Non ti svegliare di Stefano Visona'

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Una donna apre gli occhi in una stanza buia. Non riesce a muoversi. Dov’è? E’ ancora dentro al sogno? Perché non riesce a svegliarsi? Un uomo riemerge dal nulla dopo tre settimane. E’ in una stanza di ospedale con un vuoto assoluto in testa. Che cosa è successo? Perché è completamente solo? Perché viene accusato del più orribile dei crimini? In parallelo, una voce in una stanza spoglia chiede al magistrato di poter narrare tutto dall’inizio. Dagli “inutili anni ottanta”. Perché, dice, è lì che è cominciato tutto. Un avvocato troppo coinvolto dal passato per accettare l’evidente colpevolezza del proprio cliente; passo dopo passo percorre un’indagine difensiva inquietante, inseguendo una fantomatica scia di sangue celata nella nebbia della pianura veneta. Solo per arrivare a una sconvolgente verità.

Transcript of Non ti svegliare di Stefano Visona'

STEFANO VISONA’

non ti

svegliare

Legal Thriller

Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 Stefano Visonà

non ti svegliare di Stefano Visonà http://www.stefanovisona.it Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni ri-produzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 78979108/8862964 Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN eBook: 978-88-97277-95-8 Collana BLACK & YELLOW http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia.

Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, av-venimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri te-lefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo e-conomico all’Autore.

A Laura, “Sei tu, tutto quello che voglio.”

BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Stefano Visonà è nato e cresciuto in Veneto, do-ve vive con moglie e tre figli. Ingegnere, con ma-turità Classica, si occupa di progettazione di be-ni durevoli di consumo. Da sempre appassiona-to di arte e letteratura, negli ultimi anni ha con-solidato l’amore per la scrittura pubblicando di-versi racconti, alcuni dei quali premiati in con-corsi letterari. Non ti svegliare è il suo primo legal thriller. www.stefanovisona.it

1.

Il buio attorno a Christine sta lentamente coa-gulandosi, luci e ombre iniziano a separarsi co-me siero dal sangue. Lei riaffiora dal sonno in cui era scivolata. Quando? La sera prima, un giorno prima, poco prima?

Inizia a percepire i confini di quello che la rac-chiude. Dov’è? In una stanza? Ha freddo. Per-ché questo senso di movimento? Le viene in mente un corpo che riemerge dall’acqua. Un la-go, nero e gelido.

Da qualche parte filtra un debole chiarore. Ha freddo, come se fosse appoggiata contro il ter-reno. Terreno umido. Arenata su una riva mel-mosa. Avvolta nel nero del guano. Ha freddo.

Una debole luminosità inizia a delineare delle forme. Forse l’alba, si dice, ma c’è qualcosa che non torna.

Non riesce a muoversi. Non ha ancora ripreso possesso del suo corpo per potersi muovere. È su un letto. Il suo letto? A poco a poco intuisce la presenza delle cose attorno a sé. Un bicchiere vuoto, un pacco di riviste, un sottilissimo len-zuolo di polvere.

Svegliati Christine. Svegliati. Non riesce a muoversi. È come l’incubo che aveva da bambina. L'in-

cubo che l’ha perseguitata dopo l’operazione in anestesia totale, quando aveva appena otto an-

ni. Le succedeva sempre prima di svegliarsi, so-gnava di essere bloccata in una sorta di dormi-veglia. Sentiva le persone muoversi attorno a lei, parlare, chiamarla. Ma lei nulla, non poteva rispondere. Sentiva sua madre dalla cucina che le urlava di sbrigarsi. Sua sorella che si vestiva di fretta sussurrando il suo nome. Suo padre che dal piano di sotto la salutava a gran voce e usciva. E lei, lei nulla.

Non riusciva a svegliarsi. Sapeva di doversi svegliare, ma non ci riusciva. Sapeva di potersi svegliare, ma non ci riusciva. Sapeva che le sa-rebbe bastato aprire gli occhi, ma non ci riusci-va. Voleva muoversi, rispondere a quelle voci, ma nulla.

E dentro la sua testa iniziava a chiedere aiuto. Aiuto, sono qui, toccatemi, scuotetemi, sveglia-temi.

Nessuno la sentiva. Suo padre era ormai uscito, sua sorella era già

scesa in cucina. Sua madre minacciava che, an-cora un minuto, e sarebbero partite senza di lei.

E lei, sempre dentro la sua testa, in quella sor-ta di incubo inceppato come un disco in vinile, lei iniziava a gridare. Gridare. Gridare.

Ma nulla. Poi tutti uscivano e lei restava lì, immobile,

sola. Ecco, sta succedendo di nuovo.

Quanti anni erano che non ti capitava? Forse è lo stress. Sì è lo stress. E sai anche perché, Chri-stine. Anzi, sai anche per chi. Comunque la vuoi mettere è un momento da schifo.

Eccoti qua, come se avessi ancora otto anni, nella tua cameretta a tinte pastello. A pensare a tua madre, a implorare che non parta e non ti lasci sola. Chiamala. Chiamala. Grida.

No, fermati. Sei adulta. Hai trentaquattro anni. Sai che

cos’è, basta svegliarsi. È solo un sogno. Svegliati Christine.

Perché non ti svegli? Forse hai veramente solo otto anni e tutto il resto è stato un sogno. I tuoi trentaquattro anni, lui, questo è il vero incubo, e ora sta per dissolversi. Hai otto anni, sei nella tua camera. Hai otto anni e non ti svegli. Chia-ma tua madre. Chiamala. Chiamala ora. Grida.

Un rumore. Che cos’è. È lui? Trattiene il respiro, cerca di acuire l’udito. Ecco, un rumore nel bagno accanto. L’acqua

che scorre, il cigolio del portasciugamani. I pen-sieri le si ricompongono, le cose riacquistano il loro senso. Tende il corpo, che non risponde.

Svegliati Christine. Apre gli occhi di scatto. Il display della radio-

sveglia è lì. Un faro, un sicuro approdo nel deli-rio del dormiveglia. La certezza di un luogo co-

nosciuto. I pensieri le si frantumano come vetro tempe-

rato. È la loro stanza, ma perché questo chiaro-re? Fine ottobre, le sette e cinquantasei.

Lunedì? Sì, lunedì. Le sette-cinque-sei. Six six six is no longer alone, He's getting out the marrow in your back-

bone Il ritornello le si insinua dentro. Stupidamen-

te. Non è suo, non appartiene a lei. Appartiene a lui. Lui lo canticchia di tanto in tanto. Lui dov’è?

È in bagno. Le sette e cinquantasei. Lunedì. Cosa fa anco-

ra in bagno a quest’ora? Lui borbotta qualcosa, la tavoletta del WC si

appoggia con un tonfo smorzato sul muro. Rabbrividisce, fa freddo. Forse è scoperta.

Non riesce a muoversi. Christine, sei ancora dentro il sogno. È come un gioco di scatole cine-si. Sogni di esserti svegliata, ma non è vero.

Il rumore forte e improvviso dello sciacquone. Un rumore che l'ha sempre disgustata, fin dal primo giorno, anche se è lei che ha voluto il ba-gno in camera. Lei che ha voluto la casa nuova. Lei che ha voluto riprovarci. Ogni mattina di più detesta i suoi rumori, che filtrano dalla porta scorrevole. Il mormorio dell’acqua, le abluzioni,

gli sbadigli sguaiati. La radio a basso volume, le notizie mormorate, la sigla del meteo. Ogni mattina gli stessi rumori. Ogni giorno gli stessi rancori.

Ma nell’incubo quei rumori ora sono lì, fami-liari e tranquillizzanti. Un appiglio, un pezzo di legno a cui aggrapparsi per restare a galla.

Svegliati Christine. Sette e cinquantasette. La radiosveglia è lì, il

display è scattato. Sei sveglia. Perché non riesci a muoverti? Respira. Respi-

ra. Respira. Sette e cinquantotto. Sei sveglia. Cosa succede, perché non riesci a muoverti? Chiudi gli occhi. Buio. Apri gli occhi. Luce? La vedi? Sì, i led rossi, le

sette e cinquantanove. Un leggero chiarore. Una sottile linea, nitida, attorno alla porta del bagno. C’è qualcosa vicino ai numeri rossi, un bicchie-re. Dei giornali.

Sei sveglia. Ok, adesso ti alzi. Dai. Nulla. Alza la testa, girati. Dai. Nulla. Un fremito sulle labbra. Di scatto, Christine,

apre e chiude la bocca, muove la lingua. Rotea

gli occhi e chiude di scatto le mandibole. Sente il rumore secco dei denti che sbattono. Crack! Nel silenzio della stanza. Lo sente. È sveglia.

Ma il suo corpo, perché non lo sente? Le torna in mente la fine del sogno, un corpo

che riemerge dall’acqua. E’ un corpo avvolto nel nylon.

L’aria le sfugge dai polmoni, Christine grida. Grida. Grida. Un grido di panico. Panico puro.

Panico. Panico. Panico. Calmati, calmati, calmati. Sei una stupida. Sei

sveglia, sei viva. Non hai gridato. Lui non è uscito dal bagno.

Se tu avessi realmente gridato lui avrebbe aper-to la porta. Subito, di scatto, spaventato. Invece, guarda, è ancora chiusa; lo vedi quel sottile filo di luce ad angolo retto? È la porta del bagno. È chiusa. Tu non hai gridato. È l’incubo. Quell’incubo.

Chiudi gli occhi e se non riesci a svegliarti, cerca di riaddormentarti. Ti ricordi come face-vi? Respira. Concentrati sul respiro.

Non pensare a nulla. Tabula rasa. Una superficie piatta, una lava-

gna vuota. Il cielo di notte, vuoto e senza stelle. Il nulla. La tua testa vuota. Respira. Il nulla.

La tua testa vuota, che riemerge dall’acqua. Apre di scatto gli occhi. Le otto zero zero. Quei

maledetti numeri rossi.

Cosa succede, perché non riesci a muoverti? Pensa. Qual’è l’ultima cosa che ricordi? Ieri sera. Lui

si è addormentato, tu sei rimasta lì, nel buio. A rigirarti, a pensare che magari lui credeva di a-ver risolto tutto, vero? Dai amore mio, vieni qui. A pensare che per gli uomini è così, si sa. Amore mio. Bacio. Bacio. Dai, ferma. Bacio. Dai. Dai, su. Bacio. E poi, una volta ottenuto quello che vogliono si addormentano. Lo stereotipo gli cal-za perfettamente. Così alla mattina si può sve-gliare presto. Riposato, tranquillo, coscienza e testicoli svuotati. Pronto per un'altra giornata. Aggiungi anche quello alla lista. Rancori.

Sei rimasta lì, a pensare. Che devi decidere. Devi deciderti. Devi affrontarlo. Poi, lentamente, molto lentamente, sei scivo-

lata nel sonno. Forse. Ma l’ultima sensazione fi-sica? Chiudi gli occhi. Pensa.

I polsi che pulsavano piano, dove lui ti aveva stretta con troppa forza. Sì, oggi avrai dei segni, forse. A volte capita, amore mio, ma è solo un gioco, lo sai che ti amo. Non sono stato troppo irruente, no vero? Bacio. Bacio.

Aggiungi anche questo alla lista. E poi? Il senso di fastidio all’inguine. E col tuo

corpo che pulsava, piano piano sei scivolata in

questo incubo. Sprofondata in quel lago nero e gelido.

No, c’era qualcos’altro. Cosa? Lui. Lui, perché è ancora qui, alle otto zero zero?

Lunedì, fine ottobre. Fine ottobre di un anno di m…

Ma non era già uscito? No, ti sbagli. Era la settimana scorsa, o il mese

scorso, o la vita scorsa. La routine di tutte le mattine, monotona, uguale. È facile confondere i giorni, le settimane, i mesi. Perdersi in questo vuoto che si ripete sempre uguale.

Eppure… Il ticchettio della centralina di allarme mentre

la disinseriva. Era ancora buio. No, non era oggi. Otto zero uno. Lunedì, fine

ottobre. Fine ottobre di un anno di merda. Ec-co.

Il fruscio ovattato della porta scorrevole. Un fascio di luce le sbatte sulle palpebre socchiuse. Lui esce dal bagno in silenzio. La sua sagoma per un attimo è nel riquadro della porta. Nero su bianco, i contorni offuscati. La luce sembra inghiottire la sua ombra.

Il buio ora è del tutto coagulato. Luci e ombre completamente separate, siero e sangue perfet-tamente divisi.

Il primo impulso di Christine è di chiamarlo.

Vuole gridargli che è lì, immobile. Che non rie-sce a muoversi, ma qualcosa dentro di lei la ferma. Non possono essere le otto del mattino. A quest’ora in Ottobre è ancora buio. Lui non può essere ancora a casa.

Trattiene il respiro, mentre lo sente passare accanto. Le viene da ridere, dentro. Una risata isterica. Restare immobile oggi non è certo un problema. Non come le altre mattine, quando chiudeva gli occhi e simulava un respiro lento, come se stesse dormendo profondamente. Poi lo sentiva sedersi sul letto alle sue spalle. E ri-maneva immobile, mentre dentro era scossa da un fremito di repulsione. No, no, ti prego, non toccarmi. Non baciarmi!

E adesso, dov’è andato? Il silenzio le ronza attorno. Prova a irrigidire i muscoli, cercando di acuire

i sensi. Solo la mascella si contrae. Passa mentalmente in rassegna la camera da

letto e lo spazio alle sue spalle, l’angolo con le due poltrone in pelle rossa, la specchiera sul treppiede, il porta abiti nell’angolo. No, non lo riesce a individuare. Estende la ricerca a volo cieco al corridoio, alle stanze vicine. Alle due camerette che sono e forse rimarranno vuote, l’altro bagno, la scala di marmo che porta al pi-ano di sotto.

Niente. Dov’è?

Uno scricchiolio, il parquet. Un fruscio dalla stanza guardaroba in fondo al

corridoio. Eccolo, è ancora là. Forse si sta ve-stendo.

Ma non si era già vestito? Ricordi che si acca-vallano, le mattine che si confondono. I giorni, sempre uguali, sempre diversi, come cantava… chi? Ma non si era già vestito? Sì, era oggi. Ha disinserito l’allarme, poi è andato nel guardaro-ba.

Questa mattina. Era buio. Svegliati Christine. Apre gli occhi. Luce. La porta del bagno è a-

perta. Alla finestra, dietro le tende di organza c’è un chiarore latteo, uniforme. Accecante. Ip-notico. Non si vede il profilo della casa vicina. Solo bianco. Bianco. In lento movimento.

Sei sveglia. Perché non riesci a muoverti. Stai male? Senti

dolore? Ascolta il tuo corpo. Freddo. No, non proprio. E’ come se. Non senti niente.

Muovi le mani. Si sono mosse? No. Muovi i piedi, cambia posizione. No. Cosa senti? Niente. Perché? Perché? Scricchiolii sul parquet di pero chiaro. Sta

tornando.

Chiamalo, chiedigli aiuto! - Luciano! È come uno sparo. L’eco rimbalza nella stanza

più e più volte. Il parquet scricchiola piano. Lui si avvicina lentamente, non risponde.

- Luciano! - Il tono diventa acuto. Il letto si è mosso? Sì, si è abbassato un po’.

Lui si è seduto sul bordo, con leggerezza. Non risponde.

- Luciano! Acuto. Acuto. Terrore, terrore puro nella sua

voce. Lo sente. Lui le appoggia una mano sui capelli. La acca-

rezza, piano. - Luciano! La mano scende sulla nuca, fino alla base del

collo. Poi scompare, si smaterializza, non la sente

più. Ode il fruscio del tessuto, ma non sente nulla. - Luciano?

Le risponde un sussurro: - Shh… Non ti sve-gliare.

2.

Si porta a cavallo della mezzeria, il V8 Biturbo sale di giri con rabbia. Davanti a sé vede solo vortici bianchi e informi. Sgasa a vuoto, impre-ca, rilascia il piede e rientra in colonna.

Guarda dal finestrino, il mondo è un bagliore latteo e uniforme. Non si vede nulla, né case, né campagna, né il profilo dei capannoni in cemen-to della prima zona industriale.

Non ci voleva la nebbia. Accelera di scatto e frena a un soffio dal para-

urti che lo precede. Si sposta a destra, verso il ciglio, i battistrada che spiaccicano il pantano della banchina. Sferra un pugno al volante e impreca di nuovo.

Non ci voleva questo casino. Guarda l’orologio sulla plancia per l’ennesima

volta. Si rimette a cavallo della mezzeria e con-centra lo sguardo nel nulla. Nel bianco di fronte a lui non gli sembra di scorgere né sagome, né segni di fari. Trattiene il respiro, osserva la linea di mezzeria che sbuca dal nulla pochi metri più avanti. E’ intermittente, è di certo un rettilineo.

Accelera e si butta fuori. Supera una, due, tre auto. La freccia che lam-

peggia. Un muro di ovatta umida davanti, un muro di lamiere a destra, attaccate l’una all’altra, come in un convoglio merci.

La linea di mezzeria diventa continua. Decele-ra e rientra, creandosi un varco tra i paraurti. Qualcuno suona. Dopo cento metri la strada piega a destra, dalla nebbia in senso opposto sbucano dei fari, seguiti da gusci di acciaio lerci, i vetri rigati orizzontalmente da scie di conden-sa.

Guarda dal finestrino. Platani scuri ora sfrec-ciano ai lati della strada. Alcuni mozzati, altri inclinati come denti guasti. Su alcuni, mazzi di fiori avvizziti, abbracciati ai tronchi con nastri da imballaggio.

La linea di mezzeria è di nuovo intermittente. Davanti a lui solo bianco. Trattiene il respiro ed esce in sorpasso. Altre due, tre, quattro auto. Linea continua, rientra e c’è un’altra curva. Fari e lamiere in senso opposto, poi finisce. Ma nel bianco si intravedono altri due fari. Lontani? Bianco brillante su bianco opaco. Trenta, qua-ranta metri? Quello va piano, c’è spazio. Vai.

Esce. La spia dell’antislittamento si accende, le ruote sobbalzano a scatti. L’acceleratore a ta-voletta. I fari in senso opposto lampeggiano in-sistenti. Rientra. Altri clacson.

Stringe gli occhi. Nebbia. Nebbia. Ancora nebbia.

Davanti a lui, intorno a lui. Dentro di lui. Den-tro i suoi pensieri. Nella sua testa. E’ tardi.

Dai. Supera ancora.

Una lunga tirata senza mai prendere fiato. In apnea. Tre, quattrocento metri sulla corsia di sorpasso.

La mole bianca del suo BMW X6 come un Le-viatano lanciato verso il nulla.

Striscia continua, rientra in colonna dietro un lungo autoarticolato. Le ruote gemellate enormi che sollevano un aerosol di fango, catrame e nebbia. Una scia sudicia che imbratta immedia-tamente il parabrezza del SUV.

Non aziona il tergicristallo, osserva il vetro che diventa sempre più opaco. Un disturbo di trasmissione.

Sta andando tutto storto. E’ tardi, tardissimo. Guarda di lato, per cerca-

re di capire dov’è. Nella nebbia, la strada sem-bra abbassarsi.

Quanto manca? Aziona il lavavetri. Una schiuma candida. Più

bianca del chiarore esterno. Lunghe scie che at-traversano dal basso il suo campo visivo.

Potrebbe ormai essere alle porte della città. La statale arriva da sud, dalla bassa. Attraver-

sa chilometri di campagna su una sorta di argi-ne pensile. Un cheloide ispessito e irregolare che sfregia una pianura di terreni bruni e vigne-ti a basso grado. Di tanto in tanto, un paese dal nome risibile. Tutti uguali, tutti diversi.

Poche case affacciate sulla provinciale, un ne-

gozio di alimentari con pane fresco, verdura, giornali e tabacchi. Un campanile, una parruc-chiera, un camposanto e un bar con gli interni di perline di pino e i ripiani di vetro per i liquo-ri. Tra un paese e l’altro, attività artigianali e piccole industrie che crescono come herpes ai lati della strada. Centri di lavorazioni meccani-che, tornerie, stampaggio, fonderie di leghe leg-gere, concerie, centri logistici.

Se non ci fosse la nebbia potrebbe vederli, lì, appena sotto il livello della strada. Capannoni tutti uguali, le linee squadrate senza grazia. I tetti piatti rivestiti di catrame nero, le insegne in plastica con due o tre lettere. SV, VLG, 2V, LS. Tutte uguali, tutte diverse.

Piccole utilitarie parcheggiate a pettine su slarghi improvvisati di terra battuta ed erbacce. Accanto all’ingresso l’immancabile auto tedesca di grossa cilindrata o qualche fuoristrada nuovo fiammante, sempre tedesco, sempre perfetta-mente pulito, il cui proprietario lavora come un emigrato in Germania per pagare il leasing di quell’auto, per mantenere le sue iniziali su quel-le pareti di cemento, per finire magari picchiato selvaggiamente e derubato al rientro a casa. Da qualche banda di slavi o rumeni o chissà chi ve-nuti a far festa nel ricco Nord-Est. A raccogliere a man bassa, nel Paese dei Balocchi. Nella sua villetta neanche tanto isolata, neanche tanto

grande, neanche tanto appetibile. Anche tu hai una villetta. Un po’ isolata, ma

non troppo. Hai un SUV tedesco. BMW, si in-tende. Un fuoristrada che fuoristrada non è. La villetta l’ha voluta lei. Pagata con i soldi di lei, anzi di suo padre. Il SUV lo hai voluto tu. Sei riuscito a convincerla che un fuoristrada era ne-cessario, ora. La lunga discesa che porta alla ca-sa, e in caso di pioggia o neve? Meglio essere si-curi. Se poi arrivassero dei bimbi…

Dei bimbi? Cosa dici amore? Che sia il mo-mento? Potrebbe essere la soluzione anche per noi. Con un bambino si sa, la vita cambia.

Basta, non è il momento. Torna a concentrare l’attenzione sulla nebbia. L’autoarticolato è lì. Un rombo costante. Una mole invalicabile. Si avvicina alla mezzeria. Oltre alla nebbia, solo la scia sollevata dalle dieci coppie di ruote. Un muro vorticoso e ipnotico di particelle in so-spensione. Impossibile vedere oltre.

Impreca. Una vibrazione dentro la giacca. No, no, no. La vibrazione diventa una melodia. Non dove-

va accenderlo, lo sapeva. Immagina già chi è. Deve rispondere?

Cerca di aprire il cappotto, ma non riesce a prendere il cellulare. Sgancia la cintura di sicu-rezza, apre il cappotto, apre la giacca. Tasca in-

terna. Vibra e suona. Guarda il display mentre la melodia idiota cresce di tono. Deve risponde-re?

Guarda avanti, come a cercare una risposta. L’autoarticolato è sempre lì. Non c’è spazio per superarlo. Con il pollice sfiora lo schermo.

- Pronto! Dall’altra parte una voce lo aggredisce. - Sì, sì, lo so. Sto arrivando, sto arrivando. Scosta il cellulare dall’orecchio. La voce conti-

nua a inveire. - Ascoltami, sono imbottigliato nel traffico.

Qui è tutto bloccato. E’ a un metro dalle ruote gemellate. - Senti, non lo so, porca puttana! C’è una neb-

bia che nemmeno t'immagini. Ci sarà stato un incidente. E’ tutto bloccato, ti ho detto.

Sulla barra paraurti del camion c’è un adesivo. Cheyenne trucks tribe.

- No. No, non farmi questo. Sto arrivando ti ho detto.

La testa di un indiano, con una bandana e un coltello tra i denti. In puro stile americano.

- Sto arrivando, cazzo! Dammi dieci minuti, un quarto d’ora al massimo. Cosa ci vuole?

Cheyenne trucks tribe. Cosa ci fa un Cheyenne nel fottutissimo Veneto? Questo è un termine in puro stile Americano: Fottutissimo.

- Offrigli un caffè, non lo so. Fai qualcosa, ma

aspettami! Ascoltami, non… La voce dall’altra parte sale ancora di tono.

Luciano guarda il cellulare. Lo riaccosta all’orecchio. - Sto arrivando ti dico. Ci sono or-mai. Il tempo di trovare parcheggio.

Un fottutissimo Cheyenne. Alla guida di un fottutissimo camion? Che procede a fottutissimi quaranta all’ora. Praticamente fermo. Pratica-mente bloccato.

- Giuro, dieci minuti. Ormai ci sono. Sì arrivo, ciao.

Butta il cellulare sul sedile, accanto al porta-foglio e alle chiavi. Dieci minuti.

A questa andatura ha almeno mezz’ora di strada davanti.

Si porta a ridosso dell’autoarticolato. La stra-da in quel punto è stretta, costeggiata sulla sini-stra da una fila di platani incancreniti. Si vedo-no solo i tronchi, le chiome si perdono nel bian-co. La linea di mezzeria è continua, ma non doppia. Ricorda vagamente che dovrebbe esser-ci un rettilineo. Non vede nulla. La nebbia è an-cora più fitta, se possibile.

No, non è più fitta. Non vede niente perché non c’è nessuno in senso contrario. Vede due, tre, o forse quattro sagome di platani. Trenta, quaranta metri? O forse sessanta, ottanta, se tra albero e albero ci sono venti metri. Sufficienti.

Adesso.

Preme con rabbia l’acceleratore. Il V8 Biturbo risponde con un rombo atroce, da animale mec-canico. L’antislittamento lampeggia, le ruote motrici agguantano l’asfalto sotto la patina vi-scida di nebbia. L’accelerazione lo schiaccia sul sedile. Si aggrappa al volante, le nocche sbian-cano. Puntini neri che iniziano a diffondersi dal centro del suo sguardo. Da quella nebbia bian-ca. Puntini neri, che lentamente si espandono dal suo punto focale. Che ruotano lenti, in senso antiorario, sospinti lateralmente dall’accelerazione di Coriolis, come acqua che scende nello scarico.

I platani più avanti sembrano spostarsi sulla destra.

La statale inizia a curvare, il contachilometri arriva sui 100. 110. 120.

Quando succede, il cofano bianco del BMW X6 è arrivato all’altezza della motrice.

La prima cosa che avverte è l’urlo dei freni dell’autoarticolato. Una tosse metallica alla sua destra. Una nuvola disperata di attrito, nebbia e asfalto.

Poi, una mole enorme. Compare dal nulla. Da oltre la curva, a fari

spenti, di fronte a lui. Ha solo il tempo di intuire cos’è: un trasporto

di rottami metallici, il cassone rialzato e im-menso. Il baricentro troppo alto per essere vero.