Non voglio piangere più

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Nato in una piccola provincia del Sud, Matera, città dei Sassi e pa- trimonio dell’UNESCO, sono vissuto qui fino ad ora. Sono Gianni, il ragazzo con la tuta, come tutti dicono ed ho ventotto anni. Non so di questa vita quanti giorni, mesi o anni io sia stato veramente bene; so solo adesso, purtroppo, che la mia esistenza è stata segnata da un lungo percorso depressivo che ha toccato la sua punta massima nel settembre del 2001, quando sono stato colpito dal cancro, il cancro dell’anima! 9 10

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Nato in una piccola provincia del Sud, Matera, città dei Sassi e pa-trimonio dell’UNESCO, sono vissuto qui fino ad ora. Sono Gianni, il ragazzo con la tuta, come tutti dicono ed ho ventotto anni. Non so di questa vita quanti giorni, mesi o anni io sia stato veramente bene; so solo adesso, purtroppo, che la mia esistenza è stata segnata da un lungo percorso depressivo che ha toccato la sua punta massima nel settembre del 2001, quando sono stato colpito dal cancro, il cancro dell’anima!

lA MiA fAMiGliA

I miei genitori sono entrambi materani. Si sono sposati nel 1973, lui trentacinquenne e lei di solo vent’anni. In realtà, l’enorme differenza di età non ha mai rappresentato un problema per nessuno dei due, uniti da un amore cieco, grande da far invidia a chiunque.

Diversamente è stato per me! Si, perché questo divario anagrafico, unito alla malattia di mio papà, ha creato nella mia psiche, anche se in-direttamente, grossi problemi contribuendo ad aggravare ulteriormente la sindrome, oggetto di questo libro.

Papà Nicola è un gran bell’uomo. Sin da piccolo sono stato fiero di lui per quello che era, che rappresentava e per ciò che emergeva dai racconti del suo interessante quanto malinconico passato.

Nato nei Sassi della Vecchia Matera, papà rimane orfano di padre a soli quattro anni e continua a vivere con una giovane mamma e una sorellina di appena dieci mesi.

Infatti durante la seconda guerra mondiale, nonno Giovanni ha qualche giorno di permesso per tornare a casa e riabbracciare la sua consorte, il suo Nicolino e la sua Brunetta. Mentre tornava a casa dalla campagna, sul traino, tirato da un mulo, correva nei paraggi una camio-netta tedesca che sfuggiva ai bombardamenti di un aereo americano. Ironia della sorte: i tedeschi riuscirono a nascondersi sotto un vecchio

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ponte mentre il nonno, per un tragico errore, fu mitragliato e barbara-mente ucciso dai nostri alleati americani. La nonna non ha potuto più salutare il suo Giovanni. Non si è mai più risposata pur essendo molto giovane, appena trentatreenne. Ha dedicato la sua vita ai suoi due fi-gli, lavorando duramente e consumandosi lentamente nella mente e nel corpo.

Nonostante le ristrettezze economiche, mio padre è riuscito a studia-re. Tra un lavoro ed un altro, dietro le sollecitazioni ed aiuti della nonna, si è diplomato in ragioneria. È stato un diploma sudato e sofferto il suo! Ha dovuto fare il lattaio, il salumiere, “u zappator” per acquistare i testi scolastici. Dopo tanti sacrifici, è riuscito, per un colpo di fortuna, ad en-trare in banca come impiegato. Qui ha dato l’anima e il corpo per più di trentacinque anni, riscuotendo diversi onori e gratificazioni.

Ancora oggi, quando sfoglio il suo album con le foto in bianco e nero, provo soddisfazione ed anche un po’ di invidia per la sua bravura, per quello che è stato ed è tutt’ora per noi. Era pure molto affascinante, a suo tempo. Aveva il ciuffo alla Little Tony, un viso da cinema ed un corpo statuario, sodo e muscoloso. Ancora oggi, a dispetto dei suoi 65 anni e dei grossi problemi di salute, ha “il bicipite” più duro del mio.

Mia madre, Antonia, che tutti chiamano Antonella, si è sposata gio-vanissima, come ho già detto. Ma sono sicuro che se ci fosse stata la possibilità, l’avrebbe fatto ancora prima.

La ragione è semplice: non ha mai vissuto bene la sua famiglia; for-ti carenze affettive sono state avvertite da lei, estremamente sensibile, come mancanza di amore e unione familiare. Sua madre ha, a periodi, sofferto di esaurimento nervoso forse dovuto ad un’unione, direi infeli-ce, con un uomo sette anni più giovane di lei; suo padre è sempre stato - tipico di quel tempo - molto severo, dedito al lavoro e all’educazione di ben cinque donne.

Vigeva, in quella casa, un regime quasi totalitario, nel senso che, così come spesso si verificava allora, non c’è stato mai posto per un rapporto amorevole, complice, affettuoso fra genitori e figli.

Un’atmosfera familiare non certo delle più rasserenanti e rassicu-ranti. Di qui, l’insorgere dei primi disturbi affettivi di mia madre: in-continenza fino all’età di 10 anni, nonché frequenti ed acute emicranie (quello che più tardi ho scoperto, a mie spese, essere un chiaro segno di sofferenza emotiva di un bambino).

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Nel giugno 1974 nasce Antonella, mia sorella, che avrà nella mia vita e, soprattutto nel decorso depressivo più grave, un ruolo di fonda-mentale importanza. Mora, con una folta chioma ed una carnagione scura, eredita il nome della nonna paterna, nonostante mia madre si chiamasse anche lei così. I miei genitori mi hanno sempre raccontato di lei; dicono che fosse molto precoce e intelligente. Tant’è che parlava già quando io ero ancora nel grembo materno, a soli 9 mesi.

Nel settembre dell’anno successivo nasco io, quasi cinque chili, rosso come un pomodoro, grosso e senza nemmeno un capello.

Sin da piccoli siamo andati sempre d’accordo, io e mia sorella. Ci chiamavano i due gemellini perché, nonostante la differenza d’età e di sesso, nel box avevamo lo stesso biberon, lo stesso pigiamino e persino lo stesso animaletto di peluche, Puccy. Antonella, al mio arrivo, ha enor-memente sofferto il fatto di perdere l’affetto esclusivo dei miei. Le loro attenzioni non erano più solo per lei: doveva dividerle con me. Pensate che a volte davanti ai miei mi accarezzava, poi di nascosto mi schiaffeg-giava. Una volta ha cercato persino di “farmi fuori”, mettendomi il cot-ton fiock in gola. Comunque si è riscattata abbastanza, a distanza di 25 anni. Durante la nostra infanzia e poi per tutta l’adolescenza, le nostre vite e la nostra educazione sono state, direi, molto simili, troppo.

Io e i miei cani in campagna

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i PriMi SintoMi

L’Emicrania

Non ricordo molto bene, forse perché ero troppo piccolo, ma i primi sintomi di natura depressiva ho iniziato ad averli verso i tre, quattro anni. Ogni tanto avvertivo dei forti dolori di testa che mi prendevano o a un emisfero o a tutto il capo. Gli attacchi iniziavano quasi sempre di pomeriggio, con una sensazione di forti pulsazioni all’interno del cer-vello. Le fitte aumentavano sempre più con il passare dei minuti, fino a quando il mio viso diventava bianco, quasi cadaverico. I miei famigliari, allora, stentavano a riconoscermi, visto che una delle mie caratteristiche sono sempre state le gote rosse, che mia madre chiamava “melette”.

Non riuscivo a comprendere bene cosa mi stesse accadendo. Forse per la tenera età. Ricordo solamente che soffrivo in silenzio. Non mi lamentavo mai.

Durante il malessere, a volte, al pallore si univa una forte e crescente sudorazione, nonostante avessi una temperatura molto bassa e la fronte ghiacciata. Poi, regolarmente la situazione si faceva sempre più insop-portabile: a tutto quanto il resto subentrava infatti un’eccessiva sensibi-lità alla luce, ai rumori e soprattutto agli odori. Mi sentivo come, imma-gino, possa stare una gravida. Il più impercettibile degli odori mi nau-seava e, a volte, stimolava il vomito. Non riuscivo a rimanere in piedi. Mi sentivo debolissimo ed era anche incredibilmente difficile rispondere alle domande dei miei, che, continuamente, mi chiedevano come stessi. Sentivo una grande sensazione di pesantezza sulla lingua. Era come se qualcuno me la tenesse ferma, o come se avessi sopra un peso di venti chili. Cominciavo a sentirmi meglio solo quando, dopo ore di nausea, riuscivo a vomitare. Così andavo a letto, senza cenare ovviamente.

Il giorno seguente mi svegliavo un po’ stonato, ma meglio. Quando l’attacco della sera era stato molto forte, nel pomeriggio del giorno se-guente avvertivo un leggero dolore alla testa che mi accompagnava fino alla notte.

Con il passar del tempo questi episodi si sono fatti sempre più fre-quenti e nessuno, fuori e dentro casa, riusciva a capire cosa mai potesse provocare tutto ciò. Addirittura i miei sospettavano che fossi allergico all’uovo, che mi facesse male procurandomi indigestione. Fu allora che provai a non mangiarlo più.

Ma gli attacchi non cessarono e i miei continuarono a sortire le loro tesi sulle possibili cause dei miei episodi dolorosi.

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Solo anni dopo scoprii cosa avevo, quando mi ritrovai in uno studio medico e per caso lessi un manifesto che parlava di tutti i sintomi e tutte le cause che provocavano emicrania e cefalea muscolo-tensiva. Capii allora cosa fossero quegli attacchi acuti che mi accompagnarono fino all’età di 19 anni.

Secondo i protocolli medico-scientifici, nei bambini e nei ragazzi la depressione può manifestarsi anziché con l’oscillazione dell’umore, con più o meno frequenti cefalee, nonché con incontinenza, l’obesità... pro-blemi che ho sperimentato tutti!

Così la mia vita andava avanti, in un ambiente apparentemente sere-no, una famiglia tranquilla, e due genitori oserei dire d’oro, che hanno cercato di dare a me e a mia sorella l’amore e l’affetto di cui loro, anche se per cause diverse, sono stati privati.

Le giornate erano sempre più incerte. Non potevo fare programmi, io! Tanto meno la mia famiglia. Le mie emicranie sorgevano improv-visamente e mi paralizzavano per tutto il resto del giorno. A volte riu-scivo a individuare cosa scatenasse il mio mal di testa o cosa lo facesse aumentare (fumo di sigaretta, musica ad alto volume, ansia, stress, odori troppo forti, giornate colme di pensieri, ecc.). Altre volte, invece, quali potessero esserne le possibili cause proprio non si capiva.

Quasi sempre il sabato e la domenica erano giorni vulnerabili. Come pure le feste (matrimoni, compleanni, ecc.) gremite di fumatori e con la musica che ti penetrava violentemente nella testa. Poveri i miei genitori! Si rovinavano i momenti migliori, quando avrebbero potuto divertirsi, rilassarsi. Ed invece erano lì con me, o a tenermi la fronte, a reggermi nel bagno, o a passarmi dei fazzoletti dopo che avevo rimesso.

Ricordo affettuosamente che mio padre, il giorno seguente, quando mi preparava la colazione prima di andare a scuola, mi faceva trovare sul tavolo, accanto alla tovaglietta, il mio diario con la giustifica per non aver potuto studiare, accompagnata dalla sua firma. Questo mi intene-riva molto, anche perché sentivo le lamentele dei miei amichetti che as-serivano di essere stati picchiati ogni qual volta non avevano studiato.

L’incontinEnza A che età un bambino non fa, o non dovrebbe fare più la pipì a letto?

Io personalmente non lo so e non l’ho mai saputo, visto che sono stato incontinente fino all’età di 14 anni. Anche in questo campo l’ignoranza ha fatto la sua parte.

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“È debole di reni!”, dicevano tutti e un bambino non poteva che cre-dere a questo tipo di asserzione. Ricordo però alcuni periodi, in parti-colare, che l’incontinenza mi faceva brutti scherzi. Devo pensare allora che ci sono delle connessioni con l’emotività, con i disturbi affettivi, o si tratta di una banale casualità? Come approfondirò meglio in uno dei capitoli successivi, mio padre nel febbraio del 1986 viene colpito da un infarto del miocardio ed è ricoverato in ospedale, nell’ U.T.I.C., Unità di Terapia Intensiva Coronarica.

Io avevo solo 10 anni e ricordo benissimo che, nei giorni di degenza di mio padre, mi svegliavo la mattina col pannolone completamente asciutto. Questo sicuramente destò lo stupore e l’incredulità di mia ma-dre che non sapeva cosa fare e pensare. Tutti parlavano di disfunzione dei reni. Mamma pensava fosse un problema di carattere ereditario, avendone sofferto anche lei da bambina. Poteva trattarsi invece di un sintomo depressivo, di disturbo dell’ansia?

A me sembra proprio di sì. Questo lo dimostrava il fatto che al ritor-no di papà a casa ricominciai a riempire i pannoloni di pipì che talune volte fuoriusciva bagnando coperte e materasso. Quanta pazienza mia madre ci ha messo! Cercava sempre di non umiliarmi. Lavava e puli-va in silenzio con inestimabili cure. Era forse questo che generava in me forti sensi di colpa. Troppo affetto mi dava; non mi faceva pesare minimamente questo problema, ripetendomi in continuazione: “Non preoccuparti, è successo anche a me, prima o poi passerà”.

Si innescava allora uno strano meccanismo. “Mia madre mi ama incondizionatamente; mi da tutto, mi adora e mi accudisce sempre e co-munque. Io allora devo fare altrettanto: non posso chiedere nulla perché fa già abbastanza; non si merita, lei, che io faccia i capricci come gli altri bambini; non posso trasgredire, neanche col pensiero, alle regole che lei mi impartisce, perché non è il caso che io la deluda nelle alte aspet-tative che ripone in me”. Questo io pensavo! E allora non mi sono mai concesso neanche di sporcare, fare pedate, affiggere nella stanza le foto o i poster così come non ho mai fatto tutte quelle cose di nascosto o per dispetto che tanto ci aiutano a crescere e diventare autonomi e sicuri.

Quello che avevo interiorizzato era: “devo amarla anch’io come lei ama me!” Non capivo ancora, e forse non potevo, che l’amore senza riserve è quello di una madre verso il proprio figlio ma non il contrario.

A questo punto, una riflessione: una densa collezione di sensi di col-pa, un continuo “crepare in corpo” mettendo a tacere tutti i propri

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desideri, leciti e non, il soffocare sempre rabbia e aggressività, che insi-stenti ci accompagnano per tutta l’adolescenza, possono sfociare in una depressione? Credo che la risposta ve la immaginiate già.

Doveva arrivare, prima o poi, il momento in cui sarebbe scoppiata come una mina, la voglia di spazio mentale e materiale; la volontà di decidere, di organizzare, di gestire, di trasgredire, ecc.

Con la psicoterapia salterà tutto fuori. Quando mio padre si ammalò, dopo tre mesi di convalescenza, qui a

Matera, i miei dovettero partire per le Molinette di Torino. Papà avreb-be subito un intervento al cuore. Io e mia sorella restammo a casa di zia Rosanna, gemella di mia madre, per un periodo di circa cinquanta giorni. Questa fu l’ennesima prova di quanto asserivo poco fa. In questo tempo, in cui era mia sorella a dovermi attaccare il grande pannetto, non feci nemmeno una volta la pipì a letto. Ricordo molto bene che in tre episodi bagnai cuscino e pigiama di sangue per violente emorragie dal naso, ancora oggi inspiegabili.

Al ritorno dei miei da Torino tutto continuò come e più di prima, fino al 1° anno di scuola superiore.

L’obEsità

Vi sembrerà assurdo, ma fino all’età di sei anni ero un bambino magro, proprio come i miei genitori. È dai 7 anni in poi che ho in-cominciato ad ingrassare a dismisura raggiungendo prima gli 85 kg. in seconda media, a 12 anni, poi il quintale al primo anno di scuola superiore, a circa 14 anni. Non era un problema di forti abbuffate, an-che perché la proteina della sazietà di certo non mi mancava. Il cibo, e soprattutto i dolci, erano una droga per me, forse uno sfogo per lenire una sofferenza, una scontentezza interiore difficile a spiegarsi. Avevo 15 anni quando invece dimagrii 22 kg. raggiungendo il peso di 78 kg. Esteticamente ottenni dei buoni risultati. Non che mi fossi deciso a curare il mio corpo!

Ma quello che voglio denunciare è la seguente questione: chiunque nella vita può non piacersi e decidere di cambiare curando il proprio aspetto per rendersi più gradevole e accettabile. È una cosa alquanto diffusa ed usuale decidere di dimagrire per il proprio benessere fisico e psicologico. Non rientra invece nella normalità attraversare periodi, anche più o meno lunghi, di grosse abbuffate alternati ad altri di totale mancanza di appetito!

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Leggendo attentamente il manuale di Dimitri Papolos, docente di Psichiatria e condirettore del programma di genetica comportamentale presso l’Albert Einstein College of Medicine di New York, e Janice Pa-polos, scrittrice e giornalista specializzata in tematiche psicologiche, ho scoperto che i periodi di depressione sono caratterizzati dall’alternarsi di periodi di scarso appetito e di perdita di peso con momenti di forte aumento dell’appetito e quindi del peso. Infatti io stesso, subito dopo es-sere fortemente dimagrito, riacquistai dieci chili nel giro di pochi mesi. Durante tutto il periodo delle scuole superiori, il mio peso oscillava di dieci, dodici chili intorno ai 78.

In questo frangente furono frequenti gli attacchi di emicrania, che destarono la forte preoccupazione dei miei, i quali insistettero per far-mi sottoporre a una Risonanza Magnetica Nucleare alla testa, presso il Centro Radiologico di Matera. Dopo pochi giorni ritirammo le la-stre unitamente al referto. Era tutto a posto a meno di una piccola cisti a livello della pineale ed un quadro ventricolare piuttosto particolare. Sembrerà strano, ma fui quasi contento dell’esito degli esami, perché pensavo di aver trovato, in quelle anomalie congenite, la causa di quei tormentati mal di testa che mi bloccavano a letto anche tre o quattro volte a settimana.

I miei, molto apprensivi, si allarmarono, tanto da rivolgersi a diversi specialisti. Sì. Perché non contenti della diagnosi del primo, ne consul-tarono altri. All’inizio mi fu detto da un neurologo che avevo due cisti nella pineale, di natura congenita, benigne, che nulla avrebbero potuto provocare al sistema nervoso centrale. Mi fu prescritto un trattamento per diminuire la frequenza e l’intensità degli attacchi di emicrania (mi curavo: Sandomingram).

Fu così che, più tardi, per essere più tranquilli, consultammo anche un noto neurochirurgo. Egli confermò la presenza di quella cisti, in-nocua a suo dire, e mi informò su una malformazione congenita che avevo all’encefalo, per la rara presenza di un ventricolo in più. Ma i due problemi nessuna connessione avevano con la cefalea! Mi fu assegnato lo stesso farmaco.

Il tempo intanto passava, ed il mio peso continuava ad oscillare. Al primo anno di Università conobbi il culmine di sofferenza per i

frequenti attacchi emicranici. Utilizzai, anzi feci abuso, di ogni sorta di analgesici, che sembravano essere di nessun giovamento per le fitte martellanti.

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Fu così che cominciai a ingozzarmi soprattutto di dolci e latte in quantità, oserei dire in misura industriale. Ricordo in particolare che, al risveglio, pensavo già al bar o al supermercato al quale mi sarei potuto rivolgere per fare spesa. Programmavo praticamente interi pomeriggi di ingordigia. Ricordo che certi giorni, in un minimarket in Via Petroni, dove abitavo quando ero a Bari per l’Università, compravo pacchi di dieci cornetti, che riuscivo a consumare tutti insieme, inzuppandoli in circa un litro di latte. Più ero malinconico ed insoddisfatto e più mangia-vo. Riuscii a raggiungere nuovamente il peso di 96 chili.

Questo peso sarà destinato a calare di molto con l’inizio di quello che io chiamerò “periodo nero”. Poi risalii a 107 kg e adesso...

iL sistEma immunitario

Ho sempre sofferto di tonsillite, che curavo normalmente. Dopo l’inizio della malattia, intorno ai 19 anni, il mio sistema immunitario si andava indebolendo. Le tonsilliti tornarono sempre più frequenti, ac-compagnate da placche e febbre più o meno alta.

Mi curavo con antibiotici e antinfiammatori. Gli episodi si fecero così frequenti (1 volta la settimana) che in Ospedale vagliarono la pos-sibilità di asportarmi le tonsille con un normale intervento chirurgico. Non occorse.

Dopo i primi mesi di cura con gli antidepressivi, gli episodi di infezio-ne ed infiammazione delle tonsille si diradarono sempre più. Oggi non solo “ho conservato le mie tonsille” ma ho episodi molto sporadici di in-fiammazione e a causa di condizioni molto particolari. Ho rivoluzionato il mondo della medicina, curando la tonsillite con antidepressivi.

l’ADoleScenzA, lA forMAzione

Sin da piccolo sono stato fortemente legato ai miei genitori. La loro storia, il loro passato hanno influenzato molto la mia formazione e struttura di personalità.

Mia madre è cresciuta senza ricevere affetto, e quindi ha cercato di darlo a noi in maniera però possessiva e morbosa e, cosa più grave, ha preteso di riceverlo da noi nella stessa misura e facendo spesso leva su ricatti morali.

Tutto questo ovviamente è avvenuto in buona fede, inconsapevol-mente. Mio padre, invece, è cresciuto senza una figura paterna, ed ha cercato di dare a noi tutto quello che lui non ha potuto ricevere dal suo

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genitore assente. Ricordo alcune particolarità che hanno caratterizzato il nostro rapporto. I miei mi hanno in ogni circostanza appoggiato se non coccolato. Il loro linguaggio, il loro modo di rivolgersi a me, è stato conti-nuamente tenero. Non è proprio comune che dei genitori si rivolgano ai figli, anche quando sono in collera o disapprovano, sempre e comunque con un “che vuoi a papà?” “vieni a mamma” o “come ti senti?”.

Paradossalmente anche ricevere troppo amore e comprensione può far male, nella misura in cui questo crea un rapporto talmente profondo che risulta molto difficile e doloroso uscirne, per diventare autonomi e indipendenti.

I miei mi hanno insegnato a non fare del male a nessuno mai, a non usare violenza. Fatto strano è che volevo ubbidire al punto che interiorizzavo tutti gli insegnamenti in maniera ossessiva. Cosicché se qualcuno mi avesse dato un pugno, come è realmente successo, io non avrei dovuto nemmeno tentare di difendermi. In parecchie occasioni le ho prese anche da bambini fisicamente più piccoli di me.

Non potevo alzare le mani, dovevo subire in silenzio come da inse-gnamento. Quante volte ho dovuto reprimere il mio nervosismo, i miei istinti. Che fine hanno fatto quelle tensioni, quelle arrabbiature che non hanno potuto esternarsi lo scoprirete più avanti.

Persino in casa, io e la mia sorellina, abbiamo sempre cercato di non far lite, né attraverso le botte, né con semplici grida e sfuriate. I miei amici mi raccontavano che con i loro fratelli/sorelle si tiravano i capelli, si prendevano a parolacce, si scontravano per ogni cosa.

Ciò rappresenta una tappa obbligata nello sviluppo cognitivo ed emotivo di ciascuno; il piccolo ha bisogno di adattarsi al mondo intera-gendo prima con i familiari, pacificamente e non, e poi con ciò che sta fuori! È a casa che ci si prepara a confrontarsi con gli altri, a difendere i propri interessi, i propri oggetti, se stessi. Il bambino ha bisogno di avere un proprio territorio sin dalla più tenera età. Per il piccolo la sua stanza è il mondo dell’adulto. In quello spazio potrà utilizzare tutta la sua inventiva, la sua creatività, il suo potere decisionale, per renderlo a misura sua. Potrà rotolarsi per terra, riempire il pavimento di giocattoli e cianfrusaglie varie, spostare in continuazione gli oggetti, ordinare e riordinare le sue cosine, affiggere le foto o i poster che rappresentano una sua passione, un suo mito, un suo riferimento. Insomma egli dovrà esprimere, in quattro mura, la propria identità conquistando la padro-nanza di agire e la sicurezza in sé stesso per affrontare la vita fuori.