li, perchè il deflusso delle acque in alveo era

ostacolato proprio dalla struttura del ponte.

Il comune di Firenze decise allora, anche a

seguito delle iniziative di un agguerrito co-

mitato di cittadini, il rifacimento del ponte.

Per garantire la continuità funzionale alla

via Senese fu deciso di realizzare, a valle

del ponte da demolire e ricostruire, un pon-

te Bailey. La soluzione prevedeva che al

momento dell’apertura al traffico del nuovo

ponte il ponte Bailey sarebbe stato smonta-

to e tutto sarebbe tornato come prima. Ma

si sa le cose provvisorie in Italia hanno una

vita lunga. Infatti il ponte Bailey è ancora in

funzione e svolge ancor egregiamente il suo

compito. La realizzazione del ponte Bailey

racchiudeva però una seconda e più impor-

tante novità. La realizzazione del ponte era

stata posta a carico di Società Autostrade.

Si iniziava infatti a parlare della terza corsia

nel tratta urbano fiorentino dell’Autostrada

del Sole. La soluzione del traffico al Galluz-

zo aveva intrapreso la strada giusta. Ma il

percorso per arrivare alla soluzione sarebbe

stato ancora molto lungo, tortuoso e disse-

minato di ostacoli. Un vero gioco dell’oca

(continua.)

Attraversare la strada sulle strisce pedona-

li. In modo ordinato e con passo deciso. Poi

proseguire sul marciapiede fino alle strisce

pedonali successive e attraversare nel senso

opposto. Tornare sul marciapiede alle stri-

sce pedonali e attraversarle di nuovo. Que-

sta era la forma di protesta civile che era sta-

ta messa in atto da un centinaio di abitanti

del Galluzzo. Protestavano contro il traffico

sempre maggiore che aveva trasformato la

via Senese in una sorta di camera a gas. Il

traffico per quel giorno era stato blocca-

to ma il giorno successivo sarebbe stato di

nuovo come prima. La soluzione per libe-

rare dal traffico l’abitato era ancora di là da

venire. Anche la famosa “tangenziale sud

di Firenze”, di cui il viale dei Tanini, realiz-

zato agli inizi degli anni ‘70, avrebbe dovu-

to costituire un tratto, non sembrava essere

una soluzione praticabile. Per ipotizzare il

coinvolgimento di Anas nella realizzazione

di quest’opera si erano anche mossi i vertici

provinciali del maggior partito della città, il

PCI, insieme a tutti i sindaci dell’area sud

della città. L’ipotesi era stata presentata in

una affollatissima assemblea pubblica alla

Casa del Popolo del Galluzzo nell’aprile

del 1988, ma la soluzione non appariva a

portata di mano. Anche perchè proprio in

quegli anni la coscienza ecologica e di sal-

vaguardia del paesaggio cominciava a farsi

strada nella popolazione. Nella relazione

introduttiva dell’assemblea questi proble-

mi erano affrontati: “....in considerazione

dell’alto valore paesaggistico dei luoghi

che occorre attraversare, e della vicinanza

di monumenti di valore universale, nonchè

della densità urbana della parte pianeg-

giante del tracciato fra Torregalli e l’India-

no...... si ritiene opportuno che detta viabi-

lità, come peraltro già definito dal progetto

preliminare di PRG, possa e debba assume-

re, in alcuni suoi tratti, una configurazione

diversa da quella della parte nord-ovest,

soprattutto in relazione all’andamento al-

timetrico, adeguandosi il più possibile al

terreno e evitando grandi opere infrastrut-

turali”... Pur tuttavia numerose assemblee

si sarebbero svolte alla Casa del Popolo di

Ponte a Greve contro un progetto che si in-

seriva con difficoltà nel delicato equilibrio

ambientale della zona. Sembrava una batta-

glia senza soluzione quella che il Galluzzo

stava combattendo, tutte le forze politiche

unite, contro il traffico.

Il primo barlume di soluzione si iniziò a

intravedere nel 1995 quando si dovette

di John Stammer

Le protesteStoriadel by-passdel Galluzzo

2

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1629 APRILE 2017

condurre il gioco fino in fondo, l’immagine

finale diventa l’idea stessa di quel paesaggio,

o per meglio dire una “possibile” idea di quel

paesaggio. Un’idea in cui acqua, alberi, cielo

e nuvole non sono se stesse, nitide e definite,

ma sono la somma di più visioni, dai contorni

sfrangiati e confusi, sicuramente indefiniti,

ma non per questo meno reali, meno presen-

ti. Se la realtà è il frutto di una idea (di una

somma di idee e di esperienze), l’immagine

(pittorica o fotografica) della realtà fa parte di

una idealizzazione (e di una semplificazione)

della stessa, mentre le immagini di Alessan-

dra, in un corto circuito filosofico, diventano

allo stesso tempo l’idealizzazione ma anche

l’attualizzazione di un’idea della realtà, un’i-

dea complessa di un reale che è in continuo

movimento. Non più un’idea del reale, ma la

realtà di un’idea. Alessandra non ferma l’at-

timo estraendolo dal fluire del tempo (anche

nelle esposizioni più lunghe si ferma sempre

un “attimo”), ma moltiplica l’attimo riprodu-

cendolo nel suo divenire e restituendo al tem-

po il concetto bergsoniano di “durata”. Nelle

immagini di Alessandra il tempo non è quello

istituzionale della scienza, è quello interiore

e reale che ciascuno di noi vive nella propria

coscienza.

Alessandra e la composite photography

Nella galassia fotografica l’immagine che

blocca il movimento e rende l’attimo eterno

non è che uno dei tanti aspetti del fare foto-

grafico. All’altro capo del mondo fotografico vi

sono le composizioni fotografiche, in cui due o

più immagini vengono accostate, sovrapposte

o miscelate in modo da ottenere effetti piace-

voli o paradossali. La composizione fotogra-

fica è una tecnica antica quanto la fotografia

stessa, può essere realizzata con il metodo del

fotomontaggio o con quello della doppia o

tripla esposizione, sia in fase di ripresa che di

stampa. La doppia esposizione (casuale), una

volta considerata un errore, viene apprezzata

in ambito surrealista e viene praticata inten-

zionalmente e massicciamente, per essere

riscoperta all’epoca della fotografia digitale.

Accanto alla fotografia composta o multipla

esiste, da oltre un secolo, la così detta “com-

posite photography”, ovvero quel tipo di foto-

grafia in cui sulla stessa lastra ed in maniera

metodica vengono successivamente riprodot-

ti, a parità di illuminazione, distanza ed espo-

sizione, numerosi oggetti o persone aventi in

comune qualche caratteristica dominante (sa-

goma, famiglia, provenienza, nazionalità, etc.)

allo scopo di evidenziare la “permanenza”

dei tratti comuni, anche e soprattutto quelli

dei volti, che vengono rafforzati dalla sovrap-

posizione, ed allo scopo di ignorare i tratti

dissonanti, e perciò ininfluenti, che vengono

cancellati o minimizzati da un’esposizione in-

sufficiente. Attorno al 1898 Peirce, parlando

degli effetti evocativi del segno verbale, sintesi

di tutto ciò che il segno evoca in funzione di

esperienze, conoscenze e reminiscenze, so-

vrapposte e stratificate nel tempo, lo parago-

na ad una “composite photography”, in cui le

individualità si sovrappongono e si depurano

fino a fare emergere il “tipo”.

Nella realizzazione delle sue sofisticate im-

magini di paesaggio Alessandra Casini, foto-

grafa non professionista, proveniente da studi

di filosofia della scienza e di filosofia teoretica,

utilizza un metodo che ricorda da vicino la

“composite photography”. In ogni situazio-

ne realizza numerose immagini, variando in

maniera non sostanziale l’inquadratura, ot-

tenendo una serie di scatti tutti leggermente

“fuori registro”. Con l’impiego di un semplice

programma le immagini selezionate vengo-

no ricomposte in una immagine unica, che

le contiene tutte, e che, omogeneizzando lo

sfondo, diventa non più l’immagine di un pae-

saggio, ma la somma di alcune delle immagini

possibili (ma non di tutte le immagini possibi-

li) dello stesso paesaggio. Ovvero, se si vuole

di Danilo Cecchi

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1729 APRILE 2017

Gli ex-voto di Distefanoli invece che venirne ingoiato. Electronic

Disturbance Theatre, Zapatismo digita-

le tanto per citarne alcuni sono gruppi di

hacker che hanno cambiato per sempre il

piano d’azione della disobbedienza civile

nel mondo e attraverso l’uso di nuovi mez-

zi, come ad esempio i seat-in virtuali, hanno

inoltre permesso anche ad altri meno esper-

ti di partecipare alle azioni di protesta.

Internet è un mondo molto vasto e al suo

interno si può trovare veramente qualsiasi

cosa, per gli hacker è come Disneyland per

un bambino, basti pensare al Deep web ,la

rete parallela alla quale si accede soltanto

scaricando un sofware (gratis online) che

rende non rintracciabile l’ID del proprio

modem e all’interno della quale si può tro-

vare veramente ogni cosa esistente al mon-

do: puoi comprare droga, armi, manuali per

costruire bombe etc...

Certamente Anonymous è stato il movi-

mento hacker che ha fatto più notizia e che

magari si è esposto di più al pubblico, basti

pensare alle manifestazioni contro le sedi di

Scienthology organizzate da loro in tutto il

mondo. Ma degno di nota rimane l’appog-

gio dato da Anonymous alla Primavera Ara-

ba, durante la quale sono riusciti a diffonde-

re le immagini di quanto stava accadendo

a tutto il mondo, mentre il governo aveva

bloccato ogni connessione internet, costrin-

gendo il presidente Mubarak a dimettersi.

Personalmente trovo molto confortante

che l’intelletto umano, del singolo indivi-

duo con le sue capacità, renda impossibile

il controllo assoluto delle nostre azioni e

meno immenso lo strapotere dei governi e

delle multinazionali.

Sono nato nel 1980, la mia generazione è

cresciuta parallelamente alle tecnologie in-

formatiche, di pari passo crescevamo noi e

miglioravano i computer.

Quand’ero poco più che un fanciullo e fre-

quentavo le scuole elementari, internet non

c’era ancora, o perlomeno non era diffuso e

i telefoni cellulari erano grossi e pesanti e

avevano antenne lunghissime.

Per questo motivo mi ha sempre affascinato

il mondo degli hacker e il cyber-spazio, per

me ha qualcosa di incredibile, di magico, di

fantascientifico. Pensare che ci sono per-

sone che da casa propria, semplicemente

usando il proprio pc, sono riuscite a mette-

re in crisi colossi come Mastercard, Paypall,

Lufthansa, la Nasa, così solo per citarne

alcuni, me li ha sempre fatti immaginare

come i supereroi dei fumetti.

Io, come molti della mia generazione, figli

di quelli “che hanno fatto il ‘68”, ho svilup-

pato molta della mia coscienza politica sul-

la base delle conquiste, ma sopratutto dei

fallimenti dei movimenti rivoluzionari che

hanno segnato la storia di quegli anni.

Molto era già stato fatto, già stato detto, ma

gli hacker hanno aperto un nuovo cammi-

no, un nuovo piano d’azione.

Internet è stato pensato come uno spazio

libero dove chiunque potesse scambiarsi

opinioni, ma sappiamo bene che è diventa-

to altro da questo. Un gigantesco supermar-

ket virtuale, ma anche il modo migliore che

hanno i governi di controllare i singoli cit-

tadini, un sistema perfetto per sapere cosa

fai, dove sei, cosa dici in qualsiasi momento

tu lo faccia.

Ma come in ogni sistema artificiale che si ri-

spetti esiste sempre una falla, un punto de-

bole, un pertugio nel quale infilarsi per en-

trare al suo interno, “forzarlo”, violentarlo.

Nel tempo gli hacker hanno preso posizio-

ne, si sono schierati politicamente e si sono

divisi al loro interno. C’è chi ha scelto di

schierarsi dalla parte del più forte, uscen-

do dall’illegalità e mettendo le proprie ca-

pacità e conoscenze a servizio delle grandi

aziende, si fanno chiamare “Cappelli bian-

chi”. Ma c’è chi invece vive nascosto ancora

nella completa illegalità e dalla scrivania

della propria stanza da letto cerca di pene-

trare nei sistemi operativi di siti governativi

e non, si fanno chiamare i “cappelli neri”.

Si sentono dei veri cowboy virtuali, dei mo-

derni Robin Hood.

E’ un gioco intellettuale, una sfida dove il

singolo individuo vince sulle multinaziona-

Allo Studio Bong (Via Calimaruzza, 10r)

Giorgio Distefano presenta Ex Voto suscep-

to, un progetto sui temi e simboli desunti dal

linguaggio sacro-popolare e dalla cultura di

massa, reinterpretati e ricomposti in una lo-

gica di suggestione che identifica e genera il

voto stesso. La sua sperimentazione tecni-

ca che spazia dall’utilizzo di colori a olio, a

stucchi e acrilici su tela e tavola, con gli Ex

Voto suscepto lo porta alla carta, nello spe-

cifico quella dei cartamodelli per abbiglia-

mento, utilizzati in maniera “impropria”,

sfruttando la forza della geometria pre-

stampata. Queste visioni-concetto scaturi-

scono da una riflessione sulla potenza delle

simbologie, nel momento in cui divengono

decoro ambiguo e ambivalente, al limite tra

il sacro e il profano, tra la sanità di un cor-

po-organismo e una richiesta di salvezza o

liberazione da un’afflizione dell’anima. La

“messa in forma” - come si fa per un vestito -

ha i bagliori dei metalli e la leggerezza della

carta, il trasporto delle linee e l’intenzione

della parola, perché gli ex voto sono deside-

ri, aspettative, richieste; sono abiti di vanità

per corpi che non tollerano il dolore e per

anime che si nutrono di speranze di urgente

tutela e di sopravvivenza, nel tempo sospe-

so e incerto delle promesse. 

di Matteo Cateni

Hackers

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1829 APRILE 2017

mo a vederli con la stessa frequenza delle

sculture di Kimura dislocate nello spazio

delle gallerie con la stessa volontà animale

di sfuggirci

Dunque dog shit è una traccia, antecedente

la scomparsa del cane stesso, la cui perfezio-

ne annulla la reazione di disgusto che abbia-

mo alla sua presenza, al disgusto, comun-

que si mischia una certa comicità, la cacca

per certi versi fa ridere, quando si pesta o la

pesta qualcun altro la cosa è esilarante e fa

parte di un umorismo popolare, contadino,

comunque semplice ed immediato.

Questo ci riporta ad uno degli aspetti del

lavoro del nostro scultore, l’umorismo, e mi

pare anche comica la scelta di realizzare

una complicatissima scultura usando la pit-

tura da olio, modellata, essiccata e scolpita,

Le sculture di pittura ad olio modellata (oil

paints sculpture) realizzate dall’artista giap-

ponese Mitsunori Kimura sono ottenute

usando una tecnica inventata e credo pra-

ticata solo da lui.

Sono piccolissime, solo qualche centimetro,

ma richiedono una abilità specifica, ovvero

servirsi di strumenti in miniatura, da orafo,

tenere presente il tempo in cui si asciuga la

pittura od olio e servirsi della capacità di

sfruttare o contrastare il normale restringer-

si del materiale nel suo passaggio da fresco

a secco, cosa che del resto conoscono bene i

pittori che usano l’olio come mezzo espres-

sivo. Questi sovrapponendo uno strato di

colore bagnato ad uno asciutto ottengono

strati di trasparenze e particolari sfumature

di colore.

Mitsunori Kimura, nell’opera “Dog shit”

del 2013 si serve proprio di queste tecniche

usate per primi dai pittori fiamminghi del

1400.

Per ottenere la particolare tonalità di ver-

dastra che talvolta assumono le dog shit ab-

bandonate sui marciapiedi da qualche tem-

po, sovrappone una velatura gialla a quella

sottostante blu.

Nella fattispecie sia la pasta dei tubetti di

pittura ad olio, sia le deiezioni canine sono

soggette ad un processo di essiccamento,

pertanto l’abilità dello scultore consiste nel

prevedere, mescolando i colori necessari, a

come quest’ultima si presenterà dopo un

periodo di assestamento, mantenendo l’as-

soluta rispondenza fra le due.

Kimura è uno scultore di di animali, che

realizza usando il legno di canfora, mol-

to comune in Giappone, costruendo con

questi animali, la cui somiglianza con gli

originali è intuitiva e non anatomica, delle

situazioni comiche, mimetiche o parados-

sali, situandole, nelle gallerie dove espone,

in maniera da assecondare i risultati voluti,

concentrando il realismo nelle attitudini e

nei dettagli.

Le sue sculture, raramente hanno la centra-

lità monumentale, ricercata ad esempio da

quasi tutti gli scultori di cultura europea o

americana. Del resto gli animali, non hanno

mai, purtroppo, un posto centrale nelle vite

umane (forse da morti nei nostri piatti) e il

miglior trattamento che possono ricevere e

quello di giocattolo animato. Anche in na-

tura gli animali, rispetto agli esseri umani,

occupano posizioni di contorno e non sono

mai centrali rispetto all’osservatore, appar-

tengono al paesaggio dove abitano e riuscia-

di Claudio Cosmae non si può non cogliere l’ironia che con la

pittura ad olio, materiale e tecnica sovrana

per i più grandi artisti dell’umanità, Mitsu-

nori Kimura tragga una cacca di cane.

Con questo metodo realizza anche cani,

gatti, una vite, un ossicino di pollo (anche

questo nella mia collezione), una lisca di

pesce, una scimmia, del cibo vegetariano.

Crea anche dei disegni a matita su carta di

riso, colorati con pittura ad olio di modo che

rimane intorno alla cosa disegnata un alone

rilasciato dall’olio che si spande, rendendo

traslucido il foglio in quel punto.

La psicanalisi di Freud, Piero Manzoni, Sal-

vador Dalì hanno spesso associato, come gli

alchimisti del medio evo, opera d’arte, feci

ed oro.

In realtà è difficile dire quello che passa per

la testa di una artista che contiene innume-

revoli cose i cui confini sono sempre in tu-

multo, ma analizzando la nostra sculturina,

le cui misure sono

1,9x5,6x2 cm, posso dire che mi mette di

buon umore e mi fa pensare al cane che l’ha

depositata dove l’artista deve averla vista,

sicuramente, pur non sapendo se esista una

ritrattistica delle cacche di cane, questa è un

ritratto dal vero. Il cane in questione doveva

essere un canino un po’ stizzoso, cittadino

e probabilmente viziato, col pelo ispido e le

zampe corte, come si deduce dallo stronzet-

to giallo senape, verdastro e marroncino.

Per finire, la nobiltà del materiale fa sì che

questo profumi di quadro antico, di botte-

ga di articoli per pittori, di studio di vec-

chio pittore e di mobile tirato a lucido, in

definitiva un odore buonissimo che ancora

ci spiazza, ricollocando la scultura e cosa

rappresenta nella sfera d’attenzione di una

familiarità sempre negata.

Di come una cacca di cane abbandonata, incontrandosi con un artista, si trasformain opera d’arte

Dog shit

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1929 APRILE 2017

Femminista? Autentica. Distratta? No dav-

vero. Direi piuttosto che Laura Lepetit

rivive per noi la sua vita “mine de rien”

(senza parere) come direbbero i francesi.

Da intellettuale concreta, nel 1965 rileva

con Anna Maria Gandini la vivace libreria

Milano Libri e con coraggio nutrito di tale

esperienza fonda nel 1975 una delle più

belle case editrici italiane dandole nome

La Tartaruga(“animaletto simpatico che va

piano e si porta la casa appresso”). Pubblica

solo libri di donne. Come? “Davanti ai libri

mi sento come un cane da tartufi. Li cerco

col naso, ne sento l’odore, capto i segnali

che mandano e batto il terreno con il muso

tra i cespugli.” Realizzerà questo suo princi-

pio con indipendenza “in base a criteri let-

terari, non solo politici, anche in anni in cui

la militanza femminista avrebbe potuto far

virare verso scelte ideologiche”. Così, il suo

catalogo accoglieVirginia Woolf, Gertrude

Stein (“l’autrice che amo di più in modo as-

soluto”), Grace Paley, Doris Lessing, Alice

Munro... Per l’Italia, Grazia Livi con “Le

lettere del mio nome”, “libro bellissimo e

indispensabile” in cui le vicende di vita e

di pensiero delle donne più importanti del

‘900, da Simone de Beauvoir a Carla Lonzi,

da Anna Banti a Madre Teresa...diventano

“ il punto di forza da cui partire per andare

avanti, le lettere del nostro nome”. ll libro

è stato Premio Viareggio 1992 per la Sag-

gistica.

Su quel punto di forza Laura fa leva come

madre, nonna, amica, amante degli animali

(i suoi gatti, la cavallina Giulia), delle piante

(la sua rosa, il cui “rosa” la commuove) per

raggiungere una visione equilibrata dei di-

fetti e virtù di donne, uomini e circostanze,

facendo tesoro di tutto sulla base di un one-

sto “ascolto di sé”. Così, l’incontro col clo-

chard che canta a squarciagola “Mamma...

solo per te la mia canzone vola” all’unisono

con un mangiadischi posato sul marciapie-

de le indica che “cantare a squarciagola la

stessa canzone e poi pensare ad altro” sareb-

be una felice soluzione del rapporto con la

madre resa dalla psicanalisi “irraggiungibi-

le e ingombrante” con il suo dovere di per-

fezione e i suoi sensi di colpa. E, una volta

mamma, ha voluto creare fra lei e i suoi figli

una distanza perché potessero “espandersi

a modo loro”. Nonna,giocando al teatro con

la nipotina, vive un dialogo con il suo co-

niglio di peluche e pensa che forse teatro e

recitazione vogliono dire ‘tornare bambini’.

Amica, in visita dal celebre critico Cesare

Garboli nell’entroterra viareggino serba

un caro ricordo ammirato di lui che, degli

avanzi dello squisito pesce mangiato in un

bel ristorante in riva al mare “osa fare un

cartoccio per i suoi cinque o sei gatti”..

L’incontro che le ha cambiato la vita è stato

quello con Carla Lonzi (1931-1982) fioren-

tina trapiantata a Milano dall’intelligenza

“sfolgorante”e il suo gruppo di autocoscien-

za Rivolta Femminile. Laura si decise ad an-

darci nell’autunno 1970 e da allora, accolta

dal sorriso “accattivante”di Carla dai grandi

occhi chiari (“pantaloni di pelle nera allora

audaci e originali”), non mancò mai, perché

“ogni volta era un’emozione nuova quel

parlare di sé davanti a tutte, direttamen-

te senza la maschera che il patriarcato [ci]

aveva costrette a indossare”. Carla, per me

l’anima del femminismo italiano, “definiva

la donna l’imprevisto della storia”. Tuttavia,

“mettere in piedi La Tartaruga portò alla

rottura con lei, la quale, “lontanissima da

ogni compromesso” aveva voluto gli Scritti

di Rivolta Femminile “fuori contesto” e bia-

simava l’idea; Laura, pur ammirando Car-

la, non voleva rinunciare al suo progetto di

un’impresa diversa, soggetta quindi ai com-

promessi della competizione commercia-

le. Separarsi fu l’unica soluzione. Ricordo

un po’ “tormentoso ma anche molto bello

perché la lotta era stata a viso aperto”. La

notizia della morte prematura di Carla per

una grave malattia che le era stata ignota

raggiunse Laura il 2 agosto 1982 al mare,

nella “luce immensa dell’estate”. Provò “la

sensazione di un vuoto senza confini”.

Laura Lepetit ha diretto La Tartaruga fino

al 1997. Oggi ancora pubblica con Baldini

& Castoldi. Personalmente ho avuto il pia-

cere di pubblicare con lei l’edizione italia-

na del mio secondo libro su Simone Weil:

“Simone Weil, una donna assoluta”, (1991

oggi in 2a edizione, 03.02.2009 per il cen-

tenario della nascita della Weil). Laura

organizzò subito una bella presentazione;

ricordo bene le parole sue e quelle di Gian-

carlo Gaeta. Mi sentii capita.

Laura Lepetit, “Autobiografia di una fem-

minista distratta”, Nottetempo, Roma 2016

Una femminista distratta di Gabriella Fiori

Laura Lepetit – Foto di Maria Mulas

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2029 APRILE 2017

Sedersi al Funaro Centro Culturale di Pi-

stoia e partire per un viaggio.

È accaduto il 21 aprile, quando al Funaro

ha debuttato in Prima Nazionale il Blake

EternalLife Show di Pappacena/Vezzani,

una produzione del Teatro del Carretto

nata nel 2015, che grazie ad un’azione di

crowdfunding lunga due anni si presenta

oggi come un progetto di rock, elettronica,

voci e video, che danno forma alle visioni di

William Blake. Il Funaro è un Centro Cul-

turale indipendente di formazione, ricerca

e creazione teatrale, che ospita residenze ar-

tistiche, spettacoli e progetti di formazione.

E’ luogo di accoglienza e condivisione, in

cui si trova tutto quello che rende possibile

la crescita e l’espressione artistica: spazi da

abitare, una biblioteca, una foresteria dove

incontrarsi. Un luogo perfetto per portare

in scena William Blake, che per tutta la vita

è stato poeta, incisore, bibliomane, profeta

visionario. Fabio Pappacena e Giacomo

Vezzani con basso, chitarra, tastiere e synth

hanno cercato di dare forma a queste visio-

ni, accompagnati dalle voci di Elena Nené

Barini  ed Elsa Bossi. Dei video fanno da

cornice al suono, lo seguono, lo anticipano,

lo aprono a percorsi immaginifici e a perce-

zioni scardinanti e intime.

Il Blake EternalLife Show è un viaggio in-

teriore che inizia con il rumore del mare, ti

conduce in luoghi immaginari sconosciuti

ed intimi, il ritmo incalza, i battiti aumenta-

no, il buio si accende, ti ritrovi dentro con il

respiro alterato che diventa fischio, morso,

sussurro, vibrazione interiore, giù fino allo

stomaco e ai singulti. Giù dove ci si dimen-

tica di guardare, giù dove tutto è collegato,

l’innocenza del bambino, la disperazione

dell’uomo che brucia, che non si trova e a

un tratto si riconosce in un granello di sab-

bia o in un fiore selvatico. William Blake,

tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ot-

tocento, ha accompagnato quasi ogni suo

componimento con un’incisione, una rap-

presentazione figurativa in cui si può entra-

re per sentire e vivere la sua visione. Una

bambola di cera si scioglie e si mostrifica. Il

muso di una tigre si sovrappone e si fonde a

quello dell’agnello. Due mani si cercano e

si uniscono con lacci che le imprigionano e

le sostengono. “L’immaginazione non è uno

stato mentale, ma l’esistenza stessa” scrive

Blake.

Al centro di tutte le visioni c’è l’uomo, con

le sue fragilità e la sua fierezza, nella sua

appartenenza alla natura, che ne preserva

l’innocenza e che lo brucia di distruzione,

lo morde di passione, è terra e fuoco per la

sua forza e lo riconsegna disarmato al vento.

Blake scardina il linguaggio poetico e lo abi-

ta con forme provocatorie, suoni, con una

musicalità naturale e profonda che ognuno

di noi sente e riconosce, anche se è nasco-

sta e legata nella rete di conformismo che

abbiamo costruito, in cui le cose chiamate

belle sono tutte uguali e ognuna è a suo

modo mostruosa. Ma i versi di Blake che ri-

suonano potenti nella musica di Pappacena

e Vezzani, nelle voci e nei movimenti caldi

e a tratti mistici di Elena Nené Barini  ed

Elsa Bossi, hanno un corpo, penetrano nel-

lo spettatore fino alla sua parte animale, le

parlano. È allora che la nostra appartenen-

za alla natura si manifesta, intera, potente,

libera. “Tiger tiger burning bright in the

forest of the night”. Essere sporchi, ma vivi.

Ruggire di eccessi per trovare la saggezza.

Ruggire perché siamo parte della natura,

nudi, esposti, deboli, sfiniti, meravigliosi,

capace di rinascere, di sorridere, di sentire

la gioia. Perché in natura tutto accade, sen-

za fine. “Se le porte della percezione fos-

sero purificate, tutto apparirebbe all’uomo

come in effetti è: infinito”.

di Elisa Zuri

L’uomo che ricordadi saper ruggire

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2129 APRILE 2017

siamo abituati a vedere in Formula Uno ma che,

in questo caso, si misurano su impervie strade di

montagna e raggiungolo velocità che superano

i 270 chilometri orari. In ogni area libera, cam-

po, piazzale, si vedono auto da corsa, camion,

tende, meccanici, piloti e cucine improvvisate.

Per Simone, le tre prove del sabato, pur svolte

con assetti diversi delle sospensioni e delle alet-

te delle carenature, non sono soddisfacenti e la

distanza fra il suo tempo e quello di Merli è an-

cora troppa. Occorre porre rimedio modificando

ulteriormente l’assetto della vettura. Alle prime

luci dell’alba della domenica di gara i mecca-

nici e i tecnici del team, tra loro anche Franco,

un veterano della Formula Uno, si mettono al

lavoro e... così cambia il clima. Pur mantendo-

si freddo, tra le nuvole appare qualche sprazzo

di sole e nel team comincia ad esserci un cauto

ottimismo. Nella tenda del paddock, il quartier

generale del team, la pentola fuma sul fornello

da campo. Un pasto caldo per tutti è assicurato.

E’ così che mamma Graziella segue l’attività del

figlio. Occupandosi degli altri per esorcizzare i

timori della competizione. A babbo Mario, ex

pilota, l’onere di supervisionare la parte tecnica.

Il percorso è ormai affollato da spettatori di ogni

età che certo non si fanno mancare generi di

conforto e la razione necessaria di birra. I motori

rombano e nella prima manche Simone, che re-

sta un marziano della specialità, stabilisce il nuo-

vo record della salita: 1’53”768. Ma non è suffi-

ciente. Alla fine vince Merli che nella seconda

manche stabilisce un nuovo record: 1’52”912.

Terzo si classifica il giovane Paride Macario, del

team Faggioli che corre con la stessa macchina

di Merli. Un podio tutto italiano. Un risultato in

fondo positivo anche per chi è abituato a vincere

sempre. Ma questa è solo la prima gara e, per ar-

rivare alla fine del campionato, c’e ancora molta

strada da fare. Una strada tutta in “salita”. Simo-

ne lo sa bene. Questa è la sua professione. E se

è vero che campioni si nasce, certamente la sua

determinazione ha radici in quel bambino dai

capelli neri tagliati a caschetto che frequentava,

trenta anni fa, la prima elementare della Scuo-

la Statale di Rimaggio, nel comune di Bagno a

Ripoli. Quel bambino sorridente, allora speciale

come tutti gli altri, è rimasto nel cuore della sua

maestra.

La conversazione era stata piacevole, ma Aldo

non poteva scordare quella sera. C’era una do-

manda che gli era rimasta in testa: “Come fa-

ranno le maestre a ricordare, a distanza di tanti

anni, i nomi dei propri allievi?”. Una domanda

legittima, che però era rimasta senza risposta.

Mentre Aldo raccontava le gesta sportive di Si-

mone Faggioli, 9 volte campione europeo e 12

volte campione italiano di velocità montagna,

quella disciplina che i più chiamano corse in sa-

lità per auto, una delle commensali aveva chie-

sto: “Ma è nato a Bagno a Ripoli questo Simone

Faggioli?”. Ed alla risposta affermativa aveva

continuato “Questo nome lo ricordo. Veniva a

scuola a Rimaggio”.

Quella conversazione e quella domanda sono

la ragione per cui oggi, gli stessi commensali di

quella sera, si ritrovano. Non a casa di Aldo, ma

in un albergo della Stiria nella cittadina austria-

ca di Fladnitz, poco distante da Tulwitz. Aldo è

l’addetto stampa del Team Faggioli e il designer

della livrea del bolide di Simone Faggioli e di

quelle del suo team. La sera a cena, nel ristoran-

te dell’albergo, si festeggia anche il compleanno

dello svizzero Fabien, uno dei piloti del team.

Un’occasione voluta da Aldo che però continua

a non saper rispondere a quella strana domanda.

A cena la maestra e il “suo” allievo, si incontrano

dopo trent’anni. E la maestra ha con se foto, e

un’incredibile bagaglio di ricordi di quel bam-

bino ora diventato famoso. Nei due giorni suc-

cessivi ci sono le prove e la gara della Rechberg

Rennen, la più famosa corsa automobilistica in

salita dell’Austria che si svolge sulle dolci colline

della Stiria poco a nord di Graz. Una gara che

segna l’apertura del Campionato Europeo di

specialità e che vede la partecipazione di oltre

270 vetture. Simone Faggioli parte con addosso

il peso della responsabilità del campione in cari-

ca, ma con la consapevolezza che questo sarà un

fine settimana difficile. Anche lo scorso anno, su

questo stesso percorso, ha dovuto lasciare il pas-

so al suo rivale Christian Merli. Il clima è rigido

e la brevità della gara (5.050 metri, poco più del

limite minimo fissato in 5 km) non favoriscono

le caratteristiche della sua auto, una Norma

M20FC. Un tracciato di gara decisamente più

congeniale all’Osella FA30 di Merli. Una batta-

glia che si gioca sui decimi di secondo. Lo spet-

tacolo è assicurato, avvincente... ma non solo per

le emozioni della gara. Il piccolo paese di Tulwi-

tz è letteralmente invaso da auto da corsa di ogni

tipologia ed età. Dalle auto storiche, le incredi-

bili monoposto anni Settanta, fino ad arrivare

ai moderni prototipi con i quali corrono anche

i piloti del Faggioli Racing Team. Monoposto

con motori fino a 500 cavalli simili a quelle che

di Gianni Biagi La maestradi Rimaggioe il campione

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2229 APRILE 2017

Maschietto Editore

DIALOGO SUL CONTEMPORANEOa partire dalla figura di Lara Vinca Masini

Sabato 29 aprile 2017, ore 17.30Ristorante Caffetteria La Loggia, Piazzale Michelangelo

Durante l’incontro sarà proiettato un filmato inedito con una conversazione tra Lara Vinca Masini, Fabio Cavallucci, Laura Lombardi e Claudio Nardi, organizzata da Cultura Com-mestibile nell’ambito delle iniziative per la tutela dell’archivio della grande critica d’arte. Nei mesi scorsi Cultura Commestibile ha lanciato un appello per chiedere alla Presidenza del Consiglio l’applicazione della Legge Bacchelli a favore dello straordinario archivio di Lara Vinca Masini, raccogliendo oltre 300 firme di personalità della cultura e dell’arte.

con Antonio Natali e Adolfo Nataliniintroduce Simone Siliani, modera Francesca Merz

“Dobbiamo parlare con la gente, trasmettere loro le stesse emozioni che proviamo noi davanti all’arte contemporanea”

Lara Vinca Masini

Questo incontro è il primo di una serie di appuntamenti culturali organizzati da Maschietto Editore con Cultura Commestibile presso il Ristorante La Loggia al Piazzale Michelangelo a Firenze.

Per informazioni: tel. 055701111 - [email protected] - www.maschiettoeditore

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2329 APRILE 2017

za, si rende docile ad ogni sollecitazione e, pur

partendo da una cornice naturalmente finita

(i fogli di carta, peraltro spessi alla bisogna), è

aperta (intellettualmente) a tutto, e al non-fini-

to sopra tutto. Le ore del raccoglimento sul mio

BB di turno (al momento sono ‘al lavoro’ sul

quattordicesimo) si dilatano e assumono una

pregnanza speciale: momenti di abbandono

alla divagazione - in cui regnano la casualità

degli scoperte letterarie, delle letture, dei pen-

sieri, quella dei ritrovati impegni interiori, in

una sorta di serendipity a puntate -, che lascia-

no un’impronta impalpabile e misteriosamente

efficiente, perché sempre pronta, al momento

giusto, a far affiorare percezione, memoria di sé.

Ogni mio ‘BB’ è un individuo (complesso) che

si lega ad un tempo: inconfondibile come il pri-

mo, irripetibile come il secondo.

Senonché la stessa forma/vita, e la funzione del

Libro Bianco, sono variabili. Qualcuno, parten-

do da libri veri trattati con acqua, colla e gesso

(onde deprivarli del loro contenuto), ha ottenu-

to degli oggetti disanimati, semplice materia

prima, cui è rimasta la sola forma: su di essa ha

applicato, di volta in volta, elementi di vetro o

di legno, ovvero sassi o altro, oltre a vernice acri-

lica bianca. I Libri Bianchi sono divenuti delle

sculture, con le loro superfici e i volumi, i pieni

e vuoti, gl’innesti o le escrescenze, trasmigran-

do da una dimensione semantica ad una simbo-

lica. L’artista si chiama Lorenzo Perrone e chi

vorrà conoscere le sue creazioni potrà presen-

tarsi alla mostra “Libri, cibo dell’anima”, presso

la Galleria Frascione di via Maggio, a Firenze,

dal 18 maggio al 1 luglio prossimi venturi.

E io che - prima del ‘97, meschino! - pensavo

che un Libro Bianco (o Blank Book che dir si

voglia)... non avesse senso.

In 50 per la prima edizione di

La prima fase del concorso letterario “Racconti Commestibili” si è chiusa con l’arrivo di cin-

quanta racconti.

La prima giuria, composta da redattori di Maschietto e di Cultura Commestibile, sta lavorando

per selezionare i dieci racconti finalisti, che verranno affidati alla giuria tecnica, composta da

Francesco Mencacci, Sandra Salvato e Marco Vichi, per la scelta del vincitore e del secondo e

terzo classificato.

I finalisti saranno contattati direttamente entro la prima metà del mese di maggio.

Tutti i partecipanti al concorso e i lettori di Cultura Commestibile sono invitati a partecipare

all’evento di premiazione che si terrà al Ristorante Caffetteria La Loggia al Piazzale Michelan-

gelo a Firenze il 21 maggio.

PRIMA EDIZIONE 2017

premio letterario

Maschietto Editore

Mi era praticamente ignoto prima che un’a-

mica me lo donasse, al ritorno da un viaggio

oltreoceano, la bellezza di ventidue anni fa.

Recava in copertina l’immagine di un celebre

dipinto d’arte moderna: ringraziai senza enfasi,

prefigurando per l’oggetto un destino oblivioso.

Restò a rispettosa distanza, rigorosamente inu-

tilizzato, per circa due anni. Poi un giorno - non

ricordo sotto quale influsso – iniziai, diciamo

così, a ‘impiastricciarlo’. Era il mio primo Blank

Book e lo scrivo, a distanza di anni, con le ini-

ziali maiuscole, quale segno di riconoscimento

della sua presenza (oramai) istituzionale e privi-

legiata nella mia esistenza. L’impiastricciamen-

to d’esordio fu rappresentato da alcuni versi

scambiati per gioco tra amici, una sera, mentre

ci intrattenevamo in un locale. Vi sopraggiun-

sero. nelle settimane/mesi a seguire, appiccica-

te con lo scotch, alcune immagini di tele/opere

pittoriche famose, versi in libertà ovvero lavori

preparatori di componimenti poetici, appunti/

sunti da articoli di giornale e anche articoli inte-

grali ivi ‘scotchati’; eppoi considerazioni, anno-

tazioni di idee e improvvise folgorazioni, scher-

zi, aforismi e frasi celebri, curiosità. Era ed è (il

‘BB’ n. 1, con quelli che lo hanno seguito negli

anni successivi) il mio personale circo Barnum,

un angolo di sovranità assoluta, il supporto a

partire dal quale la mente si nutre con leggerez-

di Paolo Marini

Blank book

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2429 APRILE 2017

Il Lyceum fiorentino è una Associazione

Culturale che ha festeggiato da un pò il cen-

tesimo compleanno, è nata infatti nel 1908

come emanazione di quella originaria, fondata

nel 1904, a Londra, da Constance Smedley,

animata da spirito decisamente orientato al

femminismo, sia pure di stampo moderato,

combatteva per il diritto delle donne al voto,

senza mai indulgere a forme di protesta men

che pacifiche. Dopo circa 4 anni, subito dopo

le sedi di Parigi e Berlino, miss Smedley fon-

dò un Lyceum Club a Firenze, questa nostra

bella città fu scelta perchè, all’inizio del ‘900,

appariva particolarmente “colta e cosmopoli-

ta, abitata da Edith Warton, Bernard Beren-

son, Aldous Huxley...” La prima Presidente,

Beatrice Pandolfini dei principi Corsini, die-

de vita anche qui ad una Associazione in cui

donne, colte, intelligenti, capaci fossero unite

in un ideale “cerchio” al cui interno, e non solo,

cercare autonomia economica e, attraverso il

lavoro, effettiva emancipazione. Il cerchio è

tuttora il logo del Lyceum che ha sede nel bel

Palazzo Giugni di via degli Alfani e che prose-

gue una intensa e variegata attività culturale,

volta a migliorare comprensione, integrazione

e buona convivenza fra le persone, siano esse

donne o uomini. Definirei comunque stretta-

mente legata alla originaria mission la serie di

mostre dedicate a “Le artiste del Novecento

al Lyceum” al cui interno si colloca l’esposi-

zione di opere di Marisa Mori, (1900-1985),

interessante ed emancipata figura di donna ed

artista, che fu attiva in quella Associazione dal

1934 al 1950. Nell’occasione viene presenta-

to un catalogo redatto da Chiara Toti che ha

potuto consultare ed utilizzare i documenti di

Archivio del Lyceum e che bene ne illustra la

poliedrica e creativa figura e che, per la prima

volta, pubblica i suoi appunti per una confe-

renza, avente come significativo titolo, “Vita

della donna artista” tenuta proprio al Lyceum

nel 1948, contemporaneamente alla espo-

sizione di alcune sue opere, riproposte oggi.

Marisa, donna sola, separata con un figlio, fu

sempre animata da grande passione per la pit-

tura , il libro si apre con queste parole del figlio

“Sono stato molto geloso della pittura. Le mie

prime memorie sono di mia madre che dipin-

ge...L’arte è stata la mia rivale vincente...”Ori-

ginariamente allieva di Casorati, si allontanò

dalla sua scuola in quanto fu affascinata dalla

moderna, prorompente, vitale e provocatoria

poetica del futurismo del quale fu, per alcuni

anni, esponente di punta. Molto nota la sua

ricetta “mammelle italiche al sole”, dessert

pensato per la “cenaereo” organizzata da Fillia

di Cristina Pucci

Marisa Morial Lyceumper un ultimo dell’anno e proposta in vari “ae-

reopranzi” da Marinetti stesso, e che compare

nel libro La Cucina Futurista dai due curato.

Io trovo questa sua creazione, non coinvolta in

questa mostra, due calotte di pasta di mandor-

le decorate da capezzoli di fragola, appoggiate

su un piano di solare zabaione, geniale, spiri-

tosa e piena di verve ironica verso il predomi-

nante spirito maschilista e patriottico del tem-

po. Grande successo ebbero le sue opere sia

“casoratiane” che futuriste, esposte in grandi

eventi nazionali ed internazionali. La collusio-

ne futurista con la politica e quindi con le leggi

razziali provocò un risoluto allontanamento di

Marisa da questo movimento, e, si direbbe, da

ogni altro contesto gruppale. Ridusse la sua at-

tività espositiva, dopo gli anni ‘50 soprattutto,

mai quella pittorica. Delle dodici opere espo-

ste solo due, bellissime peraltro, “l’aviatrice

addormentata”e “l’ebbrezza della maternità”,

sono riconducibili al futurismo, le altre sono

rarefatte immagini di interni e paesaggi, fiori

e nature morte, dai colori delicati e dalla silen-

ziosa e solitaria pace intrinseca.

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2529 APRILE 2017

“Ah, questo è un grande e bel paese, voi non

ne avete un’idea! E’ più pulito della vostra

Europa, e qui si può essere giovani senza

vergognarsene. Gli artisti qui non esistono.

Uomini solamente. I poeti - un genus scom-

parso!” E poi: “E’ quello che ci fa arrabbia-

re, noi altri. Che non c’è un europeo che

sappia che dopo Jack London c’è stata una

grande battaglia in America con molti morti

e feriti. E che i giovani che sono rimasti sono

pochi. Che bisogna cercarli ed amarli inve-

ce di continuare a buttar loro in faccia - che

non c’è letteratura, né pensiero, né arte in

America.”

New York New York. Arte italiana. La risco-

perta dell’America, Museo del Novecento e

Gallerie d’Italia, Milano, 13 aprile-13 set-

tembre 2017

Grand Central, 1941. Fotografia di Berenice Abbott,

colorizzata da Avi A. Katz

di Melia SethCantava il poeta: “C’è dei telari in Mèrica,

in cui vanno / ogni minuto centomila spo-

le. / E ce n’ha mille ogni città, che fanno /

ciascuno tanta tela in uno scatto, / quanta

voi non ne fate in capo all’anno.” La can-

zone napoletana ripeteva: “E nce ne costa

lacreme st’America”. “Nu York Nu York”

cantava Liza Minnelli. Il mondo vecchio

e il mondo nuovo. Il nuovo era una costo-

la del vecchio: ma quanto in fretta cammi-

nava. Sembrava voler dimenticare la sua

discendenza. Nel mondo vecchio il nuovo

vede polvere, buon gusto e corruzione. Loro

sono innocents abroad e sono innocenti an-

che in patria. L’Europa ha scoperto l’Ame-

rica, e ha continuato a scoprirla e riscoprirla

all’infinito. Un tempo il viaggio d’istruzione

dell’Americano si svolgeva in Europa. Poi al

contrario: dall’Europa agli Stati Uniti per

vedere il futuro. Da una parte e dall’altra

entusiasmi e offese, plauso e scherni, ammi-

razione, imitazione, rifiuto. Da noi la civiltà

americana è demoplutocrazia, gigante dai

piedi d’argilla, barbarie del comfort. Pure,

bisogna farci i conti se il vento della storia

soffia da quella parte. L’energia dei giovani,

l’inutilità della storia, il peso del passato.

L’arte italiana a partire dal secondo dopo-

guerra scopre la sua America. Afro, Schifa-

no, Vedova, Cagli, Savinio, Rotella, Maselli,

Scialoja, Fontana fanno il viaggio; tutti fan-

no il viaggio perché quel viaggio va fatto. Li

colpiscono i grattacieli, la ville débout l’ave-

va chiamata Paul Morand, l’energia, la ve-

locità, la mancanza di anzianità, il coraggio.

Come fosse un un mondo primitivo, oppure

appena nato. Li colpiscono wilderness, spa-

zio, folla, metropoli, macchine. Li colpisce

the lonely crowd. Depero ci vede il sogno

futurista realizzato. De Chirico ambienta

uno dei suoi uomini antichi sulla spiaggia:

l’uomo guarda il mare ma al posto del mare

c’è New York. Sempre la stessa storia di

vecchio e nuovo, ma la lingua che parlano

ora è la stessa. La consacrazione viene da

là, dall’essere esposti, apprezzati, acquistati,

esibiti là, dall’altra parte dell’Oceano. E’ un

secolo che dura il secolo americano. Allora

tutto a posto, tutto superato? Finiti pregiu-

dizi e stereotipi? As american as apple pie.

Cos’è per noi l’America? Apple pie, Coca

cola, hamburger, fast food, money, business

e materialismo? Oppure è Pollock, Twom-

bly, Lichtenstein, Warhol, Rauschenberg,

De Kooning? Emanuel Cardinali emigra da

solo in America nel 1914: ha 16 anni. Nel

1919 scrive a un corrispondente italiano:

Fast and furious

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2629 APRILE 2017

un giornale francese. L’attacco a Charlie Heb-

do aveva una qualche “giustificazione” ideolo-

gica, ma quelli accaduti dopo hanno un’altra

dimensione per la loro natura indiscriminata

(può succedere dovunque e colpire chiunque).

Per questo davanti ai luoghi simbolo della cit-

tà come il Louvre e la Tour Eiffel non ci sono

più le interminabili file e al Marais, quartiere

turistico per eccellenza, è diventato poco più

che un rigagnolo quel fiume ininterrotto di

giapponesi. Dei 2,6 milioni di turisti in meno

nella sola Parigi nel 2016, data delle ultime sti-

me, il 40% erano infatti giapponesi. La strana

sensazione (molto piacevole se non si pensa

alle cause) che si ha in questi mesi è che per

la mancanza di stranieri Parigi sia ritornata ai

parigini che più di sempre riempono i bistrot e

i ristoranti stringendosi nei minuscoli tavolini

tondi caratteristici della Francia. Apparente-

mente sembra che abbiano imparato a convi-

vere con la minaccia. Dopo ogni attentato tanti

i gesti simbolici (fiori, biglietti con il proprio

pensiero, foto, candele, oggetti....) impensabili

prima per un paese laico, ma poi sembra che la

vita continui il suo solito fluire anche se in un

recente sondaggio il 40% afferma di aver cam-

biato il proprio comportamento nei magazzini

e negli spazi pubblici troppo affollati. Ma Pa-

rigi rimane una città magica. In questi giorni

tutti i giardini pubblici sono un tripudio di fiori

coloratissimi, la Senna brilla al sole e dondola

con pigrizia le tante case galleggianti già pron-

te per l’estate con un tavolino, due sdraio e tan-

ti vasi di bambu.

Credo che Alice abbia fatto male a rinunciare

al suo viaggio. Parigi merita di non essere tra-

dita.

Alice mi ha mandato un sms quasi contem-

poraneamente alle immagini che scorrevano

giovedì sera, 20 aprile, in diretta alla televisio-

ne dagli Champs Elysées pochi minuti dopo

l’attentato. Doveva partire sabato per andare

a passare qualche giorno a Parigi nel mio ap-

partamento. Mentre il cronista tentava di dare

le prime informazioni, Alice aveva già deciso

di rinunciare alla piccola vacanza da tempo

progettata e, come lei, immagino, tante altre

persone.

La Francia e soprattutto Parigi, la città più visi-

tata al mondo, con i frequenti eventi e allarmi

terroristici, sta subendo conseguenze dramma-

tiche non solo come tributo di vittime, dal 2015

i morti sono stati 238, ma anche da un punto di

vista economico. La spesa pubblica si è molto

aggravata per la difesa e le altre misure, come

sistemi di monitoraggio, aumento della forza

dell’ordine, l’assistenza, regolata per legge, alle

famiglie delle vittime e ai feriti sia per quanto

riguarda le cure che la ricostruzione dei beni

distrutti e anche il contributo al deficit di gua-

dagno delle attività forzatamente interrotte...

Le ripercussioni più gravi si stanno verifican-

do però nel settore turistico che rappresenta il

7% del PIL. Ne risente soprattutto Parigi, che

di tutta la Francia rimane l’attrazione princi-

pale, con i suoi 500.000 posti di lavoro legati

a questo settore. Paris fait peur aux touristes

depuis les attentats titolava qualche giorno fa

di Simonetta Zanuccoli

Parigi merita di non essere tradita

Non ero preparata per la sensazione della pasta

nella mia bocca, o la purezza del gusto. Ero stata

in Italia per quasi un mese, ma non avevo mai

sperimentato nulla di simile. Le tagliatelle tre-

mavano come se fossero vive, e saltassero in boc-

ca, dove vibravano come riproduzione di musica

non udibile..

Ruth Reichl

Preparazione. Iniziate pulendo gli asparagi.

Con il pelapatate sbucciate la parte più co-

riacea, lavateli bene, tagliate il fondo e poi ta-

gliateli a tocchetti, tenendo da parte le punte.

Passate ora ai calamari. Staccate delicatamente

i tentacoli, togliete gli occhi e la bocca e getta-

teli. Prendete poi in mano la sacca e togliete

la penna e le interiora. Sciacquate bene, poi

tagliate ad anelli la sacca. Sempre col pelapa-

tate sbucciate l’arancia e tagliate la scorza a

striscioline, tenendole da parte. Spremete poi

il succo. Mettete sul fuoco una padella grande,

che poi possa contenere la pasta. Fate scaldare

dell’olio e insaporitelo con lo spicchio d’aglio,

versate i pezzetti di asparagi (non le punte)

e fate cuocere a fuoco basso per 5 minuti. Ri-

muovete l’aglio. Intanto mettete sul fuoco una

pentola con l’acqua per la pasta. Aggiungete in

padella i calamari, rosolateli brevemente, ver-

sate il vino bianco e fate sfumare bene. Unite

poi il succo d’arancia, regolate di sale e conti-

nuate la cottura per 10 minuti, eventualmente

aggiungendo un mestolo di acqua di cottura, in

modo da avere un sugo non troppo asciutto. In

un altro pentolino cuocete per qualche minuto

le punte di asparagi con un cucchiaino di olio,

devono rimanere croccanti. Salate e tenete da

parte. Quando l’acqua bolle in pentola, salatela

e calate le linguine. Cuocete 8 minuti, scolate e

versate la pasta nella padella col sughetto, me-

scolate bene, aggiungete le punte degli aspara-

gi, le striscioline di scorza di arancia e un giro

di pepe.

Ingredienti per 4 Persone:

320 g Linguine

350 g Calamari

500 g Asparagi

1 Arancia

1 bicchiere Vino Bianco

1 spicchio Aglio

Olio Extravergine D’Oliva

Sale

Burro 1 noce

Olio extravergine d’oliva

Sale120 g di parmigiano a scaglie

sale e pepe

di Michele Rescio

Linguine calmarie asparagi

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che con Hidden Body Déclinaison rende

omaggio a Kazuo Ohno e alla sua capacità di

collegare il gesto all’universale attraverso le

emozioni personali (10/05). Santasangre pre-

senta Gravure_Le chevalier_II quadro, perfor-

mance che ruota attorno alla figura del cavalie-

re e dell’arte della spada, ricordando come la

disciplina e l’esercizio nella preparazione alla

battaglia pongano l’uomo di fronte a se stesso e

a un’impalpabile potenza (11,12/5). Matthew

Herbert delizierà il dancefloor (5/5), la rasse-

gna Dan+Z (Dance + Jazz) farà incontrare la

giovane coreografa e danzatrice del Balletto di

Roma Roberta Racis, il chitarrista Francesco

Diodati e il percussionista Ermanno Baron

(5/5). Ascolteremo le chitarre dello statuniten-

se Marc Ribot e del canadese Oren Ambarchi,

le sonorità della capoverdiana Mayra Andrade

(12/05), oltre ai concerti di Marco Parente

(con Irene Grandi nella reinterpretazione di

Eppur non basta, uscito 20 anni fa, il 7/05),

Edda (11/05), e Marlene Kuntz con il capola-

voro Il Vile (13/5), non un’operazione nostalgi-

ca ma la volontà di riproporre qualcosa di bel-

lo, e di condividerlo nuovamente insieme. Tra

gli eventi in musica anche Tour Blu, progetto

speciale in cui la chitarra di Adriano Viterbi-

ni incontra i live paintings di Davide Toffolo,

frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti e Al-

berto Ferrari dei Verdena, tra blu e blues (6/5).

Programma completo su www.fabbricaeuro-

pa.net , prevendite su boxol.

Foto di Ian

di Sara ChiarelloBentornata Fabbrica Europa, festival che da

sempre ammiriamo per la sua forza visionaria,

alla ricerca di nuove forme artistiche, di idee da

condividere e realizzare, di altri mondi possibi-

li. Il meglio degli artisti performativi (non solo

d’Europa, ma provenienti dal Medio Oriente,

India, Cina, Mediterraneo…) si ritrova a Firen-

ze per la sua ventiquattresima edizione, dal 4

maggio al 15 giugno, alla Stazione Leopolda e

in vari luoghi. Settanta gli appuntamenti, in un

laboratorio d’arte permanente, che è una festa,

dove i linguaggi e i segni si intrecciano, per-

dendo finalmente etichette. “Se in questi anni

Fabbrica Europa è diventata una delle realtà

consolidate del panorama del contemporaneo

anche grazie ai grandi ospiti internazionali,

la sfida è ora quella di trasmettere esperienze

e conoscenze, pratiche e progettualità alle ge-

nerazioni che si affacciano al mondo dell’arte

in cerca di riferimenti, per capirne i meccani-

smi profondi. È per questo che l’attenzione

del Festival va sempre più alla ricerca di tutti

quei luoghi in cui trovare una vitalità nuova

da condividere, un terreno fertile in cui agire,

adatto per osservare e riflettere la realtà da pro-

spettive inusuali, fino a raggiungere, quando

possibile, lo stupore”, dicono gli organizzatori.

L’apertura sarà affidata a un progetto speciale,

A Love Supreme, della coreografa belga Anne

Teresa De Keersmaeker, in prima nazionale

(in replica il 5). Costruita in collaborazione con

il coreografo Salva Sanchis per la Compagnia

Rosas, sulla musica dell’omonimo capolavo-

ro di John Coltrane, la dinamica coreografica

si sposa con il fluire ascetico e vulcanico del-

le sonorità del jazzista, e ognuno dei quattro

danzatori si lega a uno strumento specifico,

in un bisogno di assoluto. In collegamento, la

produzione musicale A Love, Naked che vede

protagonisti Hamid Drake e William Parker

affondare nelle profondità musicali di John

Coltrane, solo contrabbasso e batteria (14/05).

Per la danza, Jérôme Bel presenta Gala, copro-

duzione Fabbrica Europa e Centro per l’arte

contemporanea Luigi Pecci di Prato: danzatori

professionisti, attori e amatori di diverse forma-

zioni (selezionati sul territorio) si uniscono per

interrogarsi sul concetto di danza, in una ce-

lebrazione collettiva che scalza la supremazia

del “ben danzare” a vantaggio del puro piacere

di raccontarsi (10, 11/05). Nella stessa sezio-

ne Prélude, nuova creazione di Cristina Kri-

stal Rizzo, in cui una sequenza di movimenti

semplici ripercorre le geometrie della linea e

della diagonale, creando il tono ritmico di un

gruppo di otto danzatori (13,14/05), e l’opera

della coreografa giapponese Anan Atoyama,

BentornataFabbrica Europa, la visionaria

Page 28: Nostra patria è il mondo intero nostra legge è la libertà · persone e anche la storia del nostro Paese. ... sono della seconda metà del cinquecento e si ponevano già il problema

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Kiki Franceschi muove dal gotico e dal fanta-

stico - in un’aura di rinnovato romanticismo

con tutti gli elementi naturalistici che gli sono

propri - per mettere in evidenza come l’umani-

tà tradizionalmente intesa sia giunta alle soglie

di una reale dissoluzione causa una devastante

alienazione sociale che la sfigura e ad una radi-

cale modificazione cibernetica per cui la realtà

supera l’immaginazione.

Ciò è evidenziato nello scritto che si trova qui, a

chiusura del libro, “Visioni della malinconia tra

l’intimo e il globale” dove l’autrice presenta sin-

teticamente alcuni autori per lei di riferimento.

Di fatto, comunque, non si tratta di una rifles-

sione filosofica, l’autrice vive davvero questa

condizione esistenziale e di questa testimonia

nei testi che compongono la presente opera.

Nel testo n° 1, Sotto mentite spoglie scrive: “Ho

due anime, un falso sé o un inventato sé. Sono

sempre sotto mentite spoglie, in duello con me

stessa nel tentare di uscire dai grovigli interiori

che strozzano l’impulso ad esprimermi e fre-

nano la pulsione al silenzio. Combatto con la

voglia di tacere, il desiderio di riposo e silenzio,

la fine delle inutili fatiche, l’abbandono della

tensione costante. Fuggo. Entro in un dialogo

tra ombre e doppi. Inevitabilmente.”

Da questa dicotomia deriva il confronto indivi-

duale, sociale e storico con la morte che è “un

sonno senza sogno e senza Dio”.

Passando dalla visione del mondo all’aspetto

creativo, appare subito evidente la poliedrica

attività artistica e letteraria di Kiki Franceschi

che intreccia, nella sintesi multimediale, generi

diversi.

Di certo essa rappresenta una delle voci più

significative nella letteratura e nell’arte del

secondo Novecento e degli inizi del terzo Mil-

lennio, a partire dalla sua drammaturgia, in cui

dà vita a personaggi di grande e drammatica

evidenza recuperati dal vissuto.

Questo suo ampio respiro è ancor più evi-

dente nella elaborazione dei linguaggi delle

opere multimediali dove essa conserva tutta

la sua vitalità di fondo, sempre sostenuta da

una profetica indignatio, (Si natura negat, fa-

cit indignatio versum, scrisse Giovenale) e da

una sapienza filologica nel tessere citazioni di

scrittori amati con cui condivide, come si è già

scritto, le “visioni della malinconia fra l’intimo

e il globale”).

Essa rimane in ogni caso se stessa, muovendo-

si fra prove diverse ma fuse in una voce unica,

decisa e insieme amaramente suadente per la

modulazione dei toni che la fanno viva.

Anche questo testo di poesia si propone come

canto che non è nato per rimanere sulla pagi-

na, ma per essere contestualizzato in opere di

poesia sonora.

Forse, a livello interiore, la poetessa, esprime

in questi versi di La morte come sentimento, la

chiave del suo pessimismo:

paura d’aver paura

della paura che annichilisce

cosciente paura della vita

del tempo che già trascende…

Un testo bellissimo, che dà un senso altamente

poetico di questo assunto, è Parole dove la per-

sonale estinzione è custodita da”nate e morte

nel silenzio /bianche fragili parole /arcane at-

tingibili”.Parole che sono “pietrificate foreste /

insondati segni”.

Altro testo che spicca, in tal senso, è Semplicità

all’inizio, dove la poetessa dà un’interpretazio-

ne della Genesi e del dopo concludendo con

un distico che è una dichiarazione di identità

dell’artista:

“traduciamo in parole /avventura colore melo-

dia”.

Inoltre, questo subìto cupio dissolvi, che inter-

preta una società, una natura, un universo in

una crisi profonda, cerca comunque una solu-

zione: “Notte assoluta. Chiedo voce e parola.”

Oltre a la notte ossianesca altro elemento “co-

smico” è il mare che per Kiki Franceschi è an-

che un alveo biografico, essendo lei legata alla

città natale, Livorno: “Il nostro mondo è acqua

/amara del sale dei continenti”. E mai versi fu-

rono più attuali.

Per lei, il nuotare è un fatto esistenziale “Im-

provvisa mi coglie la sera / nuotando /nella

luce degli specchi.”

Un nuotare come presenza nell’Universo in

cui si domanda se sia meglio essere libera (ma

sottoposta alle proprie angosce) o affidarsi a un

“tiranno dio psicopatico” che sappia liberarci

da queste.

Così, traducendo la visione del mondo in espe-

rienza personale la poetessa ci consegna un te-

sto di rilevanza storica.

E, infine, anche le immagini delle sue opere

testimoniano la forte tensione catartica e, se

ce ne fosse bisogno, l’alto posizionamento che

Kiki Franceschi ha nel quadro dell’arte con-

temporanea

di Franco Manescalchi

Kiki Franceschiun’artista totale

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LUCA PIGNATELLIA cura di Antonio Natali e Massimo Bertozzi

PALAZZO CUCCHIARIVia Cucchiari, 1 – 54033 Carrara, ItalyT. +39 0585 [email protected]

22 APRILE 2017 – 18 GIUGNO 2017

Orari di aperturaDa martedì a domenica, 15:00-19:00

A partire dal 26 maggio:martedì, mercoledì, giovedì e domenica, 15:00-19:00venerdì e sabato, 15:00-22:00

Ingresso intero 5 € / Ridotto 4 €

In occasione della mostra dedicata al grande arti-sta italiano dalla Fondazione Giorgio Conti di Car-rara, curata da Massimo Bertozzi e Antonio Natali, Maschietto Editore realizza uno speciale volume, catalogo della mostra e monografia d’artista, che presenta la serie degli inediti esposti a Palazzo Cuc-chiari e propone un viaggio nel ricco universo visuale dell’artista, con suggestive immagini dello studio e delle opere in lavorazione.L’artista stesso firma il progetto artistico e il concept grafico, facendo del volume un’opera d’arte e un’e-sperienza immersiva unica, attraverso la quale il let-tore può addentrarsi empaticamente nella poetica, nelle visioni, nei ritmi creativi dell’artista. La grandi lamiere di ferro zincato, lavorate con ma-teriali e strumenti appartenenti al mondo dell’edilizia

e della cantieristica, rappresentano eroi, condottieri, imperatori romani, oltre alle rovine dell’Urbe. Dal lavoro di Pignatelli emerge una rilettura artistica e intel-lettuale del rapporto tra antico e contemporaneo; i temi della memoria, della tradizione e delle macerie vengono ‘messi alla prova’ e a contrasto con la fisicità delle lavorazioni, facendo scaturire significati e sguardi nuovi.Il volume presenta i testi critici di Antonio Natali e Massimo Bertozzi, oltre della Presidente della Fondazione Giorgio Conti, Franca Conti; le immagini delle opere sono state scattate dal grande fotografo Paolo Vandrasch.

Maschietto Editore libri d’arte

Maschietto Editore – Via del Rosso Fiorentino 2/D – 50142 FirenzeTel/fax +39 055 701111 – [email protected] – www.maschiettoeditore.com

Luca PignatelliPalazzo Cucchiari

rilegato / 104 pagine / 28 €ISBN 978-88-6394-132-6