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Il racconto: svegliare l’immaginazione morale Francisc UNGUREANU ABSTRACT We aim to reach a moral life founded on virtue on the path of moral education characterized by the use of stories that is raising moral imagination. For this reason, we analyze the concept of narration, a reality that is present in our lives and that even unconscious has an important influence on knowledge, especially in childhood. Storytelling is important in education because it facilitates the development of imagination, including the moral one, which it is absolutely necessary to reach maturity. The stories connects the fantastic / imaginary world and the real world, in everyday life. The life of youngest is enriched in virtue this way, the experience of some great teachers and some experienced parents being our guides in this analysis. Keywords: moral education, story, imagination, virtue, childrens. Introduzione Il grande problema morale non è solo quello di evitare il peccato che si commette trasgredendo a dei precetti chiaramente formulati, ma quello di vivere progredendo nel bene e di tendere verso la perfezione. “La virtù propone un'etica ‘della costruzione di sé’, combatte ogni eccesso legalista, a cui la espone una morale basata solo sulla legge, impedisce ogni giuridismo, mantiene l'etica cristiana nella sua originale prospettiva sapienziale” 1 . Solo una vita virtuosa fa l’uomo buono, e solo essendo buoni noi possiamo essere genuinamente felici 2 . Visto che la natura umana è costituita da un insieme di inclinazioni e di possibilità e non si presenta come una totalità già compiuta, voglio vedere come si può coltivare questa natura, come sviluppare le sue possibilità per farle giungere alla perfezione. E questo perché la virtù consente all'uomo di conquistare una piena libertà che consiste nell'autonomia dalle schiavitù, dagli automatismi e determinismi esterni alla sua volontà; lo consolida nel suo vero bene orientandolo verso il suo fine, cioè Dio. 1 J.-L. Bruguès, Dizionario di morale Cattolica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1994, 394, Cf. CCC 1803 ss. 2 Cf. P.J. Wadell, “Education and the Formation of the Virtues”, in Anthropotes, vol. XVIII, 2 (2002) 179, citando E. Gilson, Moral Values and Moral Life: The System of St. Thomas Aquinas, St. Louis, Mo. 1931. Caietele Institutului Catolic X (2011) 351-380

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Il racconto:

svegliare l’immaginazione morale

Francisc UNGUREANU

ABSTRACT We aim to reach a moral life founded on virtue on the path of moral education

characterized by the use of stories that is raising moral imagination. For this reason, we analyze the concept of narration, a reality that is present in our lives and that even unconscious has an important influence on knowledge, especially in childhood. Storytelling is important in education because it facilitates the development of imagination, including the moral one, which it is absolutely necessary to reach maturity. The stories connects the fantastic / imaginary world and the real world, in everyday life. The life of youngest is enriched in virtue this way, the experience of some great teachers and some experienced parents being our guides in this analysis. Keywords: moral education, story, imagination, virtue, childrens.

Introduzione Il grande problema morale non è solo quello di evitare il peccato che si

commette trasgredendo a dei precetti chiaramente formulati, ma quello di vivere progredendo nel bene e di tendere verso la perfezione. “La virtù propone un'etica ‘della costruzione di sé’, combatte ogni eccesso legalista, a cui la espone una morale basata solo sulla legge, impedisce ogni giuridismo, mantiene l'etica cristiana nella sua originale prospettiva sapienziale”1. Solo una vita virtuosa fa l’uomo buono, e solo essendo buoni noi possiamo essere genuinamente felici2.

Visto che la natura umana è costituita da un insieme di inclinazioni e di possibilità e non si presenta come una totalità già compiuta, voglio vedere come si può coltivare questa natura, come sviluppare le sue possibilità per farle giungere alla perfezione. E questo perché la virtù consente all'uomo di conquistare una piena libertà che consiste nell'autonomia dalle schiavitù, dagli automatismi e determinismi esterni alla sua volontà; lo consolida nel suo vero bene orientandolo verso il suo fine, cioè Dio.

1 J.-L. Bruguès, Dizionario di morale Cattolica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1994, 394, Cf. CCC 1803 ss. 2 Cf. P.J. Wadell, “Education and the Formation of the Virtues”, in Anthropotes, vol. XVIII, 2 (2002) 179, citando E. Gilson, Moral Values and Moral Life: The System of St. Thomas Aquinas, St. Louis, Mo. 1931.

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Però, se è cosi, anche l’educazione morale che tende verso una morale della virtù deve avere le stesse caratteristiche, cioè che agisca secondo la libertà dell’educando rispettando la sua autonomia, senza imporre cose automatiche o determinazioni estranee alla sua volontà, orientando verso il bene specifico della persona umana che è Dio. Educare senza vittime3 è di sicuro un’arte che non tutti i genitori ed insegnanti lo hanno appreso, ma per la quale il racconto si costituisce una via maestra.

Vogliamo arrivare alla virtù attraverso l’educazione morale sulla scia dei racconti, svegliando l’immaginazione morale. Per questo vedremo il racconto, realtà presente nella vita di tutti noi, quale anche non consapevolmente ha un influenza molto forte sul sapere specialmente alle età d’infanzia. Se il racconto è importante nell’educazione è proprio perché facilita lo sviluppo dell’immaginazione, inclusa quella morale, quale ambito necessario per arrivare alla maturità. Infatti, le storie assicurano una mediazione tra il mondo fantastico/immaginario e il mondo reale, la vita di tutti i giorni. La vita dei più giovani si arricchisce in virtù, con l’aiuto dei racconti, nell’ambito educazionale e attraverso l’amicizia/discepolato nei riguardi di Cristo, “maxime sapiens et amicus”4.

Il metodo di lavoro consiste in un dialogo tra l’autore principale, Vigen Guroian, e un intreccio di autori che concordano nella tesi sull’importanza del racconto nel svegliare l’immaginazione morale.

1.0. L’insegnamento della Sacra Scrittura Senza la rivelazione il popolo diventa sfrenato. (Proverbi 29,18) La traduzione inglese di questo Proverbio, quella usata da Vigen

Guroian5, sarebbe questa: “Where there is no vision, the people perish”, prendendo la parola “vision” come quella realtà della quale fa parte anche la reale immaginazione morale come una delle sue forme. Nella nota della Traduzione Ecumenica della Bibbia (TOB) si spiega che l’interpretazione più comune del versetto è quella della presenza dei profeti, non più presenti dopo l’esilio, soprattutto al tempo dei Maccabei. La stessa spiegazione è nella nota della Bibbia di Gerusalemme, che cioè, la parola “vision”, o “rivelazione” nel testo italiano, si riferisce all’attività dei profeti. 3 Cf. F. Pesci, Educazione senza vittime, CEDAM, Roma 2008. 4 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 108, a. 4. 5 V. Guroian, Rallying the Really Human Things. The Moral Imagination in Politics, Literature, and Everyday Life, ISI Books, Wilmington 2005, 49.

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Certamente, dove manca la visione profetica, cioè l’immaginazione ispirata alla Parola di Dio rivelata, “la gente sarà prigioniera delle corrotte e corruttive forme di immaginazione, in quanto l’immaginazione, essendo una capacità umana nativa, necessita di un adeguato nutrimento e coltivazione. … Se l’immaginazione morale non viene alimentata con sentimenti religiosi e sostenuta con la ragione, sarà appassita e sostituita dalle forme corrotte di immaginazione”6. Tra queste forme Guroian riporta l’immaginazione idillica, quella idolatra e quella diabolica.

Rimaniamo nello stesso ambito, quello biblico con una domanda che si fanno due pedagogisti: “Ci siamo mai chiesti come mai tanta parte della Scrittura è costituita da narrazione? Come mai non si presenta come ‘saggio su Dio’, e su ‘come gli uomini si debbano rapportare a Lui’?”7 Come risposta possiamo dire che ci sono delle ragioni teologiche dei profeti e degli autori sacri che hanno a che fare con la Rivelazione di un Dio che svela il suo volto nella storia, come di colui che agisce nella storia, radunando un popolo, conducendo gli eventi fino alla loro pienezza che è quella di riassumere tutte le cose in Cristo Gesù. “Il ciò-che-accade non è indifferente a Dio: lo svolgersi della storia come linea di sviluppo ascendente che attende la parusia definitiva (la venuta ultima di Gesù Cristo) non è qualcosa di estrinseco allo scorrere del tempo. Per questo gli autori biblici narrano. Il narrare diviene per se stesso interpretazione, visione, lode, contemplazione dell’agire di Dio nella storia.”8

Possiamo dire, come altra possibile risposta alla domanda precedente, che nel raccontare biblico c’è anche un’altra ragione. L’evento narrato diviene patrimonio costante di un popolo e di ogni persona. Il racconto è parte viva del suo immaginario definendo il rapporto con il mondo: così il singolo ed il popolo, nel contesto della tradizione, imparano a leggere gli atomi della propria vita collegati ad un passato9, come dentro una cornice di senso, e per ciò stesso, capaci di futuro. “Il racconto è un elemento fondatore per il popolo d’Israele. All’origine del popolo c’è il racconto, reale o fittizio, della sua nascita, degli eventi più importanti della sua storia…”.10 Così, il popolo al suo momento fondante ha il racconto come base della sua storia: “Il racconto fonda la legge come contenuto della decisione di un popolo”.11 La memoria

6 Ibid., 49-50. 7 G. Gillini – M. Zattoni, Parlare di Dio ai bambini. Ovvero educazione religiosa dei genitori e degli educatori, Queriniana, Brescia 19993, p. 153. 8 Ibid., 153. 9 Cf. V. Guroian, Ethics after Christendom. Toward an Ecclesial Christian Ethic, Wipg and Stock Publisher, Eugene 1994, 29-52. 10 B. Sesboüé, “De la narrativité en Théologie”, in Gregorianum 75/3 (1994), 414. 11 P. Beauchamp, Le récit, la lettre et le corps, Cerf, Paris 1982, 193.

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costituita dal racconto ci custodisce. Se conosco la storia della mia gente, se posso esultare oggi per l’evento della liberazione di allora, anche questo mio esodo, in questo momento della mia vita, non è per la dispersione, ma per una maggiore unità. Se non avessimo memoria, saremmo consegnati alla tirannica frammentazione del presente, saremmo disintegrati. Lo ieri del racconto fa da specchio all’oggi, ci aiuta a riconoscerci, risveglia l’immagine di quello che siamo e l’immaginazione, cioè l’ispirazione dell’azione adeguata a quest’immagine.

Avendo questa base che appartiene al modo di vedere cristiano comune, ci proponiamo di fare un passaggio nei concetti di racconto, di immaginazione e della mediazione che le stesse realtà fanno nella vita umana, anche nella sua connotazione morale.

1.1. Il racconto Come per trovare una ragione per il nostro studio, iniziamo con una

domanda: gli uomini di oggi ha ancora bisogno del racconto? Gli esperimenti come quello del professore Vigen Guroian12 negli Stati Uniti o della professoressa Daniela Mătăsaru13 in Romania dimostrano che tanto i bambini quanto gli adulti hanno un desiderio forte di sentire e anche di scrivere dei racconti. Padre Bernard Sesboüé dice che abbiamo bisogno del racconto come della respirazione. Tutti noi partecipiamo a questo desiderio di sentire e di raccontare.14

Sembravano una categoria scomparsa, ma in questa fine di secolo, così prosaica e così disattenta, così crudele e, a volte, così tecnologica e fredda, i narratori sono ricomparsi. Direttamente dall’anima del mondo. Per dire ciò che ci fa “umani”. Si racconta per affermare quello che si crede e quello che si spera. Si racconta perché la vita è intessuta di tempo, di incontri e di

12 Professore Vigen Guroian insegna teologia ed etica a Loyola College in Baltimora. Nei suoi libri, specialmente in Tending the Heart of Virtue. How Classic Stories Awakewn a Child’s Moral Immagination, (Oxford University Press, New York 1998), lui parla spesso dei suoi esperimenti con gli studenti sia nelle aule del college sia nelle aule delle scuole dove provavano di capire meglio la reazione dei bambini di fronte alle storie. 13 Cf. D. Mătăsaru, „PrefaŃă”, in A. Mărtinaş Giulimondi, Poveşti pentru copii de spus celor mari, Ed. ARCB, Bucureşti 2007, 7 – Professoressa Daniela Mătăsaru, allora direttrice della Casa del Corpo Didattico della città di NeamŃ, Romania, testimonia un esperimento fatto con il suo gruppo di lavoro sulla questione del bisogno del racconto nei tempi di oggi. 14 Cf. Sesboüé, “De la narrativité en Théologie”, cit., 423.

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storie. E ciascuno di noi “è” una storia. Ogni storia è un po’ come un sogno, fatta di elementi consci e inconsci, di desideri e di paure, di reminiscenze e di preoccupazioni quotidiane, di realtà ben conosciute e di misteri. Un racconto è vivo, respira, e come ogni essere vivente, porta con sé le sue molteplici e affascinanti contraddizioni. È ogni volta lo stesso e differente, perché riflette i timori e i desideri dell’umanità.15

Queste sono le parole appassionate di don Bruno Ferrero, scrittore di storie nel 1995, nel quale si vede un po’ di ottimismo. Dopo dieci anni, un appassionato raccontatore, Vigen Guroian, continuerà il suo atteggiamento critico nei confronti del modo moderno di vivere senza racconti o con dei racconti che fanno male, proponendo sempre i racconti classici.16 Però, tutti e due, vivendo su due continenti diversi ma testimoniando la stessa preoccupazione, esaltano il valore e l’importanza della narrazione. Il racconto diventa uno specchio in cui l’ascoltatore vede riflesse le proprie domande, le proprie inquietudini e sente evocare sentimenti ed emozioni che lo afferrano e lo turbano. Una storia è come una conchiglia piena di echi, che risuonano nell’ascoltatore richiamando verità profonde altrimenti inesprimibili: “Una storia è come una conchiglia: la appoggiate all’orecchio, ed essa vi racconta l’oceano”.17

Vediamo in questa parte che cosa è il racconto e il suo ruolo per il pensiero, quello di mediazione ma anche di portare l’uomo oltre i suoi limiti.

1.1.1. Che cosa è il racconto? Il racconto è il trama che mette insieme gli elementi della storia,

includendo in un’unità coerente le ragioni, i motivi e le azioni dei personaggi, gli eventi, gli incidenti e le circostanze.

Il racconto è presente nel tempo dell’oralità e della scrittura, cosicché sia le civiltà alfabetiche che quelle ‘illetterate’ ne hanno avuto forme più o meno sviluppate. La narrazione è in un certo senso connaturata all’uomo, non si ha testimonianza di civiltà che non hanno utilizzato la narrazione. Essa attraversa le culture, le epoche, i luoghi. Il racconto è sempre presente e, probabilmente, lo sarà sempre nella storia dell’umanità. Si potrebbe dire che 15 B. Ferrero, Storie BelleBuone. Per la scuola e la catechesi, Elledici, Leumann 1995, 6. 16 Cf. Guroian, Rallying the Really Human Things, cit., 50-52; cosi come fa in tutto il libro Tending the Heart of Virtue., cit. 17 Cf. G. Marchioni, Metodi e tecniche per l’insegnante di religione. Come rendere l’IRC interessante e coinvolgente, Edizioni Elledici, Leumann 2007, 95-96 citando Marie-Hélène Delval.

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con il nascere della socialità, della relazione interpersonale è nata la narrazione che insieme alla relazionalità stessa è l’unico elemento sempre presente18.

Il racconto è quel modo di parlare dell’inesprimibile. Il racconto permette di evocare realtà che non siamo in grado di definire. Con il racconto si possono dischiudere orizzonti che altrimenti ci sarebbero negati.

Ecco perché il racconto, la narrazione, costituisce il modo importante per parlare di Dio. L’uomo, può parlare di Dio soltanto attraverso ‘categorie’, ‘forme’ che non esauriscono la realtà divina, misteriosa e indefinibile. Di conseguenza, pur servendosi di concetti, l’uomo è invitato a trascenderli, a ri-chiamare un oltre, che supera la sua comprensione, i suoi limiti: “Questo modo di parlare di Dio deriva dal fatto che, quando rendiamo esplicitamente tematico l’originario orientamento trascendentale a Dio, siamo costretti a parlare di lui con concetti categoriali, successivi, che eliminano a vicenda l’elemento categoriale”19. In altre parole, per parlare di Dio bisogna utilizzare l’analogia.

Il racconto usa le analogie che possono descrivere attraverso delle relazioni tra due realtà, delle quali una contiene tracce dell’altra e per essere compresa rimanda ad essa. Ebbene, il mondo, che è la realtà della quale trattano le narrazioni, reali o fantastiche, esprime un significato più profondo, il quale ci richiama, ci provoca: “Il mondo è come una parola, un logos che rinvia, richiama ad altro, oltre sé, più su. In greco ‘su’ si dice ‘ana’. Questo è il valore dell’analogia: la struttura di impatto dell’uomo con la realtà, desta nell’uomo una voce che lo attira ad un significato che è più in là, più in su, in greco ‘ana’”20. Le storie riescono a fare quello che non riescono i concetti: “Impegnarsi a comunicare delle convinzioni e negarsi il metodo della narrazione è come farsi amputare le gambe e poi iscriversi ad una maratona”.21 In questo senso possiamo intravedere le storie come strumento di comunicazione del trascendente.

Ogni racconto, ogni storia, è dunque come un piccolo scrigno: bisogna aprirli con cura, dopo aver loro permesso di depositarsi nella mente, per scoprire il seme che nascondono e lasciarlo germogliare nella propria anima. Chi farà così non sarà più lo stesso, perché risveglierà quegli archetipi di cui sono in-trise le strutture più profonde del nostro essere.22

18 Cf. W.J. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 1986. 19 K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Torino 1984, 104. 20 L. Giussani, Scuola di Religione, SEI, Torino 1999, 69. 21 P. Brooks, La comunicazione della fede, Edizioni Elledici, Leumann 1987, 57. 22 Marchioni, Metodi e tecniche…, cit., 97.

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Allora, i racconti articolano problemi, desideri, domande, nostalgie, bisogni; possono sollevare e consolare, rendere trasparenti prospettive profonde di senso, di speranza, di futuro, contribuire all’orientamento nella vita e all’interpretazione del mondo, offrire modelli di comportamento e possibilità di identificazione, promuovere la capacità linguistica, la scoperta dell’identità e processi di maturazione; attraverso la individualizzazione e la personalizzazione possono rendere trasparente ciò che è complesso e generale; possono trasmettere o preparare categorie e concetti religiosi ed etici, superare distanze di tempo e di spazio, trasmettere o rendere possibili (mai però imporre) esperienze di natura individuale (testimonianze biografiche) o collettive (attivazione di archetipi, che sono in qualche modo esperienza che si è cristallizzata nell’inconscio). Per tutti questi motivi la narrazione è considerata una forma privilegiata di interazione simbolica, comunicazione potenziale e fenomeno sociale, in cui partecipano sia il narratore o l’autore che l’ascoltatore o lettore.

La definizione del racconto è legata intrinsecamente alla persona. Come modo di parlare dell’inesprimibile il racconto forma la persona in quanto partendo nel presente dal passato ne forma il futuro. Per questo si deve parlare di un bisogno del racconto.

1.1.2. Il bisogno del racconto Il racconto viene a riempiere in noi una mancanza. “La mancanza è la

sostanza del racconto”.23 Noi parliamo sempre di quello che vorremo che accada o che sia fatto come fosse la via per essere riscattati dai nostri problemi e di tutti. È la salvezza che noi stiamo cercando, il riempire del nostro vuoto. Ed ecco, tutte le storie hanno il ‘happy-end’, e noi stiamo cercando proprio quello. Infatti, “tutte le storie sono, in un modo o in un altro, storie di salvezza. È per questo che il racconto è bene adatto ad esprimere il Mistero della Salvezza”.24

Però, il bisogno del racconto non viene solamente dalla mancanza passiva (attributo della natura creaturale) ma anche dalla mancanza attiva (il non compiere i doveri di creatura). Con termini teologici si potrebbe dire che il bisogno del racconto non è solamente un fatto che esprime i nostri limiti ma proviene anche dalla realtà del peccato. Questi due aspetti sono strettamente collegati. Cosi che il racconto possiede i due componenti della Salute stessa, liberare dai nostri limiti e liberare dal male.

23 Beauchamp, Le récit, cit., 187. 24 Sesboüé, “De la narrativité en Théologie”, cit., 423.

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Un altro aspetto importante del bisogno del racconto è il fatto che anche la nostra identità è collegata a questa forma di comunicazione. Quando vogliamo esprimere la nostra identità non possiamo fare altro che partire dalla nostra origine: sono figlio di mio padre e di mia madre. Poi, tutto quello che abbiamo vissuto appartiene alla stessa nostra identità. Il nostro ‘curriculum vitae’ non è altro che un riassunto schematico del racconto della nostra vita, della nostra identità. Gli altri vogliono conoscerci, cioè, vogliono conoscere la nostra vita, il racconto della nostra vita e noi non abbiamo altra scelta che raccontare, magari in maniera più estesa o più breve gli eventi che abbiamo superato25.

Il racconto richiama alla risposta con un altro racconto. Si tratta di una comunicazione ordinata alla comunione. Si scambiano i racconti del passato, sia sotto voce sia pubblicamente, per manifestare l’amicizia, la fiducia, il bisogno di riconciliazione. Il racconto trascende il tempo facendoci solidali nel passato raccontato. Questo vale tanto per la vita sociale della comunità a cui apparteniamo, quanto per la vita spirituale della comunità della Chiesa redenta da Gesù. La storia di Gesù diventa così la nostra storia26, una storia efficace che realizza quello che racconta.

Ma noi non usiamo il racconto solo per esprimere gli eventi passati. Noi abbiamo bisogno del racconto anche per esprimere il nostro desiderio, il nostro futuro. Siamo abituati a pensare ai desideri in termini brevi o concettuali, ma loro fanno parte dalle storie che noi immaginiamo come nostre per il futuro. A questo ci stimolano tutti i racconti degli altri e le storie classiche o moderne che si sono presentate in testo o nelle immagini visive. ‘Vedendo’ le storie di ‘successo’ dei nostri eroi, dei santi o, semplicemente, dei nostri vicini di casa, noi costruiamo subito la nostra storia che contiene il nostro desiderio di vita buona.

Il racconto come mancanza passiva-attiva ha il suo luogo da colmare. In seguito vedremo se questo luogo appartiene al solo intelletto o è più profondo.

1.1.3. Il racconto e il sapere Il racconto è stato lo strumento principale della costruzione e della

trasmissione del sapere. Qualcuno parla della preminenza della forma narrativa nella costruzione del sapere, nelle civiltà più evolute, rispetto al sapere 25 Cf. M. Beattie - D. Bobson - G. Thornton - L. Hegge, “Interacting narratives: creating and recreating the self”, in International Journal of Lifelong Education, 2 (2007) 119-141. 26 Sesboüé, “De la narrativité en Théologie”, cit., 425-426.

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scientifico, assegnando quindi la funzione di trasmissione e di elaborazione delle conoscenze alla narrazione.27

Secondo il famoso pensatore e psichiatra C.G. Jung, in ogni essere umano c’è una’ineliminabile tensione verso “un uomo totale, nascosto e non ancora manifestato”.28 Questa tendenza è l’espressione di alcune immagini fondamentali che sono presenti nelle profondità di ogni uomo e che Jung chiama ‘archetipi’. Gli archetipi sono “né chiari né assolutamente determinanti: sono semplicemente stimolanti e indicativi. Condizionamenti e necessità intime, non costrizione o violenza esterne”.29 Le storie, i racconti, richiamano e fanno appello agli archetipi e dunque ‘parlano’ un linguaggio che va oltre la razionalità per affondare nell’intuizione, nella memoria remota, facendo risuonare echi forse indistinti, ma forti e autenticamente umani, che emergono alla consapevolezza e si propongono come pensieri intuitivi.

Comunemente noi diciamo che i pensieri derivano dal cervello; eppure c’è chi sostiene che l’intero nostro modo di pensare sia frutto del cuore, il quale sarebbe sempre il primo a porre le conclusioni, ingiungendo poi alla mente di fornire il ragionamento che le difenda.30 Sembra però che fino ad ora nessuno è riuscito a dire che cosa sia il pensiero, il pensiero dell’uomo: “L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante” annotava Pascal. Analogicamente parlando possiamo affermare che il pensiero emana dal cervello, come una musica emana dallo strumento. Però come la musica prende la vita dall’uomo nella sua totalità, carne e sangue, pul-sioni, tutto quanto lievita nelle sue profondità, relazioni che egli ha con altri uomini e con il mondo, le storie della nonna o del giornale di oggi, così fa il pensiero che riporta l’umanità intera della persona umana pensante.

La struttura cognitiva della persona umana è una sorta di ‘albero’ in cui sono collegate e coordinate, in modo armonico, le informazioni e le esperienze di ciascuno di noi. Ogni esperienza che una persona vive viene confrontata con le sue strutture cognitive per integrarsi in esse oppure per ristrutturarle. Si parla di assimilazione quando le informazioni ricevute o i dati dell’esperienza si integrano, si inseriscono nelle strutture già possedute dal sog-getto. L’attività attraverso cui la persona riadatta le sue strutture cognitive, alterate dai dati della nuova esperienza si definisce accomodamento.31 La strut-tura cognitiva è dunque una sorta di modalità di pensiero con la quale si pone ordine e ‘sistema’ nei dati dell’esperienza e che, sempre sollecitata al 27 Cf. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981. 28 C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Boringhieri, Torino 1981, 14. 29 P. Babin, La catechesi nell’era della comunicazione, Elledici, Leumann 1989, p. 92. 30 Cf. A. DeMello, Chiamati all’amore, Mondadori, Milano 1991, 160. 31 Cf. J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino 1967, 15.

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confronto, sì riadatta continuamente. Tant’è vero che “la nuova struttura non sopprime la precedente, ma l’assume in sé e l’ingloba”.32

Oggi il pensiero e i discorsi sono influenzati dal linguaggio televisivo, che comunica per immagini, accostamenti e richiami, i quali possiedono una loro logica interna, diversa però da quella razionale deduttiva o induttiva cui siamo abituati:

È evidente che la logica dell’immagine sta impossessan-dosi del nostro modo di pensare, di concepire, di collazionare i fatti tra loro, di organizzare il materiale mentale e che si tratta di una logica nuova rispetto alla logica tradizionale della cultura europea, la cultura della parola, cioè della logica della causa e dell’effetto, di quello che viene prima e quello che viene dopo.33

La logica dell’immagine è particolare perché non si tratta di causa e effetto, ma le informazioni vengono presentate una accanto all’altra, non più una dopo l’altra. La civiltà dell’immagine è meno organizzata e meno concettuale, tanto che la struttura cognitiva non viene più costituita ad ‘albero’, ma da una serie di relazioni fatte di informazioni parallele, che giustappongono notizie, idee, frammenti.

La logica delle immagini altera la struttura cognitiva aristotelica, fatta a piramide, e ne propone un’altra, che si limita ad accostare le informazioni, ad ordinarle per renderle disponibili, colorandole di emozioni, sollecitate per catturare l’interesse dello spettatore.

Le storie s’inseriscono bene in questa cultura dell’immagine, perché pur avendo una loro logica interna ‘piramidale’, sono altamente evocative e suscitano immagini mentali, archetipi risvegliati e richiamati, figure e paradigmi che l’ascoltatore accosta e giustappone, ricavandone inquietudini ed emozioni che avvincono il suo interesse e la sua attenzione.34

Inoltre il racconto è collegato permanentemente con l’archivio della memoria per trovare i significati più diversi e di accostarli tra loro, di sperimentarli, di confrontarli, simulandone le conseguenze in un’arena tutto sommato priva di rischio. Nella vita ogni decisione è irripetibile e porta le sue inevitabili conseguenze. Invece la storia simula delle situazioni e permette di studiare la realtà scomponendola nei suoi processi, nelle sue possibili alternative.

32 N. Paparella, Sviluppo del bambino e crescita della persona, La Scuola, Brescia 1984, 74. 33 R. Giannatelli - P.C. Rivoltella, Le impronte dì Robinson, Edizioni Elledici, Leumann 1995, 60. 34 Marchioni, Metodi e tecniche …, cit., 102.

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Quindi, il racconto come strumento portante del sapere viene visto anche nella sua capacità di formare, di modellare il sapere che lo trasmette. Pur accennando alle forme (immagini) che costituiscono, formano o de-formano il racconto, passiamo al concetto dell’immaginazione.

1.2. L’immaginazione L’immaginazione umana scopre e coglie somiglianze ed analogie che

stabiliscono relazioni e unità nel mondo del significato. In altre parole, l’immaginazione è il processo di trovare direzione e scopo nella vita, facendo delle metafore con l’aiuto delle esperienze ricordate per capire l’esperienza presente35. Questo non è un istinto naturale, come il tessere le ragnatele per i ragni, ma un attributo e un’espressione della nostra libertà, passione e intelligenza.

Alcuni possono pensare che la vera questione è in che modo l’immaginazione può crescere o calare nella società. Però non è questo il problema, dove c’è un essere umano lì c’è l’immaginazione che viene esercitata più ancora rispetto a come dove ci sono ragni sono anche delle ragnatele. La cosa importante è che tipo di immaginazione incoraggia la nostra cultura contemporanea.36

Le persone umane esercitano la loro immaginazione per la libertà, esprimendo e esercitando insieme la ragione e la volontà. Davvero, è perfettamente giusto dire che l’uomo è una creatura che ha l’immaginazione cosi come ha intelligenza e volontà libera. L’intelligenza, che serve per risolvere l’incertezza teorica del vivere non può progettare da sola una visione che introduca il significato e lo scopo della vita. L’occhio vede quello che è stato dato di vedere dalle circostanze, però l’immaginazione riproduce quello che, per qualche dono offerto, è capace di fare vita.

La vita è un processo dinamico in cui la ragione e l’immaginazione sono integrati. L’immaginazione fornisce alla religione e alla morale “quelle idee allargate” e immagina quello di cui la creatura umana ha bisogno con lo scopo di vedere comprensivamente il significato e lo scopo della loro vita.

Se questo sarebbe un accenno al contenuto del concetto d’immaginazione, che cosa possiamo dire sulla specificità morale di una tale abilità umana. 35 Cf. I. Babbitt, Literature and the American College: Essays in Defense of the Humanities, Houghton Mifflin, New York 1908, citato da GUROIAN, Rallying the Really Human Things…, cit., 53. 36 Guroian, Rallying the Really Human Things…, cit., 53.

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1.2.1. Immaginazione morale Quando Vigen Guroian parla dell’immaginazione morale, inizia con una

lamentela sul cambiamento della morale nel contesto della rivoluzione francese37. Cosi possiamo capire perche lui identifica l’immaginazione morale con la potenza umana distintiva di concepire l’uomo e la donna come soggetti morali, come persone, non come cose o animali dei quali noi ci interessiamo solo dal punto di vista dell’utilità. Si tratta del processo con il quale ognuno fa delle metafore, delle immagini ricordate dai sensi e depositati nella memoria che vengono poi usate per trovare corrispondenze morali nell’esperienza.

I parenti e i professori sono i curatori della vita morale. L’immaginazione umana può anche morire se si trattano i fatti come dei, gli eventi come illusione, gli individui come dati, la persona come chimera, la legge come valore relativo e la natura umana come costruzione sociale. Se l’immaginazione morale muore, cosa cresce al suo posto? Guroian menziona tre forme corrotte d’immaginazione: l’immaginazione idillica, quella idolatra e quella diabolica38. Queste sostituiscono facilmente la vera immaginazione. Come nel caso di tutte le corruzioni, l’immaginazione corrotta tradisce l’integrità della vera forma.

L’immaginazione disegna la modalità buona del rapporto tra il soggetto e il mondo. Tanto la rappresentazione di sé quanto la rappresentazione del bene ha ampi connotazioni narrative. Quando l’uomo, nell’esperienza reale, progetta un piano, esplora in modo immaginario gli sviluppi possibili di una situazione, riflette sullo svolgersi dell’azione intrapresa, tiene presenti le fasi dell’evento trascorso, lui non fa altro che narrare39.

In forza del carattere simbolico proprio dell’esperienza morale, la bontà di un’azione (che ci accingiamo a porre), dei suoi fini e delle sue conseguenze, viene giudicata infatti in riferimento a ciò che tale azione significa (contro le etiche meramente consequenzialistiche). E questo significato è specificabile solo all’incrocio fra l’unità narrativa della nostra vita (ossia il filo che ci pare legare la nostra personale continuità biografica) e il senso che ultimamente attribuiamo al destino dell’uomo, l’idea di vita buona, che guida le nostre scelte. Tale senso ultimo non ha però il carattere di un’evidenza

37 Ibid., 54-55. 38 Cf. Ibid., 56-60. 39 Cf. C. Bremond, “La logica dei possibili narrativi”, in Aa.Vv., L’analisi del racconto, Bompani, Milano 1969, 121.

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intellettualmente incontrovertibile, ma quello di una narrazione persuasiva, di un racconto interpretativo della provenienza, destinazione e ruolo dell’uomo nel mondo. Si tratta insomma di una storia creduta come vera, prima di essere tradotta in teorie normative razionalmente cogenti e tale pertanto da non poter essere fatta oggetto di una compiuta verifica preventiva.40

La presenza dell’immaginazione ed i1 carattere narrativo che strutturano la coscienza morale non si oppongono al rigore argomentativo che l’etica esige. Ogni teoria morale attende una verifica della propria pertinenza, nel momento in cui è applicata a situazioni concrete. Così come l’esperimento fisico prova la teoria fisica, così la narrazione, storica o immaginaria, di casi veri o fittizi, mette a prova il pensiero morale. Ma ciò significa che una natura comune lega i due ordini del discorso, che l’immaginazione morale accompagna lo sforzo di capire il dinamismo della vita morale stessa.

Però, l’immaginazione morale dicevamo che non è un istinto. Come attributo della nostra umanità necessita un impulso ed un orientamento. Da quando ho conosciuto Friedrich Wilhelm Föester sono stato fascinato il suo metodo di portare i suoi alluni ad una vita moralmente buona.

1.2.2. Il metodo induttivo Friedrich Wilhelm Föerster, uno dei grandi pedagoghi che credeva nel

potere immaginativo dei suoi alunni, ha usato sempre i racconti – ‘esempi’, tanto nel suo insegnamento di professore quanto come autore di libri41. Per lui, usare gli esempi non è stato mai un fatto che doveva essere spiegato. Infatti, usando i racconti nell’educazione morale egli ha espressamente voluto evitare l’insegnamento puramente intellettuale, considerato inadeguato per tale missione42.

Un esegeta dell’opera foersteriana considera che la sua opzione per l’impostazione concreta dei problemi etici, in termini di vita vissuta indica la prevalenza di una mentalità sintetica. Lui coglieva nell’individuale concreto il nesso che lo collega al tutto; da questo punto di vista l’esemplificazione cessa

40 P. Cattorini, Un buon racconto. Etica, teologia, narrazione, Edizione Dehoniane, Bologna 2007, 30. 41 F.W. Föerster, Jugendlehre, Berlin 1904, traduzione italiana di L.E. Bongioanni, L’istruzione etica della gioventù. Libro per genitori, per insegnanti e per ecclesiastici, S.T.E.N., Torino 1911 e Lebenskunde, Ein Buch für Knaben und Mädchen, Matthias Grünewald Verlag, Mainz 1953, in traduzione italiana di M. Marcolini, Il vangelo della vita. Libro per ragazzi e ragazze, La Scuola Editrice, Brescia 1957. 42 Cf. Föerster, L’istruzione etica…, cit., 71.

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di essere un’enumerazione sconnessa per acquistare una salda unità. “La lettura delle opere del Föerster dà subito questa impressione: la varietà dei casi rappresenta solo il molteplice atteggiarsi di una sola tematica fondamentale e abbastanza semplice, che si potrebbe ricondurre alla teoria dei tre capitali doveri: il dominio di sé, il rispetto degli altri, l’adorazione di Dio.”43

Si manifesta cosi un tratto caratteristico del metodo foersteriano, che è stato indicato dall’autore stesso come metodo induttivo avendo come fondamento immaginazione morale.

Piuttosto che dedurre aprioristicamente dalle verità religiose delle conseguenze astratte e generiche, egli preferisce muovere dai casi concreti della vita, dibatterne tutti i tentativi di soluzione con schietta sincerità, saggiandone la consistenza con rinvii all’esperienza e risalire infine, quando sia evidentemente necessario, alla soluzione religiosa: la quale non è invocata come deus ex machina a sanare semplicisticamente ogni situazione, ma è profondamente sceverata nelle sue capacità con lo stesso implacabile spirito critico e la stessa aderenza sperimentale.44

Föerster si riallaccia consapevolmente ad Agostino e a Pascal e rammenta Newman, come esempi illustri che hanno usato il metodo. Però non parla di Laberthonnière o Blondel che hanno particolarmente sviluppato il metodo come ‘méthode d’immanence’, e hanno tratto la prova di suggestive convergenze tra domanda e dono, tra vuoto confessato della creatura e sovrabbondanza saturante del Creatore, concludendo che la buona novella dell’umanizzazione di Dio per la divinizzazione dell’uomo è la vera chiave di volta della storia. In pratica Föerster è vissuto nel loro clima spirituale, ha affrontato in parte gli stessi problemi e vi ha dato in parte le stesse soluzioni.

Con questo metodo induttivo Föerster non voleva ‘produrre’ la verità religiosa ma lui era convinto che la verità religiosa è data ‘in fide ex auctoritate’, ha un’incontestabile trascendenza d’origine e non è da confondere con le umane aspirazioni che vi possono fare inadeguato riscontro. Al dramma morale dell’uomo letteralmente ‘pongono mano cielo e terra’. Egli ritiene, in accordo con tutta la tradizione, che la natura umana ferita conserva i segni della somiglianza divina, vi è disposta, e ‘va incontro’ alla redenzione come la pecorella smarrita al pastore che la cerca.

Il passaggio dall’esempio raccontato alla morale attraverso l’immaginazione è stato il metodo di Föerster nel educare i suoi alunni. Vediamo ancora una volta questi nostri concetti nell’ottica di Paolo

43 Cf. M. Laeg, F.W. Foester, La Scuola Editrice, Brescia 1960, 77-78. 44 Ibid., 74-75.

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Cattorini45, professore di bioetica che ha sulle spalle anni di ricerca in medicina, filosofia e psicologia.

1.2.3. L’immaginazione, la narrazione e la morale Il compito speculativo che l’etica narrativa svolge riguarda appunto la

considerazione dei rapporti tra l’enunciazione di teorie morali e le mitologie soggiacenti, in cui tali teorie appaiono radicate. “Tutti i principali approcci all’etica sono radicati, di solito implicitamente, in una narrazione fondamentale, che può essere chiamata storia originaria, cioè una storia che fornisce le origini o dà luogo alla teoria etica. La storia originaria, insomma, precede la teoria etica pienamente sviluppata, fornendo la prospettiva morale in cui situare il modo di interpretare una situazione umana…”46.

L’uomo tenta di chiarire la propria condizione e cerca una rassicurazione, dando credito a racconti, miti, sulla genesi e sul destino dell’uomo, i quali plasmano l’assetto valoriale di individui e popoli, ne stabilizzano le condotte. Quindi, il mito non è infantile, il caduco preambolo della ragione, ma una modalità con cui la ragione demarca zone di significato, producendo figure e gesti capaci ad essere compresi universalmente. Le sentenze filosofi antichi, che sembrano sciogliere la mentalità mitica, sono possibile solo sul seguito di un millenario lavoro del mito. Ma v’è di più: il mito resta una delle forme in cui si esplica il ‘logos’47. Il mito si presenta come un livello al di sotto del quale la filosofia non può ricadere. Il mito istituisce un mondo linguistico in cui filosofi e narratori abitano e in cui esercitano le loro scelte discorsive. Nella sua interminabile produzione narrativa, il mito lotta contro l’arbitrarietà, il caso, il capriccio.

È per questo che l’aspetto narrativo della giustificazione morale non può essere identificato con la soggettività arbitraria, da cui ci si dovrebbe liberare assumendo un punto di vista impersonale e universale. Partendo sempre dal dato particolare, si lascia l’universale da ricercare, non nelle leggi a priori dell’intelletto, ma nella riflessione su oggetti che reclamano un

45 P. Cattorini, Un buon racconto. Etica, teologia, narrazione (Edizione Dehoniane, Bologna, 2007) costituisce il libro di base, consultato. Fra i suoi scritti ci sono anche altre opere che puntano sulla stessa linea: La morale dei sogni. Lo statuto etico celle psicanalisi (Edizione Dehoniane, Bologna 1999), I salmi della follia. Disturbi mentali e preghiere di liberazione (Edizione Dehoniane, Bologna 2003), Bioetica e cinema. Racconti di malattia e dilemmi morali (Franco Angeli, Milano 2006). 46 W.T. Reich scrive del rapporto fra stona originaria e teoria etica in P. Cattorini - R. Mordacci (edd.), Modelli di medicina, Europa Scienze Umane, Milano 1993, 39-40 47 Cf. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991, 52.

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riconoscimento universale, ma il cui valore va cercato nella qualità intrinseca e non nell’adeguazione a criteri astratti, definiti dall’esterno.

L’agente morale interpreta le proprie emozioni per discernere che cosa davvero egli voglia e che cosa si celi dietro al desiderio che lo attrae; così facendo il giudizio non si limita ad applicare una regola astorica, ma lascia che i suoi principi applicativi vengano riconfigurati in base alle evidenze di bene percepite in situazione. Non si tratta di un passaggio univoco dal generale al particolare, ma il particolare viene inquadrato in una categoria universale solo nella misura in cui quest’ultima, a sua volta, mostra la radice narrativa, l’azione-modello, da cui, per astrazione, essa era stata costruita.

Il lavoro ermeneutico, che prepara la formulazione del giudizio etico in merito a situazioni concrete, mette in tensione i concetti generali con cifre esplicative peculiari. L’azione buona non può essere immaginata e realizzata semplicemente applicando leggi generali note a priori. L’etica ha cioè una sua ‘formatività’ (il carattere di quel fare che, mentre fa, inventa il modo di fare).

Oggi si rischia di dimenticare l’importanza del carattere, degli affetti e degli ideali morali di chi vive in una situazione concreta, rimuovendo l’influenza inevitabile che tali ideali esercitano sul significato delle nozioni usate e sulla interpretazione della vicenda conflittuale. Gli ideali morali sono pensati in forme narrative. Se dunque si vuol cogliere il legame effettivo fra il senso generale del vivere e le concrete percezioni del valore, intreccio che struttura una determinata attitudine morale, non si devono considerare solo la teoria, ma anche le modalità, con cui un soggetto racconta il conflitto, nonché le scelte linguistiche che egli privilegia nella sua narrazione48.

Narrare implica sempre la razione e non è affatto opposta all’analisi argomentativa. Il racconto lega eventi personali con progetti biografici e storie dell’origine. La storia assegna peso e significato ai principi attraverso i quali operiamo un bilanciamento riflessivo dei valori in conflitto.

La riflessione non si esercita infatti solo su punti di vista generali, ma sui simboli e le storie che intessono la nostra visione del bene (della felicità, della dignità, della giustizia) e che collocano un enigma morale determinato nella tensione fra un passato (che spiega la problematicità del presente) e un futuro (che ne ospita la sperata risoluzione). Le teorie etiche trascrivono in una forma universale e intellettualmente cogente, ma sempre astratta, parziale, unilaterale, la permanente riserva di significati

48 Cf. D. Burrell - S. Hauerwas, “From System to Story: An Alternative Pattern for Rationality on Ethicsn”, in H.T. Engelhardt Jr - D. Callahan (edd.), Kowledge, Value and Belief 2: The foundations of Ethics and its Relationship to Science, The Institute of Society, Ethics and the Life Sciences, New York 1977, 111-152.

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(usiamo un termine dell’estetica heideggeriana) custodita dalle storie dell’origine proprie di una concreta tradizione morale.49

Le modalità con cui cerchiamo ragioni che ci convincano a volere, consistono nell’elaborare racconti, con caratteri e trame, ideali e cadute, intenzioni effettive e attese illusorie. Si tratta anche di generarne versioni alternative, confrontarle fra loro, verificarne la verosimiglianza e la persuasività, svelarne le varianti immaginative e riconoscervi le possibilità di una nuova rappresentazione del sé, nonché vie inedite di maturazione e liberazione per il soggetto desiderante.

Il dibattito decisivo, in ambito morale, non consisterebbe tanto nel dare un’univoca fondazione teorica a un asserto, nel portare un principio alle sue conseguenze estreme, nel sondare i pro e i contro di una tesi o la coerenza logica delle proposizioni, quanto piuttosto nel confrontare vocabolari differenti e inventarne di nuovi attraverso creazioni poetiche, così da ampliare il repertorio delle prospettive, immaginare relazioni impreviste e percepire nuovi legami morali e nuove identificazioni con gli attori coinvolti nel dilemma di partenza. La preoccupazione del pragmatista non è rispondere alla domanda se un enunciato morale sia giusto o no, ma se qualcosa ci accadrebbe nel credervi.

La pratica della scrittura (saggistica o narrativa), quando è originale, coinvolge una trasformazione dell’atteggiamento che assumiamo verso noi stessi, il mondo, gli altri uomini. Oggi in particolare sarebbero i romanzi e gli studi etnografici, che esplorano tipi e vite particolari e accadimenti contingenti, a offrire l’arricchimento e la maturazione morale, che un tempo venivano forniti dagli scritti metafisici, impegnati nel rinvenire un’universale essenza dei fenomeni, o la loro necessaria condizione di possibilità. Un filosofo che si consideri collaboratore del poeta e che, con Nietzsche, intenda la verità come un esercito mobile di metafore, potrà suscitare la generazione di esseri umani mai esistiti prima.50

L’immaginazione viene stimolata dai simboli e dalle immagini, presente nelle narrazioni.51 È per questo che stiamo parlando del risveglio dell’immaginazione morale di fronte ai racconti. Le storie faranno sempre questo effetto in noi, ma specialmente nei più piccoli, nei quali ancora non si sono bloccati sensi e capacità che trasformano i racconti in vita. 49 Cattorini, Un buon racconto…, cit., 35. 50 Ibid., 38. 51 Cf. G.A. Davis, “Babbitt, the Moral Imagination, and Progressive Education”, in Humanitas, vol. XIX, 1-2 (2006) 60.

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1.3. La mediazione del racconto Nel campo dell’immaginazione abbiamo parlato fino adesso

dell’importanza della mediazione che ha la comunicazione, specialmente quella narrativa; infatti:

La narrazione è un metodo comunicativo particolare: cerca di raggiungere la globalità a partire da qualche frammento significativo, immagina un modello linguistico in cui anche l'interlocutore si senta coinvolto nelle cose proposte, è impegnato a sostenere la forza evocati va delle informazioni. Si distingue dagli altri modelli comunicativi per la forma in cui viene espressa la comunicazione (prevale un modello linguistico di tipo evocativo e performativo), per il diverso rapporto con cui viene risolta la sequenza temporale (l'evento narrato, anche se è un fatto del passato, risulta sempre contemporaneo all'atto narrativo) e, soprattutto, per la ricercata espansione del suo significato nella prassi quotidiana (la narrazione non è mai un semplice ricordo, ma è impegno a far emergere significati nuovi nel presente attraverso l'azione).52

Il racconto, il narrare ci fa capire che l’evento comunicativo non è mai lineare. Ogni comunicazione esige sì un passaggio da A a B, ma anche da B ad A, si tratta del feed-back, che rivela il rapporto circolare. Narrare non è ri-petizione, non è riempitivo, non è pigrizia. Anzi, ogni narratore sa bene che niente rimane immutato dopo il fascino del racconto perché nascono attività, pensieri, disegni, animazioni, piste, ricognizioni non sono semplici aggiunte, ma fanno parte a pieno titolo del narrare.

1.3.1. Il racconto come mediazione affettiva e culturale Per il bambino, la storia è fonte di fascino, essendo capace di tenerlo

incollato alla voce dell’adulto ore e ore perché il racconto è per lui, almeno fino alle soglie dell’adolescenza, un flusso enorme non separato. Man mano che il confine immaginario-realtà si fa più presente e reclama il suo diritto, quando comincia a diventare chiaro che si può nominare il lupo senza che si presenti alla porta, quando gli incubi notturni sono appunto notturni e lì re-stano confinati senza invadere il giorno, allora egli può appassionarsi ai

52 R. Tonelli, La narrazione nella catechesi e nella pastorale giovanile , Editrice ELLE DICI, Leumann 2002, p. 5-6.

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racconti dei principi e degli eroi, delle fate e dei maghi, dei draghi e delle bellissime fanciulle. Può imparare egli stesso a costruirle, può lasciarsi guidare dal suo animismo. Tutto può essere accolto come svelamento e riserva di significati.

Verso il secondo ciclo delle elementari, il bambino diviene sempre più sensibile al romanzo familiare da una parte e alla storia di cultura e di civiltà, dall’altra, anche perché comincia ad affiorare sempre più netto il senso del tempo e della sua distinzione in tappe o epoche. Di solito, l’apprendimento rappresenta un andamento circolare: sono le storie narrate che contribuiscono a dare al bambino il senso della storia e del tempo, ed è il concetto di tempo che rende sempre maggiormente fruibili le storie.

Il romanzo familiare acquista in questo periodo una rilevanza particolare: il bambino è molto interessato a conoscere la storia della propria famiglia, a partire da come si sono fidanzati i genitori, da dove abitavano i nonni ed i nonni dei nonni... ma il suo non è un interesse "scientifico": il narrare acquista per lui il fascino di una mediazione affettiva; chi narra è non solo un rappresentante della storia, ma uno che lo collega ad essa. Egli può vivere la sua piccola vita e insieme la vita delle precedenti generazioni; e questo rappresenta un insostituibile allargamento di orizzonti umani, cognitivi ed affettivi. Il narrare ha un tale fascino sui bambini perché istituisce e consolida un rapporto.53

Se guardiamo lo sviluppo delle capacità logiche del ‘cucciolo dell’uomo’, dagli 11-12 anni in avanti si verifica un notevole cambiamento intellettivo, in quanto il pensiero del preadolescente comincia ad acquisire una certa auto-nomia rispetto al dato concreto.54 Il ragazzo riesce ora a compiere operazioni mentali senza dover ricorrere a situazioni concrete e dunque arriva a manipolare non più cose ma idee. Il pensiero entra in questo modo nella fase delle operazioni formali, per cui il soggetto si fa idoneo a ragionare in forma verbale o simbolica, svincolandosi dagli oggetti stessi di sostegno.55 Pertanto non si tratta più di riprodurre mentalmente alcuni aspetti di una situazione reale collegandoli tra loro per scoprire eventuali rapporti, ma di ipotizzare nuove situazioni immaginandone gli effetti. L’evoluzione dalla logica operatoria a quella formante caratterizza il preadolescente, e viene bene

53 Gillini – Zattoni, Parlare di Dio …, cit., 155. 54 Cf. M. Cesa Bianchi - P. Bregani, Psicologia dell'età evolutiva, La Scuola, Brescia 1972, 39ss. 55 Cf. N. Galli, Educazione degli preadolescenti e degli adolescenti, La Scuola, Brescia 1990, 18.

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sintetizzata dai risultati della ricerca COSPES56. Riportiamo gli aspetti più significativi delle conclusioni a cui giungono i ricercatori, secondo i quali:

a. (Il preadolescente vive) la tendenza a vivere radicato nel presente e a non portare spontaneamente la propria attenzione alla realizzazione futura. Anche il quadro valoriale e la gamma di interessi nel preadolescente sono segnati da questo orientamento a immedesimarsi nel presente.

b. (Inoltre sperimenta) la notevole e perdurante dipendenza dai modelli, dalle situazioni ambientali e dalle figure significative, quantunque emerga la spinta all’autonomia e ad una visione più personalizzata...

c. Il preadolescente va strutturando una sua capacità critica, ma con molta fatica. Le sue affermazioni e le sue opinioni spesso dipendono da quanto affermano gli adulti, i coetanei, le fonti di informazione da cui attinge...

d. La debole consistenza dell’immagine di sé e la persistenza di identificazioni con modelli al di fuori di sé sono un ulteriore motivo di lentezza nel migrare verso un’impostazione oggettiva di pensiero, capace di realismo e di generalizzazione.

e. Ci pare di poter concordare con alcune recenti ricerche, secondo le quali l’esercizio pieno della capacità di pensiero lo-gico-formale si raggiunge verso i 16 anni. 57

Rimane il fatto che i prerequisiti del pensiero formale si costruiscono nella preadolescenza e che i piccoli successi nell’astrazione portano al ragazzo un’intrinseca soddisfazione che rafforza questa abilità. Il preadolescente si sente contento nell’esplicare una accresciuta capacità intellettiva e quindi ragiona infaticabilmente su tutto. È in questo periodo che i ragazzi provano il gusto per la discussione fine a se stessa e per una sorta di esercitazione logica che li può portare a rinchiudersi in una attività fantastica ed immaginativa. Così, se all’inizio della preadolescenza predomina il gusto per la scoperta delle leggi meccaniche e fisiche, più avanti la logica formale spinge il ragazzo sem-pre più lontano nella ricerca della ragione ultima di tutto, tanto che diventano importanti le domande sul significato del vivere e del morire, dell’uomo e della sua storia.

56 L'Associazione nazionale COSPES (Centri di Orientamento Scolastico Professionale e Sociale) promossa dai Salesiani e dalle Salesiane (CNOS e CIOFS). 57 C.O.S.P.E.S., L'età negata, Edizioni Elledici, Leumann, Torino, 1986, p. 44, riportato da G. Marchioni, Metodi e tecniche per l’insegnante di religione, 103.

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Le storie stimolano la capacità di astrazione, nel senso che durante la verbalizzazione l’alunno deve individuare il loro significato profondo, oltre che ipotizzare alternative e identificare gli elementi simbolici, rimanendo comunque ancorate all’operatività, poiché si riferiscono a cose e situazioni concrete, manipolabili e rappresentabili con una logica operatoria. Pertanto, il narrare storie non è un suggestivo tentativo di richiamare un’infanzia perduta, anzi si caratterizza come uno strumento privilegiato per rivolgersi al preadolescente e all’adolescente, in quanto ‘parla’ il loro linguaggio.

Il racconto come legame tra il passato e il presente non è senza forza espressiva. Per far presente il passato, il piano affettivo porta nell’oggi dell’evento narrativo non delle idee ma delle persone che vengono a formare, educare le persone narratori-uditori. Perciò nell’affettività narrativa si da anche il formarsi come educazione.

1.3.2. Raccontare ai bambini Incitare l’immaginazione dei bambini, raccontare una storia anziché

descrivere un fenomeno rappresenta certamente un’opzione gnoseologica, la scelta di un modello di conoscenza e non la rinuncia ad esso. Narrare ed esercitare l’ermeneutica sulle narrazioni altrui non è una moda o un estetismo, o il segno di un disprezzo o della rilevata insufficienza delle scienze esatte. Possiamo dire che non è innocente, neutro o banale proporre oggi una pedagogia narrativa che si faccia carico di un interrogativo sul “perché raccontare”.

Il racconto stabilisce un rapporto circolare. Il narratore non è indifferente ai suoi ascoltatori: la presa del loro sguardo, la concentrazione del loro viso, l’abbandono dei loro muscoli, il sussulto, la mimica, la spia delle emozioni che passano, tutto questo è parte integrante dell’evento narratologico. Ciò che passa è una modulazione reciproca: il non-verbale del narratore e degli ascoltatori subisce degli aggiustamenti, delle richieste e delle risposte, delle conferme e delle carezze reciproche; l’uno ha negli altri uno specchio e viceversa. Della storia fanno parte integrante i narratori e gli ascoltatori che, a loro volta, possono trasformarsi in narratori. Questa è la catena della tradizione.

Il narratore cristiano ha sentito di sicuro la gratitudine che è implicita nella domanda: ‘Allora, quando ce la racconti ancora la storia di Gesù?’. Narrare la Bibbia è un grande impegno ‘religioso’ in senso stretto. Non si può ‘svendere’ ai bambini la Scrittura, né svalutare la loro dignità di ascoltatori esigenti. Per un’avventura di così vasta portata, le piste possono essere due. Una prima può essere la scelta di grandi racconti dell’Antico e del Nuovo

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Testamento, narrati non come catechesi, né con pretese esegetiche, ma come incontro con le persone della Bibbia. Una seconda pista potrebbe essere data dalla liturgia58 nella quale, all’interno di un tempo liturgico, sono presentati brani dell’Antico e del Nuovo Testamento che costituiscono uno sviluppo. Anche qui, l’intento primo non dovrebbe essere la catechesi o la informazione, ma la traduzione in termini narrativi delle letture domenicali.

Tra il narratore e l’ascoltatore, tra genitori e figli si stabiliscano delle complicità, delle divagazioni, delle attualizzazioni che nessun esegeta firmerebbe. Tratti della vita dei bambini o eventi che accadono possono concorrere ad illuminare quel brano della Scrittura o, viceversa, quel brano può dare spessore e significato a momenti concreti della vita. Quello che avviene nell’evento narrativo è consegnato all’identità di quella relazione, alla sicurezza di affetti e di rapporto che essa dona, a quella radicazione nella memoria della salvezza cui narratore e ascoltatore sono affidati59.

I racconti, le storie, utilizzano l’analogia, cioè il linguaggio necessario per parlare di Dio, evocano e fanno appello agli archetipi, presenti in ogni uomo; e sollecitano l’attenzione e l’interesse, perché fanno appello all’affettività dell’alunno, all’emozione, provocano il pensiero intuitivo, il ‘ragionamento del cuore’, corrispondono al pensiero per immagini, tipico della cultura televisiva dei giovani d’oggi, s’innestano sulla logica del preadolescente e dell’adolescente, tesa tra il pensiero operatorio e quello formale e astratto.

Il narrare storie non può prescindere da un coinvolgimento del raccontatore, il quale deve ‘dare l’anima’, nel senso che non può esimersi dal partecipare, dall’appassionarsi alla storia che presenta. Da questo suo impegno, da questo suo vivere ciò che propone, dipende in gran parte il successo del racconto.

Però, siamo ormai chiari che l’esito positivo del racconto non viene cercato per il racconto in se quanto per quello che viene trasmesso. Vigen Guroian è molto interessato di questa ultima realtà, per questo che lui si presenta nella sua qualità di padre che cerca le ragioni per leggere certi racconti ai suoi figli nell’idea che quello che lui legge sia buono per la vita morale di questi, infatti la famiglia è il perfetto ambito dell’educazione morale60. Per spiegarsi, Guroian usa61 il pensiero di Gilbert Keith Chesterton sulla educazione morale ed il ruolo delle storie in questo campo, proponendo le storie classiche come mediatrice per una vera maturazione morale. 58 Cf. Guroian, Ethics after Christendom…, cit., 32-48. 59 Cf. Gillini – Zattoni, Parlare di Dio…, cit., 158. 60 Cf. F. Pesci, Rischio educativo e ricerca di senso, Aracne, Roma 2007, 96-101. 61 Guroian, Tending the Heart…, cit., 33-39, ma anche in altri posti di questo saggio o degli altri già citati.

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1.3.3. Le storie e l’educazione morale Anni fa nella serie di saggi intitolata semplicemente, “Educazione, o

l'errore del bambino”62 G. K. Chesterton ha iniziato un dibattito, che allora non era meno importante di quanto lo è oggi, dibattito su quello che è importante per l'educazione morale. Quello che Chesterton diceva ci aiuterà a capire il fatto che le storie, soprattutto le fiabe, rappresentano delle inestimabili risorse per l'educazione morale dei bambini.63

Gli educatori moderni non sono stati predisposti verso le favole tradizionali perché le consideravano troppo violente o non sufficientemente attuali. Loro favorivano storie pratiche e realistiche, storie sulle vite che i bambini vivono oggi, cosa che facilmente ha condotto alla distillazione delle fiabe in utili tematiche, principi e valori. Certi educatori creano quello che non possono trovare. Dagli scritti sui valori, l'unico scopo è quello di chiarificare i cosiddetti problemi o di delineare i motivi per i quali prendere delle decisioni morali intelligenti. Queste storie sono fatte per essere scartate, come dei fumetti vuoti, una volta che la ‘materia’ importante contenuta in esse è stata rimossa. Insegnare le abilità invece delle virtù va considerato il fine per un'educazione morale: i valori-chiarimento, e non il carattere, sono considerati lo scopo.

L'educazione morale permette ai bambini di scoprire e chiarire per se stessi i valori e l'atteggiamento morale nel mondo.

Comunque non permettiamo ancora ai bambini di inventarsi la propria matematica, insegniamo loro dalle tabelle la moltiplicazione, come non incoraggiamo i bambini a inventare il loro alfabeto personale, ma li insegniamo a leggere. Quale potrebbe essere il risultato di un'educazione che permetta al bambino di inventare il proprio alfabeto o la propria matematica? Senza dubbio il risultato sarebbe la confusione e il caos. Dovremmo allora essere sorpresi del risultato dei nostri ultimi sforzi nel aiutare i bambini a chiarire i loro valori, di fatto, ad inventare le loro proprie moralità?64

Nei nostri giorni l’approccio moderno viene giustificato da legami anteriori alle teorie psicologiche, le quali elevano l'autonomia personale, l’auto-realizzazione al di sopra della cosiddetta ‘autorità esterna’. L'educatore non

62 G.K. Chesterton, What's Wrong with the World, Dodd, Mead and Co., NewYork 1910. 63 Cf. Guroian, Tending the Heart…, cit., 33. 64 Cf. Ibid., 34.

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dovrebbe portare alla classe i valori, ma deve lavorare per tirar fuori dai bambini le loro credenze, e attraverso un processo di chiarificazione aiutarli a formulare meglio i loro valori. Ecco qui il modo in cui Chesterton caratterizza questo dibattito storico:

Il primo punto importante qui è solo quello che non puoi, in nessun modo, rinunciare all'autorità nell'educazione… L'educatore è altrettanto arbitrario e coercitivo (costrittivo) quanto lo è l'istruttore, perche tira fuori quello che sceglie. È lui a decidere quello che nel bambino va o non va sviluppato. Non può (suppongo) tirar fuori la facoltà non curata della falsificazione. Non può (finora, almeno) condurre, con passi timidi, un talento timido con la tortura. L'unico risultato di questa pomposa e precisa distinzione tra l'educatore e l'istruttore è che l'istruttore colpisce dove gli piace, invece l'educatore tira fuori dove gli piace.65

Le vere corruzioni dell'educazione morale sono: l’imperiosa moralizzazione da una parte, e l'indulgenza della discussione fasulla e dell'opinione indisciplinata dall'altra parte. Tuttavia, un'educazione morale valida ed effettiva è legata a volte all’essere coercitivo e anche a una certa violenza, indifferentemente se l'opinione viene trainata dallo studente o se il dogma le viene imposto.

La stessa violenza intellettuale viene fatta alla persona (creatura) che è ‘colpita’ o ‘tirata’. Tutti dobbiamo ora accettare la responsabilità di questa violenza intellettuale. L'educazione è violenta perche è creativa. È creativa perche umana. È spericolata come suonare il violino, così dogmatica come disegnare un'immagine, cosi brutale come costruire una casa. In breve, è tutto quello che l'azione umana rappresenta, è l'interferenza con la vita è la crescita umana.66

Comunque, Chesterton non è stato un difensore dello strumento pesante e schietto. Questo è il motivo per cui le fiabe lo hanno attirato cosi tanto. Le favole non vanno qualificate come delle ipotesi e teorie scientifiche, però risuonano con le loro qualità più profonde di umanità, di libertà e d'immaginazione morale. Allo stesso tempo, le favole negano il determinismo psicologico e materiale che si nasconde dietro la maggioranza dei discorsi moderni sulla liberazione umana e screditano le arroganze della ragione e della razionalità che spostano (trasformano) la fede e la fiducia in verità.

65 Chesterton, What's Wrong…, cit., 252-53 66 Ibid.

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I racconti ci mostrano la maniera di prevedere il mondo - un mondo in cui tutto quello che è necessario non lo è stato, e la legge morale reale connota la libertà e non la necessità. Il filosofo delle favole, scriveva Chesterton “è contento che la foglia è precisamente verde perché avrebbe potuto essere scarlatta. È soddisfatto perche la neve è bianca semplicemente perche essa potrebbe essere nera. Ciascun colore ha in esso una qualità audace della scelta; il rosso delle rose del giardino non è soltanto decisivo, ma drammatico, come improvvisamente il sangue versato. Sente che qualcosa è stato fatto”67 che c’è qualcosa di testardo in tutto quanto, quasi come se qualcuno avesse deciso che le cose dovevano andare in questa maniera invece di un'altra, e che le cose sono ripetute per migliorarle o semplicemente perché sono una sorgente di gioia nella loro ripetizione. Il filosofo delle favole rispetta il mistero più profondo di libertà nella sua fonte trascendente.

I racconti ci fanno vedere la differenza fra quello che è logicamente possibile e quello che è moralmente felice, tra ciò che è razionalmente fattibile e quello che è moralmente permissivo. Le favole e il progetto di storie moderne di fantasia, incantano gli altri mondi, ma tuttavia fanno molta attenzione alle leggi morali reali di carattere e di virtù. Queste leggi non devono essere prepotentemente imposte ai bambini (e a nessun altro). Più esattamente, esistono delle norme di comportamento che ottengono dei modelli di relazione tra l’agente, l’atto, l’altro e il mondo. La cognizione razionale è capace di afferrare queste norme. Le favole, non sono il sostituto dell’esperienza di vita, ma hanno la grande capacità di modellare la nostra costituzione morale senza le insufficienze della scolarizzazione rigidamente dogmatica o dell’educazione dei valori-chiarificazione.

Dipingendo i meravigliosi e spaventosi mondi in cui le brutte bestie si trasformano in principi e le persone cattive mutano in pietre, le persone brave ritornano in vita, le favole ci ricordano le verità morali e le loro ultime pretese di normalità e di permanenza che non penseremmo mai ad indagare. L’amore liberamente donato è migliore dell’obbedienza ottenuta attraverso la costrizione. Il coraggio che soccorre l'innocente è nobile, poiché la vigliaccheria che tradisce gli altri per il proprio guadagno o per l'autoconservazione è degna solo di disdegno. Le favole dicono chiaramente che la virtù e il vizio sono dei contrari e non è solo una questione di grado. Loro ci mostrano che le virtù sono appropriate al personaggio e completano il nostro mondo nella stessa maniera in cui la bontà riempie naturalmente tutte le cose.

67 G.K. Chesterton, Orthodoxy, Image Books, Doubleday and Co, Garden City, N.Y. 1959, 59.

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Diventando più vecchio e viaggiando di più, la mia memoria si riempie di così molte facce e vissuti umani diversi, la saggezza delle favole, la saggezza di una comune condizione umana sottolineata attraverso le diversità e le differenze, sembra da lontano più ragionevole del relativismo morale e culturale.68

Conclusione Nelle fiabe e nei racconti con un colpo di bacchetta magica i problemi

sono risolti e i protagonisti superano le difficili situazioni. La realtà non ci regala alcuna bacchetta, ma abbiamo la possibilità di usare della magia dei racconti per quello che loro trasmettono al livello morale attraverso il linguaggio specifico69. Il successo delle fiabe o dei racconti di magia consiste proprio nel fatto che il reale, nelle sue infinite angolature, è spiegato dal linguaggio fantastico e favolistico.

Abbiamo visto che il racconto non solo è stato sempre presente nella storia orale o scritta dell’umanità, ma questa presenza stessa denota l’importanza sua per la vita umana. Da una parte possiamo individuare il fatto che la narrazione facilità l’esprimersi dell’uomo nei campi altrimenti indicibili, come quello di parlare di Dio. D’altra parte abbiamo dedicato molto alla mediazione del racconto per dare un impulso all’immaginazione morale nel processo dell’educazione.

Quindi il nostro testo è suddiviso in tre grandi punti: racconto, immaginazione, risveglio.

Il racconto è stato visto non solo nel suo definirsi, ma dal di dentro come lo strumento che forma gli uditori che diventeranno narratori. Dal cosa è il racconto si scopre il suo legame con il formarsi di una persona di un popolo in quanto il racconto è radicato nella genesi della formazione dell’uomo, del popolo. Perciò, appare ovvio il bisogno di racconto.

L’immaginazione disegna la modalità buona del rapporto tra il soggetto e il mondo. Nello stesso tempo, colui a cui la narrazione è rivolta si sente raccontato nel racconto stesso avvertendo che si sta parlando di lui e non solo per lui, perché nell’intreccio simbolico, ricostruito nel racconto, sta svolgendosi la trama della sua esistenza. L’uditore potrebbe resistere, sfuggendo dal racconto, ma non riesce a restare indifferente, e così si affida all’evento narrato e lo riconosce significativo per la sua vita. È quasi un

68 Cf. Guroian, Tending the Heart…, cit., 39. 69 Cf. M. Bettetini, Che fine ha fatto Peter Pan? L’ascolto del bambino giocando in famiglia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, 11.

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incantesimo che “non solo supera in velocità ed efficacia i processi educativi, ma li spiega, li vivacizza e motiva. La fantasia del bambino può proiettare in una fiaba, o nel gioco, una certa violenza repressa; ma le conseguenze saranno espiate nel finto, che però fornirà insegnamenti al vero, in un autentico ed arricchente, vivace, dialogo”70.

Ci rendiamo conto dell’importanza del risveglio dell’immaginazione morale a qualsiasi età, ma specialmente al inizio della crescita in maturità. L’immaginazione morale come disegno della propria vita in comunione con Dio e con il prossimo prende dei spunti importanti dalle storie, rimanendo però sempre espressione della libertà umana. La fantasia non ha bisogno di molte cose per mettersi in moto. Un bel racconto basta per cominciare a progettare la nostra vita.

Il terzo punto del nostro testo ci propone la dinamica della mediazione che il racconto assicura per la trasmissione dei valori culturali, affettivi e di fede. La narrazione corrisponde molto bene alla struttura mentale dell’uomo, tanto per ricevere quanto per trasmettere dei valori. L’educazione morale potrebbe trarre tutto il vantaggio da un tale mezzo di comunicazione, basta che gli educatori siano anche dei buoni narratori.

“Senza la rivelazione il popolo diventa sfrenato” (Prov. 29,18), questo proverbio apre il dialogo del primo capitolo sull’importanza dell’immaginazione morale, ispirata dalla parola ed esempio, alimentata con sentimenti religiosi e sostenuta con la ragione. Vigen Guroian dice che solo in queste condizioni abbiamo una buona immaginazione morale, del altro facilmente sostituita dalle immaginazioni cattive (idillica, idolatrica e diabolica)71. L’immaginazione morale è svegliata con il racconto. L’esempio paradigmatico è, nel nostro caso, la narrazione della Rivelazione di Dio per il suo popolo attraverso i profeti o, nei ultimi tempi, attraverso il Verbo Incarnato, che assicura la vita buona di questo popolo. Corrispondente alle culture diverse abbiamo storie diverse e tante favole che riportano il sapere e la sapienza divina e umana da una generazione ad altra facendo fronte al bisogno naturale di racconti. Prima della scrittura, nelle società dell’oralità, le narrazioni erano e sono ancora il medium unico per far conoscere la “rivelazione”. Anche se le società della scrittura tendono a “seppellire” nei libri i racconti, la missione di mediazione affettiva e culturale non è stato ripreso da nessun altro medium e per questo possiamo dire che le favole, le storie, i racconti sacri, “risorgono” ogni volta che sono letti/raccontati, portando tutti i benefici originari.

70 M. Cesa-Bianchi, “Prefazione” , in M. Bettetini, Che fine ha fatto Peter Pan?, cit., 6. 71 Cf. V. Guroian, Rallying the Really Human Things. cit., 49-79.

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