Non Siete Intoccabili

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I Tempi della Caduta I Tempi della Caduta I Tempi della Caduta I Tempi della Caduta – Volume I Volume I Volume I Volume I Non Siete Non Siete Non Siete Non Siete Intoccabili Intoccabili Intoccabili Intoccabili Mirco Tondi La vita rende sempre quello che si fa. Alle volte con gli interessi.

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Dedicato alle morti bianche, ai loro cari e a chiunque subisce soprusi. Mirco Tondi http://www.lestradedeimondi.com/

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I Tempi della Caduta I Tempi della Caduta I Tempi della Caduta I Tempi della Caduta –––– Volume I Volume I Volume I Volume I

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Mirco Tondi

La vita rende sempre quello che si fa.

Alle volte con gli interessi.

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La presente opera è pubblicata con licenza “Creative Commons” del tipo “Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate” 2.5. Come tale, chiunque è libero di riprodurre, distribuire, comunicare o esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare quest’opera, sia in maniera integrale che parziale, a patto d’indicare a ogni occasione l’autore del testo (Mirco Tondi) e l’indirizzo web su cui esso è apparso in origine (http://www.lestradedeimondi.com). È invece assolutamente vietato sfruttare tale opera per fini commerciali, modificarla o spacciarla per propria. S’informa che l’autore è in possesso del testo originale, contenuto all’interno di una raccomandata con ricevuta di ritorno. L’inosservanza delle condizioni esposte potrà portare ad azioni legali da parte dell’autore nei confronti dei soggetti violanti. Qualora si voglia contattare l’autore, usare il seguente indirizzo: http://www.lestradedeimondi.com/?page_id=108

Gennaio 2008 – Febbraio 2009 Tutti i diritti letterari di quest’opera sono d'esclusiva proprietà dell’autore. Copertina realizzata da Mirco Tondi

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Dedicato alle morti bianche, ai loro cari

e a chiunque subisce soprusi.

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Guai a chi prepara insidie. Sarebbe meglio per lui

che gli si legasse al collo una macina e venisse gettato in mare,

piuttosto che tendere insidie a uno solo di questi piccoli.

Lc 17,1-2

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INDICE

I. Menage familiare……………………………………………………………...…..7 II. Riunioni……………………………………………………………………...….10 III. Mobilità e mobilitazione…………………………………………………...…..18 IV. Morte psichica…………………………………………………………...…….27 V. Scontri……………………………………………………………...…………...35 VI. Fato………………………………………………………...…………………..42 VII. Titoli di giornali…………………………………………...………………….50 VIII. Orme paterne………………………………………………………………...56 IX. Salvataggio………………………………………………………………….....73 X. Notte di fuga………………………………………………………...……….....85 XI. Rifugio……………………………………………............................................98 XII. Scoperta………………………………………………...……………………106 XIII. Baratro……………………………………………….……………………..115 XIV. Fuoco epuratore……………………………….…….…………….………..125 XV. Giorni grigi e notti insonni………………………….………………...…….134 XVI. Nuovo inizio……………………………………..........................................138

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I. Menage familiare. E da quelle fiamme nessuna luce, ma un buio trasparente, una tenebra nella quale si scorgono visioni di sventura, regioni di dolore e ombre d'angoscia, e il riposo e la pace non si troveranno, né mai quella speranza che ogni cosa solitamente penetra. Rilesse le parole con calma, affascinata dalle cupe immagini che evocavano. Non si era certo aspettata qualcosa del genere quando quella mattina aveva comprato il libro al centro commerciale. Paradiso Perduto. Attirata dalla copertina e dal titolo, s'era immaginata una travagliata storia d'amore permeata da torbidi intrighi; aveva preso il romanzo senza nemmeno sfogliarlo. Quando aveva cominciato a scorrere le prime pagine sul divano di casa, s'era resa conto dell'errata valutazione, ritrovandosi tra le mani un poema scritto diversi secoli prima, narrante la caduta luciferina. Vedere la caduta del male con gli occhi del male. C'era una sorta di ricerca di comprensione per il dannato Lucifero, almeno questo era quanto pareva trapelare dall'opera. Come si poteva prendere in considerazione un punto di vista del genere? Il male andava giudicato, condannato, non compreso; era come cercare di capire cosa spingeva un assassino a uccidere. Trovate le prove, il criminale doveva essere punito, impedendogli d'arrecare ulteriore danno alla società. Non c'era bisogno di fare dissertazioni, solo far seguire alla constatazione dei fatti una reazione adeguata. Come Lucifero, scaraventato negli abissi per la sua coscienza immorale che lo aveva spinto a ricercare il trionfo a ogni costo. La sua natura carica d'invidia e il senso di rivalsa erano la causa della condizione in cui era finito; una condizione che aveva portato rovina a chiunque aveva deciso di seguire gli stessi passi. Nonostante dissentisse con il pensiero dell'autore, non riusciva a staccarsi dall'opera. Rilesse i versi. Avevano un fascino magnetico, non riusciva a staccare gli occhi da quelle parole, come se i suoi occhi fossero pianeti attirati dalla forza d'attrazione di un buco nero. Il rombo della fuoriserie irruppe prepotentemente nel vialetto, facendo sentire la strisciata dei pneumatici sulla curva che portava davanti al garage. Masha sbuffò. L'indomani avrebbe dovuto chiamare il g iardiniere per far mettere a posto i segni lasciati dalle sgommate. La portiera fu chiusa con violenza. Sollevò gli occhi oltre il bordo del libro. Niente di buono in arrivo. Neanche un minuto e la porta fu aperta e mandata a sbattere contro il muro. "Addio pace." Sospirò Masha rassegnata alla solita sceneggiata. Il padre entrò nel salotto e gettò la giacca sulla poltrona, mettendosi a guardare l'agenda senza salutare la figlia. «Giornata pesante?» Chiese Masha mentre girava una pagina.

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L'uomo continuò a sfogliare l'agenda rilegata in cuoio. «Pà?» Sollecitò per avere risposta alla domanda. Il libricino d'appuntamenti fu sbattuto sul tavolino. «Problemi. Mi creano solo problemi.» Sbottò il padre levando un pugno al cielo. «Quei maledetti hanno indetto un altro sciopero. Sempre a contestare, a creare grane. Questo mese è il quinto giorno perso per la protesta sulla sicurezza.» Continuò a inveire. «E la legge li tutela, permettendogli di danneggiarmi. Non fosse stato per la polizia, avrei sfondato con l'auto il cordone di scioperanti che impediva l'accesso ai cancelli.» Sbatté il pugno contro il mobile. «Siamo noi che creiamo benessere e diamo di che vivere a quei morti di fame! Dovremmo essere noi a dettare legge!» Asserì con foga. «Il mondo non va come pare a te.» Lo ammonì Masha. Il padre sembrò non sentirla. «Sono stanco di queste storie. Se non la smettono, faccio un trasferimento d'impresa dall'altra parte del paese, così li sbatto tutti a casa. Dopo avranno tutto il tempo che vorranno per non fare niente.» Tirò un calcio al tavolo. «Accidenti a loro e ai sindacati che li appoggiano: dovrebbero metterli tutti fuorilegge. Al rogo dovrebbero bruciare.» Il genitore era più infervorato del solito; Masha cominciò a essere infastidita dalla sceneggiata. «Calmati: agitarti non cambierà le cose.» L'uomo si voltò a incenerirla con lo sguardo. «Calmarmi un accidente. Ci perdo dei gran soldi con gli scioperi. Ed è proprio quello che vogliono, sperando di piegarmi alle loro richieste.» «Con quella forma di protesta anche loro ci rimettono dei soldi.» Gli fece notare Masha. «Sono io quello che ci rimette di più!» Alzò il tono di voce. «Farmi piegare. Glielo farei vedere io come si fa, se non ci fossero quelle stupide leggi: sprangate lungo la schiena fino a spaccargliela. Dopo se ne starebbero buoni, non avrebbero più la forza di protestare.» «Basta.» Mise un freno Masha, irritata per non riuscire a leggere. «Adesso sei a casa, non in una delle tue riunioni dove ti puoi sfogare. Certi comportamenti non sono tollerati, anche se la mamma non è più qui.» Lo redarguì guardandolo in faccia. «Tua madre non ha mai capito niente. Non ti mettere anche tu a seccarmi con queste storie.» Stava dirigendosi al mobiletto degli alcolic i, quando si voltò di scatto. «Non starai diventando una bolscevica come quegli operai perditempo? Da te ci sarebbe da aspettarsi di tutto.» L'accusò con il dito puntato. «Sempre a fare di testa tua per divertirti a crearmi dei fastidi. Come tua madre.» Disse con astio. «Lo facevi anche da piccola e quella là ti teneva sempre la parte, ti viziava; si divertiva ad aizzarmit i contro. Fosse stato per me ti avrei preso a cinghiate; te ne avrei date così tante da lasciarti il segno sulla pelle.» "Oggi gira peggio del solito." Continuare a rispondere non avrebbe migliorato la situazione, ma non le andava di essere trattata in quella maniera, né che si parlasse della madre con quel tono. «Non hai il permesso di rivolgerti a me in quella maniera. O cambi registro o te ne vai da un'altra parte: non sono una tua dipendente che puoi trattare come una pezza da piedi.» Puntualizzò duramente. «In quanto alle mie idee, sono libera di avere quelle che voglio.» Il padre fu sul punto di esplodere, ma con uno scatto si voltò e lasciò la stanza. I passi risuonarono nel corridoio prima di venire interrotti dallo sbattere di una porta. "E tre." Masha scosse il capo, riprendendo in mano il libro che aveva appoggiato sul divano. La convivenza con il padre era sempre stata difficile, ma in quegli ultimi tempi stava diventando impossibile. Arrogante, prepotente, maleducato, sempre a voler imporre la sua

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volontà. Non stentava a credere che ci fossero conflitti con i dipendenti: il muro contro muro non poteva che sfociare in bracci di ferro estenuanti. La porta di casa tornò ad aprirsi e dopo pochi attimi sulla soglia comparve il fratello. E pensare che quel giorno avrebbe voluto rilassarsi dopo essere ritornata dallo stage d'economia all'estero. «Papà dov'è?» Chiese senza salutare. «Nel suo studio.» Disse con disinteresse. Il fratello assunse un'espressione contrariata. «L'hai fatto di nuovo incazzare. Ti diverti?» Non tentò nemmeno di celare l'accusa. «Aveva iniziato con una delle sue solite sceneggiate. Sai che non le tollero.» «Tutta colpa di quei bastardi…» Cominciò a inveire il fratello. «Non le tollero nemmeno da te.» Lo interruppe bruscamente Masha. «Sono stanca e voglio riposarmi, quindi non voglio storie, chiaro? Se dovete sfogarvi, andatevela a fare con chi di dovere.» «Un giorno anche tu avrai a che fare con questa realtà e allora capirai. Facile lasciare perdere facendo la vita della fig lia v iziata, ma quando la toccherai con mano, non ti verrà più la voglia di fare filosofia.» Masha lo ignorò e questo non fece che indispettirlo ancora di più. Furente, il fratello fu sul punto di ribattere, ma in quel momento squillò il cellulare e dovette rispondere. Il tono di voce cambiò immediatamente, le sue parole che si perdevano tra le stanze mentre andava ad appartarsi per parlare liberamente. Una delle sue tante amiche, conosciute chissà dove. Forse ora ci sarebbe stata di nuovo la calma. Ogni giorno le stesse scene. Chissà quando sarebbero finite; cominciava a esserne stanca, voleva che tutto quel casino terminasse. Voleva soltanto che tutto quanto sparisse. Gli occhi tornarono a posarsi sui versi del libro. E da quelle fiamme nessuna luce, ma un buio trasparente, una tenebra nella quale si scorgono visioni di sventura

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II. Riunioni. Nell'uffic io aleggiava l'odore d'incenso proveniente dall'astuccio nero elegantemente lavorato. Sulla lucida superficie della spaziosa scrivania erano appoggiate delle cartelle colorate. Il loro contenuto, prospetti, grafici e documenti di vario genere, era disposto a ventaglio davanti alle poltrone di pelle. Nel luminoso ufficio dirigenziale i consiglieri stavano raccogliendo appunti sulla riunione che durava da più di mezz'ora. «Vi siete confrontati durante la pausa pranzo?» Domandò il dirigente seduto a capotavola, con l'ampia vetrata e le p iante ornamentali alle sue spalle. «Quali sono le vostre conclusioni?» «Abbiamo esaminato i documenti un'altra volta.» Parlò un uomo dalla giacca azzurro fumo che faceva a pugni con una cravatta color aragosta. «Il costo di quanto richiesto è superiore del trenta per cento rispetto ai nostri preventivi, con tempi di realizzazione che si aggirano sulle due settimane, rendendo inagibile per almeno una settimana metà dei reparti produttivi e per due giorni i server aziendali. Il nostro fatturato avrà un calo del cinque per cento e questo soltanto perché abbiamo del materiale finito a disposizione in magazzino, pronto per essere venduto.» «Ancora magazzino alto.» Fece notare il d irigente. «Con piacere noto che i miei ordini sono eseguiti. Sapete quanto costa tenere del materiale fermo?» Suggerì velenoso. «Troppo! Il materiale deve entrare solamente quando c'è richiesta e deve essere lavorato all'istante e subito spedito.» «Signore, ci sono i tempi dell'ordinazione e della consegna: i nostri fornitori non lavorano solo per noi e tutti ormai fanno richiesta soltanto all'ultimo minuto, quando hanno ordini in vista.» Fece notare un uomo calvo dal vestito cinerino. «Ma se il materiale non è presente al momento della richiesta e i tempi d'attesa per il ricevimento della merce s'allungano troppo, il c liente può annullare l'ordine, con conseguente perdita di guadagno e immagine. Inoltre…» «Cazzate.» Tagliò corto il dirigente. «Il guadagno si fa abbattendo i costi e tagliando le spese. Qui è presente uno spreco inutile. Accidenti a voi e ai vostri master universitari. Rovinate l'economia. Ai miei tempi si facevano soldi senza le vostre psicostronzate d'alta finanza. Ma su tale questione torneremo dopo. Continuate.» «E' un intervento ingente.» Prese parola un uomo brizzolato in abito e cravatta neri. «Tuttavia necessario. La messa a norma degli impianti non può più essere rimandata. Sia per l'ottimale funzionamento dei macchinari, sia per la sicurezza dei lavoratori. Negli ultimi tre mesi è già il secondo corto circuito sulla linea elettrica: è un caso che non ci siano ancora stati incidenti.» «Sciocchezze. E' andato bene per vent'anni e ancora sarà così.» Il dirigente sbatté la mano sul tavolo. «Potrebbe non andare più così bene. Qualcuno dei lavoratori potrebbe farsi male e allora sarebbero grane con i sindacati. Il ritorno d'immagine non sarebbe buono.» «Se ne sentono tutti i giorni d'incidenti simili: ormai la gente e l'autorità non ci fanno più nemmeno caso.» Tagliò corto il dirigente. «Stiamo parlando di persone, non di merci.» Fece notare con una certa apprensione l'uomo dal vestito cinerino.

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«Smettila di fare il buon samaritano. Se non sono capaci di badare alla loro salute, allora che crepino: ognuno deve badare ai propri interessi. Il nostro scopo è il profitto, quello per cui lavoriamo e viviamo, quello che ci rende ciò che siamo. Piace anche a te avere uno yoth, vero? Spassartela con la tua famiglia nei mari caldi?» Insinuò sprezzante. «Allora non perderti dietro queste sciocchezze. Investire in quest'opera e nella manutenzione che ne seguirà, significa meno soldi per noi. Denaro buttato via per esagerate leggi sulla sicurezza e per i piagnistei d'operai che non hanno voglia di lavorare; il tutto per avere una buona parola dall'opinione pubblica. Quella gente là non è in pericolo e quindi non verrà sborsato un solo soldo. Respingete la richiesta. La produzione non si deve fermare un solo istante.» «Sei sicuro di quello che fai papà?» Fece notare l'uomo alla sua destra. «Non ti piegare mai alle loro richieste o un giorno te li ritroverai dietro la scrivania a comandare e tu a pulire i cessi.» Lo ammonì il proprietario dell'azienda. «Al sindacato non piacerà.» Fece notare l'uomo dalla giacca azzurra. «Il sindacato non è un problema. Ho pensato a parlarci di persona e ci siamo trovati d'accordo sulla questione: ha buon senso. L'applicazione delle leggi sulla sicurezza non è di vitale importanza, mentre dare lavoro alle persone sì: è questa la tutela primaria. Finché sarà assicurato il posto lavorativo, il sindacato non avrà nulla da dire.» «C'è sempre la questione di quei posti di lavoro.» Ricordò il consigliere più anziano, alludendo alla prospettiva di aprire una procedura di mobilità. «Anche quella risolta. Qualche dipendente è sacrificabile, piuttosto che tutti perdano il lavoro. Il sindacato appoggia la nostra linea.» «Ai lavoratori non piacerà questa notizia.» Disse l'uomo brizzolato. «Certo che no, ma non è affar nostro: dobbiamo pensare alle nostre priorità. Siamo noi che facciamo andare avanti la macchina dell'economia, il motore da cui dipende tutto. Il resto è soltanto carne da macello: utile per assecondare i nostri scopi e nient'altro.» I consiglieri si guardarono l'un l'altro: conoscevano il suo modo di pensare e di fare. L'unica cosa su cui sperare era che non cominciasse con i suoi monologhi esaltati. Arroganza e prepotenza senza limit i. «Quale sarebbe il settore dove fare i tagli?» S'informò il figlio. «Fosse per me li farei in tutti: troppe persone battono la fiacca per i miei gusti. Basterebbero pochi uomini efficienti per avere il rendimento che abbiamo adesso.» Sospirò esasperato. «Dato che però non posso farlo, andremo a compiere tagli nel settore che presenta il maggior numero di dipendenti.» «E' proprio necessario?» Interloquì l'unico che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «No, non lo è.» Ammise sinceramente il dirigente. «Ma effettuando dei tagli potremo mostrare che la ditta sta vivendo un periodo difficile e così ottenere delle sovvenzioni dallo stato. In questo modo avremo un'ulteriore entrata e avremo calato le spese eliminando degli stipendi: la ditta può continuare ad andare avanti anche senza qualche operaio. Intanto però avremo guadagnato qualcosa. Questo è fare affari, signori.» Sentenziò. «Se non avete nulla da aggiungere, la riunione è terminata.» «Questa scelta avrà ripercussioni: non è la prima volta che ci sono scontri tra le due parti: forse sarebbe meglio cercare un'altra via.» «Va bene questa politica.» Tagliò corto il dirigente sulla replica dell'uomo brizzolato. «Se la ditta è andata sempre bene è soltanto per merito mio e delle scelte che ho fatto, anche se impopolari; non c'è nessuno che potrebbe farla andare meglio di me. Mettetevelo bene in mente. E' dovuto tutto a me quello che vedete: è grazie a me se sono stati raggiunti simili profitti. E continuerà a farli, sempre facendo a modo mio. Chiaro?»

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Lentamente i consiglieri sfilarono attraverso la porta, lasciando padre e figlio da soli. «Bene, qual è il prossimo impegno della giornata?» «Per oggi sono conclusi. Rimane solamente la cena di questa sera con quel tuo amico.» Lo informò il figlio scorrendo l'agenda. «Il pomeriggio libero: ogni tanto uno stacco ci vuole. Ne approfitterò per andare a vedere il terreno di quell'appalto. Accompagnami.» I loro passi risuonarono lungo il corridoio del piano superiore del complesso industriale, rompendo l'ovattato silenzio in cui era immerso. «Aspetta un attimo.» Disse il dirigente affacciandosi sulla vetrata della scalinata affacciata sul reparto produttivo. «Come mai i macchinari sono fermi? Perché non vedo il personale?» «Stanno facendo un'assemblea sindacale. L'hanno richiesta la settimana scorsa.» «Un'altra riunione sindacale? Non li pago per perdere tempo in chiacchiere. Dovrebbero lavorare.» Sbottò furioso. «E' già la terza questo mese.» «Probabilmente è dovuta alle voci di riduzione di personale che hanno cominciato a circolare. Non è una cosa tanto segreta.» Fece notare il figlio. «Continuano a perdere tempo; poi non dovrebbero lamentarsi delle conseguenze.» Disse irato. «Lo fanno apposta per danneggiarmi. Ma io li licenzio tutti, così dopo ne avranno del tempo per chiacchierare.» Fece per tornare in ufficio. «Chiamerò i miei consulenti legali: voglio vedere cosa avranno da dire dopo che metà di loro riceverà la lettera di licenziamento.» Fu bloccato a metà della scalinata. «Aspetta. Se vuoi fare come hai detto, scatenerai la loro reazione e saranno dalla ragione. L'opinione pubblica non ci metterà né uno né due per cacciarci in bocca ai leoni: qualsiasi cosa faremo dopo, saremo messi sempre in croce. Non dobbiamo passare per carnefici, ma per vittime Stiamo a guardare e lascia che facciano un passo falso: allora saranno loro i brutti e cattivi, non noi. Dopo, qualsiasi nostra azione sarà giustificata e accettata.» «Va bene.» Disse con riluttanza il padre. «Lasciamoli crogiolare con la loro riunione, nella speranza di ottenere qualcosa: alla fine l'avremo vinta noi. Ora usciamo da qua: vedere questo spettacolo mi dà la nausea.» Nella sala della mensa le persone erano attente nell'ascoltare il sindacalista. Sui tavoli erano sparsi i fogli delle manifestazioni indette dal sindacato, riportanti l'orario e i luoghi di ritrovo per raggiungere le piazze, i punti dove avviare le proteste contro ciò che stava accadendo sui posti di lavoro. «Siamo alla tragedia nazionale dove si muore per colpa del lavoro. Questo succede in un paese la cui forza è fondata proprio su questo principio. Con il lavoro si crea ricchezza, ma, nello stesso tempo, uno rischia di morire ammazzato. E chi muore è sempre il lavoratore che mette a repentaglio la sua vita per sopravvivere. I diritti conquistati dai nostri padri sono stati perduti e calpestati. Anni di sacrifici, ma non è cambiato nulla d’allora, anzi è peggiorata la condizione operaia con le morti bianche. In meno di un quadrimestre le morti bianche hanno superato le mille unità, un dato drammatico di cui il governo e gli industriali avrebbero dovuto farsi carico e, nel contempo, mettere mano a un provvedimento che tutelasse maggiormente i lavoratori. Ma come si è visto, né prima delle tragedie, né dopo, si è voluto prendere atto del macabro fenomeno e affrontare il problema delle morti bianche. Eppure le conquiste avute dagli scioperi, le tutele strappate alla classe dirigente, alla luce dei fatti di quest’ultimo periodo,

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sono state vittorie di Pirro. Per ogni incidente sul lavoro si sono sprecate lacrime di coccodrillo, ma a ben vedere, le istituzioni hanno guardato altrove. Anzi: per lavarsi le mani hanno cancellato il reato d'omicidio colposo a seguito d'infortunio sul lavoro. Ancora più sconcertate, che grida vendetta al cospetto di Dio, è il comportamento della classe dirigente che non si fa viva né con i lavoratori feriti, né con le famiglie degli operai morti. Niente di niente. Solo una difesa d’ufficio, per allontanare ogni responsabilità per le stragi avvenute e puntualizzare che non c’è mai stata nessuna violazione agli standard di sicurezza. Il management aziendale non trova di meglio che emettere comunicati scritti con mano burocratica, dove non esiste autocritica su quanto accaduto e una parola d'umanità nei confronti dei morti e delle loro famiglie. Siamo ancora al padrone delle ferriere, come se non ci fossero mai state le lotte operaie dei decenni passati, costate sangue e sudore. Di chi è la colpa di tutto ciò? Del mercato privo di soggettività e del profitto esasperato che non guarda assolutamente le condizioni operaie in fabbrica. Manutenzione e sicurezza costano e, di conseguenza, dimezzano i profitti, motivo per cui è meglio lasciar perdere. Una buona percentuale dei lavoratori la mattina si alza e va a rischiare la propria vita, spesso per salari bassissimi, lavorando “in nero”, e sempre perché mancano le condizioni di sicurezza adatte a lavorare. Lavorano e muoiono per uno stipendio che non fa arrivare alla fine del mese, costretti ad accettare di fare turni e straordinari massacranti; costretti a sopportare i rischi di un lavoro pericoloso perché è difficile trovarne un altro. Giornali e TV riportano ogni giorno notizie tragiche di lavoratori feriti, più o meno gravemente, o morti sul luogo di lavoro, ma ce ne sono altri che non vengono neanche nominati, che muoiono silenziosamente. I morti sul lavoro gridano vendetta, ed è compito nostro, muovendoci secondo le regole democratiche, dar voce a chi non può più parlare.» «Belle parole. Restano tuttavia soltanto parole.» Intervenne un operaio appena il sindacalista ebbe terminato di leggere. «Ormai non facciamo che sentire altro. I grandi della politica e quelli dell’informazione non fanno che parlarne: i primi non perdono occasione di ribadire che sul lavoro esistono ottime leggi, che purtroppo non vengono rispettate, come se il compito di garantire il rispetto di quelle leggi non fosse deputato a loro; i secondi denunciano la scarsa sicurezza presente sui luoghi di lavoro e si producono in articoli di stampo pietistico, efficaci per rimpinguare la tiratura dei giornali o lo share delle trasmissioni TV, ma totalmente inadeguati per chiunque voglia prendere coscienza dei reali termin i del problema. E i sindacati, molto meno interessati alla sicurezza dei lavoratori di quanto vogliono far credere, indicono solo sporadici scioperi per non creare disagi alla produzione industriale, invece di bloccare le ditte per giorni, costringendo le persone preposte a trovare una soluzione che metta fine a questo massacro.» «Il sindacato fa quanto è possibile. Ed è dalla parte dei lavoratori.» Precisò il sindacalista mettendosi sulla difensiva «Davvero? Dovresti dirlo al tuo collega.» L'irrise l'operaio. «Fa sempre gli accordi a favore della dirigenza. Oltre ad avere la possibilità di avere il capannone come parcheggio per il suo camper: così gli agenti atmosferici non lo rovinano. Un chiaro segnale che dà la dirigenza per fare capire da che parte è il sindacato.» «L'integrità del mio collega non è in discussione: ha sempre fatto ottimi accordi per i lavoratori. Puoi chiedere a loro.» Ci tenne a precisare il rappresentante dell'organizzazione dei lavoratori.

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«In altre ditte forse è stato così» l'operaio concesse il beneficio del dubbio «ma qui no. E' un ruffiano e non c'è stata una volta che abbia preso le nostre parti: sempre conciliante, di belle parole, ma alla fine i risultati sono sempre a favore di chi stava ai piani alti.» «Ricordo che siamo qui per parlare delle morti bianche e delle azioni che vuole intraprendere il sindacato, non le rimostranze sull'operato di qualche collega.» Il sindacalista cercò di far tornare la questione sul tema della riunione. «Sta bene. Ma un giorno si dovrà rendere conto anche di questo.» Tenne a chiarire il dipendente. «Ora ascoltami bene: per risolvere questa situazione occorrono fatti, non parole. O diverremo come quelli là» disse indicando la dirigenza «che ogni giorno indicono due o tre riunioni per rendere più efficiente la produttività, ma che in realtà non fanno altro che far perdere tempo e basta. Le statistiche parlano di migliaia di morti durante l'attività lavorativa ogni anno, ma dimenticano i molti pendolari che ogni giorno perdono la vita in incidenti stradali mentre si recano sul posto di lavoro o tornano a casa alla fine della giornata, così come dimenticano tutti coloro che per necessità guidano un automezzo e giornalmente trovano la morte sulla strada. Identica sorte subiscono coloro che ogni anno muoiono per malattie “professionali” contratte mentre fanno il loro dovere. E la maggior parte di loro non viene ricordata nemmeno in un trafiletto di giornale. Neppure una misera, patetica parola. Tutti accusano la sfortuna, i sistemi non a norma, ma la realtà è che il mondo del lavoro è diventato una giungla piena di trappole, dove il rispetto per la vita umana e la dignità della persona sono stati immolati sull’altare della produttività e della competizione. Basta guardare come ogni giorno ci umiliano e c'insultano, guardandoci dall'alto in basso. Ci sfruttano, ogni momento ci tolgono qualcosa ed è sempre qualcosa di più. Sono loro gli assassini, dato che vogliono questo. Ci spremono fino all'osso per potersi togliere i loro sfizi: avere cinque macchine o uno yoth dove portare adolescenti formose in succinti costumi per potersi divertire e stimare ai festini a base di champagne e coca.» «Ognuno fa quello che vuole della propria vita privata: non dobbiamo immischiarcene.» Tentò di riprendere parola il sindacalista. «Invece è affar nostro. Noi per loro moriamo: è un dato di fatto ben presente nella nostra esistenza. Le promesse della classe politica e la falsa indignazione del mondo sindacale sono solamente atteggiamenti retorici che durano un battito di ciglia. Il giorno dopo la scomparsa di un lavoratore non pensano più alle morti bianche, ma noi continuiamo ad andare a lavorare con il pensiero che ogni momento potrebbe essere l'ultimo. E se devo essere sincero, a me non va per niente giù di andare all'altro mondo senza motivo. Ci andrò quando sarà giunto il mio momento, non per colpa di un altro.» «Io suggerirei di calmare gli animi e moderare le parole.» Fu il debole tentativo del sindacalista di placare il lavoratore. «Sempre moderazione, mai che si abbia il coraggio di schierarsi apertamente. Il mondo del lavoro è un teatro di guerra altamente disumanizzato, con le persone ridotte a utensili, esistenze cosificate costrette a rincorrere la speranza di sopravvivere, anche quando in fondo a quella speranza c’è il concreto rischio di trovare la morte. Una guerra senza regole, senza senso e senza futuro, combattuta nel nome della produttività e della competizione sfrenata, dove tutti i soldati sono irrimediabilmente destinati a perdere, mentre a vincere sono soltanto i pochi burattinai che attraverso questa guerra costruiscono immensi profitti. E poco importa a loro se si tratta di profitti realizzati attraverso l’alienazione della vita umana. Perché l'importante è accumulare denaro. Te lo devo spiegare ancora una volta?» Lo irretì in tono più deciso. «E' ora di dire basta con l'essere trattati come carne da macello. E' tempo di agire e non più subire. Allora, cosa rispondi? Qualche proposta concreta?»

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«Il direttivo sindacale non ha ancora discusso azioni del genere.» Bofonchiò il sindacalista, abituato a essere l'oratore e non l'ascoltatore. «Quindi le cose rimarranno come il solito; se vogliamo ottenere qualcosa dobbiamo essere noi ad avere delle iniziative. La riunione d'oggi può considerarsi terminata a questo punto. E ormai è anche ora di andare a casa.» Concluse l'uomo dai capelli a punta alzandosi in piedi e dando le spalle al sindacalista. «Per fortuna che oggi è venerdì, ragazzi. Ci vediamo domenica al battesimo del figlio di Nicola.» I lavoratori si sparpagliarono lungo i corridoi, diretti alle uscite. «Ehi Alphons, non ci vai mai leggero, vero?» Disse una ragazza dai capelli rossi. «Patti chiari, amicizia lunga. Odio l'ipocrisia e le melensaggini.» L'uomo dai capelli a punta si voltò guardare la collega. «Sei sempre eccessivo. Efficace, ma un po’ prolisso. Un po’ come il nostro prete.» «Piano: io non ti ho offeso.» La riprese cercando di avere un tono severo. Ma i suoi occhi tradivano un certo divertimento. «Va bene, scusa. Speriamo solo che domenica non la tenga lunga come il solito.» «Figurati: avendo un battesimo, punterà a farla durare due ore.» «Due ore? Ma sei matto?» «Non sarebbe la prima volta.» «Speriamo bene allora. Non vogliono andare a pranzo alle due.» «Possiamo solamente affidarci alla bontà celeste.» Disse serafico e congiungendo le mani in atto di preghiera. «Smettila di fare l'asino. Alle volte sembri un miscredente e non un fedele.» «Non sono mai stato un uomo di fede. Almeno non secondo i canoni convenzionali.» Tenne a precisare Alphons. «Su, su: per una domenica cerca di fare il bravo.» Lo incitò la ragazza. «Farò il possibile.» Disse senza sbilanciarsi. «Passi a prendermi?» Domandò sistemando un attrezzo mentre passavano vicini alla postazione di lavoro. «Ok. E ricordati il regalo.» «No problem. Gli ho preso un completino che è una favola. A domenica, sovversivo.» »Rise divertita. «A domenica.» Rispose Alphons di rimando. Ultimo ad andarsene, attraversò con calma le scansie dove ora regnava uno strano immobilismo e ogni rumore risuonava vuoto. Non sembrava neanche la ditta dove solo pochi attimi prima il lavoro avanzava a ritmo costante; come se da tempo non venisse più nessuno, abbandonata e dimenticata. Una cosa morta che a stento riportava memoria di ciò che era stato vivo. Chissà, forse si doveva sentire così anche il protagonista del libro che stava leggendo, l'unico essere umano rimasto sulla faccia della terra. Che sensazione estraniante e di gran completezza: il vuoto che sentiva sembrava riempirlo e dargli un senso di pace. Sarebbe stato bello se potesse essere sempre così. Peccato che momenti simili durassero così poco; alle volte era desiderabile che non ci fosse nessuno. Sì, l'idea di un mondo senza uomini non era male: sarebbe stato un posto migliore. Scosse il capo. Che idea visionaria. Forse era dovuta alla stanchezza e a un poco di stress; una serata di relax, un week-end tranquillo, avrebbero cancellato grigi pensieri.

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Eppure la sensazione non sembrava volersene andare. "Prendiamo quel che verrà." Pensò osservando le scansie piene. Il suono del tacco degli anfibi si perse nel magazzino sempre più buio. «E così avete passato la serata al casinò.» Rise l'imprenditore con un bicchiere di brandy in mano. La brezza soffiava lieve sulla veranda spaziosa, scotendo le foglie dei viticci. «Sì, è stato divertente. Peccato non esserne uscito vincitore. Poco male: il mio avversario è stato un signore. Ha liquidato la mia perdita chiedendo la proprietà di una piccola impresa che possiedo e che lavora come terzista per quelle più grosse. Gli serviva una piccola ditta da fare andare male e poi chiudere per coprire certi ammanchi finanziari. Non solo così riuscirà a non attirare l'attenzione della finanza, ma avrà anche degli aiuti dallo stato per il suo stato di difficoltà. Un doppio guadagno.» Disse ammirato il suo compagno di bevute. «Siete due bei bastardi.» L'imprenditore trangugiò il liquido ambrato, assaporandolo con calma, lasciandolo scendere lentamente nella gola. «Come tutti noi.» L'amico alzò la sua coppa di cristallo dal tavolo e se la portò alla bocca. «Questi sono gli affari. E poi la cosa non è grave: a chi vuoi che importi se qualche operaio rimane a spasso? E' cosa normale di questi tempi: sopravvivranno. Nel nostro paese non ce n'è ancora uno che è morto di fame.» «Ma alla fine rimane il fatto che hai perso.» Lo punzecchiò l'altro. «Mi sono rifatto con le tipe gentilmente offerte dal caro amico in vena di festeggiare. Delle belle orientali che mi hanno fatto passare una piacevole notte. Le asiatiche sono davvero eccellenti: per le loro prestazioni meriterebbero molto di più. Ma se si riesce a ottenere della buona merce a basso costo, tanto meglio. Non è vero?» «Già, dev'essere deformazione professionale.» S'unì l'imprenditore alla risata. «Avresti dovuto esserci anche tu. Ti saresti divertito.» Aggiunse con un sorriso sornione l'amico. «A una certa età ci si deve dare una calmata. Non si hanno più vent'anni. E poi lo sai che ho già il mio giro.» Ammise con finta umiltà. «Si, certo, certo.» Sogghignò divertito l'altro. «Non mi credi? Dovresti chiederlo al muratore che è venuto a farmi dei lavori. Sai come mi chiama?» Si sporse in avanti ammiccante. «Il ginecologo.» «Il ginecologo?» Sghignazzò l'amico rischiando di versare il contenuto del bicchiere. «Sì, perché a tutte le donne faccio una visita. E che visita.» «Questa è bella davvero.» Poggiò il calice prima si scompisciarsi dal ridere. «Il ginecologo che fa la visita. Forte il tuo muratore: dev'essere uno con della testa.» «Al contrario: non capisce niente ed è pure analfabeta. Un individuo mellifluo e strisciante, arrivista e approfittatore.» Ammiccò l'industriale insinuante. «Mi fa schifo solo a vederlo, sempre con la barba lunga e gli abiti sporchi, la camminata strafottente, ma è utile, molto utile: lo mando a fare dei lavoretti di manutenzione in ditta e lui ascolta i discorsi dei dipendenti e me li riferisce per filo e per segno. Alle volte sgraffigna qualcosa, ma data l'entità di certe informazioni che mi riporta, chiudo un occhio. Al massimo posso dare la colpa a qualcuno del reparto produttivo.» Sorrise furbescamente. «Il tipo di persona che fa tanto comodo a noi.» L'amico si ricompose mantenendo un sorriso d'intesa. I bicchieri t intinnarono per un brindisi e le loro risa risuonarono sopra la baia.

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Il canto gregoriano risuonò tra le volte affrescate, potente e armonico. «Ma non potrebbero saltare qualche strofa? E' da quasi cinque minuti che vanno avanti.» Protestò la ragazza portando la bocca vicino all'orecchio dell'accompagnatore per farsi sentire. L'uomo reclinò il capo per risponderle. «Ora capisci perché si dice che è lunga come la messa cantata.» «E non siamo neanche a metà.» Sospirò sconsolata mentre vedeva il prete avviarsi all'ambone per leggere il brano del Vangelo. «Speriamo non la tenga lunga.» «Lasciate ogni speranza, o voi che entrate.» Sussurrò l'uomo con voce tombale, mentre dagli altoparlanti negli angoli uscivano le parole delle sacre scritture. «Non siamo mica all'inferno.» Sghignazzò sottovoce Judith nascondendo il sorriso dietro il foglietto delle letture. «Però il tormento è uguale.» Disse Alphons in tono serio, rimettendosi a sedere sulla panca dopo che la lettura fu terminata. «Adesso comincia. Mai una volta che cambino brani, sono sempre gli stessi: prendono quelle che gli fanno più comodo e omettono quelli più scomodi. Così traviano il significato dei testi, che è differente da quello che vogliono far credere. Ma si sa, credo religioso e libro sacro vanno sempre in direzioni contrapposte.» «La lettura d'oggi, che ci mostra Pietro prendere un pesce e trovarvi una moneta d'argento, mostra un esempio da seguire. Anche il Figlio di Dio si sottomette all'autorità civile, riconoscendola come parte importante della società, pagando le tasse come tutti. Ogni buon credente deve fare così, sottomettendosi docilmente come ha fatto nostro Signore. L'uomo è stato generato per obbedire e restare sottomesso, come umile e immeritevole creatura, vivendo una vita morigerata, procreando e lavorando, perché il lavoro nobilita l'uomo.» «Avrei preferito che si fosse soffermato sul copulare.» Mormorò Alphons. Judith gli piantò un gomito nel fianco. «L'essere umano è fatto per faticare e lavorare ed è un peccato mortale scioperare e restare con le braccia conserte quando c'è tanto da fare. Un insulto nei confronti di chi lo sfama, quando invece ogni giorno su questa terra dovrebbe ringraziare per il gran dono che gli viene dato e per la generosità di persone di comprovato spessore morale e umano.» «Hai sentito?» Gli fece Judith. «Oltre alla messa lunga, anche l'omelia politica dovevamo sorbirci. Fortuna che il sacerdozio dovrebbero imporgli d'occuparsi solo di spiritualità: invece fa di tutto, tranne quello che conta. Sempre i soliti tentativi per condizionare la gente e farla sottostare al potere. Per giunta non è nemmeno l'unico a comportarsi in questa maniera: ormai è chiaro che istituzione religiosa e potere economico e politico vanno a braccetto. Ogni occasione è buona per inculcare il pensiero dominante. Ci vogliono lobotomizzare, rendere degli ebeti che non pensano, contenti di farsi sfruttare. E pensare che quello lassù» indicò con un cenno del capo il crocefisso che pendeva dalla volta sopra l'altare «s'è fatto mettere in croce perché imparassimo un messaggio di libertà da ogni condizionamento, per renderci veramente uomini.» Scosse il capo. «Il messaggio lasciato non è stato capito: lo hanno fatto diventare una religione dei grandi numeri, basata sulla maggioranza e sul potere.» «E ora cari fratelli, alziamoci in piedi e preghiamo insieme, obbedienti e fedeli alla sua parola.» Il sacerdote esortò l'assemblea. «Sì, buoni e tranquilli perché le cose restino come sono, per rispettare gli ordini costituiti, perché non farlo sarebbe peccato. Peccato peccato.» Sussurrò Alphons con fare ossequioso.

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«Sssst, piantala: stanno leggendo i nostri amici.» Ascoltarono le preghiere scritte per i genitori e il bambino appena nato, prima che il prete riprendesse la parola. «Perché viviamo sempre in comunione fraterna e gli incresciosi eventi di questi ultimi giorni cessino per non più tornare. Dobbiamo vivere in armonia tra noi come fratelli, non come dei sovversivi spinti da moti egoistici, ma affidandoci umilmente alle nostre guide, come le spose fanno con i marit i. Dobbiamo essere mogli fedeli che si fanno guidare da chi è più saggio e decidono per il nostro meglio.» «Forse voleva dire per il suo e di quello dei suoi amici potenti.» Disse risentito Alphons. «Smettila di fare il sovversivo.» Ridacchiò l'amica. «E comincia a pensare a fare la donna.» «Molto divertente, ma non c'è nulla da ridere. Sappiamo tutti che colluso in affari lucrosi e come non abbia esitato a far mettere per strada delle famiglie in difficoltà per favorire gli interessi dei suoi amici: tutto per poi avere dei favori. Come pensi che abbia potuto ristrutturare la chiesa e la canonica in quella maniera? Sai quanti soldi occorrevano? Di certo non ha pagato i lavori con le offerte della messa della domenica.» «Lascia perdere. Tanto non puoi farci niente.» «Non mi va neppure di farmi prendere in giro. Guarda la gente. Una massa di pecoroni che non sa nemmeno cosa sta qua a fare, se non perdere tempo, credendosi cristiana quando di cristiano non ha nulla. Sono solo dei farisei. Lui in testa.» Indicò al prete. «Attaccati alla tradizione e ai cerimoniali: conta solo quello. Della gente, dei loro stati d'animo, dei loro problemi, non gliene può importare di meno: conta solo che la chiesa sia piena. Il cristiano dovrebbe essere colui che ama: invece nel nostro tempo il cristiano è colui che ha paura, che rimane nell'immobilismo, timoroso del confronto e del cambiamento. Cose morte.» Sentenziò duramente. «Cerca di non essere così severo.» Gli scoccò un'occhiata accigliata. «Il perbenismo di facciata lo lascio agli ipocriti. La verità è questa. Niente di quello che ascoltano, e tanto meno leggono, li cambia. Anzi, non leggono affatto per non perdere certezze che si sono fatti inculcare da una vita, affidandosi alle parole di altri che credono istruiti e quindi in grado di trasmettere loro qualcosa. Naturalmente non succede mai niente e hanno sempre i soliti difetti e mancanze. E come potrebbe, dato che chi li dovrebbe aiutare a cambiare mentalità, li strumentalizza e li usa solo per i suoi fini egoistici? Sanno solo parlare di cerimoniale e testi antichi.» «Questa è la religione.» Gli fece notare Judith. «Questa è politica: tante parole per dire niente o peggio. Ed è sbagliato, tremendamente sbagliato; non si deve mai adeguarsi a una mentalità simile, bisogna tenerla sempre estranea, se non si vuole che faccia danni.» «Calmati.» Judith gli fece segno di abbassare la voce. «E' sempre stato così.» «Ed è sempre stato sbagliato. La gente teme a giudicare perché ha paura di essere giudicata. Ma questa mentalità, che altro non è che malattia, è fondata sulla menzogna e sulla paura e adeguarvisi significa mentire a se stessi, restare nell'oscurità dell'ottusità e dell'ignoranza per non vedere ciò che non và. Non giudicarlo significa esserne complice e vittima. Non è la via della spiritualità. Se vuoi essere religioso trova da solo la tua strada e non seguire la massa. Ma la verità è che nessuno vuole fare questo sforzo, si desidera seguire capi e guide religiose per non essere responsabili, divenendo soltanto un numero per aumentare il loro ego.» «Dove vai?» Judith alzò lo sguardo nel vederlo muoversi. «Fuori. Non sono costretto a sentire discorsi da fariseo.»

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Judith vide la figura avvolta nel lungo giubbotto farsi largo tra la gente in piedi e uscire dalla chiesa nella giornata nebbiosa. Era la prima volta che lo sentiva parlare con quel tono e non le faceva presagire nulla di buono.

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III. Mobilità e mobilitazione. Il lieve bussare risuonò nel corridoio. «Cosa c'è?» Giunse la domanda seccata da oltre la porta. La segretaria entrò nell'ufficio. «I rappresentanti sindacali sono arrivati. Stanno aspettando di essere ricevuti.» «Sapete che non li voglio vedere.» Strepitò furioso il dirigente. «Mandateli fuori di qua, prima che li prenda a calci nel culo.» Minacciò sbattendo i pugni sul tavolo. «Voglio sapere chi è quel deficiente che li ha fatti venire.» «Vuole che lo scopra?» Chiese titubante la donna. «Non ci vuole tanto a capirlo.» Grugnì spazientito. «Torni a fare il suo lavoro e mi mandi il responsabile della produzione. Subito.» Neanche cinque minuti dopo sulla porta risuonarono i colpi di chi chiedeva il permesso di entrare. «Mi ha mandato a chiamare?» Domandò nervosamente un uomo sulla cinquantina facendo capolino sull'uscio. «Proprio lei. E non rimanga lì imbambolato.» Sbottò con malgarbo il dirigente. «Non vorrà che tutti sentano quello che ho da dirle; se volevo questo avrei usato il megafono.» «Mi scusi.» L'ometto dal volto pieno e paffuto richiuse delicatamente la porta. «Allora, mi vuol spiegare che cosa sta succedendo di sotto?» Lo affrontò a muso duro senza nemmeno dargli il tempo di sedersi. «Non capisco.» Il responsabile della produzione girò nervosamente una biro tra le mani. «Dove ha la testa?» Gli urlò contro. «Non vede che abbiamo sempre i sindacati che ci mettono i bastoni tra le ruote, fomentati da quel branco di fetenti là sotto?» Sbatté il pugno sul tavolo. «Ci fanno perdere tempo e soprattutto soldi. Se si continua di questo passo, vi sbatto tutti a casa, lei in primis: voglio vedere con il mercato attuale come farà a trovare un altro lavoro a cinquant'anni, considerando che non è capace di fare niente. Non troverà più un altro lavoro come questo; anzi, non ne troverà più uno. Questo glielo garantisco.» Sorrise compiaciuto nel vedere il suo volto sbiancare. «Vuole che mandi via i sindacati?» S'offerse subito l'ometto. «A questo ci ha già pensato la mia segretaria. Veda di rendersi utile in un altro modo.» Sbottò di nuovo il dirigente. «E cosa dovrei fare?» Chiese servizievole il responsabile di reparto. «Le devo sempre dire tutto? E' davvero un incompetente.» Disse con sdegno, tamburellando le dita sulla superficie della scrivania. «Senta, i suoi sottoposti non fanno che causare problemi.» Disse in tono duro. «Lei deve far pesare la sua autorità. Cosa le serve essere il responsabile, se poi non riesce a tenere a bada quel branco di schifosi? Per farsi rispettare deve trattare male la gente. Ha capito? La deve fare schiattare, sgobbare: non deve far altro che lavorare. Prenda provvedimenti o io li prenderò su di lei.» Liquidò la discussione con un gesto secco della mano. Il responsabile tornò nel suo ufficio, masticando nervosamente la biro che aveva messo in bocca. Prese il microfono e spinse il tasto per la comunicazione. «Tutti i lavoratori sono convocati in officina.» Fu il breve comunicato che profusero gli altoparlanti.

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Dieci minuti dopo i lavoratori gli erano davanti, disposti a semicerchio a guardarsi con espressioni di perplessa curiosità. «Chi di voi ha chiamato il sindacato all'interno dell'azienda?» Esordì senza preamboli. «Sapete che il dirigente non lo vuole, ma sembra che non vogliate fate altro che mandarlo su tutte le furie. Lo sapete che se una di queste volte perde la pazienza chiuderà la ditta e sbatterà tutti a casa.» «Non lo farà, stai sereno.» Lo tranquillizzò un omone dal camice blu sporco d'olio. «Guadagna troppo con questa ditta per chiuderla.» «Dovreste prendere più sul serio certe affermazioni: è un uomo che mantiene quello che dice.» Il responsabile alzò il d ito minaccioso. «Certo, certo. Intanto sono quattro anni che va avanti con queste minacce e non ha ancora fatto niente.» Sottolineò l'omone. «Potrebbe essere la volta buona: è molto deciso.» S'impuntò il responsabile. «Adesso basta con le vostre fandonie sui diritti. Dovete lavorare e basta. Smettetela di provocarlo o davvero lo metterà a tutti in quel posto.» «Sempre la solita storia.» Borbottò un'operaia dai capelli ricci. «E' terrorizzato da quell'uomo, ne è succube. Fa sempre quello che gli dice.» «Anche.» Asserì Alphons alle sue spalle. «Ma denota pure omosessualità e sodomia latente.» «Eh?» La donna lo guardò stranita. «Sì, ripete sempre che vuole farci avere dei rapporti contro natura: è sintomo di una volontà inconscia di essere sodomizzato dal fallo del padrone. Soffre di un complesso d'inferiorità e di schiavitù, con un senso di sadomasochismo: non si spiegherebbe in altro modo il fatto che si faccia insultare continuamente. Altri al suo posto avrebbero già appeso al muro quel maledetto industriale.» Alzò le spalle. «Se gli piace fare il gioco del trenino, faccia pure; l'importante è che non pretenda che anche gli altri calino le braghe.» «Ma tu dovevi fare lo psicanalista. Non è che per caso hai studiato psicologia?» La donna aveva gli occhi sbarrati. «No, conosco i pavidi servilisti e i deboli.» Rispose Alphons senza distogliere l'attenzione dal caporeparto. «Dovete piantarla con questi comportamenti o una di queste volte prenderà seri provvedimenti e la pagheremo cara.» Stava continuando il responsabile con i suoi moniti. «Ma smettila.» Lo rimbeccò Alphons stanco dei suoi sproloqui. «Guarda che lo fa davvero.» Lo redarguì serio il superiore. «Non è mica Dio.» Lo derise l'uomo. Il responsabile s'avvicinò con piglio deciso, alzando il dito contro la faccia del lavoratore. «Te lo dimostro io, se non è Dio!» La frangia di capelli bianchi gli finì sugli occhi. «Ridicolo.» Alphons non si scompose di fronte agli occhi spiritati dell'a ltro. «Un giorno pagherai per quello che fai. Andrò a riferire il tuo comportamento!» Urlò l'ometto divenendo paonazzo. «Fai pure.» Alphons lo guardò senza scomporsi. «Ti farò pentire di questa tua sicurezza. A questo però penserò dopo.» Sbraitò il responsabile in modo incontrollato. «Ora devo occuparmi di un'altra questione. Dobbiamo decidere quando andrete in ferie.» «Le abbiamo appena fatte.» Fece notare Judith. «Dovete finire i giorni che vi rimangono.» Asserì il caporeparto rimettendosi la biro in bocca.

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«Perché?» Chiese un altro operaio. «Sono un costo per l'azienda.» Sentenziò deciso il caporeparto masticando il tappo della biro. «E allora? Sta a noi decidere quando usarle.» Rispose risentita Judith. «Il dirigente esige che vadano a zero.» Disse categorico l'ometto. «Le useremo quando ne avremo bisogno.» Protestò una ragazza dai capelli biondi. Il caporeparto batté un piede a terra. «I vostri bisogni non contano. Conta solo la volontà della ditta.» «Vuole per caso sbattere sulla strada qualcuno?» Chiese Alphons. «Non è raro attuare questo tipo di procedura prima di mettere a casa delle persone. Altre ditte hanno già attuato questa scelta. Il fatto che parli di eliminare quei costi dall'azienda, significa che stiamo per avvicinarci a una mobilità, con conseguente riduzione del personale. E tu vorresti assecondarlo. Complimenti.» Aggiunse serafico. «Lui non deve rendere conto delle sue scelte e voi dovete fare quello che dice. Lui ordina, comanda, impera!» I capelli bianchi del caporeparto gli finirono sugli occhi mentre strepitava. «Non credo proprio. C'è una cosa che abbiamo e si chiama d iritti.» Lo redarguì Alphons. «Sei cane, figlio di un cane bastardo: devi piantarla con queste storie.» Sputò velenoso il suo superiore. «Maledetto d'un cane, tu e i maledetti libri che leggi. Cagnaccio schifoso!» «Attento che in questo cane scorre sangue di lupo. E potrebbe azzannare.» Il tono di Alphons fu pacato, ma raggelante. «Come osi…» «Senti, questo modo di fare ha stufato. Il suo e il tuo. Sei soltanto un servilista. La vita è tua e rovinala come vuoi, ma tieni a mente una cosa: per me essere in guerra o in pace con le persone non fa alcuna differenza.» Lo ammonì severamente. «Le mie ferie le gestisco io, non lui. Riferisci pure le mie esatte parole, cane da riporto.» «Tornate al lavoro!» Il responsabile girò i tacchi, tornando nell'uffic io e sbattendo la porta. «Sei stato troppo duro con lui.» Disse Judith mentre ritornavano alla postazione d'assemblaggio, interdetta dallo scontro appena avvenuto. «Lo sai che è terrorizzato dal dirigente. E poi ha una certa età: se perde il posto diffic ilmente ne troverà un altro.» «Questo lo capisco e non lo rimprovero per ciò. E' per il rispetto che costantemente calpesta e per il volere che tutti si comportino come lui, che applico la tolleranza zero. Se già adesso che sono giovane, nell'età degli ideali, mi vendo e mi prostituisco, cosa farò quando avrò i suoi anni?» Le domandò severo. «La dignità non ha prezzo e va difesa a ogni costo contro tutto e tutti.» «Potresti però trovare un altro modo di dirlo.» Suggerì l'amica. «Ho provato, ma la gente fa finta di niente. Ti ascolta, sorride e subito dopo se n'è già dimenticata. Per farglielo sentire devi scuoterla, colpirla nel vivo, tirare fuori quella parte di sé che meno accetta e sbattergliela in faccia. Costringendo a farle vedere ciò che non vuole, attiri il suo risentimento, perché non fa piacere trovarsi di fronte le proprie mancanze, ma almeno la smuovi, la svegli per qualche istante.» «Ma è brutale e traumatizzante così.» Protestò non molto convinta. «Vero. Sarebbe bello se la gente imparasse le cose semplicemente ragionandoci sopra; purtroppo deve sempre apprenderle nel peggiore dei modi. Molto spesso le persone evitano di parlare per non causare guai e per paura delle ripercussioni, alle volte per non offendere la sensibilità altrui. E' un errore farsi fermare da simili scrupoli; uno sbaglio che si protrae da generazione a generazione e che deve essere cambiato. A ogni costo.» Sentenziò

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Alphons. «Se come faccio è l'unico modo perché le persone non facciano del male a chi gli sta accanto, allora che così sia. Gli uomini non sono liberi di fare tutto quello che vogliono: la loro libertà finisce dove inizia quella altrui. E se non sono in grado di capirlo da soli, allora occorre che qualcuno glielo insegni.» Judith rabbrividì. Alle volte Alphons incuteva un certo timore: quando parlava in quella maniera nei suoi occhi compariva una strana luce. Non la meravigliava che alcuni dei suoi colleghi si tenessero alla larga da lui: se non lo conoscesse bene da anni, avrebbe creduto che sarebbe stato in grado di fare di tutto per quello in cui credeva. Nella sala ricreativa era assemblato un folto drappello di persone. Confabulavano frenetiche con toni ansiosi e spaventati, lanciando continue occhiate alla bacheca. Il cicaleccio durò diversi minuti prima che il raggruppamento si disperdesse in direzione degli uffici. Con il suo the caldo in mano, Alphons rimase a scrutare il foglio appeso in bella mostra. «Alla fine lo ha fatto davvero.» Judith gli avvicinò. «Le voci circolavano da due settimane, ma si credeva che stesse facendo il solito terrorismo. Invece pare che abbia già contattato il suo legale.» «Questo non significa che sia già finita.» Disse Alphnos senza distogliere lo sguardo dal foglio di poche righe. «Non è detto che debba andare come vuole lui. Basta impedirglielo con degli scioperi.» «Non sarà facile: un conto è manifestare per rinnovi del contratto o proteste politiche, un altro sapere che non si potrà più avere un'occupazione in ditta. La gente ha paura di perdere il posto e dato che non ci sono ancora nomi, non vuole esporsi per poi rimetterci, timorosa delle ripercussioni.» Gli fece notare la ragazza. «Astuto. Vuole rompere il fronte e indebolirci, metterci uno contro l'altro, puntando sulla paura di rimanere disoccupati per rendere la sua strategia più efficace. Poche righe per ottenere il massimo risultato.» "A seguito del periodo di crisi e della mancata possibilità di ridurre i costi e le spese, la ditta è costretta a compiere una riduzione del personale. La Direzione" Le parole del foglio gli scorsero nuovamente sotto gli occhi. «Quante balle.» Sbottò schifato. «Non è finita qui. Tra la gente circola voce che tutto sia stato causato da chi ha rifiutato di finire le proprie ferie.» Aggiunse Judith, preoccupata dalla piega che stavano prendendo gli eventi. «Ottima strumentalizzazione. E la gente ci crede. Tutto questo solamente perché i profitti, nonostante fossero buoni, non hanno superato quelli dell'anno scorso e di conseguenza il trend non è positivo; il mercato si sta saturando, pertanto non può esserci un'ascesa continua nel diagramma dei bilanci.» Scosse il capo. «I lavoratori, presi dal loro egoismo, sono così accecati da non riuscire a cogliere l'evidenza di tali fatti e vogliono avere un capro espiatorio su cui scaricare la frustrazione e l'incapacità di difendere i propri diritti.» «Questo non interessa. La gente ha paura e farà di tutto per non rimetterci il posto di lavoro, anche fare la pelle ai propri colleghi. Si rifaranno anche su di te, se questo gli eviterà di perdere il guadagno mensile.» Lo ammonì Judith, riferendosi al fatto che sempre si era battuto contro il mal operato della ditta.

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«La cosa non mi tocca. Si rovineranno la vita da soli, se sono così stupidi. Ma così facendo faranno il gioco della ditta e ci rimetteranno per primi. Occorrerà farg lielo capire, prima che se ne accorgano troppo tardi.» «Stai attento. Già non mancano le liti con quelli che si sono apposti al consumo di ferie. Non so se avranno voglia di dialogare pacificamente.» «E che cosa possono farmi? Urlarmi in faccia?» Alphons scrollò le spalle. «Vi fate impressionare con poco. Se li tratti con indifferenza, mostrando che non ci si fa impressionare, si calmeranno e saranno costretti a cambiare comportamento; allora si potrà ragionare. Ma se si reagisce, li sia autorizza a fare peggio. Non dobbiamo metterci a lottare tra noi, sarebbe una guerra tra poveri, dove chi ne beneficia è il proprietario: indebolito il fronte operaio rompendo l'unità, si perde l'unica arma in grado di contrastarlo, perché singolarmente gli operai non possono nulla contro di lui.» «Ma gli altri lo capiranno?» Fece dubbiosa Judith. «Dovranno, se non vogliono perdere davvero il posto.» Alphons girò i tacchi e tornò nel suo ufficio. Aveva del lavoro da fare prima di indire la prossima riunione. La porta della sala mensa s'aprì di scatto, interrompendo la riunione che andava avanti a ruota libera da venti minuti. Dopo i primi alterchi, gli animi si erano placati e si erano cominciate a esporre le ragioni personali in un clima civile di confronto. «E' arrivato il rappresentante legale della ditta: pomeriggio cominceranno i colloqui personali.» Annunciò il responsabile della produzione, facendo fatica a celare un certo disagio. «Questo pomeriggio? Così presto?» Sbottò scioccata un'operaia dai capelli ricci. «Non può farlo. Non prima di averne discusso con il sindacato.» Replicò il suo vicino. «E' nei suoi diritti.» Disse il sindacalista. «Può fare la mobilità anche senza l'accordo con il sindacato, nonostante questo risulterà essere più costoso. E' consuetudine che il sindacato intervenga, ma non è prassi che sia sempre così.» L'atmosfera nella sala si raggelò. Negli occhi dei presenti era comparsa la paura di essere chiamati. Sembrava di vedere dei condannati che andavano al patibolo: se ne stavano fermi, le pupille dilatate, nell'attesa che il colpo calasse. "Basta davvero un niente a ridurre la gente in uno stato miserevole." Costatò Alphons. Un vero calcolatore e approfittatore, il dirigente: uno squalo del mondo economico. E non poteva essere altrimenti se era arrivato a quel punto. «Perderemo il posto di lavoro. E dopo cosa faremo?» Si lamentò un operaio delle prime file. Quello che tutti temevano: il tran tran era stato scosso e ora si prospettava solo l'incertezza. «Da quello che vi sento dire sembriamo spacciati, è come se già avesse licenziato. Lui può farvi convocare, ma nessuno vi costringe ad accettare le sue condizioni. Si può rifiutare.» Cercò di calmare gli animi Alphons. «Ma lui vuole che ce ne andiamo.» Disse una donna in tono da mendicante. «Lui non è Dio.» Alphons calcò con forza su queste parole. «Non è che tutto quello che vuole si debba realizzare, soltanto perché è lui a desiderarlo. Non dobbiamo accettare ogni suo capriccio come legge unica e indissolubile.» «Ma se non lo facciamo ci renderà la vita impossibile. Farà di tutto per rovinarci.» Protestò un altro.

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«Solo se noi lo permettiamo. Ha dei limiti oltre a cui non può spingersi. Cosa abbiamo da temere? Non può certo ucciderci, né fare tutto quello che gli passa per la testa. Abbiamo i mezzi per difenderci e dobbiamo usarli: non dobbiamo credere che lui può ottenere quello che vuole solo perché lo dice.» Ragionò con calma Alphons. «Cosa possiamo fare da soli contro di lui e il suo avvocato? Ci piegherà ai suoi voleri.» Si lamentò un'altra donna. «Non se siamo uniti.» Rintuzzò la dose Alphons. «Non può licenziarci tutti: perderebbe il suo guadagno e il suo status. E in uno scontro tra le due parti avrebbe da perderci pure lui, potete stare tranquilli. Per questo vuole colpire singolarmente, chiamare uno a uno per intimidire, sperando di fiaccarci e costringerci a lasciare; ha solo questa maniera, perché altrimenti perderebbe. Dobbiamo resistere e rifiutare ogni sua proposta. Le leggi e i regolamenti ci tutelano: lui lo sa, ma vuol far credere che non valgono nulla e che possiamo soltanto accettare quello che è disposto a concedere. C'è da lottare, ma non si ottiene mai niente senza darsi da fare in prima persona: ognuno deve fare la sua parte, senza aspettare che siano altri a risolvere i guai.» «Cosa dobbiamo fare quando ci chiamerà?» S'alzò in piedi un uomo. «Non mollare e rifiutare ogni proposta.» «Mi permetto di dissentire.» Intervenne il sindacalista. «Non serve a niente fare muro contro muro: sfibrerebbe entrambi senza portare a niente. Io dico che dovete ascoltare quello che ha da proporre e accettare l'offerta che viene fatta. Certo dovete guadagnarci: per questo il sindacato vi aiuterà nella trattativa cercando di farvi avere più soldi possibili.» «Sempre soldi, come se si potesse comprare tutto con le banconote.» Disse duramente Alphons. «Ma che n'è della dignità? Vogliamo lasciar correre i soprusi e le sopraffazioni subite? Lasciare che la spunti sempre lui? Stare zitti e chinare il capo? Siamo persone, non oggetti qualsiasi che vengono buttati via quando non servono più. E se non si riesce a trovare un altro lavoro e i soldi finiscono, dopo che succede? Chi tutelerà?» Il sindacalista scrollò il capo. «Che ci vuoi fare? In fondo loro non fanno che tirare acqua al loro mulino. E' normale: è così che va il mondo. Non puoi restare dove non ti vogliono.» «Quindi bisogna levare le tende; evidentemente per voi va bene così. Ma per me no.» Lo sfidò Alphons. «Per i diritti bisogna lottare, non bisogna permettere che l'abbiano sempre vinta loro. Non sono migliori, né superiori a noi.» «E come pensate di poterlo farlo desistere dalla sua idea?» S'informò il sindacalista. «Scioperando.» Disse semplicemente il lavoratore. «E fino a quando pensate di poter continuare con questa linea d'azione?» «Per tutto il tempo necessario a farlo tornare sui suoi passi.» Proclamò deciso Alphons. «Fate come vi pare. Il sindacato se ne tira fuori.» Il sindacalista s'alzò in piedi, lasciando l'assemblea. «Non preoccupatevi: possiamo farcela anche da soli. E' l'unità che conta.» Cercò di scuoterli dal torpore Alphons. «Non dobbiamo pensare di avere perso in partenza.» Con queste parole si concluse la riunione. Dalle espressioni che vedeva capì che sarebbe stata dura: erano rassegnati e privi di speranza di successo. Il rischio che si lasciassero andare in balia degli eventi era tutt'altro che improbabile. Sarebbe stata davvero dura lotta. «Questa volta ha deciso di giocare pesantemente.»

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Alphons arrivò davanti al distributore di bevande mentre il collega stava parlando con la donna delle pulizie. «Ogni giorno convoca le persone che vuole mettere in mobilità e le sfibra con riunioni che durano anche venti minuti. Sempre i soliti discorsi, sempre la stessa pressione. Ormai sono due settimane che va avanti in questa maniera.» «Che brutta situazione.» Commentò la donna appoggiata alla scopa. «Mi chiedo come facciano a resistere. E' davvero insopportabile: non mi è mai piaciuto quell'uomo arrogante. Speriamo che finisca presto.» Disse mentre s''allontanava nel corridoio con il secchio dell'acqua sporca. «Chi è sotto tiro è ormai allo stremo.» Commentò Alphons mentre infilava una moneta nel distributore. «Già. Ma non è soltanto il modo di fare del dirigente che li sta sfiancando: molt i dei colleghi stanno dando un grosso contributo.» «Isolandoli?» Ad Alphons non erano passati inosservati gli atteggiamenti squallidi di una grossa fetta dei lavoratori. «Già. Tutti sono attenti a chi viene chiamato nell'uffic io della dirigenza; dopodiché si guardano bene dall'avvicinarsi o a farsi vedere parlare con i convocati.» L'uomo scosse il capo incredulo. «Pare quasi che siano dei malati contagiosi. La gente gli gira al largo ed evita persino di guardarli. Quando le persone additate ad andarsene arrivano in un gruppo, le conversazioni cessano di botto e ognuno s'allontana per tenerli a distanza.» «Non solo non sono d'aiuto, ma stanno facendo proprio il gioco che vuole lui. Idioti.» Si rammaricò disgustato Alphons. Il collega scrollò il capo. «Dovevamo aspettarci una simile reazione: non tutti erano convinti della linea d'azione decisa. Quando si tratta di mantenere il proprio posto di lavoro, sembra di avere a che fare con degli estranei. Non c'è solidarietà, ognuno dubita dell'altro. Cercare di difendere chi è bersagliato significa mettersi in discussione e nessuno vuole farlo. Si rimane fermi a fare niente, attoniti, pur rendendosi conto che qualcosa s'è rotto anche per loro.» «Sembra che tu stia cercando di capirli. Io non lo farei: non esistono attenuanti per i vigliacchi.» Alphons osservò i rimasugli del caffè prima di buttare nel cestino il bicchiere di plastica. «Non li giustifico, ma non posso nemmeno costringerli a fare diversamente.» Ammise rassegnato il compagno di lavoro. «Ci vediamo stasera in pizzeria.» Rimasto solo, Alphons si ritrovò a fissare le merendine colorate dietro il vetro del distributore. Il modo di fare dei suoi colleghi gli stava dando sui nervi. Possibile che non riuscissero a capire che come ora capitava agli altri, un giorno sarebbe potuto toccare anche a loro? Per questo non si doveva creare un precedente, altrimenti dopo sarebbe stata la regola; credendo di fare il proprio interesse, non si rendevano conto invece di perderlo. Ma finché il problema non li riguardava, la questione non si poneva. Illusioni. Lo sbattere di una porta lo riscosse dagli amari pensieri. Lo sguardo di Judith non faceva presagire nulla di buono. Altri problemi e altri bocconi amari da masticare. «Hai sentito cos'ha fatto il dirigente?» Disse trafelata. «Che ha combinato?» «A tutti quelli che hanno rifiutato di andare in mobilità, ha fatto arrivare un richiamo.» «Questo non può farlo. E' illegale.»

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«Invece l'ha fatto. Ha mandato una lettera dove è scritto che durante un controllo, i lavoratori sono risultati assenti dal proprio posto di lavoro.» Spiegò allarmata. «E indovina in quale orario è avvenuta l'assenza?» «Quando li ha convocati per il colloquio.» Strinse le labbra di fronte alla bastardata. L'espressione di Judith confermò che aveva indovinato. «Carogna. E nessuno ha detto niente in proposito?» «Alcuni hanno testimoniato, mettendosi al fianco della parte lesa, ma la dirigenza ha negato con forza, asserendo che nessuno dei suoi membri era presente in ditta in quegli orari. Anche il suo legale ha confermato che era da un'altra parte negli orari menzionati.» Le labbra della ragazza avevano perso ogni colore. «Nessuno se l'è sentita di andare da un avvocato per contestare il fatto: hanno timore di perdere la causa e di dover pagare le spese. Hanno lasciato andare, per non subire conseguenze peggiori.» Le ultime parole uscirono in un soffio. «E il sindacato? Doveva essere presente in quegli incontri.» Notò Alphons. «Sì, doveva. Purtroppo non è potuto essere presente in quelle occasioni perché impegnato in riunioni in altre ditte.» Il tono non lasciava dubbi sul vero significato dell'impegno. «Si sono messi d'accordo. Vogliono che sia la ditta a vincere. Sta bene.» Disse a denti stretti Alphons. «Ora è guerra.». «E cosa vorresti fare? Non possiamo fare colpi di testa.» Lo ammonì allarmata. «Non ci penso minimamente a fare il loro gioco. Useremo i nostri mezzi. Sciopereremo un'ora sì e una no: il processo produttivo verrà rallentato in maniera considerevole. Saranno costretti a smettere con certi trucchetti.» Sbatté la mano a pugno sul palmo aperto dell'altra. «Servirà?» Judith non riuscì a nascondere il dubbio. «Per lo meno gli farà capire che non stiamo fermi a subire colpi bassi.» Disse duramente Alphons. «Come fa un uomo a essere così viscido?» L'aggraziato volto della donna si distorse dallo sdegno. «Perché ti meravigli?» La riprese Alphons. «Pensi che gli altri industriali siano migliori? Che nelle altre ditte si stia meglio? Tutti i posti di lavoro sono così; tutti gli industriali sono fatti della stessa pasta. Quando si varca la soglia di una ditta, si entra in un inferno dove ogni girone ha il suo diavolo cornuto. Il lavoro dovrebbe essere un diritto: invece è un salasso che vuole prosciugarci ogni energia e buttarci via quando non serviamo più. Da sempre esistono questi sfruttatori e sempre ci saranno finché lo permetteremo. Ci angustiamo per il lavoro. Ci ammaliamo per il lavoro. Moriamo per il lavoro. E tutto per causa loro.» Strinse le mani a pugno. «Io non sarò loro complice. Né ora né mai. Spargi la voce. Attueremo lo sciopero da subito.»

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IV. Morte Psichica. Nella sala mensa regnava una gran quiete. Non era soltanto il fatto che fossero la metà del solito: nessuno parlava, nessuno si rivolgeva all'altro, come se potesse essere pericoloso. Nessuno voleva guai. La situazione era cambiata radicalmente nel giro di poche settimane. Dopo il rifiuto da parte dei dipendenti di accettare la mobilità, i rapporti tra ditta e lavoratori si erano inaspriti. Ogni scusa era buona per fare pressioni psicologiche ed effettuare richiami scritti. E ogni volta che avvenivano, si faceva intervenire il sindacato per esaminare l'atto, impugnarlo e annullarlo. Era in iziata una guerra logorante. Un botta e risposta continuo, senza esclusione di colpi, dove la ditta aveva messo in campo ogni arma a sua disposizione: dai più sottili cavilli legali ai colpi più bassi. Dopo aver preso concentrato l'attenzione sui lavoratori considerati superflui, la dirigenza aveva preso a fare colloqui con chiunque lavorasse alle sue dipendenze. Una tattica del terrorismo martellante, dallo scopo evidente: con la prospettiva di perdere il posto, spingere quelli che dovevano rimanere a costringere gli sgraditi ad accettare d'andarsene. Il discorso era molto semplice: se non va via lui, tocca a te. Il fronte che all'inizio era tanto unito, si era spaccato. Chi era stato scelto per essere fatto uscire dall'azienda, si era ritrovato solo, abbandonato dai compagni di lavoro e lasciato in balia della dirigenza e dei suoi legali. Anche il sindacato si era tirato fuori; ufficialmente dava il suo supporto, ma nella realtà non era mai presente agli incontri tra dirigenti e singoli lavoratori, ritenendo che l'unica soluzione per sbloccare la situazione fosse la loro uscita. Occorreva ora vedere quanto la gente sarebbe riuscita a reggere. "Ecco come si deve sentire un malato d'Aids." Pensò Alphons. Abbandonato da tutti, evitato per la sua condizione. Vivere una situazione senza uscita, un peso sull'animo sempre più pesante, come se una montagna si posasse sulle spalle. Emarginato senza avere colpa. Solo che in questo caso non si trattava di un tiro mancino del destino, ma della sprezzante superiorità di chi era in una posizione di potere e credeva di disporre delle persone come meglio credeva. E la gente invece di stare vicino al danneggiato, faceva il gioco del persecutore. Davvero misero era l'essere umano. Quante bassezze e meschinità; quanta limitatezza. Guardando solamente a se stesso, non si rendeva conto che il domani poteva vederlo nella stessa situazione di un suo simile. Bisogno, paura: due punti sensibili su cui far leva. Di fronte a debiti da pagare e famiglie da mantenere, valori di solidarietà e lotta unita svanivano come neve al sole; pochi riuscivano a essere saldi di fronte alla diffic ile scelta e sempre più persone si chinavano ad accettare le leggi dei padroni. Tutti i diritti che i genitori avevano conquistato con sacrificio erano stati persi dai figli: scialacquati stupidamente, permettendo che venissero tolti. Una realtà dell'esistenza: quanto guadagnato facilmente, altrettanto facilmente era perso. E non poteva essere diversamente, dato che non si conosceva la fatica e il sudore per averli ottenuti. In questa maniera si erano protratte e si protraevano ingiustizie come quelle che stavano accadendo sotto i loro occhi. Sforzi d'anni di lotta persi da generazioni viziate e capricciose che non credevano in niente, se non nell'apparire e nei comandamenti divulgati dai media e dai potenti.

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Come facevano a non vedere, a chiudere gli occhi? Oggetti, non più persone. E avevano dato il loro consenso per ridursi in quella condizione. Tutta la loro cultura era ormai diventata così; ogni cosa era diventata oggetto per il consumismo. Né il corpo, né i sentimenti erano più considerati sacri, ma solamente strumenti per i fini di alcuni. Anche chi doveva insegnare il rispetto di queste verità, si era adattato ai tempi in cui vivevano. I politici, che dovevano assicurare la democrazia e la tutela dei diritti della persona, non si curavano delle richieste della popolazione, ma si battevano tra loro per cercare di mantenere il potere e nient'altro, facendo leggi che mortificavano sempre più l'individuo; gente che invece di starsene rinchiusa in palazzi splendenti, avrebbe dovuto provare di persona le esperienze d'uomini e donne comuni prima di legiferare con superficialità e leggerezza. I vari enti religiosi si preoccupavano solamente del numero di quanti aderivano alla propria fede e come tenerli sottomessi alla loro obbedienza, ignorando le risposte che la gente andava cercando e del messaggio originario che stava alla base di quella che era diventata solamente istituzione. La scuola era stata talmente martoriata che l'unica preoccupazione dei professori era possedere una cattedra e non avere troppe seccature dagli allievi; avevano perso di vista che il loro non doveva essere solo un compito nozionistico, ma anche educativo, aiutare i giovani a formarsi in persone mature. I genitori, che dovevano essere i primi a crescere i figli, erano troppo impegnati a correre dietro la carriera, il divertimento, al mantenere giovane il proprio aspetto per preoccuparsi delle creature messe al mondo; senza contare che non avevano neppure le basi per farlo, dato che nessuno l'aveva fatto con loro. Ecco i tasselli della nascita e divulgazione della non cultura, i responsabili del suo successo. Ma non sarebbe potuta avverarsi, se un consenso non fosse stato dato. Se la gente non aveva più diritti, era perché non aveva fatto nulla per impedire che glieli togliessero. Se i ragazzi erano considerati stupidi e viziati, era perché non facevano nulla per dimostrare il contrario, anzi, avevano atteggiamenti che confermavano sempre più quanto gli era etichettato. Se le donne erano considerate oggetto di cui godere, da prendere anche con la forza, era perché glielo avevano lasciato fare. La vanagloria, l'essere adulate e ammirate non le aveva permesso di vedere che questa sorta di potere che avevano sugli altri era in realtà una dipendenza: le aveva rese prigioniere del proprio corpo. Un corpo che molti bramavano di usare e che erano pronti a calpestare se non lo avevano. Tante lotte sulla parità e sulla libertà solo per ritrovarsi come prima: ugualmente sfruttate, solo che adesso era quello che volevano. La società era allo sfascio, solo che tutti facevano finta di non vedere, nessuno voleva la responsabilità di quello che era accaduto o di rimettere le cose a posto. Come la famosa cicala della storiella: a cantare tutta l'estate per poi ritrovarsi disperata nel momento del bisogno. Ma se non si costruiva nulla, non si poteva avere qualcosa. Quella società era in grado solo di distruggere, di eliminare; un sistema assassino che deliberatamente s'accaniva e colpiva senza sosta. Un sistema che si basava solo sull'arraffare quello che c'era sul momento, ma non poneva le basi per il domani. E come poteva farlo, se non aveva visione di futuro? Così nel grande, così nel piccolo. Così i polit ici, così gli industriali.

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Scostò lo sguardo dal piatto quando sentì il rumore di una sedia che veniva trascinata sul pavimento. Judith posò il vassoio davanti a lui. «Robert non è con te?» Chiese vedendola sola. «Dopo che sono andato al bagno l'ho perso di vista.» «E' stato convocato dalla dirigenza.» «Adesso?» Alzò stupito il sopracciglio. Judith assentì gravemente. «La segretaria del boss è venuta a dargli la comunicazione nel momento in cui marcavamo l'orario d'uscita. Convocazione urgente.» Alphons si rabbuiò, capendo il sottinteso. «Un'altra volta.» «E' tra quelli presi di mira. Il boss non mollerà finché non otterrà quello che vuole. Lo sai.» Negli occhi di Judith scorse la pena e il senso d'impotenza che ormai da settimane vedeva in tutti i colleghi colpiti dal mobbing. Anche se non rientrava nella categoria colpita, non riusciva a non sentirsi coinvolta: in lei c'era un gran rammarico e dispiacere. Era una delle poche che si sentivano toccate da quella situazione; la maggior parte si era rassegnata o se ne fregava, evitando e allontanando sempre di più i mobbizzati. La rabbia riprese a brontolare dentro di lui. «Li sta martoriando da settimane perché si licenzino. Vuole mantenere a tutti i costi la decisione presa: ridurre il personale è una priorità nella sua agenda.» Costatò amaramente. «La cosa a cui tiene di più è il suo maledetto orgoglio: deve spuntarla a tutti i costi per dimostrare che è lui che detiene il potere. Il suo ego smisurato non riuscirebbe a tollerare niente di diverso.» «E che cosa possiamo fare?» Il bisogno di risposte e conferme lo fece infuriare ancora di più. Detestava vedere la gente in quello stato e non poter fare nulla per aiutarle. «Nulla. Soltanto sperare che tengano duro e dare il nostro supporto.» Judith si tormentò le dita. «Sai già come andrà a finire?» Alphons scosse il capo. «E chi lo sa? Posso solo vedere possibilità ed eventualità, nient'altro. Alla fine la spunterà chi reggerà più a lungo. E' una guerra di nervi. La cosa importante per noi è che si regga un minuto di più del padrone.» Stringendo le labbra Judith assentì. «Per lo meno questa volta non avrà il reclamo per non essere stato trovato sul posto di lavoro.» Alphons non rispose al riguardo di una delle tante bastardate messe in atto dal dirigente. La piega che stava prendendo la situazione si faceva sempre più allarmante e all'orizzonte non c'era nulla che facesse presagire una conclusione tranquilla. Il dirigente se ne stava a gambe incrociate, sprofondato sulla sua poltrona e fissava intensamente il dipendente che gli stava di fronte. «Da quanti anni lavora per noi?» Chiese a bruciapelo. «Otto anni.» Disse Robert a disagio. «Un periodo abbastanza lungo.» Sottolineò con calma calcolata. Robert si schiarì la voce. «Sì.» «E' consapevole dei tempi che corrono, giusto?» Incrociò le mani sull'addome prominente, facendo oscillare svogliatamente la poltroncina. «Certo.» «Saprà allora che occorrono misure di un certo genere per riuscire ad andare avanti. Misure che lei ostinatamente continua a rifiutare. Si rende conto del danno che sta apportando?» Lo apostrofò duramente.

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«Non credo che il mio peso in ditta sia tale da creare un danno.» Trovò il coraggio di dire Robert. «Certo, certo.» Liquidò spregevolmente la risposta. «Ma tanti come lei sì. Bisogna cominciare dai problemi piccoli per risolvere quelli grandi. Lei è uno di quei problemi e lo sa. Nonostante questo si ostina a restare attaccato al suo posto di lavoro.» «Dovrebbe saperlo anche lei, vista l'esperienza che dice di avere. Il lavoro serve per vivere e visti i tempi non è facile trovarne un altro. Se non ho uno stipendio, non posso pagare le spese. Si tratta solamente d'affari.» Riuscì a snocciolare chiaramente il discorso, evitando che il tremito che avvertiva nelle mani incrinasse la voce. «Il problema delle spese è soltanto suo; non mi riguarda. Veda di risolverlo come vuole, ma senza mettermi in mezzo. E non mi faccia più considerazioni di questo tipo: l'unica cosa che deve considerare è di doversene andare. La ditta non se ne fa più niente di lei.» Continuò a parlare con tono duro e sprezzante. «Serve solo a farla andare in perdita.» «Il mio lavoro di tecnico non incide sulle vendite e sul fatturato. Riparo la strumentazione difettosa. E' un aiuto, un servizio per l'azienda, non una perdita.» Protestò Robert. «Ed è necessario dato che non sono in molti a saperlo fare.» Il dirigente sogghignò. «Lei un tecnico? E' un banale operaio, chiunque sa fare il suo lavoro. Sono stanco di essere circondato da incapaci come lei.» Sputò le parole con livore. «Si crede importante, ma le verità è che è un essere inutile, un peso, un costo che grava sulle spalle dei suoi colleghi. E' a causa di gente come lei se la ditta ha preso ad andare male. Gente senza palle, che non sa lavorare, nemmeno compiere le mansioni più semplici. Pensa che il suo ruolo sia importante per l'azienda? Lei non serve a niente qua dentro. Avrei dovuto licenziarla per scarso rendimento, se i miei collaboratori non tergiversassero sempre con i diritti dei lavoratori.» Robert trattenne a stento la rabbia. «Sono stato demansionato senza motivo, solo per un vostro capriccio. Facevo il programmatore e me la cavavo bene col computer. Poi sono stato trasferito in un reparto che non c'entra col mio lavoro, per il fatto di non avere accettato la misera offerta della mobilità.» Non ebbe tempo di capire dove aveva trovato il coraggio di dire quello che pensava. Il dirigente contrattaccò subito. «Ma guarda, un esperto di computer. Oggi persino un bambino sa programmare. Si sente speciale per questo? Ma si guardi: è d'un pallore tale che sembra la tazza d'un cesso. Passa tutta la vita attaccata a un pc, non ha amici, ragazza, hobby. La sua sola presenza rovina l'immagine dell'azienda: solo per questo dovrei licenziarla, ma delle maledette leggi non me lo permettono. Se fossi io al governo ne cambierebbero di cose: rifiuti come lei non avrebbero il diritto di lavorare. Io non la voglio più qui. Lei se ne deve andare perché altrimenti io non solo renderò la vita impossibile a lei, ma anche a tutta la sua famig lia: gliela rovinerò finché campa. E non creda che non ne sia capace: i mezzi non mi mancano.» Lo guardò con disprezzo. «Mi domando come faccia a non compatirsi. E' flaccido, porta i capelli lunghi come una donna, ha quegli spessi occhiali per la miopia: come fa a non aver mai pensato al suicidio? Ai tempi del terzo reich l'avrebbero soppressa. Quello sì che era un bel periodo: avrebbero estirpato tutta la feccia del mondo e vivremmo adesso in un luogo migliore. Peccato che la genialità non sia mai compresa.» Terminò sprezzante. «Ora se ne vada: mi rovina l'appetito.» Ingoiando tutto quello che voleva urlargli contro, Robert uscì dall'uffic io, tenendo lo sguardo basso per non far vedere la sua rabbia. Il dirigente tenne lo sguardo fisso sulla porta chiusa, cupo e risoluto.

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«Vi farò sputare sangue.» Mormorò astioso, deciso a ottenere quello che voleva a tutti a costi. «Ehi, aspetta!» Robert si fermò davanti al marcatempo, aspettando che Alphons e Judith gli si avvicinassero. «Questa sera andiamo a vedere il film appena uscito. Ti va?» Fece Judith con voce squillante. «Inseguimenti, azione e tanto, tanto amore.» Robert abbozzò un sorriso, scuotendo il capo. «Non mi va di stare molto in giro questa sera.» «Certo che presentato in quella maniera fa passare la voglia.» Disse divertito Alphons. «Forse è meglio prendere a noleggio un film di nostra scelta e vedercelo in casa.» «Magari un'altra volta.» Disse Robert stancamente. «Ho bisogno di riposarmi un po’.» Ad Alphons non sfuggì la sfumatura della sua voce, ma volle comunque fare un altro tentativo. «Dai, quattro chiacchiere insieme, un paio di battute e si passa una bella serata. Un po’ di compagnia è quello che ci vuole per riprendersi da una giornata lavorativa.» «Ti ringrazio, ma per questa sera passo.» Sorrise forzatamente mentre s'avviava alla porta. «Voglio andare a casa, Alphons. Voglio soltanto andare a casa.» Lo videro avviarsi nel parcheggio e salire sull'utilitaria usata. «Ci abbiamo provato.» C'era rammarico nella voce di Judith. «Già.» Alphons vide il collega scomparire dopo la svolta all'incrocio. Vederlo andar via così faceva male. Alle volte non si poteva fare niente per gli altri; anche se ci provava, sapeva che certe cose non potevano essere cambiate. "Voglio andare a casa." In momenti diffic ili si voleva solamente un rifugio, un posto dove poter restare tranquilli e sicuri, lontano da quanto feriva e faceva stare male; una reazione quasi fisiologica. Da quando era iniziata quella vicenda, aveva visto Robert allontanarsi sempre più dalle persone, rinchiudendosi in sé stesso. Stava ore, alle volte giorni senza parlare con qualcuno. Era come se avesse perso disinteresse per ogni cosa; aveva mollato completamente il colpo. Uscito dal lavoro, se ne stava chiuso in casa, con la paura di vivere che non l'abbandonava mai. Un lento lasciarsi andare, rinunciando a tutto. Nessuno, vedendo il suo stato, provava a stargli vicino, a parlargli. Come si faceva a non riconoscere la sofferenza, a non volerla vedere? Guardò le scale che portavano al piano superiore con disgusto. Ridurre una persona in quello stato e continuare a spingere solo per una questione di soldi. Che cosa era diventato l'essere umano? Cosa ne aveva fatto della vita? Quella che vivevano non lo era più. Alphons guardò nuovamente il cellulare: nessuna risposta al messaggio. Per l'ennesima volta. Robert mancava da dieci giorni e nessuno aveva avuto sue notizie. Aveva provato a contattarlo, ma il cellulare continuava a squillare senza che lui rispondesse. Era andato anche dove abitava, ma nessuno era venuto ad aprire quando aveva suonato il campanello. Sapeva che era a casa, l'auto era parcheggiata davanti alla porta e le luci di alcune stanze

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erano accese; tuttavia non si faceva vedere. Aveva smesso di uscire e se ne stava rinchiuso tra le mura domestiche, lontano da tutti. Il suo stato lo preoccupava sempre più. Se avesse continuato in quella maniera, il suo modo di fare sarebbe divenuto una patologia e uscire da quegli stati psicologici era sempre diffic ile. Avrebbe provato ancora una volta. Il pollice si fermò sul tastierino, vedendo che Judith stava venendo verso di lui. In altre occasioni avrebbe continuato a fare quello che stava facendo, ma quanto lesse sul suo volto non gli permise di ignorarla. «Cos'è?» Chiese prendendo la lettera che gli veniva porta. «E' da parte di Robert.» Disse contrita. «E' arrivata insieme alle sue dimissioni.» Alphons rimase di sasso. «Si è licenziato?» Judith assentì. Aveva ceduto. Non ce l'aveva fatta a reggere alla pressione. Aveva già preso la decisione quel giorno. Per questo non s'era fatto vedere: per non far trapelare le sue intenzioni e così evitare che provassero a dissuaderlo. Maledizione, avrebbe dovuto capire che poteva fare un passo del genere. Ma la fiducia nell'amico gli aveva impedito di vedere lucidamente la situazione. «Leggila Alphons.» Lo supplicò Judith. Se la rigirò tra le mani e vide che era indirizzata a lui. Serrando la mascella, strappò il bordo della busta ed estrasse la lettera. Era scritta al computer. "Perché mi scrivi sempre, Alphons? Ti senti solo anche tu e contrariamente a me non hai la forza di rinunciare alla vita che il mondo ti propone, continuando a rimanerci attaccato? Ogni giorno vestirsi per uscire di casa, ogni giorno lo stesso lavoro, gli stessi colleghi, le stesse persone, le stesse azioni. Sempre lo stesso e io lo odio. Continuare a fare le solite cose semplicemente perché lo fanno tutti. Perché devo continuare a ripeterle? Sempre le solite domande e risposte di rito per far finta che tutto va bene, che è il mondo migliore che si possa avere. Ma non va bene per niente. So che anche tu lo sai. Il nostro mondo è orribile e ci sono cose tremende. Ogni giorno, in ogni angolo. Dovunque ci sono persone c'è male. Le persone sono male e fanno il male. E io non voglio più averci a che fare; voglio il mio angolo in cui stare, in cui vivere. Tutto e solo per me. Tutto è violenza. Lo senti alla tv, lo leggi sui giornali. Tutti fanno violenza. Politici, militari, familiari, amici, colleghi; tutti fanno male, tutti feriscono. In ogni atteggiamento, parola, c'è violenza. E' tutta così la società. Vogliamo prevaricare sui simili per sentirci superiori e in ogni nostro gesto c'è prevaricazione e imposizione. So che è da vigliacchi vivere chiusi in una stanza, ma vivere in un mondo dove gli uomini uccidono i loro compagni di viaggio solo per dimostrare al mondo che esistono, mi sembra una cosa assurda, una cosa che il tempo cancellerà come il vento soffia via la sabbia dal mio davanzale. Sempre a voler sopraffare il prossimo, sempre a voler dimostrare d'essere migliori. E solo per quella minuscola e dannosa cosa che si chiama ego; un attimo d'estasi nell'afferrare lo sfuggevole potere. Ogni giorno ci sono milioni d'atti violenti. Ogni giorno si uccide un fratello. E poi ci chiediamo perché c'è tanta guerra e distruzione nel mondo, quando siamo proprio noi a crearla.

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Hai idea Alphons di quanti milioni d'anni sono stati necessari perché cause del tutto naturali e coincidenze fortuite abbiano contribuito a costruire questo mondo così come tu lo vedi?E di come noi lo stiamo distruggendo in poco tempo? Dico basta a tutto questo. Non ha senso, niente ha senso. Che ragione ha la vita che viviamo? Io non ci sto più. Non c'è scampo a questa realtà, non si può evitare che accada: si può solo cercare di trovare un posto dove nascondersi e non farsi toccare; un posto che non può essere raggiunto. Tu ce l'hai una stanza segreta dentro di te? Io sì e mi sento al sicuro. Non permetterò a nessuno di raggiungerla e violarla. Non permetterò a nessuno di togliermela. In nessun modo." Alzò lo sguardo e vide le lacrime negli occhi di Judith. «Che altro c'è?» Aveva paura nel fare quella domanda. Judith si portò la mano alla bocca per soffocare un singhiozzo. «Questa mattina» deglutì per riuscire a parlare «l'hanno trovato davanti al computer acceso. La polizia è andata a controllare perché qualcuno, chattando con lui, si è insospettito leggendo un suo messaggio.» Si fermò non riuscendo a trovare le parole. «Si è tagliato le vene.» Disse in un soffio. «No!» Scattò Alphons urlando. «Mi dispiace tanto.» Sussurrò Judith. Un gruppetto di dipendenti comparve sulla soglia della porta. «Cos'è successo?» Fece l'uomo calvo. «Abbiamo sentito un urlo.» I quattro osservarono Alphons e Judith con sguardo interrogativo, finché non videro la lettera che teneva in mano. «Hai saputo.» Costatò il dipendente in tuta blu. «Non ne eri ancora a conoscenza?» Lo sguardo di Alphons era indecifrabile. «Come fate a essere così distaccati? A non sentirvi colpiti?» Disse a voce bassa. I quattro si guardarono l'un l'altro. «Dovremmo per caso flagellarci?» Gli rispose l'uomo calvo. «Non fa piacere avere certe notizie, ma è stata una sua scelta.» «Come hai detto?» Lo guardò torvo Alphons. «Non è colpa nostra se si è tolto la vita.» Alzò le spalle l'operaio della tuta blu. «E' stata una disgrazia: nessuno ha colpa del suo gesto. Quel che è stato, è stato.» «Esatto.» Intervenne un terzo uomo. «Bisogna tirare avanti.» Alphons strinse i pugni fino a far diventare bianche le nocche. Quelle parole erano la goccia che faceva traboccare il naso. Non bastava che fosse morto: dovevano calpestarlo come se niente fosse. «Nessuno ha colpa?» Sputò le parole tra i denti digrignati. «Lui ha colpa!» Urlò indicando la dirigenza. «Voi avete colpa!» Puntò il dito sui quattro. «Loro hanno colpa!» Fece il gesto per includere tutta la fabbrica. «Non esagerare.» Cercò di minimizzare il quarto uomo, colpito dalla sua reazione. «Esagerare?» Gli occhi erano fuori delle orbite. «E avete il coraggio di dirmelo voi, che avete superato i limit i della decenza e del servilismo?» Sbraitò senza controllo. «Voi che vi siete asserviti a quell'essere e l'avete assecondato in tutto e per tutto per mantenere questo schifo di posto di lavoro, per una piccola posizione in più di potere? Per la vostra paura e debolezza, per il vostro strisciargli intorno avete permesso che a certi colleghi fosse fatta

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violenza. Colleghi che definivate amici e che non avete esitato ad abbandonare per non incorrere nella stessa fine. Se gli foste stati vicini, se aveste dimostrato solidarietà, tutto questo non sarebbe successo.» «Stai calmo.» L'operaio in tuta blu fece un passo avanti. «Guardate a cosa ci ha portato lo stare calmi!» Tuonò con violenza. «Ci ha preso i diritti, la dignità; ora anche la vita. Cosa dobbiamo lasciargli fare ancora?» «Cosa vorresti fare? E' lui che comanda.» «Porca puttana, adesso basta!» Judith lo prese per un braccio temendo che saltasse addosso ai colleghi. «Con la vostra vigliaccheria avete ucciso un amico. Avete dato potere a un mostro che ha fatto di tutto per renderci la vita un inferno. E dopo questo, avete il coraggio di parlarmi con questo tono? Non avete più alcun diritto di rivolgermi la parola: non dopo quello che avete fatto.» Intimò in tono minaccioso. I quattro se ne andarono borbottando tra loro. Preso da un incontrollato moto di rabbia, Alphons afferrò un rocchetto di stagno per saldare e lo scagliò contro la parete, mandandolo in frantumi. Judith cercò di prendergli la mano, ma lui si sciolse dalla stretta. «So che sei sconvolto, ma non cambierai quello che è accaduto comportandoti in questa maniera.» Alphons respirava affannosamente, lo sguardo torvo. Con uno sforzo si rilassò, ritornando ad avere una respirazione regolare. Ma il fuoco che divampava nelle sue pupille non aveva perso forza. «Ha voluto la guerra.» Mormorò cupo. «Io gli scateno un inferno che neanche s'immagina.»

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V. Scontri. L'assemblea s'alzò in piedi quando il sacerdote s'avvicinò al leggio e sollevò il testo sacro sopra la testa. «Dal vangelo secondo Giovanni.» Declamò in tono solenne. «Non credevo di vederti qua.» Sussurrò Judith facendosi vicina ad Alphons, appoggiato alla colonna di marmo. «Almeno non dopo l'ultima volta.» «Voglio sentire quel che ha da dire questa volta, non può lasciarsi sfuggire un'occasione del genere.» Rispose muovendo appena le labbra. "Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare»." «Parola del Signore.» «Rendiamo grazie a Dio.» Rispose l'Assemblea rimettendosi a sedere. «La liturgia, propone alla nostra contemplazione ancora un miracolo che parla di morte e di resurrezione, quasi un anticipo dell'evento centrale della nostra fede. Il miracolo è sempre un segno della gloria e della potenza di Dio e in questa circostanza rivela che la potenza salvifica del Padre si attua per mezzo del Fig lio, l'uomo-Gesù, il Cristo, che, come in precedenza si era rivelato "luce del mondo", ora, si rivela essere "resurrezione e vita" E' nel lungo, drammatico dialogo con Marta, una delle sorelle di Lazzaro, che Gesù pronuncia le parole che sono il vero banco di prova della fede: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno.» Parole consolanti che riceveranno luce piena, quando il Cristo risorgerà. In questo momento, quelle parole esigono una fede totale, confortata dal miracolo della resurrezione di Lazzaro, col quale il Maestro, quasi anticipando la sua resurrezione, illumina l'evento tragico della morte, che tutti accomuna, e che sarà, per sempre confortato, dalla speranza, e della fede nel Figlio di Dio, Gesù di Nazareth, che è la Vita. «Io sono la risurrezione e la vita» annuncia oggi il Signore «chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno». E a ognuno di noi ripete la domanda, che è fondamento della fede in Lui: «Credi tu questo?». Con Marta è imperativo rispondere senza riserve: « Si, credo!», anche di fronte alla morte, della quale tanto facciamo esperienza, con la perdita delle persone care, o, più semplicemente, costatando, quanto fragile e precaria sia la nostra stessa vita, che, col passar degli anni, va, inevitabilmente, verso il declino; l'angoscia ci prende e, talvolta, anche la paura, di fronte questo traguardo inevitabile. Ma questi sono soltanto sentimentalismi che non hanno valore alcuno: non contano nulla di fronte alla fede servente che dobbiamo al nostro unico Dio. La fede in Cristo esige, ordina che si compia questo passo verso la luce, e non un salto nel buio come fanno certi debosciati: perché Cristo risorto non muore più e in Lui anche la nostra vita diventa immortale.

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Se saremo servi fedeli e obbedienti godremo della Sua Luce: è il destino che tocca a tutti quello che lo temono, un destino glorioso e luminoso. Come è tenebroso quello di chi non lo segue e compie crimini e peccati orrendi, che non troveranno mai perdono presso Dio, ma che saranno puniti tra le fiamme dell'inferno, passando giustamente un'eternità di tormenti. Anche voi come comunità avete un esempio recente: quel maledetto aborto di vita che ha osato togliersi la vita, condannandosi ai patimenti eterni e gettando nell'ignominia il buon nome della sua famiglia. Un peccato che grida vendetta a Dio, che ha macchiato l'onore dei suoi genitori, che ora non potranno più uscire di casa senza vergognarsi davanti alla gente per colpa di un figlio degenere. E dobbiamo rendere grazie al Signore che la polizia non ha voluto indagare sulla sua morte per risparmiare un'ulteriore sofferenza: indagini che non avrebbero potuto fare altro che portare alla luce i risultati della sua depravata esistenza. Peccatori come lui meritano l'inferno: un nemico di Dio e della società e come tale ha subito il giusto fato per la sua condotta immorale e spregevole. La stessa che è toccata all'essere più spregevole della terra: Giuda. Che sia di monito a tutti i ferventi fedeli che vogliono entrare nel regno dei cieli: solo chi è obbediente e sottomesso alle leggi cristiane e civili può esservi ammesso.» Judith si ritrasse di un passo nel vedere il volto furioso e indurito di Alphons. «Il bastardo si preoccupa della dignità della famiglia, del suo buon nome; non si preoccupa minimamente della persona che soffriva e stava lanciando richieste d'aiuto.» Lo sguardo schifato non si staccò un attimo dalla figura del sacerdote. «Quelli come lui guardano solo la facciata.» Gli occhi divennero due fessure sottili. «Non bastava che si fosse rifiutato di celebrare il suo funerale e di farlo seppellire nel cimitero: doveva infamarlo senza ritegno. E tutti ad ascoltarlo queste infamie senza protestare, ben sapendo che non c'è niente di vero in quanto dice.» Judith vide le sue vene del collo pulsare con forza. Provò a prendergli il braccio per calmarlo, ma lui si ritrasse. «Maledetto.» Sibilò uscendo in fretta dalla chiesa, facendo voltare più di una testa. Erano da poco passate le otto del lunedì mattina, quando la grossa auto scura svoltò all'incrocio e s'immise nella strada secondaria come ogni altro giorno. I cancelli della ditta erano chiusi e bloccati da un picchetto di persone che camminava lentamente avanti e indietro, lanciando continue occhiate alla strada. Lungo tutta l'inferriata che circondava il complesso industriale erano sedute decine e decine di lavoratori. L'auto rallentò fino a fermarsi. «Cosa stanno facendo?» Chiese il dirigente guardando torvo attraverso il parabrezza. «Niente. Se ne stanno fermi a fare n iente.» Rispose il figlio. «Un altro sciopero?» «A quanto pare.» «Cosa sperano di ottenere? Ormai le persone sono state licenziate e non possono farle riassumere. Anche il tribunale ha respinto ogni richiesta. Vogliono farsi licenziare anche loro?» «Non credo sia per quello. Penso sia una protesta per la morte del loro collega, quello che si è suicidato. Credono che l'azione mossa dalla ditta sia stata la causa del gesto.» Disse il figlio.

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«E ora ce la vogliono far pagare. Si preoccupano tanto di un morto quando dovrebbero pensare solamente per sé. Ma adesso impareranno. Apri il cancello automatico e pigia sull'acceleratore.» Gli intimò seccamente. «Cosa?» «Tirali sotto.» Disse con piglio deciso. «Sei impazzito?» Il figlio guardò il padre sbigottito. «Si sposteranno. Gli faremo passare un po’ la voglia di scioperare. Avanti, fai come ti ho detto.» Vedendo il figlio tergiversare gli diede uno spintone sulla spalla. «Cosa aspetti? Non abbiamo tempo per restare a guardare degli imbecilli.» Dopo un ultimo tentennamento, il piede affondò sull'acceleratore. Le gomme sfrigolarono sull'asfalto, lasciando una traccia nera marchiata e ben visibile. L'auto schizzò avanti, arrivando in un attimo addosso agli scioperanti che ebbero appena il tempo di scansarsi. «Pazzo!» Fu l'invettiva unanime della gente che si scostava per non essere investita. Il finestrino s'abbassò mentre l'auto sgommava all'interno del piazzale della ditta. «Maledetti bastardi! Dovete schiattare! Dovreste tutti essere bruciati al rogo!» La faccia rabbiosa del dirigente spuntò oltre il bordo dello sportello prima che il mezzo sparisse con il suo rombo dietro l'angolo dell'edificio. All'interno della mensa l'atmosfera era concitata. Attorno ai tavoli era un continuo sovrastarsi di voci dove ognuno voleva dire la sua. Lontano dal marasma generale un piccolo gruppetto stava discutendo mantenendo toni più civili. «Voi siete spaventati e succubi di quell'uomo. Gli date un potere che non ha. Lo credete chissà cosa, ma è soltanto un poveretto. A parte i soldi non ha nulla. Valori, amici: niente. La moglie l'ha lasciato perché la convivenza era impossibile e persino la figlia non vuole avere a che fare con lui. Temete una persona che in fondo è sola e usa la ditta per scaricare frustrazioni e insoddisfazioni. Siamo un giochino con cui si diverte e noi lasciamo che faccia. Anzi, voi permettete: io non gliel'ho mai concesso.» «E cosa vorresti che facessimo? E' lu i che ha il coltello dalla parte del manico.» «Sarà, ma voi glielo stringete ancora più con forza nella sua mano. Ve ne state fermi senza fare niente, subendo angarie e soprusi. Quando ride, ridete; quando urla, vi mettete a tremare. Sempre in balia dei suoi stati d'animo. Lui sa che può fare quello che gli pare perché tanto subirete, non vi ribellerete mai. Siete schiavi della sua posizione, vi sentite inferiori perché ha i soldi e questa ditta e credete di aver bisogno di lui per lavorare.» Disse Alphons con calma. «Sarà vero che senza industriali potrebbe non esserci lavoro, ma è altrettanto vero che senza le persone che lavorano non potrebbero fare niente. Sono loro che devono temere i lavoratori, non il contrario: senza non potrebbero andare avanti, non potrebbero arricchirsi.» Proruppe con enfasi. «Questo, sia da loro, sia da voi, è stato dimenticato. E continuate ad avere paura. Paura di trovare un altro posto, di cambiare la routine: fareste di tutto per continuare ad averla, per mantenere lo status quo delle cose, anche se questo significasse rinunciare alla dignità e alla libertà.» «Non è così facile trovare un altro posto di lavoro. E scusa se ci piace la vita tranquilla.» Protestò Judith. «Piace anche a me, non credere che sia diversamente; ma non a questo prezzo.» Puntualizzò giocherellando con la forchetta. «Ritenete personaggi simili come normalità, non vi chiedete più perché esistono individui come il dirigente o perché il mondo va in questa maniera.

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Nessuno ha fatto una sola mossa per fermare gente simile, per cambiare le cose e farle andare meglio: tutti sono rimasti spettatori nell'attesa che qualcuno facesse qualcosa e non è mai successo niente. O meglio è accaduto qualcosa.» Si corresse. «Avete dato un potere sempre maggiore a quelle persone, vi hanno preso ogni diritto e ora vi sfruttano. Continuate pure se volete, ma io non ci sto. Non permetto a nessuno di calpestarmi. Non riconosco capi, di nessun genere. Fareste bene a farlo anche voi: sareste padroni della vostra vita e non permettereste che succedano fatti gravi come quelli che sappiamo.» Il suo sguardo si fece serio. «Sei diventato parlamentare?» L'accusò una voce alle spalle. «Sempre a parlare di cazzate come diritti e rispetto. Oppure stai ancora a piangere la morte di quel buono a nulla? Ha fatto l'unica cosa giusta in tutta la sua vita: finalmente è arrivato a capire che era l'ora di togliersi di mezzo, che era solo un peso per la comunità.» «Attento a quello che dici Frank.» Alphons si voltò, redarguendo l'interlocutore. «E' stato il gesto disperato di una persona abbandonata a se stessa, calunniata e perseguitata ingiustamente perché viveva in modo diverso dagli altri. Siamo tutti colpevoli per non essere riusciti ad aiutarlo.» «Sempre il tuo stare dalla parte dei perdenti. Mi fai schifo. Se non è riuscito a sopportare una piccola difficoltà come quella, è giusto che sia schiattato.» La pelata della testa rasata luccicò alla luce del neon. «Elargisci morte troppo facilmente. Non è stata una cosa da poco la violenza psicologica cui è stato sottoposto, sia da parte del dirigente sia da una parte di quelli che considerava compagni.» «Sciocchezze: fa parte del lavoro. Se si è fatto schiacciare da qualche pressione, allora era un debole e meritava quella fine: è giusto che le cose siano andate così, perché solo i più forti sopravvivono. E per sopravvivere alle volte è necessario che qualcuno venga tolto di mezzo.» «La legge del più forte è finita da tempo.» «Non è mai finita.» Ingiunse Frank. «E mai finirà. Abbiamo ancora un posto di lavoro ed è questo che conta.» Disse con sdegno. «Anche tu l'hai mantenuto, vuoi forse sputarci sopra? Non speravi che toccasse a un altro invece che a te?» «Non è questo il punto: dovevamo rimanere tutti, non c'era bisogno di sbattere a casa nessuno. E' stata una porcata per fare arricchire il dirigente e nient'altro.» «Cosa ne può sapere un semplice tecnico di come si dirige un'azienda?» Lo irretì il collega « Se è in quella posizione significa che capisce molto più di noi, che è più intelligente e che dobbiamo fidarci del suo giudizio, di gran lunga superiore al nostro.» «Che eri dalla parte della dirigenza l'abbiamo sempre saputo, che fossi così servile da arrivare a sminuire anche la tua persona non lo credevamo. Prima avevo il dubbio, ora ho la certezza che sei un vero coglione.» Costatò Alphons. «Il valore di una persona non dipende dai soldi che possiede o dalla carica che ricopre. Ricordati di questo e anche di un'altra cosa: se danneggi gli altri, c i sarà qualcuno pronto a fermarti. Non lo scordare.» «E saresti tu quel qualcuno?» S'avvicinò minaccioso Frank. «Non ti preoccupare. Importa che avverrà.» Disse Alphons sostenendo il suo sguardo. «Persone come te dovrebbero essere sprangate senza ritegno.» Frank gli vomitò le parole addosso con cattiveria. «Dovreste essere riempit i di botte per le vostre idee d'uguaglianza. Sono solo cazzate che rovinano il sistema: è così marcio perché ci sono deboli come voi. Il rispetto che volete per tutti porta alla rovina. Ci vogliono persone che dominano e guidano gli altri, con forza e autorità. Gli altri devono soltanto obbedire.»

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«Se non riesci a ottenere quello che vuoi, insulti, minacci e ricorri alla violenza. Sei come i nostri politici e gli industriali: dei bambini viziati che sanno solo pretendere e fare i capricci. Quello non è saper comandare: solo dimostrare la propria incapacità. E noi ci dovremmo affidare a gente simile? Vai al diavolo tu e loro.» «Pagherai. La pagherai nel modo più caro.» Sibilò Frank mentre s'allontanava. «Stupido esaltato.» L'apostrofò Alphons senza perderlo d'occhio. «Lascialo perdere. Lo sai che è una testa calda.» Judith degnò l'uomo che se ne era appena andato di una rapida un'occhiata. «E' un violento» ribadì Alphons «allevato da questa società violenta.» «Non esagerare anche tu per una semplice discussione.» Gli rispose un po’ spazientita. «Voi uomini siete peggio degli animali: sempre a voler dimostrare chi è il maschio dominante. Vi perdete in discussioni inutili.» «Non è solo una discussione. Ogni sua parola, ogni suo gesto trasuda intolleranza e violenza e sappiamo dove portano; è quello che ha visto fare, con il quale è cresciuto e non fa altro che perpetrarlo. Tutto ciò che ci circonda spinge alla stupidità e alla violenza. Il modo di parlare dei politici, i talk-show televisivi, i sermoni della chiesa, le istituzioni, sono carichi di repressione e violenza, un'insoddisfazione generante malcontento e odio che deve essere scaricato all'esterno su qualcosa o qualcuno che faccia da capro espiatorio. Si cerca un colpevole a tutti i costi della propria condizione, ma basterebbe guardarsi allo specchio per trovarlo. Solo che si pensa sempre che siano gli altri la causa dello stato in cui si versa ed è così che inizia la caccia alle streghe. Stiamo tornando indietro, ripetendo i tempi più bui del medioevo. C'era paura e terrore, tutti erano guardati con sospetto, chiunque poteva essere accusato e giudicato per una semplice diceria, vera o falsa che fosse; ora è lo stesso. La libertà e il diritto stanno venendo soppressi in nome di una presunta sicurezza. Non ci si fida più di nessuno; spauriti ci si chiude isolati nelle case, in compagnia delle fobie, privati del contatto e del calore umano. Stanno distruggendo l'umanità e neanche se ne accorgono, se non quando tutto sarà finito e non rimarrà più nulla.» «Non può essere così grave.» Minimizzò l'amica di Judith. «Davvero non vedi? Cosa guardi quando giri gli occhi intorno? O anche tu non vuoi vedere, sperando che vada tutto bene? Tutto sta andando a rotoli, ma nessuno fa niente, facendo finta che sia tutto normale. Mi spiace, ma io non ci sto fermo. Non la lascio vincere a quelli là.» Concluse duramente. «A chi ti riferisci?» Chiese perplessa Judith. «Guarda e vedrai.» Anche quella sera la foschia era bassa. Notte e giorno, estate e inverno: non se ne andava mai. Alle volte si alzava, alle volte si faceva meno fitta, ma c'era sempre. Sembrava la città del limbo, dove tutto galleggiava sperduto nella dimenticanza. Che tristezza. In quella città non c'era motivo di riso. E come poteva esserci? Era un grosso agglomerato d'uffici e di fabbriche, dove ogni traccia d'arte o natura era stata sradicata per far spazio alla macchina da soldi dell'economia. Non c'era più nient'altro, se non le impersonali e incolori case tutte uguali delle persone che lavoravano lì, specchio dell'animo che si era impossessato della gente. Sempre i soliti gesti, i soliti pensieri: mai che si staccassero dallo standard prefissato. Un grande gregge che seguiva la voce dettata dai media.

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Perché accontentarsi del grigio, quando potevano godere di molte altre sfumature ben più gradevoli? Un'ombra si staccò dalla parete. Sospirò. Non c'era soltanto il grigio. Esisteva anche il nero, minaccioso e violento, unica variazione a quell'apatia continua. «Ehi, Alphons. Non avere fretta d'andare. Voglio presentarti degli amici. Ho parlato di te e non vedono l'ora di fare conoscenza.» L'inconfondibile pelata brillò sotto il lampione. «Và per la tua strada e lasciami in pace. Ti devo già sopportare nove ore il giorno e non sento il bisogno di vederti fuori del lavoro.» Gli rispose senza perdere di vista i movimenti nell'oscurità. «Ma questa è la mia strada. Tu parli e alzi troppo la testa. E' ora di riabbassarla e i miei amici possono aiutarti in questo. Vero ragazzi?» Ci furono ghigni divertiti dai quattro che si stavano avvicinando alle sue spalle, individui con giacche scure e la testa completamente rasata: i suoi inconfondibili compagni di reparto. Il loro atteggiarsi rivelava chiaramente le intenzioni che avevano. «E pensi di farmi cambiare modo di fare e pensare con la forza?» Lo sbeffeggiò Alphons. «Sei un illuso.» «Non credo: è un modo molto efficace. Con gli altri colleghi è contato.» Rise soddisfatto. «Che vuoi dire?» La perplessità comparve sul volto di Alphons. «Perché pensi che molte persone, anche se avevano sempre scioperato e stavano dalla tua parte, alla fine hanno accettato le condizioni della ditta e se ne sono andate?» Disse sibillino. «Non certo perché la proposta era allettante. Anzi, era davvero ben misera cosa. Siamo stati noi a furia di botte a farglielo capire. Con certi è stato anche un piacere, come con quel tuo patetico amico che si è suicidato: ne ha prese talmente tante che non aveva la forza nemmeno di lamentarsi. E' strisciato via come un verme.» "Le persone sono male e fanno il male." Ora capiva le parole della lettera: non era solo una riflessione. Era quello che gli era stato fatto. «Brucia all'inferno.» Lo apostrofò rabbioso. «Io?» Rise divertito. «Ma se ho la benedizione e l'approvazione del prete. L'hai sentito anche tu: chi non lavora e protesta contro le leggi è un peccatore. E gli infedeli vanno puniti duramente, perché questa è la volontà di Dio. Come vedi, sono nel giusto.» «Sei peggio di una bestia. Sapevo che eri un violento con ossessioni fasci-naziste, ma quest'azione le supera tutte.» La voce di Alphons s'arrochì dalla rabbia. «Persone come te possono fare solo una cosa giusta nella vita: morire.» «Datti una calmata. Non è stato solo divertimento o cieca obbedienza. La verità è che non mi andava di perdere il posto perché qualcuno non voleva andarsene: non ci rimetto il posto per altri. Meglio lui di me: è la legge della sopravivenza.» «Ti sei fatto comprare dalla ditta.» Disse con astio Alphons. «Ti sei messo d'accordo con quello psicotico dalle manie d'onnipotenza.» «Comprare? Non ho firmato nessun contratto. Ho semplicemente badato ai miei interessi. Come lo faccio adesso.» Disse divertito Frank, con un sorriso che la diceva lunga. «Fatevi avanti ragazzi.» I quattro avanzarono. Alphons non indietreggiò: anche se da solo era disposto a battersi fino all'ult imo. «Non fare l'eroe o la metterai molto peggio.» Gli suggerì Frank. «Non andateci troppo pesanti, ragazzi: non dobbiamo ammazzarlo, anche se non sarebbe tanto male come idea.»

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Il passante sbucò da una via secondaria, fermandosi sul ciglio del marciapiede, passando lo sguardo dall'uomo solitario al gruppetto di balordi. «Tutto bene?» Risuonò la voce bassa a pochi passi di distanza. «Fatti gli affari tuoi.» Lo ammonì uno dei quattro. «Decido io cosa mi riguarda .» Rispose senza scomporsi, scendendo dal marciapiede. «Stanne fuori o va male anche a te.» L'uomo più vicino a quello che aveva parlato alzò la spranga. L'uomo scrollò le spalle, per nulla impressionato. «Non credo che avreste il coraggio d'affrontare due persone contemporaneamente. Sapete fare solo la voce grossa perché siete in branco, ma nulla di più.» «Ma chi cazzo credi di essere? Ora ti sistemiamo per le feste.» Il gruppetto cambiò obiettivo e converse su di lui. «Liberi di provarci, ma vi avverto di una cosa: in fondo alla strada c'è una pattuglia della polizia che sta venendo da questa parte. Se volete farvi arrestare, fate quello che avete detto.» «Tutte balle, non c'è nessuna pattuglia.» Ringhiò Frank, ma la notizia l'aveva messo in agitazione, facendolo guardare in continuazione nella direzione incriminata. «Vogliamo restare a vedere?» Rispose pacificamente lo sconosciuto. I fanali d i un'auto cominciarono a illuminare la via. «Per questa volta t'è andata bene.» Il gruppo prese a indietreggiare verso un vicolo stretto. «Ricordalo come monito.» I cinque s'incamminarono alla svelta, lanciando occhiate furiose alle loro spalle. I fari di una Mercedes grigia illuminarono la strada per qualche istante, prima che il rosso dei fanali posteriori si perdesse oltre la curva del dosso. «Polizia, eh?» Disse divertito Alphons. Era bastato un niente per evitare il peggio. «Basta poco per spaventare certa gente.» Fu la semplice constatazione dello sconosciuto. «Codardi.» Il disprezzo di Alphons era palpabile. «Sì, ma di un genere dannoso.» Disse in tono estremamente serio lo sconosciuto, il viso puntato sulla via dove erano spariti. «Tutto bene?» Ripeté la domanda fatta alla sua comparsa. «Sì.» Alphons cercò di vedere l'uomo in volto, ma la zona buia della strada dove se ne stava glielo impediva. «Grazie.» «Niente di che. Passavo da queste parti.» Lo sconosciuto liquidò la questione, riprendendo a camminare. «Aspetta.» Il passante si fermò. «Cosa c'è?» «Stai andando verso di loro.» Gli fece notare Alphons. «E' dove ero diretto.» «Potrebbero essere ancora nei paraggi e dare dei fastidi.» «Non credo proprio.» Riprese a seguire il muro di cinta che costeggiava il marciapiede. «Arrivederci.» «Arrivederci.» Salutò automaticamente Alphons, alquanto perplesso. Ce n'era di gente strana al mondo. Riprese la strada verso casa, assorto in un pensiero insistente. Perché parlando con quello sconosciuto aveva avvertito una sensazione di dejà vu? Perché aveva avuto l'impressione d'averlo già incontrato, anche se non era riuscito a vederlo in faccia?

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Anche dopo aver percorso un bel pezzo di strada nella foschia della notte, continuò a ripensare a quell'incontro. La coincidenza non aveva madre. Ma era davvero così?

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VI. Fato. "Operaio cade dall'impalcatura e rimane impalato sulle anime d'acciaio delle fondamenta del palazzo in costruzione. Il muratore è morto dopo un'agonia di quindici minuti, senza che i suoi compagni potessero arrivare a soccorrerlo. Ai vigili del fuoco l'ingrato compito di recuperare il corpo senza vita." Le righe del trafiletto della cronaca cittadina scorsero veloci nella frettolosa lettura. «Un altro porco di meno. Facessero tutti la stessa fine.» Borbottò il dirigente passando alla sezione dedicata alla borsa. Il periodo non era dei migliori, perciò era il momento di fare investimenti e speculazioni redditizie: c'erano le opportunità migliori per chi sapeva fare affari, non come quelli che se ne stavano a disperarsi e a piangere sul crollo delle azioni e dei prezzi. Rise divertito al pensiero del tracollo delle borse. "Calate ancora, così vi potrò comprare in abbondanza. E quando vi rivenderò, guadagnerò ancora di più." Il telefono squillò. Nell'avvicinarsi sulla sedia a rotelle alla scrivania, il giornale gli scivolò per terra. «Ma porca puttana.» Imprecò mentre schiacciava il tasto del vivavoce. «Cosa c'è?» Domandò in tono seccato. «Mi scusi signore. Mi ha detto di ricordarle della riunione di questo pomeriggio.» Disse in tono atono la sua segretaria. «Va bene.» Grugnì scocciato. «Per la prossima ora faccia in modo che non sia disturbato. In nessuna maniera.» Interruppe la comunicazione senza aspettare risposta. Guardò nervosamente i fogli di g iornale sparsi sul pavimento. Tutta colpa di quella petulante dell'imp iegata: sempre a rompere quando non era necessario. Con malgarbo rimise insieme il giornale, sfogliandolo rapidamente alla ricerca della pagina che stava leggendo e arrivando nella sezione della cronaca. Innervosito, fece per andare avanti, ma l'occhio gli cadde su un piccolo trafiletto vicino al bordo della pagina. "Dipendente di un'acciaieria muore decapitato dopo che una grossa pila di fogli di lamiera gli è cro llata addosso. Pare che l'incidente sia avvenuto a causa del cedimento strutturale del ripiano dove il materiale era riposto. L'eccessivo peso e le pessime condizioni del basamento della scansia hanno causato l'improvviso crollo. Nulla da fare per l'uomo che non ha potuto evitare il mortale impatto. Un'altra morte dovuta alla mancanza di sicurezza e all'incuria nei controlli, l'ennesima vittima dei tagli indiscriminati portati dalle aziende." "Le solite cazzate dei giornalisti." Riprese a sfogliare il quotidiano. Il frusciare della carta si fermò quando l'attenzione fu catturata un'altra volta da un articolo dello stesso stampo del precedente. "Gru si ribalta nel cantiere schiacciando due operai che stavano lavorando con il martello pneumatico. Il frastuono ha impedito che s'accorgessero del rumore. Il pesante mezzo ha ucciso sul colpo il più vicino dei lavoratori, mentre l'a ltro, riuscito per miracolo a evitare di finire travolto dall'immane massa, si è visto trafiggere da un pezzo di lamiera staccatasi dal grosso corpo metallico. Gli accertamenti hanno rilevato che i macchinari non erano a norma e gli operai morti stavano lavorando in una zona preposta solamente a personale autorizzato, dove non potevano accedere. Un'altra dimostrazione di come le norme di sicurezza sono trasgredite volontariamente per accelerare i tempi."

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Spazientito gettò il giornale sulla scrivania. Gli era passata la voglia di leggere. Sempre la solita storia, sempre le solite recriminazioni su presunti diritti lesi e calpestati. Cosa ne potevano sapere di lavoro delle persone che se ne stavano dietro una tastiera a battere dei tasti? Quel branco di scribacchini patentati gli aveva rovinato la mattinata e soltanto perché non sapevano come sgranchirsi le dita. Che andassero al diavolo. Adesso per dimenticarsi del malumore avrebbe dovuto immergersi tutto il giorno nel lavoro. E sapeva che quei bastardi di sotto avrebbero fatto di tutto per trovare il modo di intralciarlo. Non avrebbe potuto far altro che ingastrirsi ancora di più. L'automobile scorreva silenziosa sulla strada poco trafficata. I pochi automezzi che s'incrociava erano camion di trasporti. Una mattina come le altre: lenta, noiosa e grigia. "Altro incidente sul posto di lavoro. Cinque uomini sono rimasti fulminati mentre eseguivano manutenzione sull'impianto. Una scarica di diverse migliaia di volt ha attraversato i loro corpi uccidendoli all'istante. I corpi carbonizzati sono stati rimossi diverse ore dopo l'accaduto. Un responsabile della ditta ha asserito che nonostante l'ispezione non fosse terminata, era stato dato l'ordine di riavviare l'impianto per riprendere la produzione il più in fretta possibile: si era calcolato che il rischio fosse minimo e quindi accettabile. La direzione ha licenziato l'uomo, asserendo che non era autorizzato a parlare dei fatti." «Dio, bastano poche parole per farti saltare il posto di lavoro. Quell'uomo e la sua famiglia pagano soltanto per aver detto la verità. L'omertà ormai è diventata la nostra cultura.» Mormorò il poliziotto. «Senta questa, commissario.» "Nuovo incidente sul cantiere sotto sequestro. Nonostante i sigilli posti agli ingressi, gli operai sono tornati al lavoro e la tragedia non s'è fatta attendere. Un altro lavoratore è precipitato dallo stesso ponteggio che è stato causa della sorte del suo predecessore. Malgrado l'attrezzatura non fosse stata ancora messa a norma e la zona restasse in stato di fermo per la messa in sicurezza, i muratori hanno ripreso i lavori. L'incidente, a quanto riferito dai testimoni, ha avuto la stessa dinamica: il ponteggio mal fissato ha fatto mancare l'appoggio al lavoratore, facendolo precipitare nel vuoto, infilzandosi sui ferri delle fondamenta dopo un volo di dieci metri. I soccorsi hanno tardato ancora una volta ad arrivare; quando i volontari dell'ambulanza sono giunti sul posto hanno potuto solamente portare il corpo senza vita all'obitorio. E' la terza vittima nel giro di un mese che perisce nella ditta edile." «Dio, sembra un bollettino di guerra in questi giorni.» Borbottò il poliziotto seduto sul sedile del passeggero. «L'aveva già letto commissario? » «Certo.» «E cosa ne pensa?» «La solita storia: ci stiamo facendo l'abitudine. La morte è divenuta una presenza costante, come il postino o il lattaio. Ormai non ci si fa più tanto caso.» «E allora perché andiamo a indagare?» «Perché è il nostro lavoro e qualcosa bisogna pur fare per arrivare a sera. Questo caso o un altro non fa differenza.» «Commissario, non staremo diventando troppo cinici?» Fece notare il sottoposto.

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«Può darsi. Che ci vuoi fare: è il nostro mestiere. Si diventa così per difendersi e non impazzire. C'è tanta immondizia nel mondo e non la possiamo togliere tutta: l'unica cosa che possiamo fare è non caderci dentro e farci sommergere.» «Non dovrebbe essere così.» «Alla tua età è normale pensarla in questo modo. Pensi di poter cambiare il mondo, renderlo migliore, ma se arrivi alla mia età senza che il mondo ti abbia cambiato, allora ritienit i un uomo fortunato. O uno sciocco.» Rimbrottò seccamente. «Pensa per te ragazzo e non perderti dietro a stupidi idealismi. Avrai solamente da perderci.» Concluse amaramente. «La vita delle persone deve pur valere qualcosa di più.» «Un tempo forse, ma che importa? In un modo o nell'altro si deve morire. Non ti dannare per questo mondo abbruttito: vincono sempre i più forti.» Fermò l'auto davanti al cancello, lasciando acceso il lampeggiante e aspettando che venisse aperto. «Coraggio ragazzo, vediamo di sbrigare questa pratica. Non mi va di farmi rovinare un'altra volta l'appetito prima di pranzo.» "E speriamo che i muratori e i manovali collaborino." L'ult ima volta per scoprire qualcosa aveva dovuto rintracciare un dipendente che era stato licenziato dalla ditta per aver cercato di far rispettare la sicurezza sul posto di lavoro. Il proprietario del cantiere aveva dato soldi in nero agli operai perché lavorassero più in fretta e non si fermassero mai, qualsiasi cosa accadesse; per incentivarli maggiormente, aveva minacciato di licenziarli tutti e di fargli terra bruciata attorno, non potendo così più trovare un lavoro. Dovevano terminare la costruzione entro i termini stabiliti, altrimenti, come da contratto, avrebbe dovuto pagare una penale. Avendo conosciuto il titolare, non si meravigliava che qualche infortunio o morte sul lavoro fosse accettabile: c'erano grosse cifre in ballo. Come non si meravigliava che i lavoratori avessero accettato: visto il costo della vita e le famiglie da mantenere, dei soldi in più non potevano che far comodo. Certo che da morti non se li potevano più godere, né potevano più essere d'aiuto ad alcuno; il risultato a voler superare certi limiti. Scosse il capo guardando il cantiere. Sapeva che sarebbe stata di nuovo la stessa storia: se ne sarebbe tornato a casa stanco, senza avere ottenuto niente, senza ricevere collaborazione. Quegli operai erano stupidi come capre: non riuscivano a capire che era lì che per aiutarli e che avevano la possibilità di migliorare la loro situazione? Non solo non avrebbero colto l'occasione, ma avrebbero fatto di tutto per ostacolarlo, tenendo la parte del padrone, colui che li sfruttava fino alla morte. Sconsolante. Stizzito, prese una curva troppo stretta, facendo stridere i pneumatici sulla salita che conduceva ai palazzi in costruzione. La vita era davvero un gran letamaio. Le luci della città si scorgevano in lontananza, puntini rossi e gialli che ammiccavano sbiaditi attraverso la grigia foschia. Il velo fumoso era sempre presente. Molti dicevano che era l'inquinamento causato dal traffico esasperato e dai comignoli di scarico delle industrie, ma non poteva trattarsi solo di quello. Ogni altra città aveva gli stessi problemi, eppure concedeva qualche sprazzo di cielo, seppur privo dello splendore dei colori montani. Invece

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lì era sempre grigio, in qualsiasi stagione dell'anno. La solita coltre che rendeva indistinte le figure e le forme, intristendo tutto e tutti. Guardando quel paesaggio, che sembrava appartenere a nessun luogo, aveva spesso la sensazione di essere osservato. Gli angoli scuri sembravano appuntarsi su di lui, simili a tanti occhi, come se là fuori ci fosse un gigantesco fantasma che scrutava le vite umane, scavando nei loro animi, in attesa di ghermirli. Un pensiero sciocco, lo sapeva. Eppure aveva sempre quella sensazione quando s'affacciava alla finestra sul cortile, specie a quell'ora della giornata. Farsi distrarre da quelle fantasie. Doveva essere il troppo lavoro. Ormai era notte fonda: si era attardato più del dovuto. Eppure aveva dovuto farlo, dato che i dipendenti avevano scioperato per tutto il giorno: c'erano pratiche arretrate che attendevano di essere archiviate. Batté un pugno sul tavolo: l'ennesimo sciopero per un'altra morte bianca. Che spreco di tempo. L'indomani li avrebbe fatti sgobbare all'inverosimile per recuperare quello che avevano perso. Guardò l'orologio. Le due di notte. Ancora un'ora di lavoro e poi sarebbe andato a letto. Si sedette sulla poltrona di velluto e si mise a battere sui tasti della tastiera. Il computer si spense e la stanza piombò nell'oscurità. Cazzo, era già la terza volta che mancava la corrente elettrica. Proprio un giorno da buttare via. Chissà quanto tempo sarebbe occorso prima che il pronto intervento riallacciasse il servizio. Tornò a guardare fuori della finestra. Le luci brillavano nelle palazzine in fondo la via. Osservò meglio. Tutto il circondario era illuminato. Soltanto l'edific io della ditta era al buio. Forse si era staccato il differenziale. Eppure, a parte il suo ufficio, non c'erano carichi che pesassero sull'intero sistema: tutti i macchinari erano fermi. Doveva andare a controllare il quadro: altro tempo perso. Davvero una giornata da dimenticare. Ma non sarebbe rimasta senza conseguenze: l'indomani l'avrebbe fatta pagare a quei maledetti dei suoi dipendenti. Con gli occhi che si erano abituati alla penombra scura dell'ufficio, girò intorno alla scrivania, andando verso la porta e fermandosi a osservarla: non gli sembrava d'averla chiusa. Preso dal troppo lavoro non doveva essersi accorto d'averlo fatto. La maniglia non cedette alla pressione della sua mano. Provò un'altra volta, ma continuò a non muoversi. Che si fosse bloccato il meccanismo? Poi notò che sulla serratura mancavano le chiavi: le lasciava sempre infilate. Erano state tolte, non aveva alcun dubbio. Non era solo nell'edificio, ci doveva essere qualcun altro. Qualcuno che conosceva le sue abitudini e sapeva che finché era in ufficio, l'allarme era disattivo. Qualcuno che si voleva prendere gioco di lui e che aveva la tessera per aprire le porte. «Chi c'è?» Urlò contro la porta. «So che sei un dipendente di questa ditta. Apri subito, prima di finire in grossi guai.» Soltanto il ronzio del distributore di bibite rispose al suo richiamo. Il dannato doveva essersene andato subito dopo aver bloccato la porta, pensando di averlo rinchiuso in ditta fino al mattino. Quello scherzo sarebbe costato caro a molti. Non sapevano che teneva una copia delle chiavi nel cassetto della scrivania. Che imbecilli: come potevano crederlo così stupido? Il rumore secco del legno che scorreva su altro legno ruppe l'aria, subito seguito dall'affannoso ribaltarsi degli oggetti e dei fogli contro la superficie lucida.

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Era impossibile. Non riusciva a trovarle. Eppure erano sempre state lì. Cercò negli altri cassetti, ma l'evidenza dell'intrusione ormai era palese. Avevano superato davvero il limite. Impugnò con rabbia il cordless, pigiando con forza i tasti. Avrebbe fatto venire il figlio ad aprire e poi avrebbe chiamato la polizia. Avrebbe voluto vedere chi si sarebbe divertito di più. Il tono muto dell'apparecchio risuonò nel suo timpano. «Ma che cazzo…» Imprecò tra i denti. Una scintilla scoccò in mezzo all'oscurità della stanza. Le fiamme squarciarono il buio, attecchendo all'istante sulle pareti di plexig las e sulle piante ornamentali dell'ufficio. Subito l'ambiente fu invaso dall'odore nauseante del fumo nero, costringendolo a mettersi un fazzoletto davanti alla bocca e al naso per non soffocare. Doveva esserci stato un dannato cortocircuito che aveva mandato in tilt tutto quanto, ma com'era possibile se non c'era corrente in tutto il fabbricato? E perché il sistema antincendio non scattava? Con un balzo prese l'estintore posto nell'angolo vicino al mobile a vetro, strappando la linguetta e dirigendo il getto bianco del cono diffusore alla base delle fiamme. Ci fu un leggero sbuffo e un lieve sibilo, poi più nulla. Provò a premere più volte la leva, ma il risultato non cambiò. Scarico. Ma non dovevano essere passati a ricaricarlo? Non doveva essere stata fatta chiamare la manutenzione per il controllo periodico di sicurezza? Con il grosso estintore in mano fece per avvicinarsi alla porta e sfondarla. Una violenta fiammata lo mandò a gambe all'aria. Il cilindro rosso rotolò in mezzo alle fiamme, lontano dalla sua portata. Strisciando sulle ginocchia tornò ad avvicinarsi alla porta, deciso ad abbatterla per sfuggire all'incendio. Una vampata di calore lo ricacciò all'indietro, facendogli arricciare i capelli sulle tempie e dolere la pelle del volto. Le fiamme divamparono con sempre più forza, distruggendo senza posa ogni cosa che incontravano sul cammino, ricacciandolo ancora più indietro. Fuggire verso il corridoio e le scale era impossibile. Non restava che saltare dalla finestra. Un balzo di quasi cinque metri, ma poteva anche cavarsela con niente. Afferrò saldamente la manopola della finestra e girò, ma era come se fosse stata saldata al telaio. Provò con tutte le altre, ma ogni tentativo fu inutile. Con una mossa frenetica afferrò la poltroncina a rotelle e la scagliò contro i vetri. La vide rimbalzare nelle fiamme, facendole divampare ancora di più. Sempre più nel panico prese una delle sedie dal telaio di ferro e cominciò a usarla come ariete. I piedi di metallo si piegarono a ogni colpo, rimbalzando inefficaci contro la superficie trasparente. Lasciò cadere l'oggetto distrutto, voltandosi a guardare il muro di fuoco che si stagliava contro di lui. Si guardò attorno impaurito, senza via di scampo, facendo schizzare gli occhi da un angolo all'altro della stanza. Le lingue rosse erano stranamente silenziose nel loro incedere, ma non riusciva a smettere di sentire un sommesso brusio che gli sfuggiva ogni volta che cercava d'individuarne la provenienza. «Chi c'è?» Urlò in presa all'isteria. «Se c'è qualcuno, mi tiri fuori di qui.» Non ci fu nessuna risposta. Con la disperazione che saliva dalle viscere, sull'orlo di farsela sotto, provò un'altra volta ad aprire le finestre. Fu allora che vide il passante nella strada.

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Un moto di speranza si riaccese. Senza dubbio i soccorsi sarebbero arrivati presto; sicuramente aveva visto l'incendio e doveva aver chiamato i pompieri. Non poteva essere diversamente. Ma i minuti passavano e nessuna sirena s'avvicinava. Il dubbio l'assalì. Che non l'avesse visto? No, no, impossibile: lo stava fissando. Batté le mani sul vetro, urlando per sollecitare l'arrivo dei soccorsi. L'uomo infilò con calma le mani in tasca, come se dovesse mettersi comodo per assistere a uno spettacolo. «Che cazzo stai facendo?» Urlò fuori di sé. «Muovi quel culo e fai venire i soccorsi. Vuoi forse che bruci vivo in mezzo a questo rogo?» Il passante fece un passo avanti, entrando nel cerchio di luce del lampione. L'illuminazione giallognola rischiarò i tratti del volto. «Tu.» Riuscì a dire il dirigente sgranando gli occhi. «L'altra mattina c'eri anche tu in mezzo a quella folla.» Aveva visto la sua faccia solo di sfuggita, ma l'aveva riconosciuta subito. E adesso sapeva perché tra tanti che urlavano e inveivano, l'aveva colpito il fatto che se ne rimanesse semplicemente a fissarlo, freddo e distaccato. Gli occhi di un assassino. Come aveva fatto a non capire chi era? La cronaca ne parlava in continuazione. Un brivido freddo gli corse lungo il midollo. Prese a battere freneticamente i pugni contro il vetro. Il passante non fece una piega. Rimase impassibile a godersi lo spettacolo. Anche da quella distanza poteva distinguere l'espressione soddisfatta di chi vedeva fatta giustizia e pazientemente osservava la sentenza decretata. "Non voglio fare quella fine." E mentre implorava, come se fosse uno spettatore, si rivide con la faccia distorta dall'astio urlare parole cariche di violenza. «Dio.» Provò a pregare, ma non aveva mai creduto in niente, se non nei soldi. Una supplica vuota, senza speranza. Il brusio sussurrò vicino al suo orecchio. Lentamente si voltò, ritrovandosi ad affrontare un muro rovente. I lampeggianti mandavano riflessi blu contro la parete. Nel prato sottostante i poliziotti tenevano sotto controllo la folla di lavoratori che s'accalcava contro i cancelli, in attesa di sapere quando potevano entrare al lavoro. Pia illusione Con quello che era successo, a nessuno sarebbe stato permesso l'ingresso: il caseggiato era sotto sequestro fintanto che le indagini non fossero finite e ogni indizio messo a referto. Un amaro sorriso distorse la bocca del commissario. Un'altra pia illusione. Se non avveniva un miracolo nelle ore successive, d'indizi non c'era alcuna traccia. "Per l'ennesima volta." Pensò seccamente. «Commissario.» «Che c'è?» Disse sgarbato senza voltarsi. «Abbiamo controllato ogni accesso dell'edificio e pure le finestre di questo piano.» «Lasciami indovinare: nessuna effrazione di scasso o segni di forzatura.»

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«Esatto.» «Ma porca…» Stroncò a mezzo l'imprecazione. «Vorrà dire che dovremo concentrarci sui lavoratori: sono loro che hanno le tessere d'accesso per l'azienda.» «Abbiamo già controllato. I loro badge funzionano solo per entrare tra le otto e le venti. Le uniche persone che potevano entrare oltre tale orario erano la vittima e suo figlio.» «Ci può essere stata una manipolazione del sistema?» «Possibile, ma da quel che riferiscono le apparecchiature del quadro, è mancata la corrente all'edific io dalle prime ore della serata fino a tarda notte. La vittima era b loccata qua dentro.» «Perché non ha avvertito nessuno?» «Anche la linea telefonica era saltata nello stesso periodo.» «Nient'altro?» Si passò una mano sulla bocca, sentendo l'amaro sapore del sarcasmo che saliva dalla gola. Fece un respiro profondo per calmarsi. «Hai detto che la vittima era l'unica a essere entrata ieri sera. Allora siamo di fronte a un caso d'autocombustione, dato che l'unico a essere bruciato è lui.» Sbottò spazientito e voltandosi di scatto. L'orrido corpo annerito l'osservò con gli scoperti denti ingialliti. Ancora una volta il ribrezzo lo costrinse a distogliere lo sguardo. «Se è morto mentre lavorava» continuò il commissario a parlare spazientito. «perché la sedia e la scrivania non presentano tracce di fuoco? Per non parlare del resto del mobilio, che sembra nuovo. Da com'è ridotto il corpo, qui dovrebbe essere tutto macerie.» Il poliziotto rimase in silenzio. «Qualcuno lo ha bruciato vivo e poi lo ha portato qua dentro: è l'unica spiegazione. Solamente che dobbiamo trovare le tracce lasciate e non ce ne sono da nessuna parte.» Mollò un calcio al cestino, spargendo sul pavimento i fogli di carta appallottolati. «Che cazzo gli è preso a questa città? Stanno tutti impazzendo?» «Commissario, privati dell'energia elettrica nessuno poteva entrare o uscire senza forzare gli ingressi.» Gli fece notare il sottoposto. «Allora ce l'avranno portato prima che saltasse la corrente.» «Impossibile: il figlio è rimasto con lui fino alle nove di sera. Ce lo ha assicurato il proprietario di un bar qui vicino: l'ha visto uscire verso quell'ora dalla ditta.» «Occorre trovare la rivendicazione per venirne a capo.» Borbottò tra sé il commissario. «Mafiosa, usuraia o da parte di qualcuno che ce l'aveva con lui. Conoscendo il soggetto non ci sarebbe da meravigliarsi: i suoi modi estremisti potevano esporlo ad azioni del genere. Non scarterei a priori la pista dei dipendenti. O ex dipendenti.» Si corresse. «Non si uccide per aver perso il lavoro.» Fece notare il poliziotto. «E' un motivo come un altro in un mondo che sta impazzendo.» «Dobbiamo avere un qualche indizio prima di metterci a seguire una pista.» Suggerì il sottoposto. «Dannazione, questo lo so.» Sbottò il commissario. "Proprio a me devono capitare simili gatte da pelare." «Cominciate a fare domande in giro: se aveva attriti particolari con qualcuno dei dipendenti; se c'erano state liti o scontri, sia ultimamente sia nel passato. Quando avremo l'autorizzazione faremo controllare lo stato dei suoi conti per vedere se era finito in qualche brutto giro. Intanto continuate a cercare finché c'è ancora un po’ di tranquillità.» Dei passi risuonarono nel corridoio. Un altro membro della polizia si dirigeva verso l'ufficio. "Mi sa che la pace è già finita."

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«Commissario, è arrivato il fig lio.» Ingiunse il nuovo arrivato. "Come volevasi dimostrare." «Fallo salire. Leviamoci alla svelta questa schifosa faccenda di torno.» Disse seccato. "Anche oggi non riuscirò a mangiare." «Aspetta un attimo.» Fermò l'agente che stava per andarsene. «Servirete entrambi.» Indicò anche il poliziotto che era stato con lui nell'ufficio fino a quel momento. «Occorreranno braccia robuste nel caso si mettesse a fare casino.» Diede un rapido scorcio fuori della finestra. La fuoriserie era parcheggiata in mezzo al piazzale e un giovane in giacca e cravatta stava discutendo animatamente con gli uomini in divisa mentre s'avviava all'ingresso ai vetri. Già, davvero un bel casino. I giornali ci sarebbero andati a nozze. Chissà che nome si sarebbero inventati questa volta. Accidenti alle loro teorie. Come si poteva pensare che ci fosse una sola persona dietro quello che stava succedendo? Era ridicolo. Un simile concatenamento d'avvenimenti faceva pensare a un'organizzazione di grosso calibro che stesse cercando di appropriarsi in ogni modo di grosse imprese. Tutte le vittime erano industriali e il modus operandi era quello malavitoso: sanguinoso e impressionante, atto a intimorire per far cedere alle richieste ed entrare nel giro dei ricavi. Ma senza prove non poteva dimostrare nulla, continuando a brancolare nel buio. C'era da spaccarsi la testa. Una cosa però era certa: la notizia sarebbe stata su tutti i titoli dei giornali. Come pure il suo nome. E pensare che voleva soltanto un tranquillo posto d'ufficio. Sospirò stancamente, volgendo lo sguardo alla porta e attendendo l'arrivo della parte più diffic ile del suo lavoro: affrontare i parenti delle vittime. Anche se il copione era lo stesso e c'era abituato, una parte di strazio riusciva sempre a colpirlo e infastidirlo. In quel caso sarebbe stato ancora più diffic ile. Per qualche secondo ancora, vide il corpo distrutto prima che venisse coperto dal lenzuolo bianco. La pelle era diventata carbone, arrivando a intaccare i tessuti e le ossa sottostanti. Nessun osso rotto o colpo d'arma da fuoco o da taglio: era stato ucciso dalle fiamme. Che morte orribile. Sulle scale risuonarono passi affrettati. Non vedeva l'ora che quella giornata finisse presto. Invece sapeva che sarebbe stata ancora molto lunga.

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VII. Titoli di giornali. Il lampeggio azzurro della sirena solcava la tenue luce dell'alba, rischiarando lo scricchiolio dei passi sul fitto ghiaino che ricopriva il cortile. Il commissario accese una sigaretta mentre i poliziotti controllavano la zona. Sembrava che la gente si fosse messa d'accordo e avesse deciso d'impazzire tutta in una volta. Perché poi accadeva sempre quand'era di turno, questo non riusciva a capirlo. Ci fosse uno spiraglio, un qualche legame tra quelle morti almeno, sarebbe già stato un passo avanti. Invece l'unica cosa che accomunava i decessi, era che non c'era mai un indizio che rivelasse la mano che aveva colpito. Inspirò piano il fumo denso che andava a intossicare i suoi polmoni. Al diavolo, di qualcosa si doveva pur morire; tanto valeva che fosse qualcosa che gli piaceva. Ormai era l'unico piacere che gli era rimasto dopo aver divorziato dalla moglie. Con lo stipendio da fame che passava il distretto aveva dovuto stringere la cintura, rinunciando a molti vizi; almeno le sigarette era riuscito a conservarle. Gli consentivano di avere cinque minuti il giorno di pace con se stesso e con il mondo. In fondo non chiedeva altro. Sapeva che avrebbe dovuto arrancare e arrabattarsi fino alla pensione e da lì scapicollarsi per poter comprare da mangiare ogni giorno fino al pagamento successivo. Un piacere lo doveva conservare, altrimenti che esistenza era? Si strinse il bavero della giacca contro l'aria frizzante dell'a lba. Maledizione, era stato costretto a uscire dal caldo ufficio per arrivare lì. Non potevano aspettare un paio d'ore a trovare il corpo? Il suo turno sarebbe finito e sarebbe potuto andare a dormire. Invece gli sarebbe toccato aspettare l'arrivo del medico legale, dei funzionari pubblici e magari anche dei giornalisti; naturalmente avrebbe dovuto compilare il rapporto. Ce ne sarebbe stato fino l'ora di pranzo. Inalò il fumo, cercando di rilassarsi ancora un poco, prima di ritornare dal corpo della vittima. Con gli occhi socchiusi rimase a fissare tra le volute bianche della sigaretta l'indaffararsi degli agenti. Che facessero loro il lavoro, quella mattina non aveva voglia di muovere un dito. Avrebbe dovuto dar retta a sua madre e trovarsi un lavoro con un orario più regolare, ma il posto in fabbrica non gli era mai piaciuto, troppo monotono, e gli altri impieghi non lo avevano mai convinto: i pro erano sempre meno dei contro. Entrare in polizia alla fine gli era sembrata la scelta più ovvia: in fondo a scuola non se la cavava male in diritto e in più non doveva sempre stare in ufficio. La zona in cui viveva, e a cui alla fine era stato assegnato, era una delle più tranquille, quindi il lavoro non sarebbe stato eccessivo. Una buona scelta aveva sempre pensato. Ogni rosa però aveva le sue spine ed era arrivato a scoprirlo. L'esplosione di violenza delle ultime settimane l'aveva messo di fronte a cosa era veramente essere nelle forze dell'ordine. «Trovato qualche indizio?» Chiese avvicinandosi agli uomini in divisa. «Nessuno, commissario. Le uniche tracce lasciate sono quelle della vittima.» Diede un tiro alla sigaretta. «Sembrerebbe suicidio. Però non vedo nessuna scala sotto di lui che l'abbia aiutato a salire e a far passare la corda attorno al ramo. E dubito che si sia arrampicato sull'albero fino a quel punto: data l'età e la stazza, non credo ne sia stato capace.»

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Il gendarme guardò l'altezza che separava il suolo dal ramo. «Non c'è altra spiegazione. Non è stato visto nessuno qua intorno; nessuna macchina s'è avvicinata alla zona. L'unico che può aver fatto questo dev'essere stato lui.» «E quella scritta sul ramo?» Il poliziotto rimase in silenzio. Il commissario sbuffò. «Mi sa che ci sarà da spaccarsi la testa per venirne fuori. Intanto prepariamoci all'arrivo dei giornalisti: la notizia farà scalpore.» Mugugnò contrariato. «Continuate a cercare. Torno un attimo in macchina: ho bisogno di un po’ di calma per riflettere.» "Per quel che può servire." Chiuse la portiera e si lasciò andare al lento sprofondare del sedile. "Dio, qua sta impazzendo tutto." Pensò stancamente, adagiando la nuca al poggiatesta e chiudendo gli occhi. Lasciò trascorrere i minuti, cercando di distendersi un poco, senza successo. Le immagini continuavano ad apparire come tanti fulmini che squarciavano il buio. Si passò due dita sulle palpebre, cercando di alleviare il cerchio che sentiva stringere alla testa. Sotto la pelle sottile sentì gli occhi bruciare. Tutta causa del poco riposo degli ultimi giorni; non c'era stata tregua. Nonostante si fosse scervellato in tutti i modi, non era riuscito a scorgere scampoli di luce in nessuno dei casi. Sarebbe stato il massimo se avessero avuto ragione i giornali: un'unica mano dietro tutti gli omicidi. Certo, i rotocalchi avevano interesse a costruire una storia del genere, faceva audience, alimentando la nascita di un possibile serial killer, anche se il movente era inesistente e il modo di eliminare le vittime non era mai lo stesso. Quelle erano fantasie folli. Era folle pensare a una mente posseduta da una simile pazzia; e altrettanto folle credere che un solo uomo fosse in grado di compiere quei misfatti. Esisteva tuttavia un fondo di verità. Forse era proprio nella follia che occorreva ricercare la soluzione. Prese il giornale appoggiato sul sedile passeggero, ricercando l'articolo che parlava dei fatti di cronaca di quei giorni. Lo trovò subito, dato che era tra le prime pagine: l'efferatezza e la crudeltà del delitto, unito alle circostanze misteriose, ne facevano una notizia che attirava l'attenzione. Alzò gli occhi dal giornale, dando una rapida occhiata ai poliziotti che entravano e uscivano dalla porta della canonica. Avevano passato due ore all'interno della casa, alla ricerca di un lascito della vittima che spiegasse il gesto disperato. Niente. Sarebbe stato davvero il colmo: sentir parlare del suicidio di un prete, specie se pochi giorni prima aveva condannato aspramente un atto del genere. L'apparenza tuttavia ingannava: quel caso non lasciava dubbi che si trattasse di un omicidio, o meglio, di un'esecuzione. Si sapeva la vittima era invischiata in vicende losche e introiti poco raccomandabili, anche se tutti facevano finta di non vedere. Niente che non si fosse già visto: molti nella sua posizione erano in mezzo a giri sporchi e anche i più benintenzionati erano costretti a scendere a compromessi per fare opere di carità a chi ne aveva bisogno. Erano le regole del mercato: per avere bisognava anche dare, conoscendo il giusto prezzo. Se si pretendeva troppo invece, si poteva fare una brutta fine. Riportò l'attenzione all'articolo. "Una nuova esecuzione." Spiccava a lettere cubitali l'impietoso titolo.

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"Nella notte di martedì l'ennesimo, raccapricciante omicidio di un imprenditore della città." Commentava il sottotitolo in neretto. "Un noto industriale è stato l'ennesima vittima dell'ondata di violenti assassini abbattutasi nell'ultimo mese. Un raccapricciante fatto che ha fatto impallid ire i precedenti. Il corpo dell'uomo è stato trovato nelle prime ore del mattino, i resti carbonizzati riposti compostamente sulla poltrona della scrivania dove era solito trascorrere la sua giornata lavorativa, un nobile esempio d'uomo dedito al lavoro e al miglioramento della società in cui viveva. La sconvolgente scoperta è stata fatta dall'addetta alle pulizie all'inizio del turno di lavoro. Il riconoscimento della vittima, avvenuto grazie alla catenella che portava al collo, è stato confermato dal figlio all'arrivo sul posto di lavoro: non era la prima volta che il padre non rientrava a casa la notte per seguire gli affari della d itta. Non si hanno ancora notizie sullo svolgimento dei fatti. L'ipotesi più probabile pare essere una sorta di brutale esecuzione avvenuta in un altro luogo, con i resti riportati nell'ufficio come macabro monito. Un minaccioso avvertimento di cui ancora non si conosce la causa e la rivendicazione. Un'altra efferata esecuzione dell'assassino di vampiri?" L'art icolo continuava con una serie di morbosi dettagli sulla morte dell'uomo, d'encomi sulla sua vita e su quanto fatto per lo sviluppo e il benessere della società. Un fiume di parole che non dicevano niente e a cui non aveva voglia di dare attenzione. L'assassino di vampiri. Il fantomatico nome dato al presunto serial killer che la stampa credeva essere responsabile della serie d'inspiegabili omicidi. Una mano perversa mossa da un'insana, quanto geniale mente criminale. Un nome nato per la modalità con cui uccideva. Un nome che aveva fatto salire le vendite. Se questo fosse stato vero, erano di fronte a una mente lucida e brillante, attenta e scrupolosa; un genio capace di non lasciare traccia del suo passaggio, con l'inconfondibile firma che ormai lo contraddistingueva: le tecniche per eliminare il famoso non-morto delle leggende. Impalamento. Decapitazione. Rogo. I primi a essere considerate vittime del fantomatico serial killer nell'immaginario giornalistico erano stati i titolari dei due cantieri posti sotto sequestro per la morte degli operai caduti dalle impalcature. I corpi dei due proprietari, a distanza di pochi giorni uno dall'altro, erano stati ritrovati impalati su uno dei pilastri delle fondamenta, il torace trafitto dalle anime d'acciaio che componevano il cemento armato. La fantasia giornalistica non aveva esitato a cogliere l'occasione per creare il caso, dato che i fatti escludevano l'ipotesi d'incidente, poiché le vittime non dovevano essere presenti sul luogo della loro morte, dato che era notte e il cantiere chiuso. C'era la possibilità del suicidio, ma un particolare rendeva l'eventualità difficile: perché le vittime dovevano salire sulla cima della gru e buttarsi di sotto? Potevano farla finita in un modo meno complicato. Sembrava più un'esecuzione mafiosa; ma anche in questo caso esistevano metodi molto più sbrigativi di una faticosa scalata. Solo una mente malata sarebbe ricorsa a un assassinio del genere. La situazione pareva essersi calmata a seguito di un'interruzione degli omicidi durata poche settimane; tregua rotta da altre due morti avvenute per decapitazione.

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Il presidente e il vice presidente di una grossa ditta di laminatori, erano stati ritrovati all'interno dell'impresa con il capo spiccato dal collo. L'arma del delitto, trovata in mezzo al magazzino, era una grossa lastra di ferro. Sembrava impossibile che fosse stata il mezzo per uccidere: dato il suo peso, poteva essere sollevata soltanto con un grosso muletto, ma il reperto medico confermava che la causa del taglio era dovuta proprio all'oggetto metallico. Anche in questo caso l'ipotesi d'incidente era stata accantonata, dato che la grossa lamina, insieme ai corpi, era stata trovata in un magazzino completamente vuoto, i cadaveri lontani l'uno dall'altro. Di nuovo i giornali avevano ricamato sulla figura di un probabile serial killer. A quel punto era cominciata a circolare la storia dell'assassino di vampiri. Una pista fantasiosa che stava trovando un forte riscontro mediatico, ma che dalle indagini effettuate non aveva dato risultati: non esistevano tracce indicanti che fosse una sola persona a commettere gli assassini, né le metodologie d'uccisione facevano presagire che si trattasse d'omicidi seriali. Erano state esecuzioni immediate e perentorie, senza che la vittima fosse torturata o aveva subito un supplizio prolungato. I corpi erano stati lasciati sul luogo del delitto e non portati altrove per qualche deplorevole attività, quali la necrofilia o il cannibalismo. Non c'era stata caccia, come spesso avveniva quando c'erano di mezzo degli psicotici, ma le vittime erano state colpite in un ambiente a loro comune, inaspettatamente e senza preavviso. La sua ipotesi, avuta fin dall'inizio, era che si trattasse di un'organizzazione malavitosa che stava colpendo chi non si voleva piegare ai suoi voleri. Né le indagini, né le intercettazioni avevano però dato conferma della sua teoria. E con il succedersi dei fatti, la sicurezza nella sua teoria era cominciata a vacillare. Altre quindici morti, tutte avvenute nello stesso modo, tutte industriali o proprietari d'attività dirigenziali. Una tipicità dei serial killer scegliere una tipologia di vittime; probabilmente poteva trattarsi di un missionario, un tipo d'assassino che riteneva uccidere gente di un certo genere una missione per ripulire la società. Una teoria destinata al naufragio quando cinque persone erano state trovate arse all'interno di un'auto alla periferia della città. Ma una nuova pista si era aperta. Le vittime erano dipendenti dell'industriale bruciato nel suo ufficio, la loro morte avvenuta nello stesso giorno e con le stesse modalità: l'abitacolo dell'auto era intatto. Doveva esserci un legame, ma capire quale esulava dalla sua mente. Trovandosi in un vicolo cieco, ormai disposto ad accettare qualsiasi strada pur di uscire nell'imbuto nel quale era fin ito, era arrivato a provare a dare ascolto alle notizie divulgate dai media: era andato a documentarsi su come i vampiri venivano eliminati, per cercare di capire la mentalità criminale con la quale dovevano confrontarsi. Tutte le morti avvenute corrispondevano ai modi di eliminare i non morti, persino l'impiccagione del prete; non lo avrebbe mai ritenuto possibile, almeno dalle conoscenze acquisite vedendo film horror, ma era un metodo riconosciuto in alcune tradizioni folcloristiche per eliminare quel genere di creature. Il serial killer con cui avevano a che fare, s'identificava in una specie di giustiziere o vendicatore, credendosi il protagonista di fumetti o romanzi horror di basso costo? Se così era, perché non scriveva lettere ai giornali o alla polizia per prendersi il merito di rendere migliore la società, come credeva di fare una buona parte di loro? Gli bastava quello che appariva sui giornali, per sentirsi apprezzato, dando un senso alla propria vita? Perché non voleva riconoscimento per il proprio ego? Assassino di vampiri.

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Rabbrividì al pensiero. Non era possibile. Nessun uomo, per quanto geniale, poteva compiere simili azioni da solo: occorreva un'organizzazione ben strutturata ed esperta nel crimine per arrivare a non lasciare tracce. Non poteva essere diversamente. Alzando gli occhi dal giornale diede uno sguardo al giardino della canonica. Ormai i poliziotti stavano finendo di cercare gli indizi. Storse la bocca. Visto quel che c'era, potevano aver smesso due ore fa. Un'auto imboccò la strada che portava al vialetto della chiesa. Doveva essere il medico legale. Scese dall'auto per andargli incontro. «Ehi, commissario, sa cosa abbiamo scoperto?» Disse un poliziotto avvicinandosi. «Il corpo è stato impiccato a un albero di siliquastro.» Il commissario gli gettò un'occhiata irritata. «E allora?» «E' conosciuto anche come albero di Giuda.» Precisò il poliziotto. «E cosa c'entra con questa morte?» Era stanco di sentire parlare d'aria fritta. «E' l'a lbero degli impiccati e dei traditori. La credenza popolare narra che sotto quest'albero Giuda Iscariota diede il fatidico bacio a Gesù e più tardi, travolto dal rimorso, vi s'impiccò.» Spiegò il poliziotto, per nulla scoraggiato dal tono dell'altro. «Non è strano che con tutti gli alberi del giardino, sia stato appeso proprio a questo?» «Cosa vorresti dire?» «Che forse si tratta davvero d'omicidio.» «Continua.» Lo incitò il commissario, interessato dal ragionamento. «L'assassino non s'è mosso a caso: ha voluto lasciare un messaggio. La scelta dell'albero e la scritta sul ramo vogliono dire qualcosa: forse far sapere che questa è la fine che meritano i traditori. La sorte toccata a Giuda.» Ipotizzò il subalterno. Il commissario rifletté sulle sue parole: avevano un senso, ma non aiutavano nelle indagini. Scrollò le spalle, dopo aver dato ancora una volta un'occhiata alla parola scritta sul legno: fariseo. «Sempre che Giuda fosse un traditore e per comodità di alcuni non gli sia stata affibbiata quest'etichetta.» «Così ci ha insegnato la storia e la religione.» Obiettò l'uomo. «Non mi fido di quello che dice la maggioranza, crede sempre ai pettegolezzi, alle dicerie e non ricerca mai la verità: si affida sempre a quello che dicono gli altri.» Si accese un'altra sigaretta. «Più semplice e comodo.» «E' da duemila anni che viene trasmessa questa storia.» Gli fece notare il sottoposto. «Il resoconto lasciato dai fondatori di questa religione.» «E allora? Erano come tutti gli uomini venuti prima e dopo di loro.» «Cosa vuole dire?» «Che per avere potere si fa di tutto.» Disse caustico il commissario. «Degli uomini di fede?» «Cosa li differenzia da altri? Cosa li rende migliori? La carica che ricoprono? Non ti far ingannare: sono come chiunque altro.» Scosse il capo. «Le istituzioni hanno il potere di cambiare chiunque, anche i più benintenzionati: conosci un potere temporale più grande della religione capace d'influenzare gli individui? Secoli di pratica per mettere in atto e migliorare un condizionamento che nulla ha a che fare con il messaggio di partenza, quale esso fosse.» «Dubita della tradizione trasmessa?»

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«Il mio ruolo m'impone di dubitare di qualunque cosa e di chiunque.» Il commissario scrollò le spalle. «Sono passati secoli da quando tutto ha avuto inizi, molti i cambiamenti e i passaggi di mano dei cosiddetti testi sacri: le traduzioni possono essere state sbagliate o modificate, molte testimonianze scomparse o fatte scomparire. Hanno preso quello che faceva più comodo, scegliendo gli appoggi giusti. Il resto è storia.» Inalò il fumo. «Non ti far prendere da idealismi: c 'è del marcio in loro come in qualunque altro, solamente cercano di nasconderla sotto un velo di perbenismo. Il fantomatico assassino si potrebbe anche nascondere tra loro, per quel che ne sappiamo.» «Crede che abbiamo a che fare con un fanatico religioso? » «Tutto è possibile a questo mondo.» Borbottò osservando le sfumature rosee dei fiori sbocciati direttamente dal legno dei rami, unica nota di colore della grigia giornata.

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VIII. Orme paterne. Il ronzio della ventola del computer cessò, avvisandolo dell'avvenuto spegnimento. Chiudendo il registro contabile, rialzò lo sguardo sul pc e scollegò la chiavetta hardware dove erano salvati i file dei grafic i di b ilancio. L'andamento era positivo, il trend in salita, ma non poteva essere soddisfatto: la pendenza della curva non era aumentata rispetto il mese precedente. Le vendite erano state buone; l'unico punto che faceva abbassare il tratto sul grafico riguardava le spese: ancora troppo alte. Tamburellò le dita sul tavolo. I costi sulle materie prime erano limati al massimo e altrettanto le lavorazioni esterne. Poteva provare a cercare altri fornitori e terzisti, ma sarebbe cambiato poco: quelli selezionati erano tra i più bassi che il mercato offriva. I guadagni dovevano tornare a salire, ogni mese superare quelli precedenti; occorreva trovare una soluzione. E lui ne aveva già una pronta. Il consiglio d'amministrazione non sarebbe stato d'accordo con la sua linea d'azione, se fosse stato ancora in carica; ma era stato sciolto e i collaboratori di suo padre liquidati con una buonuscita decorosa. Aveva provato a sopportarli, ma la loro eccessiva prudenza era stata snervante e controproducente ai fini dell'azienda. Sempre a cercare compromessi e accordi per accontentare tutte le parti. Non avevano ancora capito che erano gli altri ad avere bisogno dell'azienda, e non il contrario: proprio per questo i lavoratori dovevano accettare le regole e quanto la ditta era disposta a dare. Nulla di più. Nessun dialogo o confronto: soltanto muta accettazione. Si lisciò il mento, sentendo la pelle ancora liscia della rasatura mattutina. Era stata una buona scelta. Senza contare che si era sgravato di una serie di costi non indifferenti. Tuttavia ancora non bastava. Occorrevano altri tagli. Prese un taccuino dal cassetto e cominciò a scrivere. Ridurre costo del riscaldamento; bastava farlo funzionare mezza giornata. Anche se i dipendenti si fossero lavati le mani con l'acqua fredda sarebbe stato lo stesso. Eliminare i distributori di bevande. Consumavano energia e non erano fonte di guadagno, anzi: facevano perdere tempo ai lavoratori. Ridurre il numero dei pc negli uffici. Eliminare i controlli su estintori, rete elettrica e tubature del gas. La mano si fermò. Anche spuntando quelle voci, il risparmio non avrebbe influito più di tanto sulla pendenza sulla curva. Occorreva qualcosa di più sostanzioso. Si sgranchì i muscoli del collo. La penna rimase sospesa a lungo senza toccare il foglio prima di riprendere a scrivere. Contattare avvocato per avviare procedura di mobilità. C'era personale in eccedenza: la metà sarebbe bastata a far funzionare l'azienda alla stessa maniera. Serrò con forza il taccuino, soddisfatto di se stesso. Aveva trovato la soluzione al problema: nessuno avrebbe potuto fare meglio. La mano passò sopra a una sottile cartella. L'aprì dandogli una rapida occhiata e poi la mise nel cassetto. Un'altra seccatura.

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Chissà perché la polizia era venuta a fargli domande sulle cinque persone morte in quello strano incidente. Erano suoi dipendenti, ma quanto facevano fuori dell'azienda non lo riguardava. Fece una smorfia. Il commissario venuto a parlargli era un incompetente. Lo aveva sospettato da subito; ora aveva la conferma che era un deficiente. Non era riuscito a trovare un solo indizio sulla morte del padre. E poi se ne saltava fuori con l'assurda teoria che la morte degli operai che lavoravano per lui poteva essere collegata all'omicid io del genitore. E solo per il fato che quei tipi erano arsi vivi all'interno dell'auto. Una pura e semplice coincidenza che non aveva nulla a che fare con la scomparsa del padre. Chiuse il cassetto a chiave. Ora poteva rilassarsi: quella sera lo aspettava un bel coca party con due squillo d'alto borgo. Forse un po’ care, ma di gran classe. Se poi la roba che gli avevano passato era buona come quella della volta prima, e l'avrebbe fatto rimanere carico per ore, la mattina successiva avrebbe potuto far fare un certo lavoretto alla sua segretaria sotto la sua scrivania. In fondo era anche meglio delle altre due: aveva una buona manualità e s'accontentava di un paio d'ore di straordinario in più in busta paga. Forse l'avrebbe portata in uno di quegli outlet e gli avrebbe preso qualcosa come pagamento extra. S'infilò la giacca e guardò l'orologio. Le nove e mezza. Non aveva fatto troppo tardi, anche se era stata una seccatura rimanere in ufficio per rimediare alle beghe procurate dalla causa avviata dal rappresentante sindacale. Ma presto lo avrebbe sistemato: sarebbe stato il primo a essere sbattuto a casa. Fischiettando arrivò alla porta e spense la luce. Con il tacco delle scarpe di cuoio nero che riecheggiavano nel corridoio, passò davanti alla lunga fila d'uffici vuoti prima d'imboccare le scale. Armeggiò un pezzo nelle tasche della giacca prima di riuscire a trovare il mazzo di chiavi con il telecomando del cancello. Chiusa la doppia porta a vetri e inserito l'allarme, raggiunse il parcheggio dove c'era l'auto, testimone che era l'unico ancora presente in ditta. Il neon di un lampione tremolò; un ultimo barlume e non diede più luce. Lo degnò appena di uno sguardo. Salì auto e lasciò scaldare il motore per un paio di minuti prima di avviarsi verso l'uscita. Stava passando davanti all'ingresso della palazzina quando s'accorse che sul sedile del passeggero non c'era la ventiquattrore. Arrestò l'auto di colpo: doveva essere rimasta in ufficio. Strano, aveva avuto l'impressione d'averla presa in mano. L'auto ebbe un sussulto e si spense. Sorpreso, rimase a fissare il quadro dei comandi acceso. "Eppure ho lasciato che si scaldasse." Pensò. "Speriamo che con questo freddo non si sia scaricata la batteria." Scacciò il pensiero."Che idea idiota. Se fosse stato così non sarebbe neppure partita." Girò più volte la chiave nel cruscotto, senza ottenere risultati, finché, innervosito, non diede un pugno sul volante. "Cazzo, proprio questa sera." Seccato, infilò la mano in tasca per prendere di nuovo le chiavi della ditta. Si sentì spostare di lato e tutti gli air-bag s'aprirono all'istante. Ci fu un botto, uno stridere di metallo e la macchina che si spostava di lato. Uno strattone, un piccolo sobbalzo e fu di nuovo ferma. Immerso nelle rigonfie membrane bianche degli air-bag, impossibilitato a vedere cosa era successo, rimase immobile, incapace di razionalizzare.

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Il secondo urto arrivò a distanza di pochi secondi: la portiera fu sventrata e due spesse barre d'acciaio scuro invasero l'abitacolo. L'auto cominciò a essere sollevata e spinta con forza. «Merda!» Urlò in preda al panico, prendendo ad armeggiare la cintura di sicurezza per sganciarla. Impacciato dall'air-bag, non riuscì a trovare la fibbia, annaspando con le mani nel tentativo di liberarsi. «Porca puttana!» Imprecò. «Che cazzo succede?» Tentò di voltarsi e trovare il tasto di sgancio della cintura di sicurezza. L'auto s'inclinò violentemente, facendogli scivolare dalla mano il dispositivo di sganciamento. «Merda, merda.» Ansimò preso da una frenesia incontrollata. Le barre d'acciaio penetrarono ancora di più nell'abitacolo, arrivando a toccargli il braccio. In un impeto guidato dalla disperazione, riuscì a liberarsi e aprire la portiera, balzando sull'asfalto bagnato. L'auto si piegò di lato e si ribaltò, adagiandosi sul tetto in un ritmico dondolio. Un ronzio elettrico pervase l'aria mentre le benne del muletto s'alzavano davanti alla cabina di guida e il mezzo di lavoro arretrava dall'ammiraglia. Fermo in mezzo al piazzale se ne stava ad aspettare, come se stesse scrutando il dirigente. "Che ci fa un muletto fuori dal magazzino? Chi lo guida?" Ragionò rapidamente. "A quest'ora dovrei essere l'unico presente in azienda". La cosa fu subito chiara. Quei maledetti bastardi avevano organizzato tutto, ma se credevano che questo bastasse a intimorirlo, si sbagliavano di grosso. Non sapevano quanto poteva essere dura la sua rappresaglia. «Fatti vedere.» Urlò in tono deciso. «So chi sei.» Il muletto non si mosse, restando dove si era fermato. «Mostra il tuo volto.» Continuò imperterrito. «Non ti puoi più nascondere. Non peggiorare le cose.» Il basso ronzio continuò a pervadere il piazzale. «Fra poco sarà qui la polizia.» Bluffò: non poteva sapere che aveva il cellulare nella ventiquattrore. «Non fare altri casini.» "Aspetta che la chiami davvero e vedrai che ti succede: sarai un esempio esemplare per tutti." Soffocò la rabbia a fatica. Che cazzo era saltato in mente a quell'imbecille? Il muletto partì di scatto, puntando deciso su di lui. Sorpreso e sbigottito rimase immobile, spostandosi solamente quando capì che non si starebbe fermato. «Cazzo ti prende!» Urlò sgomento e incollerito. Il mezzo di scaricamento merci si voltò e tornò alla carica con le benne alzate ad altezza vita. Il neo dirigente si riparò dietro l'auto ribaltata, sperando che fosse sufficiente a fermarlo. L'acciaio speronò la lamiera, sfondandola nuovamente e spingendo l'ammiraglia contro il muro per schiacciare l'uomo. Ancora una volta riuscì a scansarsi all'ultimo minuto, raggiunto dal botto dell'impatto con il cemento e dalla pioggia di scintille della carrozzeria straziata. Il muletto armeggiò tra i resti della macchina, cercando di liberarsi dalle barre di protezione dove era rimasto incastrato. "Fa sul serio." Terrorizzato dal pensiero, si mise a correre cercando di tirar fuori della tasca le chiavi della ditta. Una volta dentro, avrebbe potuto chiamare la polizia e sarebbe stato al

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sicuro: anche se avesse sfondato la porta, non avrebbe potuto inseguirlo con il macchinario. Raggiunto il suo ufficio e barricato all'interno, non avrebbe avuto nulla da temere. Imprecò e strattonò, cercando di liberare le chiavi incastrate tra le pieghe interne della giacca. Uno schianto lo fece voltare. La macchina era libera e di nuovo in movimento. Preso dalla foga usò tutta la forza che aveva. Le chiavi volarono nell'oscurità, cadendo lontano con un sordo tonfo metallico. "Merda." Cominciò a cercare, ma il buio della zona del lampione guasto era troppo fitto per vedere anche solo il terreno sotto i suoi piedi. Come un cieco arrancò alla disperata. Il ronzio sibilante gli fu addosso con vorace velocità. Dimentico delle chiavi, pensò soltanto a correre e scappare dal pazzo che lo inseguiva. Tentò di raggiungere il cancello, ma il muletto lo superò aggirandolo alla sua destra, piantandosi davanti alla via d'uscita. Uno di fronte all'altro, come i protagonisti di un vecchio film western, rimasero in attesa che fosse l'altro a fare la prima mossa. Non reggendo più alla pressione, il giovane dirigente riprese a scappare. Doveva seminare quell'ossesso. Doveva tornare a raccogliere le chiavi. Un lampo gli attraversò la memoria. Dietro lo stabilimento c'era il magazzino del materiale dimesso, un vero e proprio labirinto di cianfrusaglie. Il luogo ideale per far perdere le tracce e guadagnare tempo. In quegli spazi angusti l'inseguitore sarebbe stato rallentato, mentre lui poteva muoversi agevolmente. Lo avrebbe attirato il più possibile verso l'interno e poi sarebbe corso di nuovo nel piazzale; impegnato a cercarlo non lo avrebbe inseguito. La possibilità di sfuggire al pazzo che lo inseguiva gli diede nuova spinta, riuscendo a guadagnare terreno. Senza voltarsi si buttò a capofitto tra le grosse file di sacchi neri e rotoli di reti metalliche, evitandole come paletti in una pista di sci. Diede un rapido sguardo per scegliere i passaggi più stretti e solo quando raggiunse un grosso cestello per gli scarti metallici, si fermò a riprendere fiato. Accucciato, respirando a bocca aperta, spiò le mosse del muletto. Da dove si trovava era impossibile vedere qualcosa, tuttavia riuscì a percepire la diminuzione dei giri del motore: aveva rallentato fin quasi a fermarsi. Non sapeva dov'era: doveva decidere da che parte cominciare a cercarlo. "Sono in vantaggio." Pensò trionfante. Ma se era un dipendente, conosceva anche lui il posto. Il panico riprese a galoppare. Doveva stare calmo. Non sapeva dove si trovava. E anche se sapeva come muoversi, sarebbe dovuto andare a tentativi per trovarlo. Non doveva temere nulla. Soltanto non doveva fare mosse azzardate: solo aspettare e muoversi silenziosamente. Un basso clangore metallico lo raggiunse. Si stava avvicinando. Sporgendosi oltre la paratia del cassone dietro al quale si era nascosto, per un attimo riuscì a scorgere la cabina passare dietro una ruzzola di rete metallica, prima che sparisse oltre un cumulo di lamiere arrugginite. Il basso ronzio s'allontanò, portando con sé la minaccia. Con tutti i sensi all'erta rimase in attesa, aspettando l'evolversi della situazione. Nulla si muoveva. Che cosa stava facendo? Perché non compariva più? All'improvviso capì. Stava facendo come lui. Aspettava le sue mosse.

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Con cautela aggirò il cassone, seguendo la direzione presa dal mezzo. Non s'era sbagliato. Se ne stava con il motore spento, dietro a un cumulo di bancali accatastati disordinatamente. Ci mancò un niente che non scappasse a gambe levate quando lo vide ripartire. Facendosi violenza, si costrinse a portarsi nel punto dove si era appostato l'inseguitore in precedenza per poterlo spiare. S'accucciò con calma, cercando di non far rumore, né di esporsi. Anche da quella postazione aveva una visione parziale e non riusciva a scorgere chi guidava il muletto. Al momento non aveva importanza. Ci avrebbe pensato la polizia. Doveva solamente sgattaiolare via. Il muletto riprese a setacciare i dintorni dove poco prima era stato, avanzando scrupolosamente. Attento a non farsi scorgere, prese a indietreggiare, portandosi verso il fondo del deposito e inoltrandosi in uno spazio angusto. Il cuore mancò un colpo. A pochi passi da lui, due benne puntavano al suo petto. Scoperto. Come aveva fatto? Era alle sue spalle… Riprese a respirare liberamente dopo che l'aria gli si era strozzata in gola. Che stupido: era soltanto un vecchio modello dimesso anni prima a seguito delle stupide leggi sulla sicurezza. Un'ultima occhiata al mezzo arrugginito e si tornò a concentrare su chi gli dava la caccia. Come uno squalo continuava a cercarlo in mezzo ai caotici spazi, setacciando ogni buco, ogni rientranza che avrebbe potuto nasconderlo. Prese a respirare ancora più piano. Di certo non sarebbe venuto a cercarlo lì: chiunque avesse cercato di nascondersi da qualcuno, avrebbe cercato un rifugio con almeno due accessi, per avere un'altra via di fuga qualora una fosse stata bloccata. Nessuno si sarebbe cacciato in un buco dal quale non era possibile uscire. Chiunque avrebbe fatto quel ragionamento; anche il suo inseguitore. "Sicuramente era così." Cercò di convincersi. "Doveva essere così." Il cuore continuò a battere all'impazzata. Un metro dopo l'altro la sagoma metallica si fece più vicina, scandagliando, perquisendo senza fermarsi. "Calmo. Devo stare calmo." Continuò a ripetersi. "Presto mi avrà oltrepassato." I secondi passavano e continuava ad avvicinarsi. Non cambiava direzione. La figura squadrata s'ingrandiva in continuazione. "Dio, viene proprio verso di me." Freneticamente cercò un varco dove passare, ma tutto era ammassato e compatto e non c'era verso di uscire, se non da dove era entrato. S'era messo in trappola. S'appiattì contro la parete fatta di sacchi pieni di rimasugli di carta. Pochi secondi e sarebbe stato visto. Il ronzio elettrico fu sul punto d'afferrarlo e incredibilmente lo superò. Trattenne il respiro, aspettandosi da un momento all'altro che gli balzasse addosso. Il terrore non si concretizzò: il rumore si stava davvero allontanando. Titubante si sporse oltre il bordo del mucchio di fogli plastici e piantoni di ferro. Il muletto si stava dirigendo verso il fondo della rimessa, dando le spalle alla via di fuga e lasciando campo libero.

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Esultante, strinse i pugni. Era fatta. Un poco d'attenzione nell'uscire dalla zona scarti e sarebbe stato salvo. Con un senso di trepidazione e il sentore dell'adrenalina che andava diminuendo, cominciò a camminare, sentendo le gambe piacevolmente leggere. Poi non le sentì più. Avvertì uno strappo sotto di lui, un freddo metallico e qualcosa di bagnato e viscoso che scivolava verso il basso. Si mosse in avanti, ma non erano i suoi piedi a spostarlo. Abbassò lo sguardo e ogni speranza l'abbandonò. «Oddio.» Mormorò straziante mentre la lingua s'affogava nel sangue che riempiva la bocca. Con mani tremanti afferrò la benna che fuoriusciva da sotto il petto, le dita che sguazzavano sul liquido caldo e scivoloso. «Noo.» Piagnucolò terrorizzato. Uno scossone gli fece perdere la presa e ballonzolare le braccia come corpi inanimati. Scivolò all'indietro, impalandosi ancora di più, fino a quando la schiena non si fermò contro la gabbia protettiva. Il sobbalzare sul terreno solcato da crepe e irregolarità del cemento aprirono ulteriormente la ferita. Con uno sgradevole sciacquio, le viscere presero a scivolare sopra la camicia scura, lucida dal sangue versato. Le budella sguazzarono tra le dita come tante anguille mentre cercava di farle rientrare all'interno del corpo. La luce del piazzale fece baluginare il sangue scuro. Sentì i piedi tornare a toccare il terreno e il metallo strisciare all'interno della carne lacerata. Finì in ginocchio, sbavando sangue e guardando ebete le interiora che teneva in mano. Dietro di sé il rumore delle ruote si fece più distante. Incredulo e sgomento, sbarrò gli occhi fissando dritto davanti a sé. Il muletto comparve da dietro l'angolo dell'edific io e si fermò perpendicolarmente al punto dove si trovava. Il rumore alle sue spalle tacque. Tentò d'alzarsi in piedi, scivolando per terra quando il piede ammaccò sulla pozza di sangue. Simili a tentacoli di una piovra le budella si sparsero sul ruvido ghiaino. Annaspando e gemendo raccattò i suoi pezzi, spingendoli dentro e tamponando lo squarcio con le mani. Uno sforzo e riuscì a sorreggersi sulle proprie gambe. Il muletto partì a piena potenza. Masha si passò la mano sugli occhi. Erano ore che era davanti al monitor del pc e la vista stava cominciando ad annebbiarsi. Le dita smaltate salirono sulle tempie, cominciando a massaggiarle. Il cerchio alla testa si stava intensificando. Troppe nozioni e dati da imparare e tenere a mente in così poco tempo. Coordinare incontri con i grossi fornitori e venditori e farli coincidere con gli altri impegni, era più difficile di quel che pensasse. Tuttavia non poteva esimersi da quel compito, né rimandare oltre: già per due settimane aveva procrastinato. Per i primi giorni d'insediamento, terzisti e clienti erano stati comprensivi del suo stato, ma gli affari non potevano aspettare a lungo: ogni giornata trascorsa nell'immobilismo era un guadagno perso. Presto erano cominciate le telefonate e le mail di sollecitazione per conoscere la linea della nuova gestione. Ad avercene una.

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Le idee erano ancora più confuse dell'in izio. Prima non aveva niente su cui basarsi; ora aveva un cumulo d'informazioni che s'aggrovigliavano in continuazione, costantemente sollecitate. Gli ci sarebbe voluto più tempo e più calma. Soprattutto sarebbe occorso qualcuno che le insegnasse, invece di andare avanti da sola, sperando di fare tutto bene. I vecchi collaboratori del padre si erano offerti di aiutarla, ma si era fermamente rifiutata; anche se erano stati molto gentili e disponibili, l'avevano fatto per i propri interessi, per rientrare nel giro e tornare a usufruire dei privilegi avuti. Fece una smorfia di sdegno. Erano dei parassiti ad approfittare di un momento del genere: non pensavano a come si poteva sentire? Non riuscivano a mettersi nei suoi panni? Pensavano solo ai soldi e nient'altro. Avvoltoi. Aveva fatto bene suo fratello a levarseli dai piedi e avrebbe continuato per quella strada, anche se faticosa. Anche se da sola. Sospirò stancamene. Era un mese che era diventata dirigente e proprietaria della ditta e non si era ancora abituata. La vita era cambiata da un giorno all'altro. Era proprio vero che le disgrazie non arrivavano mai sole. Prima suo padre, poi suo fratello. Non aveva ancora assorbito la loro scomparsa e tuttavia si era da subito dovuta occupare delle responsabilità che avevano lasciato. Si lasciò andare contro lo schienale e guardò il nuovo ufficio. Era più piccolo degli altri, ma non se l'era sentita di lavorare dove avevano trovato morto suo padre; perciò l'aveva ceduto al reparto commerciale. Stessa sorte era toccata a quello del fratello, lasciato alla sua segretaria: s'affacciava sullo spiazzo dove il suo cadavere era stato trovato impalato da due muletti. Ricordava bene quella mattina. Il telefono che l'aveva svegliata di soprassalto, la corsa in ditta, il cordone di polizia e curiosi che s'affollavano sui cancelli, la scorta che l'aveva condotta a riconoscere il corpo. La raccapricciante scena le era stata risparmiata. Quando era arrivata sul luogo del delitto, le armi dell'assassinio erano state spostate e il corpo del fratello coperto da un telo bianco: le era stato mostrato soltanto il volto, affinché fosse riconosciuto. Ma niente aveva potuto risparmiarle i segni del mattatoio avvenuto. C'era sangue dappertutto, come se tutto il liquido vitale fosse stato succhiato dal corpo e sparso sul piazzale. Non era riuscita a staccare gli occhi dalla grossa macchia scura al centro del piazzale. E anche quando c'era riuscita, aveva continuato a vederla ovunque. Era come fissare il sole e poi spostare lo sguardo altrove: qualunque cosa si guardasse, si aveva davanti un cerchio scuro. Tutto era stato surreale. Il via vai dei poliziotti, l'accalcarsi della gente, i bracci metallici lordati di rosso. Gli eventi successivi si erano svolti con caotica velocità. Qualcuno l'aveva riaccompagnata a casa e poi era venuto un investigatore con il suo aiutante per farle delle domande. Non rammentava quello che gli era stato detto, ricordava solamente qualcosa riguardo al fatto che le morti di padre e figlio potessero essere correlate e che ci fosse qualche sospetto; poi, come d'incanto, s'era ritrovata in serata da sola, vagando come uno zombi per tutta la notte da una stanza all'a ltra. Due giorni dopo era arrivata la telefonata della madre. Aveva letto la notizia sui giornali e le aveva chiesto come stavano andando le cose. Una domanda di rito, fatta più che altro per educazione, ma in quella successiva c'era stata apprensione, la tipica preoccupazione materna; sentimento che non era mai trapelato da lei. Voleva sapere se non fosse in qualche guaio, se il padre non li avesse cacciati in situazioni che inevitabilmente sarebbero sfociate

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in tragica maniera. Non sarebbe stata una novità, data la natura violenta e sprezzante dell'uomo: le sue azioni macchiavano inevitabilmente le mani, sempre a valicare la legalità. Era un individuo pieno di sé, governato da un ego smodato, irrispettoso di tutto e di tutti, anche dei familiari. Per questo l'aveva lasciato. Le aveva fatto quella domanda più volte, per assicurarsi che non stesse cercando di nasconderle la verità. Fatto alquanto difficile, dato che non sapeva cosa stesse succedendo. Poi era stata lei a farle una richiesta. La risposta non la meravigliò, anche se avrebbe sperato in qualcosa di diverso. Dato i rapporti in cui erano i genitori, le era sembrato scontato che non fosse stata presente al funerale del padre. Tutt'altra cosa pensava che sarebbe stata per il figlio. «E' la copia sputata di tuo padre.» Era stata la succinta motivazione del rifiuto a partecipare al rito funebre. La telefonata si era conclusa con la reciproca promessa che si sarebbero sentite più spesso, per riallacciare quel rapporto che non c'era mai stato. Quando i genitori avevano divorziato, il loro affido era stato dato al padre, scelta condizionata dal fatto che era lui che poteva dare maggiori assicurazioni per il mantenimento e che era stata la madre ad aver chiesto il divorzio: il giudice, un convinto credente, non aveva esitato a farle pagare la scelta. Il padre aveva gongolato della palese vittoria sulla donna che non era riuscito a piegare; forte, indipendente, non era mai sottostata a ricatti e compromessi, anche a costo di rinunciare a vedere crescere i fig li per non dare soddisfazioni a quell'uomo. Come avevano fatto a mettersi insieme e sposarsi? Non era mai riuscito a capirlo. Forse ora si sarebbero riavvicinate, ma non sarebbe mai stato un rapporto madre-figlia; era andato perduto e non sarebbe mai potuto nascere a quell'età. Dopo quella telefonata non si erano più sentite. E così, passata una settimana per gli esami della scientifica, si era svolto il funerale. In molti avevano partecipato: le autorità civili, gli industriali della città, alcuni dei dipendenti, ma lei era stata l'unica parente. Nessuno dei suoi consanguinei aveva risposto all'invito. Il parroco le era stato vicino, anche se non come il predecessore, ma a parte lui, era stato un numero esiguo di persone a farle le condoglianze. Alla fine si era ritrovata da sola nel cimitero ad assistere alla deposizione della bara nella fossa e alla posa della lapide. Era stato l'ultimo giorno di un periodo relativamente tranquillo, rapportato a quello che era venuto dopo. Soprattutto era stata la fine della vecchia vita. C'era stata la questione dell'eredità; le indagini della polizia si erano intensificate e così le convocazioni cui aveva dovuto rispondere; aveva dovuto disdire contratti e firmarne dei nuovi. E in primis prendere in mano le redini dell'azienda. Non aveva mai avuto intenzione di entrare a far parte della dirigenza, come invece aveva fatto il fratello, ma, v isto il periodo di crisi, era impossibile trovare compratori e liquidare tutto sarebbe stata una rimessa completa. Inoltre era la sua unica forma di sostentamento. Per quanto non le piacesse, e lo scotto iniziale fosse decisamente alto, se ne era fatto carico. Guardò l'orologio. L'ora del pranzo era arrivata. Era stata così presa dal lavoro che non s'era accorta del trascorrere del tempo. Aveva bisogno di prendersi una pausa. A parte il ronzio delle ventole dei computer, nel corridoio non si sentiva nessun rumore. S'affacciò alla finestra che dava sui reparti produttivi. Era una strana impressione d'abbandono e vuoto vedere tutti i macchinari fermi, scaricati dagli operatori nel preciso momento in cui suonava la campana di metà turno.

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Si era fermata delle volte a osservarli: appena scoccava l'ora della pausa, scattavano lontano dalle macchine, chi verso i locali della mensa, chi all'auto per andare a pranzare a casa o in qualche ristorante nelle vicinanze. Come si poteva rispettare gente che appena aveva l'opportunità, smetteva di lavorare e correva via? Gente che non apprezzava il proprio lavoro e lo faceva malvolentieri, con l'unico scopo di avere uno stipendio alla fine del mese. Erano così miserandi, così di poco valore. In quel momento però preferiva che non ci fosse nessuno, così da poter girare per la fabbrica indisturbata: un modo per scaricare le tensioni e le preoccupazioni. Diede uno scorcio a una finestra che dava sul parcheggio. Il vetro era rigato da gocce d'acqua, distorcendo la visuale del paesaggio. Non che cambiasse molto: c'era sempre una fitta coltre di nebbia che copriva tutto. Camminò a passi lenti, cercando di scacciare dalla sua mente ogni pensiero, come insegnato nel libro di meditazione preso al centro commerciale qualche giorno prima. Uno scoppio di risate la distolse dalla sua concentrazione, facendole girare di scatto la testa alla ricerca della fastidiosa interruzione. Aggirandosi tra le scansie, arrivò di fronte ai locali della mensa. Nascosta da un grosso scatolone, rimase a studiare quello che stavano facendo i suoi dipendenti. Molti erano seduti davanti al pranzo, chini a trangugiare meccanicamente il cibo che portavano alla bocca. Nessuno parlava con il vic ino o semplicemente alzava lo sguardo su di lui: ognuno era rinchiuso nello spazio delimitato dalle braccia appoggiate sul tavolo. Sembrava che stessero ancora alla catena di montaggio, come se fossero sempre sottoposti al regolamento che limitava la loro libertà. Tutti inquadrati e coperti, con il capo chino e la schiena curva sui vassoi di cibo riscaldato, come tanti blocchi semoventi. L'unico sprazzo di vitalità era un angolo tra la colonna di cemento armato e le pareti di vetro plastico: un piccolo tavolo attorniato da quattro persone. Tre uomini e una donna che giocavano a carte. La partita era nel vivo del gioco, gli sguardi carichi d'intesa scambiati tra i compagni di squadra. C'era equilibrio: le mani di gioco s'alternavano da una parte all'altra. Le mani s'allungarono per prendere le carte e la pila s'assottigliò, avvicinandosi alla fine. Alcuni sguardi veloci, il muoversi delle labbra e le carte furono calate. Uno alla volta i giocatori attinsero al mazzo per la manche finale, lasciando la superficie bianca del tavolo sgombera. I compagni di squadra si scambiarono le carte che avevano in mano: le guardarono attentamente e poi se le ripassarono. Uno alla volta iniziarono il loro gioco. Già tre avevano fatto la mossa: ne mancava solamente uno. Con l'indice e il pollice della mano destra aprì a ventaglio le carte, distanziandole accuratamente tra loro. Un veloce sguardo e fece il suo gioco. Il mucchietto delle sue prese aumentò d'altre quattro prede. Ora toccava di nuovo a lui. E di nuovo la vincita fu sua. Rimaneva un'ultima giocata. L'uomo dai capelli a punta alzò il braccio sopra la testa, calando la carta finale. Ci fu uno scoppio di risa e di proteste bonarie. «Busone! Le avevi tutte tu!» Fu il motto di spirito che arrivò alle sue orecchie, mentre il vincitore arraffava tutta la posta. Continuò a sentire le risate e le battute mentre s'allontanava tra le scansie. Davvero patetici. Pensavano solamente a divertirsi e a perdere tempo. Gente simile non sarebbe mai arrivata da nessuna parte: trascorrevano le giornate svolgendo mansioni

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ripetitive, senza cercare di cambiare e migliorare la loro condizione, mantenendo una condotta di vita banale. Guadagnare per i piccoli divertimenti, gli spassi. Alzarsi ogni mattina per andare al lavoro, per poi uscire la sera in compagnia. Se facevano qualcosa di più, mettevano su famiglia e s'intristivano e s'arrabattavano per crescere e mantenere dei figli che sarebbero divenuti delle copie patetiche dei genitori. S'accontentavano di quello che avevano, al più speravano che cadesse dal cielo una grande occasione che cambiasse la vita. Erano dei bovini. Dalla stalla al pascolo e dal pascolo alla stalla. E così tutta la vita fino alla pensione. Non pensavano a costruire nulla, se ne stavano senza pensieri conducendo una vita mediocre. S'arrestò sulla scalinata quando sentì la prima campana che avvisava la ripresa del turno di lavoro e guardò oltre la finestra. Sotto di lei, in file lente e ordinate, i lavoratori stavano rientrando tra i ranghi, demotivati dal dover affrontare ancora metà giornata lavorativa. Il guizzo avuto soltanto un'ora prima era un ricordo, sostituito dall'espressione apatica e fissa. Davvero bovini. Aveva avuto ragione suo padre a disprezzare quelle persone. Le immagini della televisione scorrevano in un flusso ininterrotto, accompagnate dal suono dell'imp ianto stereofonico. Tele a olio dalle cornici intarsiate e piatti di ceramica e vetro decorati di colori caldi, s'alternavano a vasi di rame contenenti piante floreali dalle foglie strette. Tutto, dai calici di cristallo azzurro alle piccole bambole di porcellana, era stato sistemato con cura e ordine maniacale. Le uniche cose fuori posto erano lo scialle rosa appoggiato sul mobile di mogano e le scarpe col tacco lasciate sul tappeto indiano vicino al tavolino di vetro. Masha si stava massaggiando i piedi, accucciata sul divano di velluto bianco. Quelle calzature a punta erano davvero scomode: l'avevano quasi uccisa. Oltre al tormento alle dita e alle vesciche spuntate sulla pianta del piede, le avevano causato un fastidioso mal di schiena. Avrebbe dovuto comprarne un altro paio prima di recarsi al cinema. Prese il telecomando, alzando il volume del televisore per ascoltare l'intervista del leader che proprio in quel momento compariva sullo schermo. Voleva sentire la risposta alle critiche sui suoi continui interventi attraverso i media. «Questa tv è troppo pessimista.» Stava dicendo davanti ai microfoni. «Passa soltanto notizie negative, costringendo la gente a vedere grigio e a deprimersi. Deve smetterla con questa logica e cominciare a proporre programmi rasserenanti e divertenti, degli svaghi che distolgano le persone dai brutti pensieri; la gente deve gustarsi momenti di svago e per questo serve una tv leggera e divertente che faccia stare davanti allo schermo senza pensare. Dobbiamo stroncare la coercizione dell'opposizione che angustia con inutili discussioni e dibattiti moralistici che andrebbero fatti tacere. E' sempre pronta a ridire su tutto e alzare polveroni: è ora di finirla con questa tecnica destabilizzante. In questo momento di difficoltà, le persone devono solamente pensare a lavorare e divertirsi: a pensare al futuro ci sono io, perché così possano avere sonni tranquilli.» «Molte persone hanno perso il posto di lavoro e molte altre stanno scioperando per contestare i tagli fatti dagli industriali. Non le sembra che le sue parole possano essere insoddisfacenti?» Pose la domanda uno degli intervistatori. «Chi sciopera è un fomentatore indiscriminato, che vuole gettare il paese nel caos e lanciare fango sul buon lavoro che sta facendo il governo: è privo di una coscienza civile, dedito

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solamente a fare disordini e contestazioni. La gente licenziata era di tal risma e giustamente ha perso il posto di lavoro per un comportamento intollerante e di parte. Le mele marce vanno estirpate: un atto necessario da parte di chi guida l'industria.» Rispose imperturbabile il leader. «Non diamo risalto alla voce di pochi che protestano per la giustizia che si è abbattuta sulle loro coscienze sporche.» «Ma milioni sono in piazza a scioperare, come dicono le rilevazioni delle prefetture della città.» Fece notare uno degli intervistatori. «Numeri montati dall'opposizione, che ha inquinato i rilievi per dare risonanza a degli eventi che sono stati dei veri e propri fiaschi. Una manovra spregevole per riconquistare i consensi che ha perso a causa della propria incapacità. Un tentativo patetico e inutile, dato che il popolo è più che soddisfatto del governo e desidera che porti alla fine il mandato. Anzi, sono sicuro che lo riconfermerà negli anni a venire: abbiamo la sua fiducia e continueremo ad andare avanti nella nostra strada.» Continuò imperterrito il capo politico del paese. Un giornalista tirò in ballo un'altra questione. «Su quali basi asserisce queste affermazioni? Anche le scuole stanno scioperando: a fianco dei professori si sono schierati pure gli studenti. Facinorosi anche loro o forse c'è qualcosa che non va?» Insinuò dubbioso. Masha si sistemò più comodamente sul divano; l'argomento scuola da settimane era uno dei più spinosi e caldi e provocava aspri dibattiti in qualsiasi sede venisse affrontato. «E' una montatura dei giornali e di alcuni addetti ai lavori che non hanno capito bene la notizia. La scuola è perfettamente in linea con il nostro pensiero.» «Come si spiega che decine d'istituti e università siano occupate e che da questi punti partano cortei numerosi che arrivano fino alle piazze? Altri giornalisti che non hanno capito bene?» Disse ironico lo stesso intervistatore. Senza scomporsi il leader continuò a difendere la sua linea. «Non permetteremo che vengano occupate le scuole. Perché l'occupazione di posti pubblici non è una dimostrazione, un'applicazione di libertà, non è un fatto di democrazia: è una violazione nei confronti delle istituzioni e dello stato. E' un grave atto di violenza, un duro attacco al governo, dove un luogo sacro e pubblico come quello dell'istruzione viene occupato con la forza. Una brutale rappresaglia che richiederà un'azione ferma e decisa. Darò istruzioni dettagliate a polizia ed esercito perché siano mandate a sgombrare le zone occupate e a ripristinare l'ordine.» «Allora userete la forza.» Lo incalzò il giornalista. «Sarà fatto solo quello che è giusto.» Sentenziò risoluto il capo di governo. Masha spense l'apparecchio quando il notiziario passò ad altre notizie, rimanendo a fissare lo schermo nero e riflettendo sul pensiero del leader. Aveva perfettamente ragione. In frangenti simili occorreva avere il polso saldo e il pugno di ferro. Serviva una guida forte e sicura e spazzare via ogni protesta che rischiava di turbare l'ordine e la stabilità, proprio come facevano quelle stupide masse di lavoratori e giovani che invadevano le vie della città e provocavano soltanto disagi. Dei miseri parassiti che strepitavano per avere qualche soldo in più, come se questo potesse cambiargli la vita. Com'erano ridicoli a urlare nelle strade e a soffiare nei fischietti, andando a tempo con i colpi dei tamburi. Criticare, contestare il lavoro e le fatiche altrui: cosa ne potevano sapere, dato che le loro uniche preoccupazioni erano mangiare e divertirsi? Cosa facevano nella vita per meritarsi di più? Erano soltanto dei bruti e gli interventi tanto contestati della polizia alle loro manifestazioni erano giusti: la protesta doveva essere repressa senza pietà.

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Era il governo giusto per tempi del genere: serio, forte e con le idee chiare. Come si poteva affermare il contrario? Proprio come aveva fatto quel giorno un suo dipendente alla fine del turno. L'aveva sentito incrociandolo all'uscita, intento a parlare con una collega. Se non aveva capito male, si chiamava Alphons. Ed erano state proprio le sue parole a volerle far sentire di persona il discorso integrale del leader. "Questo governo vuole far vedere e passare solo sciocchezze per rasserenare gli animi, dare leggerezza in mezzo alla durezza della vita. Ma si tratta di un'apparenza, è solo un pezzo di un meccanismo molto più complesso e subdolo. E' la goccia che cade sulla roccia e la perfora: lentamente vuole arrivare a far sì che la gente non pensi più; una mossa per togliere dal suo cammino ogni possibile intralcio al raggiungimento del potere assoluto. Vuole eliminare l'informazione e la conoscenza, i due mezzi per contrastare i regimi. Vuole instaurare un'atmosfera d'ignoranza per fare passare le sue menzogne. Per questo desidera distruggere il sistema scolastico; non per niente si dice dalla conoscenza potere. Se una persona conosce, non puoi raggirarla e farle credere qualunque cosa. E il governo questo lo sa bene." Che sciocchezze. Che ne poteva sapere un operaio che non era neppure laureato? Come poteva presumere di giudicare chi era più in alto? Lasciò il telecomando sul divano e s'alzò in piedi per dare sollievo alla schiena. La luce si spense appena raggiunse la finestra. Sorpresa, cercò il contatto con il vetro per non sentirsi disorientata. La superficie fredda le punse i polpastrelli, costringendola a fare uno sforzo per non ritrarli. Gli occhi s'abituarono all'oscurità, riprendendo a scorgere la sagoma dei palazzi grazie anche ai bagliori in lontananza. Soltanto il suo quartiere era rimasto privo di corrente. Forse un guasto a qualche centralina o un sovraccarico che aveva costretto a interrompere l'erogazione dell'elettricità. Si trattava d'aspettare qualche minuto e tutto sarebbe tornato alla normalità. Si strinse le braccia per calmare l'ansia che la prendeva tutte le volte che mancava la luce. "Magari si tratta di semplice manutenzione." Si disse per tranquillizzarsi, fissando il paesaggio. Da quando era tornata a casa aveva smesso di piovere, ma era scesa una foschia che aveva cominciato a stazionare sulle sommità dei palazzi. Sorniona e languida, sembrava essersi appollaiata sui tetti per studiare le strade e la vita delle persone nelle proprie abitazioni: un rifugio dove riposarsi e restare in attesa che qualcuno s'affacciasse a una finestra, interrompendo la monotonia del tempo solitario. In fondo non era male la città vista in quello stato. C'era calma e assenza di movimento, come se l'elettricità fosse la fonte della frenesia che imperversava fra i meandri d'acciaio e cemento, lasciando le vie deserte, senza un'auto che le solcasse. Fu allora che la vide, oltre il cancello del giardino, sotto il lampione dalla parte opposta della strada. Appoggiata al metallo, una figura nera, senza volto, se ne stava con il capo sollevato a guardare l'abitazione. I casi di stalking che così di frequente venivano mostrati nei telegiornali le affollarono la mente. Stava per andare al telefono e avvisare la polizia, che la corrente elettrica tornò, facendole socchiudere le palpebre per non essere abbacinata dalla luce improvvisa. Lanciò un'altra occhiata alla via del quartiere, ora illuminata come sempre. Sotto il lampione non c'era nessuno. Che si fosse sbagliata? Eppure era così sicura di aver visto qualcuno là fuori.

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Ristette alcuni secondi a osservare, poi scrollò il capo. Probabilmente un gioco d'ombre. S'infilò le scomode scarpe e s'avviò verso il garage. «Vuoi un po’ di caffè?» Chiese il poliziotto in borghese al compagno seduto di fianco. Distolta per un attimo l'attenzione dal finestrino, l'altro glissò l'offerta. «Sono già abbastanza nervoso. L'attesa mi snerva.» «Purtroppo è necessaria, se vogliamo riuscire a risolvere il caso. E l'unico modo di farlo è seguire le potenziali v ittime. Ma non sapendo quando saranno colpite, occorre una sorveglianza assidua. E' una gran rottura,» convenne il poliziotto posto alla guida della station wagon grigia, vedendo la faccia accigliata che lo fulminò «ma fa parte dei nostri compiti. Sono ordini del commissario: sai bene quello che ha detto nella riunione.» Il secondo poliziotto non trovò nulla da ribattere. Il capo era stato molto chiaro nell'esporre la pista da seguire sul caso che ormai da mesi era sulle prime pagine dei giornali. C'era stato molto baccano e confusione sulla questione, dove tutti avevano voluto dire la loro: televisione, giornali, nonché istituzioni, non avevano fatto altro che confondere le acque per mania di protagonismo, rallentando il corso delle indagini. Ora le cose dovevano cambiare se si voleva fermare quel fiume di sangue. Bisognava trovare il fautore di tutte quelle morti e per farlo occorreva individuarne il movente. Si era notato fin da subito che le vittime erano sempre industriali, uccisi in maniera rituale. Quello poteva servire a dare un'idea della psiche assassina, ma non avrebbe rivelato dove andare a cercare. Lo avrebbe fatto invece un nesso a cui nessuno aveva fatto caso. Gli omicidi degli industriali giungevano sempre in risposta alle morti bianche. Ogni volta che un lavoratore moriva sul posto del lavoro, pochi giorni dopo sui giornali si leggeva la notizia del decesso del suo datore di lavoro. Dalle indagini emerse, si era scoperto che negli ambienti dove si erano verificati i decessi non si rispettavano le norme di sicurezza, causa primaria dei mortali incidenti. Chi stava operando quel massacro voleva dare un segnale forte, attirare l'attenzione sulle morti b ianche che spesso restavano senza voce. Stabiliti questi termini, era partita una grossa operazione che aveva portato a controllare tutte le persone assunte nelle varie ditte che avevano avuto problemi con la giustizia. Erano state pedinate e tenute sotto stretta sorveglianza, ma anche quella pista aveva portato a un vicolo cieco: gli omicidi avevano continuato a verificarsi senza che i sospettati fossero coinvolti. L'attenzione allora si era spostata sui familiari delle vittime delle morti bianche e ancora una volta si era fatto un buco nell'acqua. Tuttavia si era continuato a sorvegliare e a cercare nel mondo del lavoro, sicuri che la soluzione fosse al suo interno. La teoria era crollata del tutto quando morti strane e inspiegabili erano cominciate a verificarsi anche tra i lavoratori delle ditte già colpite. Con la nuova piega degli eventi, si erano trovati privi di una linea guida; non era rimasto altro da fare che far sorvegliare le potenziali vittime e cercare di cogliere sul fatto chi le eliminava, puntando sul fatto che sarebbero stati presi di mira industriali collegati a morti bianche, l'unico fattore che non era mai venuto meno. «Sono quattro ore che seguiamo ogni suo spostamento; avremo percorso un centinaio di chilometri.» Mugugnò massaggiandosi il collo.

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«Lo sai che è l'erede di quell'industriale morto poco tempo fa: è tra i più a rischio nella lista stilata. Quella ditta è già stata colpita due volte.» Fece notare il poliziotto che beveva. «Comunque capisco il tuo nervosismo: sembra di dare la caccia a un fantasma. Chiunque sta dietro a questi assassini ha mangiato la foglia: si sarà accorto che lo stiamo braccando. Per un pezzo se ne starà buono, in attesa che si calmino le acque.» «Anche tu sei davvero convinto che sia un solo uomo a uccidere? Pensi che esista davvero il serial killer soprannominato assassino di vampiri?» Fece pensoso il secondo poliziotto. «Non pensi che si tratti di una mera invenzione, quando sarebbe più plausibile ricercare un'associazione malavitosa?» «Comunque stiano le cose, avremo un periodo di calma: chiunque aspetterebbe che la morsa si allenti. Ma rispondendo alla tua domanda, sì, credo si tratti di un serial killer: c'è qualcosa di tremendamente malato in questa vicenda. Un qualcosa che deve nascere da una mente malata.» Fece una pausa. «E proprio a causa di questa contorsione, che prima o poi prenderemo l'assassino: la sua perversione gli impone di uccidere, senza fermarsi. E, più alto è il numero d'omicidi, maggiore saranno le probabilità che commetta errori: errare è umano, una regola a cui nemmeno i migliori serial killer possono esimersi.» Sorseggiò la bevanda fumante. «La sua natura lo tradirà: arriva un momento in cui la smania di uccidere diventa compulsiva e prende il controllo delle azioni. Un'ossessione implacabile senza freni, una sorta di droga che va assunta in dosi sempre maggiori finché non basta più. E' a quel punto che l'impulso compulsivo fa calare il livello di guardia e commettere errori. Tutti i serial killer sono stati presi per questo motivo.» Il secondo poliziotto lo guardò di sottecchi. «Hai fatto studi di criminologia?» «Ho letto un libro di psicologia criminale.» «Che strani gusti di lettura.» Borbottò perplesso. «E' inconcepibile che esistano bestie così schifose.» Riprese il discorso. «Dovrebbero dargli la pena di morte.» «Il nostro paese non ha una tale legge.» «Allora sarebbe meglio che gente del genere rimanesse uccisa mentre viene arrestata. Capita spesso che si debba usare le maniere forti perché viene opposta resistenza alle forze dell'ordine.» L'unico suono che s'udì all'interno dell'abitacolo fu il sorseggiare del caffè. «Eccola.» Disse il secondo poliziotto vedendo la persona che dovevano sorvegliare uscire dalla porta laterale del centro commerciale. «Come fa ad andare in giro sapendo che in circolazione c'è chi prende di mira gente del suo status? Ci sarebbe da non uscire più di casa.» «Se vuoi davvero uccidere qualcuno, non ti fai fermare da niente, anche se si barrica in casa.» Scrollò il capo il primo poliziotto. «Con un assassino alle calcagna si vive sempre nell'incertezza, ma non è così per tutti? Puoi morire per strada, mentre vai al mercato, in qualsiasi momento e chiunque può essere il tuo uccisore: è questa la realtà del mondo in cui siamo. A questo punto o accetti i rischi o smetti di vivere.» «Correre rischi inutili è stupido: qui si parla di morte annunciata. Un po’ di paura dovrebbe rendere più cauti: girare di sera in un parcheggio deserto è un invito a nozze.» Il primo poliziotto appoggiò sul cruscotto il bicchiere vuoto. «La mente è strana: fa sempre credere che certe cose tocchino soltanto le altre persone.» Il gracchiare della radio avvisò le pattuglie nei pressi del KM 45 della statale di recarsi sul posto per un incidente tra due automezzi. «Spegni la radio.» Bofonchiò il secondo poliziotto. «Abbiamo già il nostro da fare fino a domattina.»

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Nascosti nella parte meno illuminata del parcheggio coperto, osservarono il passaggio solitario della figura che avanzava a passo spedito. In pochi secondi attraversò lo spiazzo, insinuandosi tra le auto posteggiate. «Hai notato dove ha posteggiato il suo mezzo?» Interloquì il primo poliziotto. «Certo. Pensi che me ne sia dimenticato?» «No, una semplice conferma. Voglio solo avere la certezza di non perdere mai di vista l'obbiettivo.» «Ne abbiamo già discusso prima, valutando ogni possibile percorso.» «Lo so, lo so. E' solo che questo è il momento che mi rende più nervoso.» «A parte noi tre, non c'è nessun altro: abbiamo controllato. Se fosse arrivato qualcuno ce ne saremmo accorti.» Il lampeggio di disattivazione dell'allarme dell'auto di grossa cilindrata ruppe l'immobilismo dell'area. «Pochi secondi e tutto sarà a posto: praticamente è già a casa.» Sentenziò il secondo poliziotto. Il guidatore si sporse oltre il parabrezza. «Perché non ricompare?» Il compagno fece spallucce. «E' appena passato dietro una colonna: dagli un attimo.» «Non ricompare.» «Dovrà allacciarsi le scarpe o raccogliere qualcosa che è caduto.» Minimizzò l'altro. «Non ci si mette una vita.» Si sporse ancora più in avanti per non avere la visuale occlusa dal montante della carrozzeria. «Ci sta mettendo troppo, decisamente troppo.» Con un movimento secco aprì la portiera. «Dove vai?» Lo guardò perplesso il compagno. «A controllare.» Scese dall'auto, rimanendo fermo in piedi alcuni secondi a fissare le colonne. Nessun movimento, nessun suono. «Merda.» Mormorò mentre scattava pronto all'azione. La mano corse alla fondina della pistola, togliendo il fermo della custodia e assicurandosi contro il palmo il calcio dell'arma. Cominciò ad avvicinarsi, mantenendosi sempre coperto dalle sagome delle auto. A malincuore il collega lo seguì a pochi metri di distanza. La colonna dei quattroruote fu superata: nessuna traccia dell'industriale. Il poliziotto s'allargò verso l'esterno, facendo per estrarre l'arma alla comparsa della borsa riversa a terra. La pistola strusciò contro il cuoio per un centimetro, prima di ricadere nella fondina. Il braccio che la stringeva scivolò lungo il fianco. «Mio Dio.» Mormorò incredulo. Una volta raggiuntolo, il collega non poté che imitare la sua espressione. Il commissario alzò il nastro colorato che delimitava il perimetro e vi passò sotto, entrando nell'area riservata alle indagini. Le pareti e le auto erano sferzate dalla luce azzurra dei lampeggianti, mentre il cordone della polizia teneva lontani i curiosi che s'accalcavano numerosi. Si massaggiò la tempia dolorante. Il vociare della calca rimbombava in maniera fastidiosa. Il coroner gli passò accanto senza degnarlo di uno sguardo, superando un gruppo di poliziotti che si stava coordinando per rafforzare il cordone di sorveglianza ed evitare

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l'irrompere di giornalisti. Uomini della scientifica con guanti di lattice bianco stavano cercando indizi sulla zona del delitto. Una scena che si stava proponendo con regolare periodicità. L'ennesima vittima che non erano riusciti a salvare. Peccato, perché questa volta era sicuro che sarebbero riusciti a proteggerla e forse a mettere le mani sull'assassino. Eppure qualcosa era andato storto. Sospirò. Era il suo turno di andare a parlare con i due uomini di pattuglia. Sapeva già tutta la storia, avendogliela riferita un collega giunto prima di lui, ma voleva sentire la loro versione di persona; magari dalle sfumature sarebbe riuscito a far emergere qualcosa di nuovo. Scrollò il capo. Pura illusione, ma doveva fare il suo mestiere. Passando in mezzo al nugolo d'agenti, individuò le persone con cui aveva bisogno di parlare. Se ne stavano al margine della ressa, lasciati in disparte dai colleghi, rispettosi della diffic ile situazione in cui si trovavano. "O forse si tratta di semplice menefreghismo." Pensò masticando una cicca. "Meglio a te che a me." «Salve ragazzi. Brutta serata, vero?» Disse quando fu vicino. «Già.» Risposero spingendo i pugni ancora più a fondo nelle tasche della giacca. «So che è una questione rognosa, ma devo farvi alcune domande: è la prassi.» Non voleva usare un tono di scusa, ma anche lui si sentiva a disagio e voleva togliersi da quel posto al più presto. I due assentirono gravemente. «Molto bene. Allora cominciamo.» Si schiarì la voce. «Avete preso servizio alle cinque di questo pomeriggio, sostituendo l'altra pattuglia e seguendo la vittima dalla sua abitazione fino al centro commerciale.» Aspettò che annuissero, poi proseguì. «Giunti al parcheggio, avete seguito la vittima finché non è entrata all'interno del cinema e poi l'avete lasciata: motivo?» «Abbiamo incontrato un collega fuori servizio che andava a vedere il film nella stessa sala della vittima: ci ha fatto il favore di tenerla sott'occhio.» Spiegò il più alto. «E se fosse accaduto qualcosa? Come avreste potuto intervenire?» «Eravamo in contatto tramite cellulare: il collega si era seduto dietro di lei e ogni mezz'ora informava con un messaggio della situazione. L'ha seguita finché non è tornata al parcheggio.» Specificò sempre lo stesso poliziotto. Il commissario annotò mentalmente il dettaglio. «Come avete impiegato il tempo della durata del film?» «Abbiamo controllato l'area attorno al centro commerciale e il parcheggio alla ricerca d'eventuali individui sospetti.» Parlò il poliziotto che finora era rimasto in silenzio. «Dopo aver appurato che l'area era in sicurezza, siete rimasti in auto, nascosti a tenere sotto controllo la situazione.» Continuò per loro il commissario. «Nessuno si è fatto vedere: l'unica persona comparsa è stata la vittima. E voi non vi siete mai spostati dalla vostra posizione.» «Esatto.» «E nessun altro ha fatto la sua comparsa.» Insistette il commissario. «Sì.» «Quando è arrivata nel parcheggio, non avete mai perso di vista la vittima.» Di nuovo una risposta affermativa. «Non è stata nel vostro campo visivo solamente quando è passata dietro alla colonna.» Ancora un cenno di conferma. «Siete intervenuti subito.» «Tempo un minuto dal non vederla ricomparire.» Convenne il poliziotto più alto.

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«Non c'era nessuno accanto al corpo della vittima e neppure avete scorto movimenti nelle vicinanze.» Stessa risposta di prima. Da qualsiasi prospettiva si guardava la questione, pareva non esserci soluzione; era qualcosa d'impossibile. «D'accordo ragazzi, siete a posto. Potete andare.» Liquidò i due. Un'altra gatta da pelare. Si grattò la testa, mentre s'avvicinava al drappello della scientifica presente sul luogo dell'omicidio. O avevano a che fare con un serial killer che poteva competere con i campioni olimpici o che aveva la capacità d'essere invisibile come un fantasma. Osservò la spranga d'acciaio che aveva sfondato le costole all'altezza del cuore, proseguendo la corsa fino a piantarsi nel cemento armato, impedendo alla vittima di scivolare al suolo. Inutile dire che il decesso era stato istantaneo: non doveva aver sofferto con un colpo simile. Se nessuno si era avvicinato alla vittima per impalarla con forza, significava che la spranga doveva essere stata scagliata da un punto buio. Si voltò a guardare alle sue spalle. L'unico possibile, seguendo l'angolazione della spranga conficcata nel cemento, si trovava oltre la recinzione del parcheggio, a cinquanta metri di distanza. Una forza e una mira impressionanti, specie per colpire un bersaglio mobile. Impossibile. Com'era impossibile fare quello che era stato fatto senza essere visti avvicinarsi o allontanarsi; anche se l'assassino fosse stato appostato dietro il pilastro aspettando la vittima, poi si sarebbe dovuto allontanare per non farsi prendere. Ritornò a posare lo sguardo sulla vittima. Un colpo secco, letale; come un'esecuzione. Nessuna esitazione, nessun compiacimento nell'uccidere: solo l'atto concreto e indispensabile per eliminare una persona. Brutale ed efficace. Quella non era la mano di un serial killer. Non c'era nessun rituale di preparazione o soffermarsi su macabri dettagli; non si compiaceva o traeva piacere dalla sofferenza delle vittime. Non si fermava a gustare il loro terrore prima di arrivare alla morte. Un lavoro pulito ed efficace. Senza scampo, senza appello. Il lavoro di un boia. Un giustiziere. Una mente lucida che andava sempre a segno, avendo ben chiaro chi colpire. Nella scia di sangue che scorreva c'era un filo logico. Aveva controllato lei vittime e da quello che era saltato fuori, risultava che non erano stinchi di santo. Niente che la legge perseguisse, ma che sempre li vedeva implicati nelle morti bianche. Non poteva essere solo una coincidenza. E non avevano a che fare con un malato di mente o uno psicotico; da quello che vedeva, si trovavano di fronte a un individuo con un forte senso di giustizia, addirittura estremo. Una giustizia oscura, applicata senza pietà, inflessibile per quanti finivano nel suo giudizio. Brutale, ma con un sottofondo che sapeva di giusto, più di quanto possedesse la legge che regolava il loro sistema, ormai soltanto una mera imitazione di quello che doveva essere veramente, una marionetta in mano a chi aveva più soldi. Più lavorava al caso e più cominciava a vedere un disegno, un fine in tutta quella morte. Un assassino spietato e crudele era l'unico che stava facendo qualcosa per quel mondo impazzito.

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Si fermò di botto. Provava rispetto per un pluriomicida? Rabbrividì. Nel tentativo di entrare nella mente dell'omicida, stava cominciando a ragionare come lui. Rischiava di diventare pazzo, di varcare quel sottile confine tra ragione e follia. Si stava facendo coinvolgere troppo in quel caso. Forse era venuto il momento di passarlo a qualcun altro. In fondo tutto quello che voleva, era tornare alla sua vita grigia, lasciandosi andare fino a invecchiare e restare tutto il giorno a non fare nulla. Non chiedeva molto. Il lampeggio continuò aritmicamente a spargere luce azzurra.

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IX. Salvataggio. Masha abbandonò la fiumana di gente che stava uscendo dal mult isala, evitando la piazza affollata del centro commerciale immersa nell'arcobaleno di luci dei negozi. Non sapendo cosa fare quella sera, aveva deciso di andare al cinema a vedere il film tanto reclamizzato. Come il solito si era rivelato una buffonata, con una sceneggiatura inesistente e una gran quantità d'effetti speciali. E c'era gente convinta che fosse il film dell'anno, da candidare all'oscar. Infastidita da un gruppetto di giovani che si esaltavano per le scene della pellicola, scelse le scale invece di prendere l'ascensore: le sarebbe toccato salire diversi piani a piedi, ma non aveva alcuna voglia di sorbirsi la compagnia d'adolescenti in piena esplosione ormonale. Man mano che saliva, le persone si facevano sempre più rade, lasciandola in compagnia solamente della musica che riecheggiava nel parcheggio. Mancavano ancora un paio di piani per raggiungere la sua auto, quando dagli altoparlanti provenne un fastidioso gracchiare. La musica s'interruppe e il silenzio calò come un maglio, come se di colpo il tempo si fosse fermato. L'immobilità fu squarciata da un potente rift di chitarra, seguito da un devastante accompagnamento di batteria. La voce graffiante e decisa del cantante attaccò le parole del testo, esplodendo in una raffica dirompente senza pausa, una tonalità aspra e rabbiosa che andava in un crescendo trascinante. Masha si strinse addosso il cappotto, colpita dalla potenza della canzone. Il volume era troppo alto e rimbombava in maniera assordante. «Come fai a dire che è bella questa roba?» Sentì dire alle sue spalle e senza averne l'intenzione si girò a guardare. Una giovane coppia la superò senza degnarla di un'occhiata. Lui vestito casual, con maglione e jeans scuri su scarpe di cuoio; sulle spalle una giacca stile chiodo che andava di moda qualche anno prima. Lei con un giacchetto di piumino, la cerniera aperta a mostrare il maglioncino dello stesso colore degli attillati pantaloni rosa; ai piedi alti stivali di lucida vernice rossa le arrivavano al ginocchio e in testa una cuffia bianca. «Dovrei ascoltare la roba che seguono i caproni?» Ribatté il ragazzo. «Brani che non hanno niente di musicale, ma che la gente ascolta solamente perché le grosse case discografiche lo dicono? E' roba per lobotomizzare il cervello, come tutti i varietà e i programmi che le reti in mano a un'unica persona ci propinano. E' un tentativo per non far pensare la gente.» Si fermò un attimo e poi aggiunse. «E pare che sia riuscito. Ora in giro ci sono solo delle teste vuote che non fanno che scimmiottare quei cantanti artefatti: sono diventati i loro unici eroi.» «Ma questa canzone è così arrabbiata: sembra che instilli odio.» Protestò chiocciamente la ragazza. Il ragazzo sbuffò. «Maledetta ignoranza. Parli così perché non conosci: hai mai sentito questa band?» La ragazza scosse il capo. «No, a me piacciono le canzoni d'amore, dolci e sognanti.» «Talmente dolci che poi diventate acide.» La frecciatina colse nel segno e la fece diventare paonazza. «Invece di valutare alla prima impressione, prova ad ascoltare tutta la canzone. Ha un bel testo. Non la senti come se fosse qualcosa di tuo? Non ti apre la mente, trascinando l'immaginazione in un'altra dimensione?»

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Non poté sentire il commento della ragazza: ormai erano fuori della portata d'ascolto e li vide sparire all'interno di una rampa che portava ai piani inferiori. Incuriosita dalle parole del ragazzo, si mise in ascolto del brano. I can't remember my name I never knew how to find my home I can't remember my name come tell me when will it end I'm the chosen one To perform all these things But not for me In illusions and reality I'm on my journey through the dark I'm on my journey through the dark I can't remember Will I ever find myself The distance is growing My hope has gone away A flash of light but nothing changes When will it end Which part of me remains Non aveva mai ascoltato qualcosa di così potente e arrabbiato. E capiva perché non era commerciale: in pochi sarebbero riusciti ad ascoltare qualcosa di simile. Whrere oblivion reigns It will tale all of me Urlarono le strofe della canzone. "Non le senti come qualcosa di tuo?" Aveva detto il ragazzo. Per poter essere così, una persona doveva essere in guerra con il mondo intero, pronta a combattere contro tutto e tutti, un'esistenza dannata e senza luce. Con l'ultimo eco che si perdeva tra le auto e le pareti, riprese a muoversi, attraversando il parcheggio coperto, il rumore dei suoi tacchi che riecheggiavano nel grande spazio vuoto. Poche erano le macchine e, a parte i due ragazzi di prima ormai lontani, era l'unica in quel luogo. Salì le scale mobili bloccate per raggiungere il p iano in cui era parcheggiata la sua fuoriserie. Chissà perché quel giorno l'aveva posteggiata all'ultimo piano. Un leggero strascichio di passi la fece voltare. Dall'a ltra parte del parcheggio un uomo stava venendo nella sua direzione. Il fatto di trovarsi da sola con lui la mise a disagio, addossandole una malsana sensazione d'inquietudine. Cercò di ignorarla, ma non riusciva a far finta di niente; con la coda dell'occhio spiò i movimenti dello sconosciuto. Involontariamente si strinse la borsa contro il corpo quando lo sentì passare pochi metri alle sue spalle, pronta a scattare. L'uomo proseguì senza curarsi di lei. Tirò un sospiro di sollievo, rallentando il passo.

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Era ormai prossima all'auto quando scorse un'ombra muoversi dietro una colonna. Si bloccò di scatto, fermandosi a guardare meglio. Non si mosse nulla. Riprese a camminare e ancora una volta scorse il movimento. Si voltò e di nuovo l'immobilità assoluta si parò davanti ai suoi occhi. Con un senso di minaccia incalzante prese quasi a correre, nel tentativo di raggiungere il più in fretta possibile la sicurezza dell'auto. Si girò per accertarsi che non ci fosse nessuno. L'ombra dietro i pilastri era scomparsa. Ma l'uomo di prima era proprio alle sue spalle, così vicino da poter vedere le venature della giacca di pelle sgualcita. Fece per correre, ma qualcosa la bloccò. Pensò di essere stata afferrata dallo sconosciuto, ma voltandosi per liberarsi dalla presa vide che era ancora al suo posto, a diversi passi da lei. Sentì la forza che premeva sulle spalle gettarla sul duro cemento. Riuscì ad alzare lo sguardo in tempo per vedere arrivare una nube nera contorta e ronzante, una sorta di fumo condensato che turbinava impazzito. Alzò un braccio per difendersi in contemporanea della mano dell'uomo: un lampo squarciò l'aria, ferendole la vista. Macchie nere danzarono davanti alle pupille, oscurando qualsiasi cosa davanti a sé. Con la coda dell'occhio vide la nube scura sbalzata via e mandata a rimbalzare contro un pilastro. Rimase sospesa nell'aria per qualche istante, come se fosse stordita e poi partì di nuovo all'attacco, espandendosi ogni metro che avanzava, come se fosse un'unica bocca che si spalancava per fagocitarli. La mano protesa dell'uomo fu percorsa da piccoli fulmini e una scarica elettrica avvolse completamente la cosa, scaraventandola ancora lontano da loro. La nebbia nera si contorse spasmodicamente a terra, rivoltandosi come un calzino. «Muoviti. Non la fermerà a lungo.» L'incitò l'uomo senza perdere d'occhio la massa contorta. «Salta in macchina, svelta!» «Che cos'è?» Gridò inorridita. «Pensa a muoverti. Non posso permetterti di morire proprio adesso.» Grugnì l'uomo allontanandosi dal luogo dell'aggressione. «Morire?» Masha sbiancò in volto. «Non è possibile.» «Allora rimani qui e vedrai. Oppure vieni con me e vivrai ancora.» A Masha sembrò d'impazzire. «Non voglio morire.» «E allora datti una mossa.» Sibilò lo sconosciuto tenendo d'occhio l'ammasso informe che si contorceva. «Dov'è la tua auto?» «Là.» Indicò Masha con una mano tremante, mentre con l'altra cercava affannosamente le chiavi nella borsetta. Lo sconosciuto si portò dal lato del guidatore. Masha lo raggiunse con le chiavi in mano. «Devo venire al posto di guida!» Disse mentre l'allarme si disinseriva con il lampeggio delle frecce direzionali. «Dammele. Guido io.» Replicò l'altro in tono imperioso. Masha si ritrovò a lanciargliele prima di rendersi conto di quanto stava facendo. Come se avessero alle calcagna il demonio, salirono sulla fuoriserie. Le spie della macchina s'accesero e il display del navigatore mandò un bagliore per avvisare l'attivazione. Il rombo del motore riecheggiò nel parcheggio, mentre l'uomo fece schizzare l'auto sul liscio asfalto. Le gomme stridettero selvaggiamente mentre stupravano l'asfalto. «Vai più piano, o ci ammazzeremo!» Strillò Masha mentre rasentavano paurosamente il muro. In tutta risposta l'uomo accelerò.

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«Ci ucciderai entrambi!» Urlò isterica. «Lo farà lui, se non ce ne andremo da qui.» Nello stesso momento la macchina fu colpita violentemente di lato e mandata a strisciare contro la parete. Una pioggia di scintille cadde sull'asfalto. La nube nera s'avvinghiò con forza contro la portiera, cercando di sventrarla. La lamiera prese a piegarsi. «Stai giù.» Le intimò bruscamente l'uomo. Masha obbedì senza protestare, piegando la testa contro le ginocchia. Il vetro s'abbassò e un urlo stridente entrò in macchina. La donna alzò il capo in mezzo a una pioggia scintillante di strali azzurri. L'urlo le si strozzò in gola quando si ritrovò addosso la nebbia nera. Un ribrezzo raccapricciante le fece accapponare la pelle. Volti eterei d'uomini agonizzanti si protrassero verso di lei, come se volessero stracciare il velo che li imprigionava, cercando con le loro bocche spalancate d'attaccarsi alla sua pelle. Tutto divenne nero mentre un altro lampo colpiva la cosa, rigettandola oltre la rampa che stavano scendendo. La videro stare sospesa sul vuoto della tromba delle rampe prima di partire nuovamente all'attacco. L'auto sbandò, con le ruote che persero aderenza con l'asfalto. Aggrappata alla capotte, la nebbia cercò di farla ribaltare, dando violenti scossoni a destra e a sinistra. L'uomo frenò di colpo, sbalzandola dal tetto e facendola ruzzolare oltre il cofano. L'auto la superò prima che si riprendesse, continuando a scendere all'impazzata le rampe di scale. L'ammasso nero attaccò il lato del guidatore, cercando di entrare nell'abitacolo. «Scavati dalle palle.» Ringhiò l'uomo. Dalla mano partì un'altra scarica elettrica che andò a inchiodare l'assalitore a un pilastro e lo tenne imprigionato in una rete sfrigolante di barbagli azzurri. Guardando nello specchio retrovisore, lo vide dimenarsi senza riuscire a liberarsi. Premette ancora di più sull'acceleratore. L'auto irruppe nella strada principale. La donna si voltò a guardare alle sue spalle. «Non c'inseguirà.» La rassicurò lui. «Come fai a dirlo?» Chiese ansiosamente Masha non riuscendo a smettere di guardarsi alle spalle. «Evita i luoghi affollati. Preferisce colpire le vittime quando sono isolate, lontane da tutti. Non uscirà mai allo scoperto, rivelando la sua presenza.» La notizia avrebbe dovuto rassicurarla, ma il suo cuore non voleva saperne di smettere di martellarle il petto. «Cerca di respirare profondamente. Aiuterà a calmarti.» Le suggerì l'uomo. "E' una parola." Ma si costrinse a seguire il consiglio. Solo quando si fu rilassata, si rese conto di essere al fianco di uno sconosciuto. Esterrefatta dalla situazione in cui si trovava, rimase a fissarlo inebetita. «Grazie.» Fu tutto quello che riuscì a dire. L'uomo continuò a guidare come se non l'avesse sentita. «Ho detto grazie.» Insistette. «Guarda che ci sento.» «Potevi rispondere.» L'uomo alzò le spalle. «Non ne avevo voglia.» «Visto che stai guidando la mia auto, potresti almeno degnarti di farlo.» Lo rimbeccò sgarbata.

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«Pardon, mademoiselle.» Disse in tono atono. «Ma le circostanze non hanno permesso di mettere in pratica l'etichetta.» "Che faccia di bronzo." «Vorrei solo chiarire una cosa.» Aggiunse lo sconosciuto. "Cosa vuole adesso?" Masha sentì un'irritazione crescente pervaderla. «Se ti viene da vomitare, avvisami per tempo. Non mi piace avere pezzetti di cibo digerito sul cruscotto.» Disse con nonchalance. «Non ti preoccupare qualora accadesse: è una cosa normale vivendo certe esperienze. Non saresti la prima.» «Ma brutto deficiente…» Masha si bloccò prima d i iniziare a insultarlo pesantemente. «Come non sarei la prima?» «C'è una percentuale molto alta che il tuo stomaco non regga allo stress e reagisca in quella maniera. L'ho già visto succedere.» Masha rimase a bocca aperta. «Vuoi dire che non è la prima volta che accade?» «Secondo te, avrei potuto reagire così, se fosse stata la prima volta?» Le rispose scocciato. L'affermazione la fece ricomporre. «Certo che non hai un bel modo di porti.» Disse sulla difensiva. «E' pratico.» «Potresti dirmi chi sei?» Lo sconosciuto la osservò un paio di secondi con la cosa dell'occhio, meditando sul da farsi. «Mark Deastin.» "Incredibile, ha risposto." «Io sono Masha.» Disse porgendogli la mano. Mark non la degnò di uno sguardo. «Non si deve distrarre l'autista quando guida.» «Volevo soltanto che ci presentassimo.» Disse risentita. «Tu hai detto il tuo nome, io il mio: ci siamo già presentati.» Tagliò corto l'altro. «Certo che sei proprio uno stronzo.» Lo apostrofò irritata. «Molto più di quello che pensi.» Fu l'atona risposta di rimando. Masha si ritirò in un silenzio cagnesco. «Guarda che casa mia non è in questa direzione.» Gli d isse acidamente. «Guarda che non andiamo a casa tua.» Ribatté Mark. «Anzi, non andiamo in nessun posto che frequenti.» «Prego?» Si sollevò minacciosa dallo schienale. «Quella cosa non aspetta altro.» Spiegò ignorando il tono bellicoso. «Ma se non mi credi e vuoi morire, fai pure diversamente.» La prospettiva della morte ebbe l'effetto di calmarla all'istante. L'esperienza recente non poteva essere ignorata. Aveva bisogno di riflettere. Tutta quella situazione era inverosimile. Che diavolo stava succedendo? Si stava avvicinando la fine del mondo? Ripensò a una trasmissione di qualche sera prima dove, secondo il calendario di un'antica popolazione, il tempo dei tempi era vicino e si sarebbe fatto preannunciare da eventi catastrofici e da pazzia. Provò un brivido. Non era il caso di farsi suggestionare. Doveva rimanere con i piedi per terra, anche se non era facile dopo quello che aveva visto. Sapeva che non avrebbe risolto nulla senza indizi. E per averne qualcuno, doveva cominciare con quanto aveva a portata di mano. «Forza, domanda quello che vuoi.» La esortò con noncuranza l'uomo. Masha trasalì. «Non capisco.» «Sono cinque minuti che mi fissi senza battere ciglio. E ti si legge in faccia quello che ti frulla per la testa.»

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Il dilemma interiore che l'affliggeva era fin troppo palese, sarebbe dovuta stare più attenta. Ma quel che era fatto, era fatto ormai. «Ma tu sei umano?» Riuscì a chiedere a fatica. Mark scalò la marcia e rimase in silenzio. «Non volevo. E' soltanto che…» Non finì la frase, imbarazzata da quello che aveva chiesto. «Invece è una buona domanda.» Disse Mark senza scomporsi. «E' per quello che mi hai visto fare, non è vero?» Masha fece cenno di sì. «Non si vede spesso scagliare scariche elettriche dalle mani o far volare lontano le cose. Di solito gli esseri umani non sono capaci di tali manifestazioni fisiche. E' normale che tu sia sconvolta.» Convenne placidamente. Vedendo che restava in silenzio, Masha lo incalzò. «Allora?» «Allora cosa?» «Sei o non sei umano?» «Tu cosa dici?» Insinuò sibillino. L'espressione imperturbabile non faceva trasparire un solo segno se si trattava di uno scherzo o faceva davvero sul serio. «Lasciamo stare.» Non era il momento di perdersi in stupide dispute. «Mi spieghi come fai a fare quelle cose?» «Curiosa la ragazza.» Sorrise enigmatico e anche un po’ divertito. «Non lo so.» «Come?» Strabuzzò gli occhi stranita. Il sorriso di Mark s'allargò. «Mi stai prendendo in giro.» Disse risentita. L'espressione divertita di Mark lentamente svanì e ritornò a farsi serio. «E' la verità. Non ho imparato, non mi è stato insegnato. Niente che si trova sui libri o che si può apprendere. Mi sono ritrovato ad averlo.» «Da un momento all'altro? Tutto qui? Non può essere successo e basta.» «Mi ricordo delle luci e una gran tenebra. Un calore cocente e una nube nera.» Si spostò un poco a sinistra della corsia per sorpassare un motorino. «Quando sono tornato in me, avevo questi poteri.» «Un incidente?» «Sì. Storia antica, direbbero alcuni.» «Ma se nessuno ti ha insegnato, come fai a usarli?» «Facendo pratica. Provando. Sperimentando. E' come conoscere se stessi: alla fine si diventa capaci e si sa come muoversi. C'è voluto del tempo; i risultati però li hai visti tu stessa.» Scalò una marcia arrivando in prossimità di una curva. «Soddisfatta la tua curiosità?» «No. Che cos'è che m'inseguiva?» «Non si può definirla esattamente. Pare che sia la manifestazione e la richiesta di vendetta di qualcuno che ha sofferto molto e che ora vuole essere ripagato di quello che ha subito. Un'essenza molto forte che ha il suo ancoraggio in questo mondo con sentimenti di rancore e rabbia. E' lo spirito di qualcuno la cui vita è stata stroncata violentemente e che vuole vendicarsi.» «Non riesco a capire.» Disse Masha convinta di non aver afferrato il d iscorso. «Diciamo che è una sorta di fantasma punitore venuto a rivalersi sui colpevoli della sua fine: un'entità dell'oltretomba, qualcosa di morto.» Masha lo fissò a lungo. «E tu gli dai la caccia?»

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«Sì. E mi dà la caccia.» Aggiunse Mark. «E perché dovrebbe farlo?» «Perché elimino quelli come lui.» Disse freddamente. «Allora, perché dovrebbe dare la caccia a me? Io non ho niente a che fare con quello che gli è successo.» Si difese Masha. «Tu forse no, tuo padre sì.» «Mio padre?» La rivelazione la lasciò basita. «Non è un segreto che non fosse un magnate illuminato e un signore del rispetto umano. Si è sporcato le mani: ha rovinato famiglie e le sue azioni sono costate la vita a delle persone.» Continuò a spiegare pacatamente Mark. «Mio padre non ha mai ucciso nessuno.» Protestò ferocemente Masha. «Non di persona. Ma ha spinto a farlo. Il che è la stessa cosa.» «E' una menzogna.» Protestò Masha. «E poi tu che ne sai di chi era mio padre?» «I giornali scrivono.» «Tutte falsità!» «Anche l'essere che t'insegue lo è?» Ribatté imperturbabile Mark. «Puoi anche non credermi, ma prova a chiederlo alla gente che lavorava nella ditta di tuo padre: potrai sentire la stessa risposta.» «Menti.» Sputò la parola come veleno. Mark non le fece caso. «Hai ragione: forse non te lo direbbero, dato che per loro tu sei come lui. E anche per il fantasma.» Alzò le spalle. «Comunque ci sono testimoni e prove. Che tu lo voglia o meno, questa è la verità.» «Menti.» Ripeté Masha con livore. «O forse sei tu che stai mentendo a te stessa?» Ribatté deciso. «Se hai un minimo di sincerità, sai chi era tuo padre. Puoi anche non ammetterlo con me, ma con te stessa non puoi negarlo. Ciò che gli è successo è conseguenza delle sue azioni.» La guardò dritta negli occhi per un istante. «Dì quel che vuoi. Pensa quel che vuoi. Ma ricordati una cosa: qua non si sta scherzando. La gente viene fatta fuori, non ci si perde dietro discussioni inutili. Si elimina senza ripensamenti. Non credere a me: ma puoi non credere a tutti quei morti apparsi sui giornali?» La voglia di polemizzare di Masha sparì in un baleno. «Vuoi dire che tutte quelle persone uccise così brutalmente…» Mark assentì gravemente. «Esatto.» La rivelazione suonò come una sentenza. Un senso di vertigine le fece sentire la testa leggera. Ogni articolo letto, ogni minuzioso dettaglio, scorse davanti ai suoi occhi. L'assassino di vampiri si era messo sulle sue tracce. Ora era lei la v ittima designata. Uno sgradevole sapore di rame le pervase la bocca. Il pensiero che qualcuno la volesse morta era inconcepibile. «Io…io…non capisco…ma perché…perché…» «Non cercare risposte, non le troveresti. Non puoi capire una mente omicida mossa da istinti vendicativi.» «E' un mostro.» Sussurrò sconvolta. Mark assentì. «Senza alcuna ombra di dubbio. E' spietato e brutale e non ha compassione. In condizioni particolari nascono simili cose, manifestazioni di ciò che rimane delle persone morte.» «Devono appartenere a gente malvagia.» Sibilò Masha.

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«Non è necessariamente vero.» La corresse Mark. «Un tempo potevano essere persone normali.» «Stai scherzando?» Masha assunse un'espressione inorridita. «Affatto.» Le rispose con la solita imperturbabilità. «Di fronte a tragedie o fatti particolarmente gravi, alle volte nella mente si rompe qualcosa, si apre una crepa che fa uscire un umore sconosciuto e incontrollato che ribalta qualsiasi ideale o valore. Non hai mai sentito di persone distinte e rispettate, che a un certo punto della vita, angariati da familiari o problemi di varia natura, hanno raggiunto il punto di rottura e sono diventati degli efferati serial killer? Ecco, il principio è quello.» Masha era incredula. «Perché la gente fa così?» «I motivi sono tanti, ma per ognuno di quelli che chiami mostri è sempre e solo uno. E' personale; unico, si può dire.» «Allora per quella cosa che cos'è?» «Allora non mi hai ascoltato.» La rimproverò seccamente. «E' la vendetta. Qualcuno tra gli industriali può essere stato causa di morte di qualcuno, e si è trattato di una morte violenta, e ora le conseguenze si ripercuotono su tutta la classe. Probabilmente tutto quanto è successo riguarda le cosiddette morti bianche.» «Ho ragione a dire che non poteva essere una persona normale. Se è la vendetta a spingerlo, se la deve fare con chi ha causato la sua morte, non su gente che non c'entra nulla.» «Non farla così semplice: le cose non lo sono mai. E come in questo caso, sono più complicate.» Disse pensieroso Mark. «Non è detto che quell'essere sia una cosa sola.» «Che vuol dire?» «Penso che sia l'unione di più morti, un insieme di tutte le persone decedute per la stessa causa e guidate dallo stesso istinto: probabilmente queste entità morte si sono trovate, o sono state attirate da una più forte delle altre, e si sono fuse.» «Perché proprio adesso?» Mormorò sconvolta. «Se mi avessi ascoltato meglio, ci arriveresti da sola.» Non mancò di farle notare Mark. «Mai come adesso il numero delle morti sul lavoro è stato così elevato e mai il disinteresse per i loro decessi ha raggiunto livelli così deplorevoli.» «La gente muore tutti i giorni. Non è possibile angustiarsi per ogni vita che scompare.» Bofonchiò Masha. Mark sembrò non sentirla, perso nel discorso. «Una volta una morte era una tragedia; ora è soltanto un evento del quotidiano, non ci si fa neppure caso. Ma i morti invece vedono e notano tutto, badano a ogni cosa; soprattutto non dimenticano. Il loro rancore e la loro sete di giustizia hanno colmato la misura, dando vita a una forza vendicatrice. Visto che nessuno ha prestato ascolto alla loro sorte, hanno deciso di darvi voce da soli.» «Se è questa la sua natura, abbiamo scoperto il colpevole e allora potrà pensarci la polizia.» Sentenziò Masha. La risata di Mark fu sommessa e cattiva. «Il cervello è connesso quando parli? Cosa pensi che possa fare la polizia? Non ha nessun mezzo per ostacolarlo. E soprattutto, pensi che possa credere a una simile storia?» La irretì senza rispetto. Masha si sentì bruciare nel sentirsi trattata a quel modo, ma dovette ammettere che aveva ragione. «Quindi sei l'unico che può contrapporsi a quella cosa.» Ammise controvoglia. «A meno che tu non trovi un altro come me, direi di sì.» «Puoi fermarlo? Puoi ucciderlo?» Chiese speranzosa.

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L'espressione di Mark, se possibile, si fece ancora più seria. «Non può essere ucciso: è già una cosa morta. Posso combatterlo, colpirlo; può essere indebolito, disperso, ma non eliminato per sempre. Tornerà ogni volta che le sue forze lo permetteranno. La sua ancora in questo mondo è troppo forte per essere spezzata.» Il colorito sparì dalle lisce guance femminili. «Allora sono condannata.» Disse in un tremito. «E' un'eventualità.» Ammise Mark. «Tutto dipende da quanto la sua attenzione è focalizzata su di te. Se passasse oltre, potresti cavartela.» «E come si fa a non avere la sua attenzione?» Chiese irritata. «Sto elaborando una teoria, ma mi occorre ancora un po’. Te lo dirò a tempo debito.» «Ma nel frattempo potrei morire!» Sbottò spazientita. «Non ti scaldare. Per il momento non morirai, te lo posso assicurare.» L'ult ima frase parve tranquillizzarla, anche se non poteva certo dire d'essere serena. Per lo meno non le sembrava d'avere il cervello sul punto di esplodere. «E' la seconda volta che ti sento nominare il termine àncora: che cosa vuol dire?» «L'àncora è il legame che tiene l'essenza in questo mondo, che lo fa interagire con la parte materiale. E' il motivo e la causa perché continua a esistere nella nostra dimensione.» Masha rifletté sulla nuova scoperta. «Quindi eliminando l'àncora si eliminerebbe anche la cosa.» «Esatto.» «Basterebbe far cessare il suo rancore per porre fine a tutto.» Gli occhi di Masha si ravvivarono. Mark scosse il capo. «Non credo sia questa l'ancora da sganciare. Dovresti praticamente modificare tutto il sistema e porre giustizia ai misfatti. Cosa direi impossibile, dato che prima dovresti cambiare la mentalità di tutte le persone; e si sa che cambia soltanto chi vuol cambiare. Ma se anche riuscissi in questo, quello che potresti ottenere è di far cessare il flusso che lo alimenta: impediresti che continui a rafforzarsi, ma non lo elimineresti.» «Qual è allora la sua àncora?» «Gli industriali.» Disse laconico. «Quindi per eliminarlo…» La consapevolezza la colse alla sprovvista. «Dovrebbero sparire tutti quanti.» Terminò la frase per lei. «Come ti ho detto prima, una cosa impossibile.» Masha sprofondò nuovamente nel sedile. Per toglierlo di mezzo doveva morire anche lei. L'alternativa era fuggire finché qualcun altro non attirava la sua attenzione. «Sono vittima delle circostanze, cacciata per essere figlia di mio padre, per espiare colpe che anche con la morte non sono state cancellate.» C'era da mettersi a piangere. «E tu come sei rimasto coinvolto in questa storia?» Cercò di volgere l'attenzione altrove per non scoppiare in lacrime. «Fa parte del mio retaggio e in un qualche modo sono legato a quella cosa. Le sue azioni richiedono la mia attenzione: è un ka molto forte, forte come la vita stessa.» «Allora sei in trappola come me.» Disse tristemente Masha. «Si può dire così.» Convenne senza guardarla. La strada continuò a scorrere sotto le gomme. Riaprì gli occhi di scatto e per un attimo non capì dove si trovava. Lo scorrere dei lampioni fuori del finestrino glielo ricordò. Per quanto tempo s'era addormentata?

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Con una mano sistemò i capelli e lo sguardo si posò impietrito sullo specchietto. «Avevi detto che non si manifesta in luoghi pubblici.» Gli fece notare Masha. «E' così.» Assicurò Mark. «E allora perché c'insegue?» Mark le rivolse subito l'attenzione. «Dov'è?» «Alle nostre spalle. L'ho visto nello specchietto. A meno che non si tratti di una nuvola che vola a bassa quota.» Mark mosse lo specchietto retrovisore per inquadrare la strada che scorreva alle loro spalle. Una massa nera e informe stava sorvolando le carrozzerie delle auto che li seguivano. «E' lui.» Costatò senza scomporsi. «Evidentemente l'autostrada non è tra i luoghi affollati. E la notte lo aiuta.» Mormorò tra sé. «Incredibile che si sia spinto fino a questo punto. Dev'essere la mia presenza.» «Come sarebbe a dire? La tua presenza non dovrebbe intimorirlo?» La paura le incrinò la voce. Mark fece un sorriso cattivo, tenendo un occhio sulla strada e uno sullo specchietto. «Al contrario: lo sprona.» L'affermazione la lasciò stupita. «Ma tu sei il suo cacciatore!» «Proprio per questo. Anche se è come dici tu, i ruoli non sono così definiti; almeno non sempre. Lui non sa dove trovarmi, né quando colpirò; non conosce nulla di me, se non che posso individuarlo e colpirlo. Ma adesso che sa che sono con te, non si lascerà sfuggire quest'occasione e attaccherà senza posa.» «Vuoi dire che sono in pericolo per causa tua?» Masha strabuzzò gli occhi. L'occhiata che le lanciò Mark fu eloquente, facendole riportare lo sguardo sullo specchietto per non sostenere quei due pezzi di ghiaccio. La macchia nera era sempre alle loro spalle. «Che cosa facciamo?» Chiese preoccupata. «Cerchiamo di seminarlo.» «E se non ci riusciamo?» L'apprensione le rese acuta la voce. L'auto accelerò di colpo, balzando in avanti. «Una cosa alla volta, grazie.» Sfrecciando tra le corsie, Mark prese a sorpassare gli automezzi. La lancetta della velocità continuò a salire senza rallentare. Masha strinse con forza il bracciolo della portiera. «Non potresti andare più piano?» «Sì, ma dillo anche a quello dietro.» Sterzò bruscamente a sinistra per superare un camion della corsia centrale. La nube nera era sempre alle loro spalle, lanciata nel folle inseguimento. Ora però non era più un ammasso compatto: si era assottigliata, divenendo una grande manta che ricopriva tutta l'autostrada. Due fessure grigie che potevano essere occhi, trasudavano malvagità. Nella corsa sfrenata, i mezzi che passavano accanto non erano altro che macchie indistinte rigate di rosso, fiammelle plumbee che svanivano in un battito di ciglia. «Ci sta raggiungendo.» Lo avvisò Masha che continuava a voltarsi senza sosta. Con un occhio sempre allo specchio retrovisore, Mark scalò rapidamente una marcia, aumentando la progressione del mezzo. «Il bastardo non molla.» Osservò vedendo la manta restare sempre in scia. Con una spaventosa accelerazione, se la videro arrivare addosso e scomparire dalla vista. «Dov'è finito?» Spasmodicamente Masha spostò lo sguardo da un vetro all'atro. «Calma. E' sopra di noi.» Disse Mark tenendo d'occhio il tetto dell'auto. «E cosa vuole fare?» Un tonfo sulla lamiera e l'auto sbandò verso lo spartitraffico.

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«Vuole entrare.» Il tetto s'accartocciò. «Sta cercando di strapparlo via.» Aggiunse reagendo prontamente all'assalto. Prendendo a zigzagare tra le corsie, cercò di liberarsi dell'aggressore. La lamiera si piegò ancora di più e un velo nero cominciò a scendere sul parabrezza. «Questo non te lo lascio fare.» Ringhiò a denti stretti Mark. Afferrò il freno a mano e tirò. L'auto girò su se stessa come se fosse stata presa da un vortice. Un nugolo di luci gli si scagliarono contro e in quell'attimo abbassò di nuovo la leva e spinse l'acceleratore al massimo. Un violento contraccolpo e la sagoma nera svolazzò lontana, perdendosi nell'oscurità della notte. I fari d i un altro veicolo s'avvicinarono a sorprendente velocità. Scalando rapidamente le marce, l'auto guadagnò velocità, sterzando bruscamente ed evitando il sopraggiungere di un mezzo dalla direzione opposta. Un violento strombazzare di clacson li investì con violenza. «Vuoi fare l'autostrada contromano?» Urlò sbigottita Masha. Mark evitò all'ultimo momento un'auto che gli stava andando addosso. «Perché no?» «Ma è una pazzia!» Strillò isterica. «No, si può fare. Basta stare molto attenti.» Mark era una maschera di concentrazione. «Non hai visto quel film dove una donna, per sfuggire agli inseguitori, percorre in moto l'autostrada nel senso opposto di marcia?» Masha sgranò gli occhi esterrefatta. «Ma quella era una finzione!» «Allora vediamo se si può fare per davvero.» Appiattita contro lo schienale, Masha s'aspettò di sfracellarsi addosso a ogni veicolo che veniva incontro, ridotti a semplici cartocci di metallo come i notiziari mostravano. «Mark…» Mormorò con voce rotta dall'isteria, vedendo un tir sopraggiungere a velocità spaventosa. Soltanto all'ultimo secondo si mosse per evitarlo. «Sei deciso a non mollare.» Borbottò Mark vedendo di nuovo la sottile sagoma comparire sopra il cassone di un camion. «Sia come vuoi tu.» Fece sterzare il volante a sinistra, usando selvaggiamente il freno a mano. Di nuovo nella stessa direzione di marcia del flusso del traffico, prese la rampa d'uscita dell'autostrada. La cosa che sembrava una manta evitò la collisione con un autoarticolato e per qualche secondo la persero dal loro campo visivo. Ormai sul punto di vomitare tutto lo stomaco, Masha vide la fiumana delle macchine continuare come il solito. Come avevano fatto a evitare un incidente di proporzioni catastrofiche? Una repentina movenza oscura le strappò un singulto. Era ancora sulla loro scia. «E' sempre dietro di noi.» «Che venga.» Incurante dei cartelli di segnaletica, Mark imboccò una strada che presto si fece sterrata e s'allontanava dall'illuminazione dei lampioni, addentrandosi nella bassa foschia che stagnava sul suolo. Una vecchia palazzina con poche finestre e un grande scivolo che entrava al suo interno comparve nell'arco di luce disegnato dai fari. Mark l'aggirò, portandosi al fianco di una serie di basse colline tonde dalla rada vegetazione. Scheletri di bracci meccanici e pale arrugginite erano sparsi nello spiazzo aperto.

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Fermò l'auto nascondendola dietro a una catasta di gomme squarciate alte e grosse più di un uomo, e spense motore e luci. «Credi che qui non ci troverà?» L'atmosfera lunare che permeava il luogo fece parlare Masha sottovoce. «Eccome se ci troverà.» Disse Mark aprendo la portiera. «Ma spero questo sia il posto dove farlo restare per sempre.» Il colpo secco della chiusura dello sportello rese il silenzio ancora più pesante. Mark sparì dietro una cunetta e Masha si ritrovò sola nell'abitacolo a vedere la cosa informe e strisciante avanzare sinuosa tra le volute grigiastre. Fluttuando a pochi centimetri dal suolo, sembrava che stesse fiutando il terreno per trovare dove si erano nascosti. Con caparbia lentezza setacciava la zona, sicura che li avrebbe trovati. "E così sarà." Costatò con disperazione Masha. Soltanto il terrore paralizzante le impediva di saltare fuori dell'abitacolo e correre all'impazzata nella notte. Serrò le gambe con forza: sentiva la vescica premere con forza, come se stesse per scoppiare. "Fa che non me la faccia addosso." La manta arrivò davanti al muso dell'auto e strisciò sul cofano, levandosi poi di scatto come un cobra incantatore, manifestandosi in tutta la sua grandezza. Ritta e immobile se ne stette a scrutare l'auto, come se fosse la prima volta che ne vedeva una. Masha sentì serrarsi lo stomaco mentre i sottili e fitti filamenti brulicavano gli uni sugli altri come tanti vermi: era come se lo sguardo della cosa la trafiggesse. Ma come poteva essere possibile, dato che non aveva occhi? Eppure la cosa rimaneva a fissarla, ipnotizzata da qualcosa che non riusciva a capire. Ci fu un tremito sul manto nero, una convulsione simile a un corpo folgorato da una scossa. Lentamente prese ad accartocciarsi, diminuendo di dimensioni e cominciando a cambiare forma. La linea sottile assunse connotati tridimensionali, prendendo a diramarsi in cinque direzioni. Ci fu un aggrovigliarsi di filamenti oscuri che lentamente andarono a plasmare gambe e braccia. Come se mani invisibili la stessero amalgamando, la forma andò ad assumere linee sempre più definite. Presto anche il torace si conformò: in tutto e per tutto aveva davanti la figura fumosa di un uomo. Mancava solamente la testa. In un guazzabuglio melmoso, un volto cominciò ad affiorare. L'essere esplose in una fiammata gassosa nel momento in cui orbite si stavano infossando e palle d'occhi eterei stavano affiorando. I resti dell'uomo di fumo nero si sparsero tutt'intorno, tenuti insieme da tenui filamenti. Implacabile, Mark colpì con sventagliate d'urto dall'impatto devastante. Brandelli scuri si sparsero ovunque, scaraventati all'indietro dal continuo assalto. Colto alla sprovvista, l'essere non oppose una resistenza efficace, costretto a indietreggiare, cercando di ricomporsi. I piccoli frammenti sparsi per lo spiazzo cominciarono a riunirsi, ricostituendo l'essere originario. Mark cercò di distruggerli, ma più li colpiva e più si frammentavano, sgusciando via per ricongiungersi al suo intero. Con una sferzata repentina e un risucchio di vortice, la cosa torreggiò su di lui, di nuovo completa. Furiosa per l'attacco improvviso, si mutò in qualcosa di simile a un gigantesco verme striato di nero e di grigio; s'avviluppò su se stessa e con un colpo del corpo invertebrato si scagliò sul terreno, cercando di spappolare l'umano.

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Detriti e pietrisco volarono come schegge impazzite, mentre il grosso testone si schiantò al suolo, mancando Mark già rotolato lontano. Come due bestie impazzite, s'aizzarono una contro l'altra, squarci di lampi e volute nere che s'accapigliavano in un turbinio di polvere. Mark guizzava evitando il corpo effimero capace di far tremare la terra tutte le volte che impattava il suolo. La cosa caricava a testa bassa incurante dell'inefficacia degli attacchi; turbinava su se stessa nel tentativo d'inseguire l'eludente figura. Impietrita sul sedile, Masha guardò con occhi sbarrati lo scontro, il respiro bloccato. Era più terrorizzata di quando aveva incontrato per la prima volta la cosa; non c'era via di scampo, non poteva fuggire, la sua vita in mano a un uomo che poteva essere spezzato in qualsiasi istante. Quella cosa era troppo grande, troppo potente perché ce la potesse fare da solo. Un errore e anche lei sarebbe morta. Saettante come un crotalo, il fantasma scatenò un contrattacco fulmineo, arrivando addosso a Mark e aprendosi in una voragine scura per ingoiarlo. Masha si sentì strappare l'anima dal buco nero che si era spalancato, porta malevola e forza risucchiante per un'altra dimensione. Anche a quella distanza riusciva a sentire di quale potere era pervasa. Era la fine. Per Mark la sconfitta non era concepibile. Con un salto mortale all'indietro si portò fuori dell'area di risucchio dell'essere, atterrando sulle gambe e sulle braccia in posizione ferina. Le dita artigliarono il suolo, scavando profondi segni. Si era stufato di giocare. Aspettò che gli fosse di nuovo addosso e poi scattò di lato correndo verso la palazzina. Ignorando le scale, corse verso il grande scivolo, aggrappandosi al bordo e issandosi lungo il rullo bloccato. L'ulu lato da oltretomba risuonò alle sue spalle. Si voltò e una scarica di fulmini partì dalla mano sinistra protesa, avvolgendo in un reticolo bluastro la massa nera, facendola contorcere in scatti convulsi. Sgusciò della palazzina, avvistando le scale che portavano al tetto sulla parete di sinistra a fianco di macchinari arrugginiti. Proteso nello sforzo della corsa, cominciò a concentrare il potere nella mano destra: una sfera d'energia prese a vorticare sul palmo aperto. Con cupa soddisfazione vide che il luogo angusto rallentava l'essere, costringendo la sua forma ad adattarsi all'ambiente per avanzare. Spalancò di colpo la botola del tetto e scagliò la sfera vorticante mentre l'inseguitore era a metà della salita, lanciandosi verso la collina di sabbia pochi istanti prima dell'impatto. L'esplosione deflagrò con un boato, sventrando la palazzina e facendola crollare. Il polverone andò a unirsi alla nebbia, rendendo impossibile vedere. I secondi passarono e il silenzio invase l'area. Completamente sprofondata nel grigio calato dopo i lampi del combattimento, Masha era torturata dall'ignoranza dell'esito dello scontro. All'improvviso ci fu uno squarcio di luce, dal nulla arrivò una voce lontana. Aiuto, aiuto, sembrava dire flebilmente.

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Un altro lampo, seguito da un impatto. A pochi metri dall'auto, Mark stava chino su qualcosa che si contorceva e vi teneva serrate entrambe le mani inondate da potere. Un ultimo bagliore, un tremito e dalla figura nera, che aveva riassunto forme umanoidi, si levò uno spiraglio di fumo che si disperse nell'aria. Mark scrutò l'area. L'espressione soddisfatta quando s'avviò verso l'auto indicava il risultato finale dello scontro. Lasciarono la cava in disuso senza scambiarsi una parola. Quello che era stato un luogo abbandonato, ora sembrava essere il passaggio di un bombardamento.

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X. Notte di fuga. «Puoi fermarti un attimo?» Masha ruppe il silenzio dell'abitacolo. «Ho bisogno di prendere un po’ d'aria.» «Mal d'auto?» S'informò Mark continuando a guardare la strada. «Un po’.» Disse sulle sue Masha. Scalando una marcia, l'auto affrontò dolcemente la curva della strada. «C'è un piccolo parco al prossimo isolato. Possiamo sostare lì qualche minuto. Fare quattro passi ti potrebbe aiutare.» «Non sarà pericoloso? La cosa potrebbe tornare.» Masha si rannicchiò contro lo schienale, timorosa che il solo nominarla la facesse comparire. «E' un'eventualità, questo è certo. Non per il momento però. Manifestarsi materialmente le costa un ingente sforzo, così come affrontare un combattimento come quello che c'è stato: dovrà ricaricarsi prima di tornare. Per il momento possiamo stare tranquilli.» Mark attivò l'indicatore di direzione per immettersi nella strada secondaria che portava al parco. L'auto s'accostò lentamente a una panchina ricoperta di foglie cadute. I rami spogli dell'acero erano illuminati dal riverbero del lampione. Poco distante, i cancelli neri erano chiusi da una grossa catena. Masha aprì la portiera appena il motore si spense, alzando la sciarpa davanti al volto. L'aria della notte era carica di fredda umidità. La nebbia appannava ogni cosa, un pesante sudario che non si levava mai. Si guardò intorno sospettosa. Già la città di giorno non era bella, figurarsi di notte. Così spettrale, cupa; nemmeno i lampioni servivano a migliorare le cose, anzi, rendevano ancora più sgradevole la sua vista. Sembrava che nell'aria si levassero dei filamenti che ricordavano l'acqua stagnante delle paludi. Oltre le inferriate della recinzione, le rade luci sparse sugli stretti sentieri del parco rischiaravano le basse fronde degli abeti, riuscendo a stanare sacchetti e bottiglie di plastica abbandonate sul terreno. Fece un'altra ispezione prima di allontanarsi dall'auto: non voleva fare l'incontro con qualche spacciatore o drogato che era venuto a bucarsi nelle vicinanze e nemmeno con qualche puzzolente barbone che si era messo a dormire sotto strati di cartone. Tutte le volte che ne vedeva uno avvertiva una tensione tremenda, che andava aumentando quando gli si avvicinava. Vedeva la sua mano protesa a chiedere l'elemosina e l'atteggiamento remissivo del corpo, ma sapeva che dietro gli occhi supplichevoli, il mendicante le stava augurando tutto il peggio possibile, sperando che capitasse a lei la sua stessa sorte. Tutto ciò che riusciva a desiderare in quei momenti era di essere da un'altra parte, in modo che quello sguardo non intaccasse i suoi pensieri. Fortunatamente c'era soltanto il vialetto coperto di foglie. Stringendosi le braccia attorno al corpo, prese a camminare, sperando che servisse ad allentare la tensione. In quella calma ovattata, il precipitare degli eventi sembrava il rimasuglio di un incubo spaventoso. Senza famiglia, braccata, spaventata; ora si ritrovata anche senza casa. Mark era stato categorico: non poteva ritornare alla sua abitazione. Il fantasma sapeva dove abitava e sarebbe stato uno dei primi posti dove l'avrebbe aspettata. Doveva stare lontano anche dalla ditta, almeno finché tutta quella vicenda non si fosse conclusa.

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L'unico modo per non farsi trovare era continuare a spostarsi, senza dare punti di riferimento, evitando ogni luogo che era solita frequentare. Non gli piaceva, ma ragionando a mente fredda sapeva che era la cosa più logica. Tuttavia, quel continuo girovagare la faceva sembrare una zingara. Scalciò una lattina. Detestava quella razza di ladri. Una volta li aveva beccati che bazzicavano intorno a casa sua. Aveva chiamato la polizia e all'arrivo dei lampeggianti si erano dileguati. Non li aveva più rivisti nei dintorni, ma nel quartiere diversi appartamenti erano stati svaligiati. I colpevoli non erano mai stai presi; forse perché il c irco giunto in città se n'era andato nel giro di una settimana. Tutti sapevano che erano stati gli zingari, ma nessuno li aveva colti sul fatto o aveva trovato nelle loro roulotte la refurtiva: erano riusciti a farla franca. Che razza schifosa. Cosa aspettavano a fare una legge che li bandisse dalla nazione o che li facesse riconoscere facilmente e sbattere in galera? Un bel codice a barre marchiato a fuoco su un braccio o su una spalla e tutto si sarebbe risolto. Ma intanto nei casini c'era lei e non sapeva come risolverli, se non affidandosi a un estraneo. Il pensiero si rivolse a Mark. Rabbrividì. Se per lei era tremendo aver vissuto quei pochi istanti, non riusciva a immaginare come si poteva fare di quelle esperienze la propria vita. Forse ci si faceva l'abitudine, e questa doveva essere la cosa più brutta. Lanciò uno sguardo alle sue spalle. Mark la seguiva a diversi metri di distanza, il passo lento e misurato, un'espressione distaccata e dura. Con la vita che faceva, non c'era da meravigliarsi se aveva poca voglia di sorridere. Quello che però la colpiva erano i suoi occhi da rapace: sempre attenti a calare su ogni dettaglio, acuti, scrutatori. Non riusciva a sostenere il suo sguardo più di qualche secondo senza rimanerne intimorita. Freddo, sicuro di sé, indifferente a qualsiasi cosa. Non le piaceva ammetterlo, ma, anche se era il suo salvatore, ne aveva paura. Per lei aveva affrontato due volte la spaventosa presenza, rischiando la vita per proteggerla; questo sarebbe dovuto bastare a conquistare la sua fiducia. Invece non ci riusciva. Niente del suo comportamento la incoraggiava a farlo. Si voltò un'altra volta a guardarlo. Manteneva sempre lo stesso passo. Avrebbe voluto chiedergli delle cose, chiarire molti punti che ancora non conosceva, ma la distanza che stava tenendo le rendeva ben chiaro che non aveva voglia di parlare. Non aveva voglia di restare sola con i suoi pensieri, ma, non potendo avere alcuna compagnia, non poté fare altro che concentrarsi sui propri passi. Meccanicamente e ritmicamente continuò a muovere le gambe, persa nel lieve dondolio del corpo che avanzava. L'intenzione era di percorrere il vialetto fin dove finiva la recinzione del parco, ma i suoi piedi la portarono oltre. Quando rialzò lo sguardo dalla punta delle scarpe, sobbalzò sorpresa. Non si era aspettata un cambiamento nell'ambiente circostante. L'aria intorno era più scura, il manto di nebbia aveva perso la colorazione giallognola, assumendo quella plumbea dell'antracite. Il cuore le saltò in gola, pronta a scappare per l'arrivo dell'orrenda presenza che le dava la caccia; passata la paura iniziale, s'accorse che era finita in una zona dove l'illuminazione era mancante. Gli scheletri dei lampioni se ne stavano immobili, rovinati e resi inservibili da atti di vandalismo.

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Era finita in un quartiere povero, degradato dall'incuria degli abitanti. Storcendo il naso evitò un cumulo di spazzatura gettato in un angolo. Tutto era deprimente e decadente. In mezzo alla strada erano sparsi fogli di g iornale e lattine assottigliate dal passaggio degli automezzi. Le tapparelle dei palazzi erano abbassate, salvo a un paio di finestre che ne erano completamente prive. Non si vedevano macchine in giro, se non un vecchio e scassato furgoncino parcheggiato con una ruota sul marciapiede. Nessun albero o aiuola abbelliva la zona. Non c'era da meravigliarsi che da simili posti venisse delinquenza d'ogni genere: dove regnava il degrado, non poteva crescere qualcosa di bello. Si strinse nel cappotto. Aveva camminato a sufficienza. Ora voleva tornare sul sedile dell'auto e sentire il soffio caldo del riscaldamento. Un piccolo gemito la fece sobbalzare. Quattro individui facevano capannello in un piccolo cortile di un palazzo, intenti a osservare qualcosa che si dimenava a terra. Come aveva fatto a non accorgersi di loro? Affrettò il passo. Sperò di passare senza che s'accorgessero della sua presenza: il loro modo di vestire non faceva presagire nulla di buono. La speranza quella sera però doveva aver preferito altri lidi. E anche la fortuna. «Ehi, ragazzi. Guardate qua.» Sbottò con sorpreso compiacimento l'uomo dalla cresta a punta. «Altro che perdere tempo con quel sacco di pulci, qui c'è del vero divertimento.» I tre che erano con lui sghignazzarono. La brama che si celava nei movimenti lasciava intendere quali erano le loro intenzioni. «Bellezza, ti vuoi divertire con noi?» La invitò l'uomo rasato a zero. «Si dai, facci un po’ di compagnia.» Quello con la faccia piena di piercing rincarò l'esortazione. «Scusate, sono solo di passaggio.» S'affrettò a dire Masha. «Ho un impegno urgente e sono già in ritardo.» «Ha un impegno.» Le fece il verso cresta a punta. «Ma se sei già in ritardo, allora qualche minuto qui con noi non farà alcuna differenza.» "Devo riuscire ad allontanarmi." Pensò Masha. «Non posso proprio restare. Mi spiace.» «La ragazza fa la schizzinosa, ma non sa quanto possiamo esserlo noi.» Il gruppo rise di gusto alla battuta di testa rapata. Aprendosi a ventaglio, tagliarono ogni direzione dove potesse fuggire. Masha indietreggiò. Se solamente ci avesse provato, le sarebbero stati addosso e l'avrebbero trascinata a terra. Immagin i d'abiti strappati e sguardi posseduti dalla brama d'averla inondarono la mente. Tante volte aveva visto servizi su ragazze stuprate nei telegiornali, ma non aveva mai pensato che potesse toccare a lei: erano cose che capitavano sempre agli altri. Perché ci si sbagliava sempre a fare quei ragionamenti? Mani si allungarono rudi e bramose, afferrandole le braccia e inchiodandole al muro. Testa rasata le afferrò i fianchi, avvicinandola a sé. «Sei stata fortunata a incontrare noi questa sera. Ti saresti persa un bel divertimento.» L'odore dolciastro di marijuana unito a quello della tequila le arrivò alle narici. "Sono completamente fuori di sé." Pensò inorridita. "Mi massacreranno." «Vi prego…» Cominciò a implorare. «Continua così, bellezza. Ci fai eccitare.» Cresta a punta le leccò il palmo della mano, mentre gli altri due presero a sbottonarle il cappotto. «Nooo…» La voce resa acuta dalla paura le uscì dalla gola aumentando d'intensità.

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Un balenio argenteo si posò sotto l'occhio, il freddo e duro contatto che posava con forza sulla pelle. «Se t'azzardi a urlare, ti ficco la lama in gola.» Le grugnì cresta a punta piantandole il muso contro il naso. «Ti sbattiamo anche da morta. Non fa alcuna differenza.» Quelle parole agghiacciarono ogni sua reazione, togliendole la voglia di resistere. Muta, senza più un solo pensiero nella mente, se ne restò passiva a subire, temendo che anche un solo fiato la condannasse. Sentiva le mani che già stavano scendendo sulla camicetta e sulla lampo dei pantaloni. «Lasciatela andare.» Giunse una voce dal marciapiede. I quattro si voltarono all'unisono, ritrovandosi a guardare un uomo con una giacca di pelle che li squadrava severamente. «E tu da dove cazzo salti fuori?» Sbottò testa rasata. Per tutta risposta Mark posò lo sguardo sul fagotto dall'altra parte della strada. Indifferente ai loro sguardi, attraversò l'asfalto e s'inginocchiò accanto alla cosa che si dimenava. Un cane, anzi, un cucciolo, con le quattro zampe legate insieme; un'altra corda, assicurata al nodo principale, andava a formare un cappio stretto attorno al collo: più l'animale si dimenava e più veniva soffocato. Mark lo accarezzò per calmarlo mentre allentava i legacci. I quattro s'erano divertiti a impaurirlo e a stuzzicarlo perché si agitasse e soffrisse di più. Con qualche affanno il cucciolo si sollevò sulle quattro zampe e trotterellò a rifugiarsi contro le inferriate del seminterrato di un palazzo. Mark si rialzò in piedi. «Andatevene da qui.» Intimò senza voltarsi. «Questa è la nostra zona e comandiamo noi. Smamma, se ti è cara la pelle.» Testa rasata terminò il discorso con un'imprecazione. «Credo che non comprendiate la gravità della situazione.» Li ammonì un'altra volta Mark. «Andatevene finché potete farlo con le vostre gambe.» «Oh, ma chi ti credi di essere?» Urlò cresta a punta . «Quello che vi farà smettere di dare fastidio.» Disse semplicemente Mark. «Non fare l'eroe, bastardo.» Cresta a punta alzò il coltello a mo di minaccia. «O ti riduciamo come quella bestia.» Mark cominciò a guardare per terra, alla ricerca di qualcosa. Quando l'individuò, si chinò e raccolse una delle lattine schiacciate. «Perfetto.» Nell'istante in cui lo disse fece partire il pezzo di latta. Ci fu un tintinnio e un gemito. Cresta a punta guardò stupito la mano con la quale aveva tenuto il coltello: al posto dell'arma ora c'era un rivolo di sangue. «Molto bene.» Mark distolse l'attenzione dal bersaglio senza far trapelare alcuna emozione. «Adesso ci divertiamo con te.» Testa rasata estrasse di scatto una pistola e sparò a bruciapelo contro la sua testa, centrandolo in pieno. La figura di Mark tremolò e poi svanì, lasciando un nudo vuoto al posto di un corpo inerte. «Ma che cazzo è?» Sbraitò testa rasata indietreggiando involontariamente di un passo. «Eccola là!» Urlò di botto quello con tatuaggio maori sulla faccia, indicando vicino alla recinzione tagliata. «Non so come hai fatto, ma non lo rifarai più.» Grugnì testa rasata portando nuovamente l'arma in posizione di tiro. Un altro colpo e ancora una volta Mark tremolò e svanì. «Pensi forse di riuscire a sopravvivere con questi trucchetti?» Urlò alla notte l'uomo armato.

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«Sopravvivere?» Disse Mark ironico da una qualche parte nell'oscurità. «Penso invece che giocherò con voi.» «Come pensi di fare? Noi siamo armati.» Faccia tatuata estrasse la propria pistola e l'alzò al cielo. «Così.» Mark si materializzò d'incanto a poche spanne dal suo naso. La scarica lo colpì in pieno petto, sbalzandolo in mezzo alla strada e lasciandolo un contorto ammasso nero fumante. Testa rasata distolse il volto sbigottito dal cadavere del compare, solo per sentirsi sbalzato in aria di diversi metri. Ci fu uno strappo secco, seguito da un rantolo. Testa rasata sollevò il capo per l'ultima volta e vide le punte del cancello uscirgli dalle costole. Un conato di sangue gli inumidì le labbra prima di lasciarsi andare. Il suo corpo non si mosse più. Mark guardò distrattamente cresta a punta e piercing in faccia tentare di scappare. Aspettò che salissero sul furgoncino e fece partire la scarica. Una grossa vampata mandò in frantumi ogni vetro, incendiando l'interno all'istante. I due non fecero in tempo ad aprire la portiera e a rotolare all'esterno: la scarica li uccise sul colpo. "Non ha fatto nemmeno il botto." Fu tutto quello che Masha riuscì a pensare dinanzi alla scena. Poi si dovette coprire la bocca per non vomitare. Il puzzo di carne bruciata era arrivato fino a lei. Senza curarsi minimamente dei morti, Mark andò dalla bestiola tremante e la prese in braccio. Timidamente il cane gli leccò la mano e si mise a scodinzolare. Mark accarezzò il pelo fulvo e dorato; presto il tremito cominciò a passare. «Vieni?» Disse rivolto a Masha. Malferma sulle gambe, lo seguì, non riuscendo a smettere di guardare i cadaveri dei suoi violentatori. «Non ti daranno più alcun fastidio.» La rassicurò Mark con tono distaccato. Scossa dall'accaduto, si stupì della sua reazione. «C'era bisogno di ucciderli?» Lo aggredì rabbiosa. «Parla più piano: spaventi il cucciolo.» Le intimò con voce calma. «Perché li hai uccisi? Che motivo avevi?» Disse Masha con un tono di voce più basso, ma ugualmente irato. «Motivo?» Sbuffò. «Ti avrebbero violentata e chissà cosa ne avrebbero fatto di te dopo.» I suoi occhi erano divenuti come l'acciaio. «Spazzatura. Esseri brutali che si divertono con la sofferenza altrui.» Accarezzò il cane. «C'era bisogno di fare quello che ho fatto.» «Non si può togliere la v ita così facilmente!» «Ho impedito che ti facessero del male o ti uccidessero. Loro non hanno avuto riguardi per te, neppure si sarebbero fatti venire i complessi dopo averti usato.» «E' giusto che pagassero, ma in base alla gravità del reato!» «Dovevo aspettare che ti uccidessero per farlo?» Il modo in cui lo disse era simile a uno schiaffo. La rabbia ribollì come in una pentola. «C'è la legge per i criminali come loro.» Sottolineò con forza. «Non si più essere sopra la legge: per quello che hai fatto, rischi di essere incriminato.» «Vorrei vedere con che prove. A meno che non mi denunci tu.» Insinuò Mark. «D'altronde, la riconoscenza non è di questo mondo.»

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Masha fu sul punto scaricargli addosso un fiume d'insulti. Il ricordo della paura provata e il fatto che le doveva davvero la vita, la fermarono. «La legge va rispettata.» Il suo volto assunse un'espressione imbronciata. «Nel mondo in cui vivo, l'unica legge che conta è la mia, non quella decisa da qualcun altro.» Parlare con lui era davvero impossibile. «Come fai a non provare rimorso per quello che hai fatto?» «Quando si superano certi limiti non è più vita e quelle non erano più persone: solo dei gusci vuoti. Tu proveresti rimorso a spezzare un ramo secco?» «No.» Masha fu sorpresa dalla domanda «Bene. Perché è questo che sono persone come loro.» Senza più parlare, tornarono all'auto. Sistemato il cane sul sedile posteriore, ripresero a girovagare senza meta. Masha non voleva dargli la soddisfazione d'essere la prima ad aprire bocca, ma a differenza di lui, il silenzio le pesava e non poco. «Come hai fatto?» Chiese quando non riuscì più a sopportare tutto quel tacere. «Cosa?» Domandò distrattamente mentre svoltava a un incrocio. «Sparire e ricomparire in quel modo.» «Oh, quello.» Liquidò la domanda con un gesto della una mano. «Semplice illusione. La finzione alle volte è molto più efficace dell'azione.» Disse pragmatico. «Un trucchetto.» «Finzione? Trucchetto?» Masha era sbalordita. «Per te sarà normale, ma per me no. Hai rischiato di prenderti un proiettile in testa e te ne stai a guidare come se niente fosse.» «Sarà l'abitudine.» Scrollò le spalle. Masha lo guardò torva. «Non so se ci sei o ci fai. Allora mi vuoi spiegare come ci sei riuscito?» Sbottò senza più trattenersi. «Te lo già detto.» Ripeté pazientemente. «No, mi hai solo preso in giro.» Scattò irata. «Quanta pazienza che ci vuole.» Sospirò rassegnato. «Come ti ho già detto si tratta d'illusione. La gente non vede mai il mondo reale com'è, ma solamente come lo vuole vedere. E' tutta una questione di mente. Sono pochissime le persone capaci di non distorcere la visione di ciò che ci circonda: tutto dipende dalla soggettività. I nostri pensieri influenzano il modo in cui vediamo le cose e celano il loro reale aspetto data la mancanza d'oggettività. Non immagini nemmeno quante cose sfuggono o neanche si vedono perché escluse dalla mente. E non perché sono invisibili o nascoste o protette da chissà quale forza, ma solamente perché non ci si fa caso o non si vuole vederle; pochissimi si rendono conto di questo processo e a non ne sono condizionati. Fino a qua mi segui?» Masha fece cenno di sì. «Bene. Se si riesce a raggiungere il punto di distacco totale, riuscendo a vedere veramente, allora si è in grado anche di arrivare a un altro livello: sfruttare l'incapacità di guardare degli altri a proprio piacimento.» «E come?» «Facendogli vedere quello che vogliono. O meglio, facendogli credere di vedere quello che vogliono.» «Non capisco.» «Lo immaginavo.» Mark sorvolò sull'espressione spazientita. «Prendiamo il tuo violentatore. Quello che voleva di più nel momento che sono apparso, era farmi saltare la testa. Lo voleva così tanto che ha escluso ogni altra cosa, non accorgendosi di tutto il quadro

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che aveva intorno. Io mi sono mosso, ma lui non ha voluto vedere, preferendo vedermi fermo davanti a lui. E' stato semplice.» «Una sorta di manipolazione della mente?» Mark rifletté alcuni secondi. «No: la manipolazione è invasiva e viene dall'esterno, mentre in questo caso tutto il lavoro di convincimento lo fa la persona stessa che subisce la distorsione. Gli si dà soltanto un aiutino perché vada in una certa direzione. A dire la verità, la persona è già indirizzata in una certa direzione e lo è da molto tempo.» «Molto tempo?» «Sì, fin dal concepimento dei genitori, fin da piccoli. Ogni cosa condiziona la vista: famiglia, amici, esperienze, qualsiasi ambiente si frequenta. L'uomo è un essere che si fa altamente influenzare dalle cause esterne e soprattutto è lui la principale causa di condizionamento. Per chi conosce come fare, è semplicissimo mettere in atto lo stratagemma che hai visto.» «E la gente lascia fare, anche se questo la danneggia?» «Nemmeno se ne rende conto talmente è alta la sua abitudine a non vedere; spesso ha un disperato bisogno di proteggersi dalla verità e di crearsi un mondo illusorio per non farsi del male.» Sembrò sul punto di aggiungere altro, ma poi rinunciò. «Soddisfatta adesso?» «Sì; non credo che sarei capace di fare una cosa del genere.» «Ho detto che è semplice, non che è facile arrivare a usare questa tecnica. Molti i fattori da prendere in considerazione: per riuscire a creare illusioni, una persona prima deve capire quali di queste ha creato nella propria vita. Soltanto quando non ne possederà più alcuna, avrà l'opportunità di usarle a proprio piacimento; non prima.» «Capisco.» Mormorò Masha mettendosi a guardare le luci dei lampioni che sfrecciavano fuori del finestrino. «Allora l'illusione è qualcosa di potente.» Mark assentì. «Il più delle volte serve a ingannare e nient'altro, ma se l'illusione è molto forte, e vi si crede fortemente, questa diventa realtà. Può compiere cose incredibili; anche far morire una persona.» Un brivido le corse lungo la schiena. Le era passata la voglia di parlare dell'argomento. «Dove stiamo andando?» Chiese dopo un po’ vedendo che stavano raggiungendo la periferia. «Lasciamo la città, andiamo dove è difficile raggiungerci e non ci sono persone che ti conoscono: il metodo più sicuro per non essere rintracciati dall'essere.» «Maledizione ai suoi poteri: sono spaventosi.» «Vero, ma hanno dei limit i. Anche se ha forze paranormali, non è certo Dio. E faremo di tutto per acuire queste sue debolezze.» Percorsero l'autostrada per due ore, assieme ai pochi che come loro erano in viaggio. Masha stava scivolando nel sonno, quando una frase di Mark la riscosse di colpo. «Per questa notte è meglio fermarci.» Disse all'improvviso Mark passando di fianco a una delle tante insegne luminose presenti lungo la strada. «Perché?» Chiese con voce impasta, ma già allarmata. «Ne fai di domande inutili.» Rispose seccato. «Perché non posso guidare tutta la notte.» «Posso guidare io.» S'offerse ansiosa. «Allora non ci arrivi proprio. Ho bisogno di riposarmi: lo scontro non è stata cosa da poco. E il sedile di un'auto non è il massimo per riprendersi.» «E dove vuoi che andiamo?» Sbottò risentita. «In quel motel.» Indicò la scritta che lampeggiava ammiccante a diverse decine di metri e senza aspettare il parere di lei entrò a prendere posto nel parcheggio.

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«Beh? Che aspetti?» Masha rimase indispettita nel vederlo fermo dopo aver spento il motore. «Non eri quello che voleva dormire in una camera?» «Vai alla reception e prendi una stanza.» «Non sono la tua serva. Va bene che mi hai salvato, ma non ne approfittare. Perché ci debbo andare io?» Masha si slacciò la cintura di sicurezza con fare deciso. «Per favore non ti mettere a fare la femminista.» Bofonchiò Mark sospirando. «Se vuoi ti posso accompagnare, ma non vedo a cosa servirebbe.» Concesse rassegnato. «Perché?» «Devi pagare tu.» «Io?» Disse esterrefatta. «Sì, non porto soldi con me.» Ammise candidamente Mark. «E perché?» Domandò ancora più esterrefatta. «Non ne ho bisogno.» Fu la lapalissiana risposta. «Scusa, lasciami capire una cosa. Va bene che combatti contro queste cose strane, però dovrai anche mangiare, comprarti quello che ti occorre: mi spieghi come fai se non hai soldi?» Lo fissò torva. «Mi arrangio a seconda dell'occorrenza. Come adesso.» Sorrise sornione. Masha lo squadrò da sotto le lunghe ciglia. «Vai a scrocco.» Il silenzio fu rivelatore. «Tu vivi d'espedienti.» Lo compatì miseramente. «Si fa quel che si può. Non tutti possono nascere con la camicia.» Mark alzò le spalle in tono di scusa. «Lasciamo perdere.» Si massaggiò la fronte. «Prendiamo questa camera.» All'interno della reception regnava un accogliente tepore e nell'aria aleggiava odore di sigaretta. Una signora anziana, dando le spalle all'entrata, stava guardando una telenovela trasmessa da una qualche emittente locale. «Mi scusi.» Masha appoggiò le mani al bancone. «Una camera per favore.» «Come la vuole?» Domandò la vecchia senza distogliere gli occhi dallo schermo. «Ne avete una doppia?» L'anziana prese senza guardare il registro dal bancone. «Sono rimaste solo delle singole.» Disse dopo un rapido controllo. Masha fece per insistere, ma Mark fece cenno di lasciare perdere. «Me ne dia una.» La chiave fu appoggiata svogliatamente sul bancone. «Camera 30.» «Accettate pagamenti con carta di credito?» «Si.» La donna prese la macchinetta sul bancone e armeggiò qualche istante con i tasti. «Si serva pure e si ricordi di aspettare per prendere la ricevuta dell'avvenuto pagamento.» Disse annoiata passandogli l'aggeggio. Mentre rimetteva il portafoglio nella borsa, notò su una poltrona un altro anziano, intento a leggere il giornale. Nell'uscire lo salutò, ma ottenne a malapena un grugnito. «Quanta enfasi.» Disse Masha quando furono fuori dalla reception. «Ci hanno degnati appena di uno sguardo.» «La gente che viene qua è solo di passaggio. Cosa vuoi che conti ricordarsi di lei?» «Dove vai?» Lo richiamò vedendo che andava nella direzione opposta alla sua. «La stanza è da questa parte.» «Vado a prendere il cucciolo.» «Quello non dorme con noi.» Alzò l'indice portandolo categoricamente davanti alla faccia. «Vuoi che la faccia in macchina?»

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L'immagine, e soprattutto la puzza, di bisogni canini sparsi sulla tappezzeria dei sedili la convinse all'istante. «Va bene.» "Tanto non devo essere io a pulire la camera." Pensò. «Hai dimenticato la sciarpa sul bancone.» Gli fece notare vedendolo senza l'indumento avvolto al collo. «Passerò a prenderla domattina, prima di partire.» «E' un problema tuo se poi non la ritrovi più.» Bofonchiò mentre infilava la chiave nella serratura. "Che freddo in questa stanza; è quasi peggio che fuori." Rabbrividì appena messo piede nella stanza. "Ci sarà il riscaldamento rotto. La prossima volta scelgo io dove fermarmi." Con rammarico ripensò ai comodi e lussuosi alberghi dove passava le vacanze. Passò vicino al termos e d'istinto vi poggiò una mano sopra. Era caldo, notò sorpresa. Cominciò a scrutare la stanza, credendo che qualcuno avesse lasciato aperto una finestra, ma era tutto chiuso. «Si gela.» Si strinse il cappotto addosso. «Ci saranno degli spifferi.» Suggerì Mark mettendo sulla poltrona il cucciolo. "Alla faccia degli spifferi." «Fatti una doccia: ti aiuterà.» Le consigliò andando a tirare le tende. «I brividi che senti sono dovuti al calo di tensione dopo le emozioni della giornata. Quando ti sarai rilassata un attimo, vedrai che scompariranno.» Per una volta non trovò nulla da obiettare. Si prese tutto il tempo necessario per rilassarsi, lasciando che l'acqua calda scorresse a massaggiare la pelle, senza preoccuparsi se anche il compagno di viaggio aveva bisogno del medesimo trattamento. Avrebbe aspettato: in fondo era stato lui a insistere perché si rilassasse. Quando uscì dal bagno, dovette ammettere di sentirsi davvero meglio, come se oltre alla stanchezza anche una parte dei brutti ricordi fosse stata lavata via. Guardò il letto. Dormire con gli abiti addosso non era certo il massimo, ma, dato che con sé non aveva un pigiama, non se la sentiva di restare solo con la biancheria intima in compagnia di un estraneo. Ma non era solo quello. Rabbrividì. Anche se non sentiva più il freddo di prima, nella stanza c'era sempre una temperatura piuttosto bassa: non desiderava altro che sdraiarsi sotto le coperte e starsene al caldo. Era però vero che il letto era uno solo e se voleva essere sincera con se stessa, doveva toccare a chi se lo meritava davvero. «Mark, il letto spetta a te.» Disse non senza qualche imbarazzo «Dormici pure tu. A me va bene questa poltrona.» Tagliò corto Mark continuando ad accarezzare il cane. «Ma ne hai più bisogno di me. Lo meriti più di me.» Insistette Masha. «Non ti fare tare inutili. Questa poltrona è abbastanza comoda.» Lanciò un gomitolo di filo trovato nella stanza. Il cane corse a prenderlo. «E poi ho dormito in posti ben più scomodi.» Non insistette e in fondo fu grata a Mark per quella decisione: aveva bisogno di un materasso più di quanto avesse pensato. Nonostante questo, il sonno non giunse. Tutte le volte che chiudeva gli occhi e provava a lasciarsi andare, le immagini fuoriuscivano dal pozzo nero in cui si erano nascoste. Non le rimase altro che guardare Mark giocare con il cucciolo. «Vuoi che ti spenga la luce? Ti dà fastidio?» Le chiese Mark vedendola con gli occhi aperti.

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«No.» Abbozzò un sorriso. «Non ti preoccupare.» Incredibile come quell'uomo che non aveva paura di combattere contro fantasmi e che non aveva esitato a eliminare dei balordi, potesse essere così dolce con un cucciolo. La sua espressione si era rilassata e anche un'ombra di divertimento era apparsa sul viso. Continuava a lanciare l'improvvisata pallina tutte le volte che il cucciolo gliela portava, facendolo saltellare sulle zampe posteriori mentre teneva sopra il muso peloso il giocattolo trovato. Il cane scodinzolava e ringhiava nel tono giocoso che i cuccioli usavano quando si facevano prendere dal divertimento, danzandogli intorno con la bocca aperta. Quando fu stanco del gioco, il cucciolo si sdraiò ai suoi piedi, mettendosi a pancia in su e a gambe all'aria, permettendogli di grattarlo sotto il muso. Pochi minuti ancora e s'addormentò tranquillo, rassicurato dalla presenza di colui che l'aveva salvato. Masha si rannicchiò su se stessa, invidiando l'animale che riposava sereno. Quanto avrebbe voluto essere come lui. Nonostante la compagnia dei due, si sentiva abbandonata in un profondo isolamento, un vuoto che la faceva sentire inerme e disperata. Si strinse ancora di più nelle coperte, ma non potevano darle quello di cui aveva bisogno. Avrebbe voluto accanto un corpo da stringere e che la stringesse, che le passasse un poco di calore per farla sentire sicura e protetta. Si sentiva come quel cucciolo abbandonato per la strada: non c'era nessuno che la coccolasse, che la proteggesse come quando era bambina. Della sua famiglia non rimaneva più niente e nella sua vita non c'era nessuno che poteva darle quel gesto d'affetto che richiedeva. La disperazione che fino a quel momento era stata tenuta lontana, fece la sua straziante comparsa. Trattenne a stento le prime lacrime che stavano comparendo agli angoli degli occhi. Non doveva permettere che la vedesse così. Dopo diversi respiri profondi riuscì a calmarsi. Doveva farcela da sola. Non c'era nessuno che potesse esserle accanto. C'era soltanto l'uomo che l'aveva salvata. Lui e lui solo. Le mani strinsero con forza le lenzuola. «Puoi metterti vicino a me e abbracciarmi?» Si sorprese a chiedergli. Si sentì imbarazzata e a disagio, come una ragazzina che con il cuore in mano trovava il coraggio di chiedere un appuntamento al ragazzo che le piaceva. Mark rimase a fissare il cucciolo ai suoi piedi, senza rispondere. «Scusami.» Mormorò Masha sentendosi piccola e stupida. «Per quanto comprenda il tuo stato, è meglio chiarire una cosa: non ci deve essere attaccamento tra noi, perché finita questa vicenda ognuno andrà per la sua strada e non c'incontreremo più. Io sono qui per te, ma la cosa non deve andare oltre i ruoli che abbiamo adesso. Ti sembrerò crudele, ma è per il tuo bene. Alla fine mi ringrazierai per questa scelta.» Le disse con voce distante. Masha avrebbe voluto sprofondare. "Lo sapevo, sapevo che dovevo starmene zitta." Si tormentò pentita della richiesta. Che situazione imbarazzante. Come poteva essere stata così infantile? Ma la bambina che si era risvegliata era senza ritegno e non ne voleva sapere di stare zitta. «Possiamo parlare allora?» Azzardò a chiedergli. «Se proprio ti và.» "Davvero incoraggiante." Si morse il labbro inferiore. «Hai una ragazza?» «Ci vuoi provare con me?» Ribatté immediatamente Mark.

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Si sentì avvampare dall'imbarazzo. «No. Era tanto per parlare, per alleviare la tensione.» S'affrettò a dire. «Per sapere se hai qualcuno da cui tornare.» Disse in tono colloquiale. «Io non ho nessuno. Non più ormai.» Aggiunse in un sussurro. «Niente ragazza.» «Solo adesso?» «Cioè?» «Prima c'era?» «Un tempo.» «Com'è andata?» «Non è andata.» «Perché?» Si rese conto d'essere invadente, ma era più forte di lei. «Certo che ne fai di domande per una che sta morendo di paura. Ma si sa la curiosità è femmina.» Fu il commento pacato di Mark. «Perché non è andata?» Insistette visto che il silenzio si stava protraendo. «Eravamo agli estremi. Troppo diversi, troppo lontani. Sia caratterialmente, sia socialmente.» «Socialmente? E che vuol dire?» «Per lei e la famiglia non avevo niente da dare; ti basti sapere questo. Oltre, non potresti capire.» Aggiunse vedendo che stava per approfondire la questione. «Così i rapporti sono cessati. Fine della storia.» «Così? All'improvviso? Quanto siete stati insieme?» Era incredibilmente attratta dal conoscere almeno una parte della storia di quell'uomo, anche se non poteva negare che la spaventasse. «Crescendo la gente cambia e mostra quello che è. E la dignità non ha mai prezzo.» Fu tutto quello che ebbe da aggiungere. Avrebbe voluto saperne di più, ma sapeva che c'erano cose di cui non si parlava mai volentieri e altre che non si dicevano affatto: ognuno aveva i suoi segreti, spazi che non condivideva con nessuno. Come Mark era un'estranea per lei, altrettanto lei lo era per lui. Capiva che non aveva voglia di parlare, ma il silenzio era opprimente e aveva bisogno in qualche modo di scaricare il tumulto interiore. «Cosa si prova quando il proprio mondo va in frantumi?» Si ritrovò a chiedere, dando voce al pensiero ancor prima che si fosse formato completamente. «Ho provato a riflettere, ma è accaduto tutto così in fretta che riesco a trovare solo vuoto. Non so cosa pensare. Non ho risposte, non so dove cercarle.» «Si muore. E poi si rinasce. Solo che non si è più se stessi.» Mormorò Mark spegnendo una luce e lasciando accesa solamente l'abat-jour. «Come si fa a morire e a rimanere in vita?» Masha si sollevò su un braccio guardandolo perplessa. «Significa che una parte di te muore. Si perdono le proprie illusioni, tutte le falsità che si credevano vere nella propria vita. Ti vengono strappate via, lasciandoti solamente un guscio in un deserto sconfinato, senza direzione, senza identità: non sai più nemmeno chi sei. E allora, o ti perdi per sempre e sei un derelitto, un peso per te e per gli altri, o scocca quella scintilla particolare dalla quale ricomincia una nuova vita, una nuova esistenza. E tutto cambia: scopri cose che non credevi possibili, azioni e pensieri che pensavi non potessero mai appartenerti. E' un percorso nuovo, sconosciuto. E si è soli. Maledettamente soli.» «Ti riferisci a quello che è successo a me? » «Qualcosa del genere.» Disse sommessamente.

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«Anche a te sono stati strappati i tuoi cari?» «E' stato molto di più.» Fu il sussurro che pareva venire da fuori della stanza. Masha si mise a sedere sul letto. «Cosa c'è di peggiore di perdere le persone che ti sono legate da una vita?» «Si sono spinti al di là di ogni limite. Sono andati oltre, troppo oltre e quello che hanno tolto non può essere dimenticato.» «Cosa hanno tolto? E soprattutto chi?» «Un giorno comprenderai. Hai ancora tanto da imparare.» La frase la mise a disagio, mettendole addosso una sgradita inquietudine. A cosa si riferiva? Lo detestava quando assumeva quell'aria di superiorità, come se sapesse tutto lui. Rimase a fissarlo a lungo, cercando di capire qualcosa dal suo atteggiamento. Che cosa gli era capitato nel passato per farlo diventare così? «Non capisco come fai a rimanere così compassato, se quello che ti hanno fatto è peggiore della morte delle persone care. Ci sarebbe da impazzire.» Disse accalorandosi ed enfatizzando le parole. «Reagire in quella maniera non servirebbe a nulla. Occorre pazientare.» Spiegò Mark. «E poi il tempo è davvero un ottimo medico, anche se non può guarire tutto.» «Perché non ti arrabbi, perché mantieni sempre questo maledetto autocontrollo?» Sbottò senza riuscire a trattenere il malcontento. Mark questa volta non si prese la briga di rispondere, ma Masha non aveva nemmeno intenzione di ascoltarlo, infervorata dallo sfogo emotivo che non riusciva più a trattenere. «Io ce l'ho con quel mostro perché mi ha rubato la mia vita, perché mi ha costretta a occuparmi di cose che non volevo fare. Non volevo prendere il posto di mio padre, volevo trovare un'altra strada, non seguire le sue orme. Invece devo farlo, devo tenere dietro a un branco di persone perché devo essere responsabile, per non avere sensi di colpa se non potranno mantenere le loro famig lie.» La voce di Mark si fece sempre più stanca, come se stesse per scivolare nel sonno. «Alle volte non si può scegliere. Si può solamente decidere come vivere quello che capita.» Masha artigliò le coperte. «Io non volevo responsabilità, volevo vivere senza pensieri. Detesto avere a che fare con gente di basso livello: non ha niente da dare, non vale assolutamente nulla. Io la odio.» «Attenta. Chi prova odio, riceve odio.» La ammonì, lasciando che la frase si perdesse nella stanza. «La vita dà indietro quello che fai. Dici di odiare, ma sei pronta a essere odiata?» «Perché dovrei essere odiata? Non ho fatto niente per esserlo.» Si mise sulla difensiva, confusa. «La stessa cosa vale per gli altri.» Ribatté Mark. «Ma che c'entra?» Protestò Masha. «Che c'entrano loro con me?» «Tutto è collegato e non te ne rendi nemmeno conto. Se odi, verrai odiata. Se disprezzi, sarai disprezzata. Com'è avvenuto con tuo padre. Non ti rendi conto dell'errore che ha fatto e di come lo stai ripetendo? Non capisci che l'odio è la causa di tutto quello che sta succedendo? Guarda di cosa è stato creatore. L'accanirsi sulle persone e il trattarle senza rispetto ha dato vita a un mostro. Ricorda la cosa nera e ciò che viene colpito.» Le lasciò qualche secondo per farla tornare cosciente della vicenda in cui era coinvolta. «Ricorda questo punto, sempre. Lascia questa strada o la catena non potrà mai spezzarsi. E alla fine arriverà a stritolarti.» «Di che cosa stai parlando?»

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«Questa creatura non può essere distrutta. Finché esiste la causa della sua nascita, continuerà nel suo scopo. L'unico modo per sfuggirle è non attirare la sua attenzione e questo significa un cambiamento nel modo di vivere e rapportarsi con gli altri.» «E questo che c'entra con me?» Disse risentita Masha. «C'entra per quello che potresti essere. Per quello che potresti fare continuando a perpetrare certe scelte.» «Ti riferisci alle decisioni riguardanti la ditta? A quello che ha fatto mio padre? Era la cosa giusta da fare: su questo era d'accordo anche il sindacato. Il suo rappresentante ha capito la situazione ed è stato ragionevole. Quei lavoratori in fondo non meritavano nient'altro.» Disse irata. «Sono persone, come te.» «Io non sono come loro: sono così brutti, così inferiori e s'attaccano al lavoro come delle zecche. Fanno di tutto per non perderlo, anche se sanno che restando causeranno un danno alla comunità industriale.» «Non faresti così anche tu? Lavorano perché hanno bisogno di mangiare, perché devono mantenere una famiglia. Credi che non preferirebbero restarsene sempre con le persone care o a fare quello che gli piace, piuttosto che passare la maggior parte del tempo in un ambiente che crea problemi e tensioni, a subire pressioni e rimproveri per un niente? Credi che gli piaccia?» La rimproverò duramente. «E' la vita! E' naturale che sia così!» Rimbrottò Masha. «Questa non è vita.» Sottolineò duramente Mark. «Non è certo alzarsi la mattina demotivati e stancamente guidare fino al posto di lavoro, trascorrendo le ore della g iornata nell'attesa che passino per potersene tornare a casa, angustiati nell'essere costretti a fare qualcosa che non piace, ma che è necessario; costretti a rinunciare a sé stessi e a propri sogni per sopravvivere, fino a che questo non fa divenire l'esistenza un guscio vuoto che non possiede più alcuna attrattiva, diventando un lento ripetersi dove non si trova più un senso in niente. La vita non è questo.» Disse con veemenza. «Dai, stai esagerando…» Disse scocciata. «Hai mai provato per poter dire il contrario?» «No, ma…» «E allora come puoi parlare, se non sai?» Il tono sommesso di pochi minuti prima si era trasformato in una lama di ghiaccio. Masha non seppe cosa rispondere di fronte allo sguardo duro e inflessibile. «Moltissime persone hanno fatto questa vita per tanti anni. Cosa c'è di così strano?» «Continui a non voler capire.» Mark reclinò la testa sullo schienale della poltrona. «Non capisco perché per certe cose te la prendi tanto e non ti vanno bene le mie parole. Sono libera di pensare e dire quello che desidero. Ho il potere di fare quello che voglio e di odiare chi più mi piace, anche senza un motivo.» Sbottò stizzita. «Libera di fare le tue scelte.» Disse laconicamente spegnendo anche l'abat-jour, lasciandola al buio con la sua rabbia.

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XI. Rifugio. Masha si rigirò nel letto, rimanendo ancora qualche minuto con gli occhi chiusi a crogiolarsi nel tepore delle coperte. Provò la tentazione di riaddormentarsi, ma la luce filtrante dalle imposte glielo impedì. Si fermò mentre si voltava nuovamente. Alle finestre di camera sua non c'erano imposte, ma tapparelle. Si mise a sedere di scatto sul letto, non riconoscendo la stanza. Fu presa dal panico, ma in un attimo i ricordi della notte precedente riemersero con forza. Lo sconforto sopraggiunse subito. Per un attimo aveva riassaporato la normalità. Si passò la mano tra i capelli e li gettò all'indietro, cercando di sistemarli. Solo allora s'accorse d'essere sola nella stanza. Di Mark e del cane nessuna traccia. Chissà dove si era andato a cacciare. Scalciò le coperte fino a liberarsene. Tanto meglio: avrebbe avuto il bagno tutto per sé. Lasciò che l'acqua calda le scorresse a lungo addosso, tanto che il vapore andò ad appannare lo specchio, costringendola ad asciugarlo con un asciugamano per potersi specchiare. Rovistò nella borsa che aveva appoggiato sul lavello, alla ricerca di quel poco che aveva con sé per sistemarsi il trucco. Quando uscì dal bagno, ritrovò Mark seduto in poltrona, con il cane scodinzolante tra le gambe che fissava attento il gomitolo che teneva in mano. Da quanto era arrivato? Non aveva sentito la porta aprirsi. «Dove sei stato?» Chiese in un tono più seccato di quel che voleva far apparire. Il fatto che l'avesse lasciata da sola senza dirle nulla, l'aveva innervosita. Più di quanto lei stessa voleva ammettere. Mark sembrò non farci caso. «A portare fuori il cucciolo.» Rispose senza guardarla, impegnato a giocare con il cane. «Aveva i suoi bisogni da fare e ne ho approfittato per fargli fare una passeggiata: aveva tanta voglia di correre. E' da ieri sera che è chiuso qui dentro.» Masha lo guardò stizzita. Il suo restare calmo e divertirsi con un animale le parevano fuori luogo in quelle circostanze. «Il bagno è libero, se lo vuoi usare.» Gli disse sgarbata. «Sono già a posto. Quando sei pronta partiamo.» Disse coinciso. «E dove saremmo diretti?» Si voltò a guardarlo sorpresa. «Questo devi dirmelo tu.» La risposta la contrariò non poco. «Che cosa vuoi dire?» «Che mi devi indicare tu la strada.» «Non sai dove andare? Vuoi forse dire che stiamo scappando alla cieca, sperando che non ci trovi?» Sbottò irata. Mark alzò gli occhi. Non c'era alcun segno d'incertezza. «So esattamente quello che devo fare. Dobbiamo andarcene dalla città e recarci in un posto lontano dalla presenza di persone. Qualsiasi luogo per me va bene, ma se ne hai qualcuno di cui soltanto tu sei a conoscenza, è meglio.» «Perché meglio?» Chiese sospettosa. «Ti sentiresti più a tuo agio.» «Solo per quello?» Domandò non del tutto convinta dalle sue ragioni. Mark alzò le spalle. «Se è un problema posso trovare un'altra soluzione: non fa differenza.» Lanciò il gomitolo al cane che corse a prenderlo e s'alzò in piedi. «La casa di montagna.» S'affrettò a dire Masha.

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Mark si voltò quando era ormai alla porta. «Sì?» «E' una villa che usavo con mio padre per passare le ferie invernali lontano dalla città.» S'affrettò a spiegare Masha. «L'aveva acquistata dopo la separazione da mia madre: un modo per comprare il nostro affetto e tenerci legati a lui, oltre che tenerci separati da lei. Si trova verso il confine regionale, prendendo l'uscita ovest della tangenziale. E' in cima a un pendio coperto di pini, l'ultimo caseggiato, proprio dove la strada finisce.» «Quanti sanno di questa casa? » S'informò Mark. «Ora che non ci sono più mio padre e mio fratello, soltanto io.» «Perfetto. Ci vediamo in auto.» Il cucciolo schizzò fuori della porta prima che si chiudesse, seguendolo scodinzolante. Il viaggio proseguì in silenzio. Non si scambiarono una parola e per rompere l'invadente silenzio, Masha accese la radio. Dovette girare diversi canali, prima di trovare una frequenza non disturbata. "Il cadavere dell'uomo, un sindacalista del quartiere sud della città, è stato rinvenuto poco lontano dal ciglio della strada. Le cause sono ancora sconosciute, ma, data la natura malfamata della zona, frequentata da spacciatori e prostitute, i fatti fanno pensare a un tentativo di scippo non andato a buon fine. Probabilmente la vittima, cercando di sfuggire agli inseguitori, è inciampata in una buca nel terreno, precipitando in un canale vuoto e rimanendo trafitta da una barra di metallo abbandonata in un cumulo di rifiuti. La polizia sta ancora cercando testimoni dell'accaduto." Colpita dall'accaduto, Masha spense la radio. «Qualcosa non va?» Le chiese Mark, senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Era il sindacalista che seguiva gli operai della mia ditta.» «Non credevo t'interessasse di lui.» Disse Mark lanciando un'occhiata sullo sguardo attonito della donna. Masha fissò l'apparecchio muto. «Infatti, l'ho visto solo qualche volta. Però ci rimani male quando scopri che un conoscente, che solo il giorno prima vedevi in giro, è morto.» «La vita può cambiare in un attimo. Questo dovrebbe farla apprezzare ancora di più a chi rimane.» Mormorò Mark. Dopo lo scambio di battute, nessuno dei due parlò più, ognuno concentrato nei suoi pensieri e nello scorrere della strada. Solo le volute di foschia che passavano davanti ai fanali rompevano la monotonia del tragitto. Il viaggio durò tutto il pomeriggio e la sera scese presto, trovandoli ancora sulla strada per raggiungere la zona montana. «Ci dobbiamo fermare.» Disse dopo un lungo mutismo Mark. «Perché?» Chiese Masha colta alla sprovvista. Mark indicò una spia sul cruscotto. «L'acqua del radiatore.» «Un guasto?» C'era apprensione nella sua voce: non voleva restare ferma sulla tangenziale dopo il recente attacco subito da quella cosa. «Te lo saprò dire fra due minuti.» Immessosi nella corsia d'emergenza, Mark mise le quattro frecce e scese a controllare. Con il cofano sollevato, Masha non riuscì a vedere nulla, ma non se la sentì di scendere e guardare. Trascorsero pochi attimi. Il cofano si richiuse e Mark tornò a bordo. «Allora?» Chiese ansiosa.

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«Nulla di grave: il livello dell'acqua è basso. Occorre aggiungerne un po’.» Mark tolse il freno a mano e ripartì. «Per voi donne fare manutenzione all'auto è un optional, vero?» Punta nel vivo, Masha si morse la lingua per non rispondere male. Un cartellone pubblicitario sfrecciò alla loro destra. «Il prossimo autogrill è fra quaranta chilometri. Come facciamo?» Fece notare preoccupata. Mark azionò la freccia direzionale. «Prendiamo quest'uscita e ci dirigiamo verso quel gruppo di luci. Forse troveremo quel che fa al caso nostro.» La rampa li condusse in un lungo viale alberato, dove i pioppi si alternavano ai lampioni d'acciaio. Ampi spazi aperti si aprivano da ambo i lati delle corsie. Il gruppo d'abitazioni, non più di una decina di piccole palazzine, comparve dietro la curva. Solo quando entrarono nel piazzale del parcheggio, s'accorsero del boschetto che cresceva alle sue spalle. A parte la bolla di luce in cui si trovavano, tutto il resto era tenebra. Anche l'autostrada da poco lasciata, non era altro che un cumulo di rumori indistinti e lontani. Si guardarono intorno e videro che erano gli unici nei paraggi Masha fissò l'insegna presente su una delle palazzine, non riuscendo a distinguere chiaramente la scritta; dopo pochi istanti tornò a posare lo sguardo sul compagno. «E adesso? Dove la troviamo l'acqua? E soprattutto dove la mettiamo?» «Quella bottiglia di plastica lì per terra è perfetta. E per trovare il resto, potremmo provare là.» Indicò la porta a vetri sotto l'insegna. «Ci mettiamo a suonare alle case come capita? Se ci mandano a quel paese, siamo fortunati.» Mark scosse la testa. «Perché la gente parla sempre senza pensare? O leggere, almeno in questo caso.» Indicò l'insegna. «E' una clinica veterinaria. Avranno sicuramente dell'acqua.» «Ma sarà aperta?» Non ebbe bisogno d'attendere risposta: avvicinandosi, vide che l'insegna recitava ventiquattrore su ventiquattro. Dalla clinica uscì un ragazzo che tra le braccia trasportava un grosso fagotto avvolto in un sacco nero del pattume. A fatica raggiunse l'auto parcheggiata in fondo al piazzale. Sostenendo con una sola mano il peso, aprì il bagagliaio e con cura adagiò quanto aveva trasportato. «Possiamo chiedere a lui.» Senza aspettare, Masha si diresse verso la persona. «Scusa se ti disturbiamo.» Disse quando gli fu vicino. «Il radiatore della nostra auto è rimasto senza acqua: sai dove potremmo trovarne?» Il ragazzo si voltò. La forte luce del lampione che aveva alle spalle gli oscurava i lineamenti. «Vicino alla clinica potete trovare una piccola fontana.» Rispose con aria assente. «Grazie.» Masha s'avviò seguendo l'indicazione avuta. Mark, sopraggiunto a distanza di pochi passi, si fermò vicino all'auto, osservando la donna per vedere se riusciva a trovare la tanto ricercata fonte d'acqua, ma dopo alcuni istanti pose la sua attenzione sul ragazzo. Stava ancora sistemando il bagaglio all'interno dell'auto, cercando di dargli la migliore sistemazione possibile. Solo allora s'accorse che in un angolo del bagagliaio era riposto un coniglio di peluche, spostato poi mestamente vicino al sacco nero. Ogni azione veniva fatta con garbo e gentilezza, o forse era dovuta alla stanchezza che traspariva dalle membra e dallo sguardo del ragazzo. Quale che fosse lo stato delle cose, in quell'angolo di parcheggio si respirava un'atmosfera cerimoniale, un'aria fatta di sacralità e di rispetto. E di commiato triste e ineluttabile. Sotto cieche stelle risuonavano un dolore e

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una tristezza che ammutolivano ogni bocca e ogni mente, un misto di sentimenti che facevano chinare il capo e piegare il ginocchio in segno di rispetto. Mark rimase a fissarlo per un pezzo, assorto nel trovare qualcosa di così grande in quell'insignificante parte di mondo. «Ti è morto il cane.» Ruppe all'improvviso il silenzio della notte. Il corpo del ragazzo ebbe un guizzo, come se fosse stato pugnalato alle spalle. Rimase a fissare con sguardo vuoto la sagoma immobile nel vano in penombra dell'auto. «Sì, questa notte.» C'era tristezza e rimorso nelle sue parole. «Qual è la causa del decesso?» Chiese Mark con garbo. «Pancreatite.» Disse il ragazzo a fatica. «Tutto sembrava come sempre: le passeggiate, i giochi. Poi ha preso a mangiare meno e a bere sempre di più. Dopo ha cominciato a rigettare tutto quello che mandava giù.» Era chiaro che gli faceva male parlarne, ma ne aveva un estremo bisogno, come se questo riuscisse a mondare la ferita che aveva dentro. «L'ho portato in clinica per farlo visitare ed è stato subito ricoverato per la patologia riscontrata dagli esami. Lui non voleva restare, voleva tornare a casa: non è mai stato lontano da noi, c'era sempre qualcuno della famig lia con lui. Si sentiva abbandonato, glielo leggevo negli occhi, ma non potevo fare diversamente. Anche se mi si spezzava il cuore, lo facevo perché si salvasse. Credevo di fare la cosa giusta, che con la corretta cura poteva tutto tornare come prima. Credevo di stare facendo tutto il possibile per il suo bene, invece mi sbagliavo.» Un groppo alla gola lo costrinse a interrompere il d iscorso. Quando si fu ripreso, tornò a parlare. «Tutte le sere negli orari di visita andavo a trovarlo e stavo con lui il tempo che era consentito. Era uno strazio vederlo sdraiato in quel piccolo vano dietro la rete metallica, assieme ai macchinari per monitorare e immettere nell'organismo le sostanze per curarlo. Per parte del tempo non mi riconosceva, lo vedevo nei suoi occhi da sedato, ma quando i calmanti finivano il loro effetto ritornava in sé e si metteva a uggiolare. Si lamentava in continuazione. Sembrava che non facesse che dirmi "portami a casa, portami a casa", ma io non potevo farlo, perché portarlo a casa sarebbe significato farlo morire di sicuro. Io avevo ancora speranza.» Strinse i pugni impotente. «Mi hanno telefonato questa notte dicendo che non ce l'aveva fatta, che non era riuscito a superare una crisi cardiaca sopravvenuta a causa di uno scompenso.» Chiuse gli occhi. «Lui sapeva che stava morendo e l'unica cosa che voleva era tornare a casa e morire vicino alla sua famiglia. Non l'ho capito. Non l'ho voluto capire, aggrappato alla mia speranza. Così è morto in un luogo estraneo, in compagnia d'estranei, solo e abbandonato. Ora so cosa si prova a tradire chi si vuole bene.» «Non avresti potuto far nulla per salvarlo: pochi riescono a salvarsi da una patologia del genere. So che è uno strazio vedere il proprio cane soffrire in quella maniera: ci si sente morire dentro e si capisce cosa significa essere traditori. Ma la cosa che non ci si riesce a perdonare è l'impotenza di fronte agli eventi. Purtroppo è il prezzo di essere solo uomini.» Disse Mark con una vena di compassione. Il ragazzo accennò di sì. «E' dura da accettare.» Fu tutto quello che riuscì a dire Mark, ma sapeva che qualsiasi altra parola sarebbe stata inutile. «Gli piacevano i conigli.» Abbozzò un sorriso indicando il peluche. «Era il suo pupazzo preferito. Gliel'avevo portato pensando che così non si sentisse abbandonato, che sapesse che gli eravamo vicini.» Sospirò stancamente. «Gli piaceva restare a guardare i conigli che stavano nei prati vicini a casa o nelle gabbie: sarebbe rimasto

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a guardarli per delle ore. Li fissava con occhi attenti e le orecchie rialzate; potevi vedere quanto gli piacevano. Non ha mai fatto del male a uno solo di loro, anzi una volta s'è preso un morso sul naso da una mamma perché era andato a guardare la sua cucciolata.» Per un attimo nel suo sguardo era comparso un sorriso, evaporato però subito. «La sera prima che lo portassi in clinica è rimasto a fissarli diversamente dal solito, come sapesse che non li avrebbe più rivisti.» Mark gli diede le spalle, ritornando alla propria auto. Poco dopo ritornò con il cucciolo in braccio. Ferma a pochi metri da lu i, Masha rimase a fissarlo. «Tieni: ha bisogno di una famig lia e tu sei in grado di dargliela.» Disse mentre lo porgeva al ragazzo. «Vi aiuterete a vicenda. La perdita è troppo recente, ma fidati e prendi questo cucciolo: vedrai che comincerà ad andare meglio. Non dimenticherai, certe cose non si dimenticano, ma supererai questa difficoltà. Ora va a casa e cerca di riposarti: la mattina fa presto ad arrivare, soprattutto per chi deve alzarsi e andare al lavoro.» «Non ho di che preoccuparmi: non ho più il lavoro da quando hanno deciso di ridimensionare l'azienda per contenere i costi, dato il periodo di crisi. Quindi ne ho di tempo per dormire.» Lo rassicurò il giovane. «Perché?» «La ditta pur facendo utile, non guadagnava quanto la dirigenza riteneva necessario. Quindi ha iniziato a fare dei tagli.» Spiegò il ragazzo facendo intuire quanto era avvenuto dopo. «Che ditta è?» S'informò Mark. «Un'azienda che produce componenti elettrici.» Disse semplicemente il ragazzo, mostrandogli un logo su un camice che teneva nel bagagliaio. «Un buon settore.» Commentò Mark. «Non dovrebbero esserci riduzioni. Nessuno ha fatto niente per impedirlo?» «Qualcuno si è opposto, ha provato a lottare e a difendere i diritti dei lavoratori, ma faceva parte di una minoranza ed è stato lasciato isolato dagli altri colleghi perché ognuno pensava a salvare il proprio posto.» Scrollò il capo il ragazzo. «E tu?» «Io ho detto come stavano le cose, quando nessuno voleva che il pensiero comune prendesse parola. E cioè che se i profitti erano calati era colpa della dirigenza. Per questo ho pagato.» Sospirò. «Non rinnego nulla di ciò che ho fatto, ma colleghi, dirigenza e i suoi avvocati, mi hanno massacrato e alla fine ho perso. E' stata dura, ma ora sto cercando di riprendermi. L'unica cosa che mi ha mantenuto saldo è che la vita rende tutto ciò che si fa.» «Su questo puoi starne certo.» Mark serrò la mascella. Il ragazzo era voltato ad aprire la portiera dell'auto e non vide la fredda espressione che era apparsa sul suo volto. «Grazie d i tutto.» Gli d isse quando tornò a voltarsi. Mark sorrise. «Non ringraziare me, ma loro.» Indicò il cucciolo. «Gli animali danno tanto e non chiedono nulla in cambio.» Con un ultimo cenno di saluto s'accomiatò. «Perché gli hai dato il cane?» Gli chiese Masha mentre era intento ad aprire il cofano. «Perché dove vado io, non è adatto a un cucciolo.» Disse cominciando a versare l'acqua della bottiglia nel radiatore. «Ho capito, ma perché proprio a lui e non a qualcun altro?» «Anch'io ho perso un cane: è successo tempo fa, quando non conoscevo le realtà che anche tu hai visto. Mi è sembrato di rivivere la stessa scena. So cosa si prova: per questo sono certo che sarà in buone mani.» Chiuse con forza il cofano.

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Masha trasalì al rumore. «Non capisco. Come fai a essere così sicuro di uno sconosciuto?» «Sali.» Le intimò in modo secco. «Prima rispondimi.» S'impuntò Masha. «Sali e basta.» La portiera sbatté con forza mentre il motore si metteva in moto. A Masha non rimase che salire per non essere lasciata sul posto. Incontrarono i primi fiocchi di neve subito dopo la svolta della strada provinciale, iniziando la salita della via comunale che portava al cottage di montagna. Una lenta nevicata che si faceva più fitta a ogni tornante, imbiancando i margini della strada fino ad arrivare a coprire il grigio asfalto. L'auto slittò un paio di volte sulla strada scivolosa, costringendo Mark a rallentare l'andatura di marcia. Il basso ronzio del motore e il ritmico movimento dei tergicristalli, indussero Masha in uno stato di torpore, facendola adagiare contro il sedile in posizione fetale. Fu con una certa sorpresa che s'accorse che si erano fermati solamente quando Mark aprì la portiera. «Cosa stai facendo?» Chiese con voce intorpidita. «Scendo dall'auto.» Masha si stropicciò un occhio. «E' già la terza volta da quando abbiamo superato il paese a valle. Abbiamo di nuovo problemi con l'auto?» «No.» Mark mise un piede sull'asfalto. «E allora perché ti fermi in continuazione?» Brontolò Masha. «Controlli.» Rispose prima d i richiudere la portiera. Lo vide camminare sotto la neve che cadeva e girare intorno all'auto prima di tornare indietro qualche decina di metri, fermandosi a scrutare l'orizzonte in prossimità di una curva. Cosa riusciva a vedere di notte, e per giunta con una nevicata in atto, non riusciva a spiegarselo. Per l'ennesima volta vide uno strano alone luminoso formarsi tra le sue mai, durare alcuni secondi e poi svanire nel nulla. Subito dopo ritornò sui propri passi per riprendere il posto di guida. «Siamo seguiti?» Diede voce al tarlo che la tormentava fin dalla prima sosta. «Non per il momento.» Le rispose facendo ripartire l'auto. «Qual è la prossima svolta?» «Fra circa duecento metri: devi prendere la strada a destra.» La sua risposta non l'aveva rassicurata. «Allora non sei riuscito a sconfiggerlo.» «No.» Temeva che le cose stessero in quella maniera. «E questo non ti agita?» Come faceva a non essere minimamente in apprensione? «Dovrebbe?» Disse laconicamente. «Certo. E' qui per ucciderti. Un motivo più che sufficiente.» Puntualizzò Masha. "E pure me." Ma si tenne il pensiero per sé. Mark non diede peso alla cosa. «Sì, ma deve ancora riuscirci. E finora non l'ha fatto: l'ho sempre sconfitto. La prossima volta potrebbe essere quella buona per eliminarlo definitivamente.» «Ma hai detto che non c'è modo di eliminarlo.» «Ho detto forse. Può essere che un modo invece esista.» «E qual è?»

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«A te non deve interessare.» Liquidò la questione. «Inoltre non capiresti il processo di distruzione di quella cosa da mettere in atto: sarebbe troppo per te e la tua mente potrebbe solamente rifiutarla. Alla fine rischieresti di essermi d'intralcio.» «Scusami tanto.» Disse risentita. «Scuse accettate.» Rispose prendendo la svolta indicata. Superarono diverse siepi dal cancello d'acciaio, prima di vedere la strada terminare di botto alle pendici della pineta. «Ecco il cottage.» Fece Masha indicando l'ultimo della via. Mark si fermò sul ciglio della strada e spense l'auto. «Aspetta: vado ad aprire il cancello, così puoi entrare.» «Lascia stare: siamo arrivati fin qua a fatica, nonostante la strada fosse stata pulita dalla neve. Senza catene non possiamo salire lungo la salita ghiacciata.» Mark indicò la viuzza di una cinquantina di metri che portava all'accesso della casa. Mentre Masha rovistava nella borsa per cercare le chiavi, Mark s'avviò lungo il portico. «Tu entra dentro, ti raggiungerò tra un attimo.» «Un altro controllo?» Gli chiese facendo scorrere il catenaccio. «Non fa mai male prendere precauzioni.» Disse prima di sparire dietro l'angolo della casa.

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XII. Scoperta. Masha scostò la tenda dalla finestra; dall'alto della posizione della casa scorgeva le luci della vallata, un mare luccicante sotto la luna levata dopo l'abbondante nevicata. Stringendosi le braccia attorno alle spalle tornò a rannicchiarsi sulla poltrona davanti al ceppo acceso nel camino. «Mi ricorda i momenti di quando ero piccola e venivo quassù con mio padre e fuori nevicava. Erano momenti speciali, gli unici che avevamo solo per noi due. Sono stati momenti felici fino a quando…» «Fino a quando?» Mark alzò lo sguardo dal libro preso dalla libreria presente nell'ingresso e che si era messo a leggere una volta acceso il camino. «Fino a quando non è divenuto un grosso industriale.» Tagliò seccamente lei. Mark si rimise a leggere. Masha si morse il labbro inferiore, pentita di aver usato quel tono. «Tu non hai di questi momenti? Un ricordo della tua infanzia?» Disse in tono più morbido. Passarono lunghi momenti prima che Mark rispondesse. «Niente di che: ho avuto un'infanzia normale. I ricordi sono tanti, però ce n'è uno che fa capolino più spesso di altri, ma è solo una sciocchezza.» «Continua. Mi piace sentire raccontare.» Sembrava una bambina che aspettava la favola della buona notte. «Mi ricordo da piccolo, quando guardavo la televisione, una pubblicità. C'era un bambino vestito con una salopette di jeans e i capelli biondi sotto il cappello giallo; avrà avuto non più di cinque anni. Con le sue gambine prendeva la strada sterrata che usciva da casa e partiva per l'avventura. Aveva in spalla il suo bagaglio; sai quando si mettono le proprie cose in un foulard e lo si annoda a un bastone? Passava la giornata a spasso per la campagna, libero di fare quello che più gli piaceva. Lascia un bimbo solo adesso e vedi che succede.» Aggiunse ironico. «Quando il tramonto scendeva faceva un fischio e un cane, un golden retriever, veniva a prenderlo e lo riaccompagnava sul sentiero che passava tra un bosco e un campo dorato. Mi sembra ci fosse anche uno stagno o un fiume. Con gli ultimi raggi del giorno arrivava a casa. Mi sembra fosse la pubblicità di scarpe per bambini. C'era anche una canzoncina che più o meno faceva così: "Con le tue scarpine viaggi nel sole e la sera, tu, a casa, ritornerai."» «Che carina.» «Niente d'eccezionale, ma mi faceva immaginare di partire con il mio cane per l'avventura per il mondo, passando per prati e campi, accampandoci in tenda sotto un letto di stelle. Non ho mai pensato che potesse piovere.» Scosse il capo. «Era il mio sogno: ne parlavo con il cane per ore, come se capisse, raccontandogli tutte le avventure che avremmo incontrato.» «Che ricordo dolce.» Mormorò abbracciandosi le ginocchia. «Triste.» Disse categorico. «E' stato il momento in cui mi sono accorto che l'infanzia finisce e il mondo dei sogni si frantuma contro la realtà. L'arrivo di certi eventi ti fa rendere conto che nella vita c'è anche la morte e non guarda in faccia a nessuno; nemmeno ai sogni di un bambino. Te li porta via senza chiedere nemmeno per piacere.» L'atmosfera sognante fu spazzata via in un attimo; il rammentare la morte riportò Masha con i piedi per terra, ricordandole il motivo per cui si trovavano in quel posto; si mosse sulla poltrona come se fosse sulle spine, trovandosi costretta ad alzarsi e andare in un'altra parte

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della stanza per celare il disagio. Passando di fianco al mobile di legno lucido prese il telecomando della televisione e l'accese, sintonizzandola sul notiziario seriale. «Spegni.» Mark non alzò nemmeno la testa nel dare l'ordine. «Come?» Trasalì Masha. «Spegni la televisione.» «Perché? Ci sono le notizie del giorno. E poi credevo che ti piacesse guardarla.» «Ho detto solo che mi ricordavo una pubblicità particolare, non che mi piacesse guardare la televisione. Spegnila.» Le ordinò in tono deciso. Di malavoglia seguì il comando. «Va bene, ma non c'è bisogno di arrabbiarsi. Era solo un notiziario. Guarda che essere informati è importante.» «Non quel genere d'informazione: i media trasmettono solo quello che vogliono far sapere e lo manipolano secondo il tornaconto delle figure di potere. Non è obiettiva e disinteressata, ma forgiata in maniera da creare una conoscenza che sia utile ai loro scopi. Sono abili nel farlo e la maggioranza ben disposta a essere condizionata: ha così paura di vivere, che si appoggerebbe a chiunque, anche se le dovessero togliere la libertà, anche se la privassero di pensare con la propria testa.» «Ma che ti prende? E' solo un telegiornale.» Disse Masha risentita. «Dico le cose come stanno; solo che non si vogliono sentire.» Il suo sguardo era cupo mentre svoltava la pagina del libro. «Ma di che parli?» «Strumentalizzazione e manipolazione.» «Non riesco a seguirti. Praticamente non ci riesco quasi mai.» Disse Masha irata. «Fai ragionamenti troppo strani e contorti; saresti adatto a fare il politico. Avresti tutte le caratteristiche per avere successo.» «Successo. Fama.» Disse amaramente. «Per voi contano sempre queste cose. Arricchirsi, farsi vedere dagli altri. Tutti valori che non hanno senso. Niente ha senso.» Disse distaccato, come se stesse pensando ad altro. «Tu sei davvero strano. Inquietante alle volte.» Masha lo fissò intensamente. «Ancora non riesco a capire perché tu mi stia aiutando.» «E' difficile per voi accettare che qualcuno faccia qualcosa per niente: per ogni azione fatta, decisione che prendete, dovete averne un guadagno, un profitto. Altrimenti non riuscite a trovarne un senso.» «Voi chi?» Chiese non riuscendo a seguire il discorso. «Voi industriali.» «Ma ce l'hai con gli industriali?» Disse risentita. «Solo perché ho detto questa frase? Ho enunciato un dato di fatto. E se vuoi essere sincera con te stessa, devi ammettere che è così: è il sistema in cui crescete.» «Lasciamo perdere.» Disse infastidita. «Piuttosto vedi di rispondere alla domanda di prima.» «Più che una domanda, era una constatazione.» Le fece notare tranquillamente. «Significa che non risponderai?» Insistette Masha in tono seccato. «Significa che non è il modo per ottenere quello che si cerca.» Masha cominciò a stancarsi del suo modo di fare. «Perché sei qui? Perché sei coinvolto in questa faccenda?» «E' il mio viaggio attraverso l'oscurità.»

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Una frase delle sue, ma che le lasciò un senso d'inquietudine sgradevole, una sensazione già provata, ma che non riusciva a ricordare dove. Si sentì a disagio, sulle spine, come se dovesse correre lontano da lì. Il suo risentimento svanì di fronte all'ansia incalzante. «Non deve essere una bella vita.» Commentò cercando di sviare il discorso. «Di base non era quella che mi sarei aspettato, ma le circostanze e i tempi l'hanno richiesto.» Costatò Mark continuando a tenere gli occhi sul libro. «Non hai avuto scelta?» «Si è liberi di fare una scelta solo all'inizio: tutte le rimanenti sono una sua conseguenza.» «Vuol dire che hai fatto questa scelta consapevolmente?» Chiese allibita. «Significa che molto prima d i diventare quello che sono, avevo scelto un certo stile di vita; ciò che sono diventato è stata una conseguenza di quella scelta.» «Che scelta hai fatto?» «Di non farmi condizionare.» «Da cosa?» Conoscere la sua storia era diventato un bisogno che non sapeva spiegarsi. «Da niente e nessuno; di non sottostare a sterili regole e di non vivere in una maniera assurda.» Ancora una volta si stava perdendo in quello che diceva. «Quale maniera assurda? Quali regole?» «Le vostre.» La nota dura risuonò come un'accusa. «Che c'è di strano nel nostro modo di vivere? Che c'è che non va?» Protestò Masha in tono stizzito. «Tutto.» Nella voce di Mark c'era disprezzo. «Adesso vedi di darti una calmata. Sembra che noi siamo il male.» «Infatti è così.» Masha abbozzò un sorriso, credendo che la stesse prendendo in giro e si divertisse a farla infuriare. Si sbagliava. Ora che non aveva più la testa sul libro e restava a fissarla, vedeva i suoi occhi seri, maledettamente seri. «Tu credi davvero quello che dici.» Sussurrò allib ita. «Certo.» «Sei fuori di testa. Come puoi credere una simile fandonia?» «Non basta tutto quello che sta accadendo attorno? Non li guardi i notiziari? Informarsi è importante.» La punzecchiò ricordandole quello che aveva detto pochi minuti prima. «Ogni singola informazione che passa la rete informativa è un'accusa che conferma l'evidenza del vostro operato.» «Ora smettila. Stai superando il limite.» Masha alzò la voce. «Voi l'avete superato da un pezzo.» La rimbeccò di rimando. «Senti» gli si piazzò davanti «ti devo sopportare perché ci troviamo invischiati in questa storia, altrimenti ti avrei già mandato a quel paese.» «Cosa t'impedisce allora di farlo?» Masha lo guardò sempre più irritata. «Lo sai benissimo perché.» «Allora non hai che da aspettare la fine di questa storia. Potremmo anche non vederci più.» Disse in tono tranquillo. Un brivido le percorse la schiena. Sembrava una minaccia. «Vorrei che fosse già finita.» Sbottò seccata e frustrata.

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«Attenta a quello che desideri, perché potrebbe avverarsi. Prima di quanto tu possa credere.» Disse a voce bassa Mark, come se i suoi occhi volessero trapassarla. Nella stanza rimbombò un secco frastuono. Le imposte si erano chiuse di colpo all'unisono, mosse da una forza invisibile. Masha si girò attorno, la paura che si fece largo nelle pupille dilatate. «Il fantasma è qui.» Disse in preda al panico. «Certo che è qui. » Rispose con calma Mark. Masha mosse un passo verso la porta. «Dobbiamo scappare subito.» «Inutile: non lo riusciresti mai a seminare. Non saresti mai al sicuro.» Mark appoggiò il libro su un cuscino e s'alzò con fare compassato. «Allora ci ucciderà.» Masha cominciò a respirare affannosamente. «Di questo non ne sarei così sicuro.» «Come fai a essere così calmo?» Si voltò di scatto, irritata. «Non ci sei ancora arrivata? Non hai capito?» Per un attimo non riuscì a reagire, incapace di connettere qualsiasi pensiero. Cosa doveva capire? «Bene, ora non sei più distratta da cose futili.» C'era compiacimento nelle sue parole. «Cosa stai dicendo?» Masha era sempre più confusa. «Se vuoi attirare l'attenzione di una persona devi colpirla con forza allo stomaco.» «Ma che stai dicendo? Non scherzare: non è il momento.» Disse abbozzando un riso isterico. Ma vedendo l'espressione di lui, il dubbio si dipinse sul volto di Masha con maggiore intensità. «Il fantasma sono io.» Le parole risuonarono nella stanza come un lugubre rintocco. «Tu.» Sussurrò Masha mentre l'incredulità raggiungeva livelli sconvolgenti. «Io.» Confermò asetticamente Mark. «Non è possibile. Ho visto il fantasma, mi ha attaccato e tu mi hai difeso.» Non poteva essere vero quello che gli stava dicendo. «Sei sicura che sia quello che hai visto?» Nella sua voce non c'era incrinatura che facesse presagire uno scherzo. Rivide la scena nella sua mente. Era tutto uguale. Eppure le sue parole gliela fecero vedere in maniera d iversa. Come aveva fatto a non accorgersene? Provò un tuffo al cuore, seguito da un dolore straziante. «Ma allora…» «Sì, ti ho manipolato per tutto il tempo, ti ho usato come volevo. O meglio ti sei fatta usare; in fondo, tutto quello che è successo è avvenuto perché sei stata tu a volerlo.» «Dunque…» «Tutto un'illusione. Ti ho fatto credere quello di cui avevi disperatamente bisogno e tu lo hai reso reale.» «Mi stai dicendo che non sono mai stata in pericolo?» Gli chiese sconvolta. «Eppure mi hai salvata dagli uomini che volevano aggredirmi: tu l'hai impedito. Sono morti e questo è un fatto. E sei stato tu a farlo.» «Vero. Ma non ti ho salvato: ho solo impedito che ti uccidessero.» Precisò Mark. «Sei sempre stata in pericolo, avendomi avuto costantemente al tuo fianco. Ogni momento poteva essere buono per eliminarti. Quanto a quell'altra cosa, al fantasma come lo chiami tu, non hai mai dovuto temere nulla da lui. Anzi: credo che fossero tuo padre e tuo fratello che

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tentavano di salvarti. Rimasugli d'emozioni fortemente legati al mondo: sentimenti d'attaccamento nei tuoi confronti, ma soprattutto d'odio e rancore per me, per vendicarsi di quello che gli ho fatto. Nel parcheggio, in autostrada: attaccavano me, non te. Io sono sempre stato il loro obiettivo. Devono aver provato un odio davvero immenso per richiamare tutti gli altri che ho eliminato e creare un'emanazione simile. Ma d'altronde non sarebbe la prima volta che capita.» «Mi hai mentito.» Lo accusò sconvolta. «Mai ti ho mentito.» La redarguì duramente. «Non mi adatterei al sistema utilizzato da esseri infidi e macchinatori come quelli che ho tolto di mezzo. E' una cosa a cui sono stato bene attento, perché a stare nel sistema si rischia di diventarne una copia. Tutto quello che ti ho spiegato era vero. La natura di quella cosa che chiamavi fantasma. Le motivazioni che spingevano a uccidere. Il mio essere qui. Era tutto vero. Semplicemente ho evitato di approfondire e specificare. Piccole sfumature, minuscoli dettagli, capaci però di dare un significato diverso a tutto il contesto.» La chiarezza delle parole la schiaffeggiò in pieno viso. «Hai ucciso mio padre.» «Sì» «Mio fratello.» «Sì.» «Quegli industriali.» «Tutti quanti.» «Sei un mostro.» Disse inorridita. «Niente di più di quello che erano loro. Quel che ho fatto è stato un atto dovuto per tutte le morti bianche, un segnale per i falsi imprenditori: non hanno voluto capire che la sicurezza delle persone andava tutelata e per questo hanno pagato. Ora, perché hanno paura di morire, capiranno.» «Sei un folle. Hai ucciso anche quei poveri operai, quel sindacalista, il prete.» La loro immagine s'andò ad aggiungere alle altre in una spettrale processione. «Tu provi gusto nell'uccidere.» «Non godo della morte di quegli uomini: non sono uno psicopatico. La loro morte fa parte del disegno per migliorare il sistema. L'ignoranza e il servilis mo vanno estirpati: sono il male maggiore della nostra società. Quegli individui erano ruffiani, meschini che facevano il doppio gioco con gli operai, stando dalla parte degli imprenditori: per il tornaconto personale avevano rinunciato alla propria dignità e al bene dei colleghi, vendendosi per poche monete. Erano dei Giuda.» Si fermò a riflettere, come se un nuovo pensiero fosse sopraggiunto all'improvviso. «Sempre che Giuda fosse un traditore: potrebbe anche essere stato il fautore di un bene più grande. Chi può dirlo? Nessuno ci assicura che la storia sia come l'hanno raccontata.» «Sei un criminale. Ti sei divertito a fare Dio.» «Dio?» Sorrise divertito. «Non scomodiamolo per i problemi degli uomini: appartengono a noi. Ma dato che hai tirato in ballo il paragone, ti dirò io chi ha giocato a fare Dio.» Le puntò il dito contro. «Voi imprenditori. Soltanto perché avevate dei soldi vi siete arrogati il diritto di decidere per la vita degli altri e di giocare con la loro dignità. Fate vivere le persone o le mandate a morire a seconda della simpatia o del capriccio.» Fece un ghigno di disprezzo. «E c'era davvero chi credeva che foste divinità. Che dei fasulli in cui riporre delle convinzioni.» La sua statura parve aumentare.

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«Gli imprenditori, gli uomini di denaro e potere devono capire che non sono intoccabili, che tutto non gli è dovuto. Anche loro sono umani, non degli dei o dei superuomini con potere di vita e di morte sui loro simili. Devono impararlo e se non sono abbastanza intelligenti per farlo, allora che muoiano.» Sentenziò duramente. A Masha sembrò di vedere i titoli di giornali riportanti le vicende di cui Mark era stato protagonista. «Tu sei pazzo. Il modo in cui elimini le persone lo dimostra. E' stata una morte feroce. Sei un malato di racconti e libri dell'orrore che vuole farli v ivere nella realtà per eliminarci tutti.» «Ti sbagli: elimino soltanto chi risponde ai requisiti richiesti. Gli altri possono continuare a vivere, almeno finché si comporteranno a dovere. Quanto ai libri che hai citato sui vampiri, sono soltanto racconti per suscitare emozioni forti che non si hanno nella vita reale. Opere per gente incapace di vivere, che si rifugia in una fantasia che non vorrebbe mai vedere realizzarsi e che perde di vista il suo messaggio principale: chi ha scritto quelle storie ha percepito la verità e ne ha fatto una metafora perché altri aprissero gli occhi. I mostri non sono quelli inventati, ma quelli in mezzo a noi.» Superò il divano, accorciando le distanze tra loro. «Gente che sfrutta gli altri e risucchia ogni energia psichica, che affama le famig lie e le fa vivere negli stenti e nelle umiliazioni. Gente come tuo padre, tuo fratello sono i veri vampiri. Gente come i figlietti di papà che spadroneggiano nelle scuole e nelle università, piegando la giustizia con i loro soldi e la loro mentalità, inquinando la mente delle persone e il sistema, portando avanti la propaganda di convincimento che loro e il loro modo di fare sono i migliori. Non hanno niente di valido, sono solo morte, appestatori di vita; dei virus che stanno facendo marcire il nostro mondo. Non si accontentano mai, vogliono succhiare tutto il midollo della vita, senza lasciare nulla agli altri: un cancro dilagante che non lascia nulla, se non miseria e aridità. Esattamente come i famosi non-morti.» Alzò l'indice come se stesse facendo una lezione che doveva essere ricordata. «Voi credete che il vampiro sia un mostro inventato dalla fantasia di uno scrittore geniale o di qualche storia folcloristica; la vostra ignoranza non ha limiti, come la vostra presunzione. Il vampiro è un archetipo vecchio come l'umanità, un'icona che le civiltà antiche hanno voluto trasmettere per metterci in guardia dal pericolo comportato dagli eccessi. Il vampiro rappresenta la fame smodata di dominio, potere e brama per le cose materiali; rappresenta la strumentalizzazione e la manipolazione assoluta. Tutti gli uomini hanno quest'indole nel loro animo, tutti hanno piccolezze e grettezze con cui fare i conti nella vita quotidiana, in un alternarsi di sgarbi e gesti gentili. I più grandi filosofi e pensatori sanno che persino la persona più saggia e meritevole nasconde delle zone d'ombra. Il problema insorge quando tutto è ombra. Allora accade che per l'ombra di alcuni, tutto cada nella tenebra e nella rovina. Ed è quello che state facendo voi.» «Sei fuori di testa! Non è vero niente!» «No? Guardate come riducete le persone con il vostro modo di fare: guardatele dritto negli occhi e vedrete la verità. Non le trattate da persone, ma da schiavi, da bestie, come mezzi per i vostri fini. Guardateli negli occhi e vedrete che vi avrete creato paure e preoccupazioni, depressioni e rassegnazioni per il loro destino di carne da macello. Li avete spezzati, gli avete tolto la dignità: ora nemmeno loro pensano più d'essere persone. Per questo meritate il giudizio che vi aspetta.» «Tu vuoi vendicarti per le morti di tutti quei lavoratori.» Disse incredula, capendo quello che aveva fatto. «Ma se è successo è perché gli operai l'hanno permesso. Senza di loro tutto questo non sarebbe stato possibile! Anche loro sono responsabili!»

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«Vero.» Acconsentì Mark. «E hanno già pagato con la vita: hanno già subito giudizio e punizione. Erano gli esecutori di questo macchinario perverso. Ora tocca ai mandatari. E sono più colpevoli, dato che erano consapevoli e volevano questo; gli altri erano soltanto ignoranti, la loro colpa minore. Gli industriali hanno ideato e hanno ragionato a lungo per creare questo sistema e lucrare indiscriminatamente. Hanno dato alla vita scarso valore e il giudizio gli ha riservato lo stesso trattamento.» «Tu uccidi delle persone! Non provi rimorso per quello che fai?» Gridò stravolta. «Per il rimorso occorre la colpa e in quello che faccio non ce n'è, perché non ho a che fare con delle persone. Come ti ho detto, siete vampiri. Non c'è crimine nell'uccidere dei morti ed è questo ciò che siete. Solo che non ve ne rendete conto. Pensa alla tua vita, ai rapporti che hai con le altre persone; pensa a tuo padre e a tuo fratello. E ora rispondi a questa domanda: quanti amici c i sono veramente in queste vite? Parlo d'amici veri, non quelli dei soldi: quelli non hanno alcun valore, vanno e vengono come la ricchezza. Io parlo di quelle persone in grado di far percepire quel particolare calore che nessun riscaldamento o sole possono dare.» Gli istanti passano lenti e crudeli. «Nessuno, vero?» Proseguì implacabile. «Come puoi pretendere che da simili esseri venga qualcosa di buono? Guardate quello che fate e avete fatto: le vostre stesse azioni hanno emesso giudizio e sentenza. Per questo dovete morire.» Un silenzio glaciale calò nella stanza, come se il camino si fosse spento di colpo e la finestra si fosse aperta facendo entrare le fredde raffiche che sferzavano la facciata della casa. «Tu.» Disse Masha a metà strada tra il divano e la porta. «Cosa?» Chiese con distacco Mark. «Sei stato tu a farmelo provare, a farmi sentire quel calore umano che dici non abbiamo.» «Calore umano.» Mark scrollò il capo. «Un patetico tentativo per salvarti la vita? E' questo quello che stai facendo?» Disse freddamente. «Non hai ancora capito, allora. Tu sai chi sono io? Puoi darmi questa risposta?» Masha provò a parlare, ma ogni pensiero sembrava svanire appena formulato. Un vuoto sconvolgente che non le dava via di scampo. Non poteva rispondergli, non sapeva nulla di lui in grado di aiutarla. «Come immaginavo. Allora te lo dirò io.» La sua figura parve di nuovo farsi più grande. «Io sono il mezzo attraverso il quale la giustizia avrà la sua vendetta, per tutte le volte che è stata calpestata e insultata, per tutte le volte che in suo nome sono state perpetrate miserie e patemi. Sono la forma delle grida dei morti caduti per colpa vostra. Sono lo strumento che porrà fine al vostro dominio, venuto dall'inconscio del vostro passato a reclamare il raccolto del vostro operato. Ed esso dice morte per i mostri della società.» Fece una pausa. «Sono venuto a distruggere il vostro mondo.» «Nemmeno tu sei umano: come può un umano fare questo?» Protestò Masha. «Come puoi nominarti giudice se nemmeno tu riesci a provare pietà? Sei come quelli che elimini: anche tu sei morto.» Mark approvò compiaciuto. «Ottima deduzione. E avresti ragione se non avessi dimenticato un particolare. Siete stati voi i miei creatori. Siete stati voi a richiamarmi a questo ruolo. Le vostre opere, le vostre scelte mi hanno creato. Voi stessi avete fatto di me il vostro giustiziere. Se non fosse per voi, io non esisterei. Ogni azione richiama una reazione: una delle leggi basilari della fisica.» Fece un sorriso di scherno. «Non replichi più?» Gli lanciò una moneta. «Forse dovresti contattare il tuo avvocato; in fondo lo paghi per quello che non sei abituata a fare: avere a che fare con la giustizia. Ti deve difendere e scagionare da ogni

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accusa. Perché non lo chiami?» La sbeffeggiò. «Non sarà forse che non ci sono più linee difensive che tengano o appelli da fare, sapendo che sei colpevole? In questo caso, non sarebbe forse il tempo di procedere? Ormai è tardi e la corte deve chiudere. L'imputato è colpevole. La seduta è tolta.» La luce si spense e la stanza cadde in una fitta penombra. Le imposte tornarono ad aprirsi. Il mobilio fu sfiorato dai raggi argentei della luna che filtravano da dietro le tende. Ogni fisionomia dell'uomo era scomparsa. Restava soltanto un'ombra nera che si stagliava imperturbabile davanti a lei. Masha prese a indietreggiare verso la porta. «Sai che non puoi scappare. Ma fai pure, se credi che possa servire a qualcosa.» Masha scattò di corsa lungo il corridoio, scendendo le scale a rotta di collo e precipitandosi verso il portone del cottage. Inciampò e rotolò sul tappeto mentre cercava di fermare la sua corsa. Mark era già davanti alla porta. Prese a indietreggiare a carponi, annaspando in cerca d'aria e di una via di fuga. Mark scosse il capo lentamente, come avrebbe fatto un padre che aveva a che fare con un figlio capriccioso. «Quanto affanno per niente. Cerca di rilassarti. Vedrai, è meno di quel che pensi.» «Stammi lontano!» Urlò isterica. «Non mi toccare!» I vetri delle finestre esplosero in una pioggia di schegge scintillanti che andarono a graffiare il prezioso parquet. «Sei alla fine arrivato; ce ne hai messo di tempo. E dire che i segnali che ho messo lungo la strada erano facili da seguire. Sei venuto per salvarla?» Domandò irrisorio al nulla. «Non sei riuscito a difendere te stesso, come pensi di proteggere gli altri? Vuoi vendetta?» Sorrise duramente. «Sappi che io la voglio più di te.» Una nube rombante e ronzante si vomitò dentro la casa, travolgendo e rovesciando ogni mobile e suppellettile. «Sei perseverante. Ti ritrovo sempre sui miei passi. La cosa sta diventando fastidiosa.» Disse con voce raggelante. «Con l'andare del tempo potresti diventare un grosso problema, dato il numero di persone che devo ancora eliminare: i loro sentimenti vanno ad alimentare la tua forza, facendoti diventare sempre più potente.» Sorrise malignamente. «Forse sbaglio a darti del tu, dato che siete una legione.» Il fumo nero rispose come lo sferragliare di mille lame. «Già, c'è il rischio che diventi troppo grosso. Un fuoco è meglio spegnerlo quando è un falò, piuttosto che lasciarlo diventare un incendio. Lo so che ti riformi in continuazione, ma forse questa volta non sarà più così. Ora sei un intero, non più frammenti di cose morte e potrò distruggerti in un colpo solo; ti sei radunato come volevo io.» Una palla di fuoco schizzò dalla sua mano, esplodendo a contatto con le volute scure e avvolgendo la nube in un sudario di fiamme. Con rombo di tempesta il fumo nero si liberò dalla morsa delle fiamme e si gettò su Mark, afferrandolo in una solida stretta e inchiodandolo al suolo. La lotta scoppiò furibonda, un groviglio convulso che era solo follia. Il fumo nero cercava di soffocare Mark, ma gli strali di fuoco che scaturivano dalle sue mani aprivano in continuazione brecce nella sostanza mutevole. Le fiamme attecchirono dovunque, facendo divampare l'incendio all'interno della casa. Tronchi infuocati e pezzi d'assi caddero in mille lapilli intorno a loro, mentre i vetri delle credenze e dei bicchieri esplodevano in un incandescente scintillio.

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Mark fu di nuovo in piedi, spingendo verso un angolo la manifestazione psichica delle emozioni dei morti, tempestandola senza posa con attacchi roventi. In quel mare infuocato, Masha riuscì a balzare fuori della casa, passando da una delle finestre infrante. Rotolò sul gelido terreno del giardino, ritrovandosi a fissare il cottage. La costruzione era avvolta dalle fiamme, le travi del tetto si spezzavano e crollavano. Sembrava impossibile che tutto fosse distrutto in così pochi istanti. Vide i due avvinghiati in una morsa senza esclusioni di colpi. Poi ci fu un lampo e decine di filamenti violacei partirono dalle pareti della casa, attorcigliandosi attorno alla nube nera e stringendola senza darle via di fuga. Ridotta alle dimensioni di un grosso pitone, si contorceva sul pavimento in fiamme. «Non puoi liberarti da questa trappola. Sei connesso a questa casa, legata a te con un vincolo molto forte. Il tuo stesso attaccamento ha creato questi filamenti. Guarda fuori della finestra: là c'è tua figlia e sorella.» La nube nera si dibatté con maggior violenza. «Agitati pure: con i tuoi sentimenti contorti non farai che rafforzare questi filamenti, fino a che non sarà più possibile liberartene.» L'irrise Mark mentre si contorceva impazzita, tirando uno dei legacci purpurei per costringere la cosa a sollevarsi da terra. «Dovresti sapere che le emozioni sono potere e permeano le cose che ci appartengono, durando anche dopo la morte, permettendoci di rimanere su questa terra anche quando il nostro tempo è finito. Solo con la loro distruzione, si può essere liberi. E io distruggendo questa casa, distruggerò te. So che riguarda solo una parte del tuo essere, ma colpendola, centrerò l'insieme, eliminandoti del tutto. Hai fatto male a unirti in un'unica massa, ma avevi bisogno di molto potere per eliminarmi e questa era l'unica strada.» Sibilò con disprezzo. «E ora, io ti libero. Brucia all'inferno.» Sdraiata sul prato innevato, Masha diede un ultimo sguardo allo scenario infernale. Prima che il pavimento del primo piano cedesse, vide il suo persecutore stringere tra le mani le ultime volute di fumo nero. In un guizzo la nube si librò nell'aria e sparì in uno sbuffo. Mark si voltò a guardarla. Lo vide freddo e glaciale restare in mezzo alle fiamme, signore del fuoco e della giustizia vendicatrice. «Scappa, scappa pure. Non riuscirai a sfuggirmi. Mai. Io ti sarò sempre dietro, più attaccato della tua ombra, più della tua pelle.» Sentì risuonare le parole nella sua mente. Poi tutto crollò e rimase soltanto il fuoco davanti alla sua vista. Masha rimase a terra, aspettandosi di vederlo uscire dall'incendio incolume, ma soltanto il rombo dell'immenso rogo rompeva la quiete della montagna. Poi perse i sensi e tutto fu buio.

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XIII. Baratro. "Alla centrale della polizia il commissario dice che volete che sia quel che è successo non ci fermerà Il crimine non vincerà ma nelle strade c'è il panico ormai nessuno esce di casa nessuno vuole guai e agli appelli alla calma in TV adesso chi ci crede più" La radio gracchiò mentre l'uomo andava a coprire il segnale che l'antenna riceveva. «Chissà cosa direbbe il commissario se sentisse questa storia.» Il poliziotto seduto alla scrivania scosse divertito il capo. «Ma danno ancora questa roba per radio? Dio, avrà secoli ormai: l'ascoltavo che ero alle elementari.» Il poliziotto appena arrivato andò a raggiungere la sua postazione. «Già.» Sghignazzò l'a ltro, divertito dalla protesta del compagno. Sapeva che non gli piaceva quella musica: gli ci voleva qualcosa di più energico da ascoltare, specie per il turno di notte. «Sarei proprio curioso di sapere cosa direbbe il capo.» «E io vorrei sapere che cos'è che vi fa divertire tanto.» Giunse una voce alle loro spalle. I due poliziotti si voltarono all'unisono. «Ehilà, commissario! Senta questa.» Lo chiamò quello che appariva curioso. «E' bella davvero.» «Ce ne vuole per farmi ridere.» Precisò il commissario massaggiandosi il collo. «Questa lo farà.» Rise il primo. «Ha presente quella donna che era qua stamattina, quella che è rimasta per ore?» «Sì.» «E' venuta a fare denuncia di un uomo che l'ha rapita e che ha tentato di ucciderla.» «Non vedo cosa c'è da ridere.» Disse severo il commissario. «Aspetti. L'uomo l'ha portata nel suo cottage di montagna e ha tentato di eliminarla facendola perire tra le fiamme, dando fuoco alla casa e morendo nell'incendio.» Continuò il racconto il poliziotto. «Niente di divertente, a parte un tentativo andato male d'omicidio.» Borbottò il commissario. «Il bello non è lì.» Ammiccò il sottoposto. «La donna si è inventata tutto?» Il commissario non riuscì a capire dove voleva arrivare. «No, no: tutto vero. Il presunto assassino sarebbe Mark Deastin.» Un sorriso s'aprì sul volto dell'uomo. «E allora?» Chiese perplesso il commissario. «Non le dice nulla? Stiamo parlando di un morto.» «Come?» «Mark Deastin è un operaio deceduto nel rogo dell'industria metalmeccanica avvenuto due anni fa, quella dove perirono decine di lavoratori.» Disse in tono meno divertito il poliziotto. «La signorina ha visto un morto.» «Sicuri che non si sia sbagliata, confusa con un altro?» «No, no: ha riconosciuto l'immagine visualizzata dopo che l'identikit è stato inserito nel database. Era sicurissima.» «Ha fatto la denuncia contro un morto?» Il commissario era ancora più perplesso.

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«No, sentendo così se n'è andata, anche se c'è voluto un pezzo a convincerla. C'è rimasta molto male.» Sogghignò il poliziotto. Il commissario se ne tornò in ufficio e andò allo schedario, mosso da una strana inquietudine. Nelle parole del sottoposto c'era quello che aveva cercato per tutto quel tempo. Si ricordava dell'incidente: ne avevano parlato tutti i giornali. C'era anche stata un'indagine sulle cause del tragico evento: quello che aveva insospettito era stata la lentezza dei soccorsi nell'intervenire in una data area dell'incendio. Area in cui erano morti gli operai. Da quello che era saltato fuori, i lavoratori stavano scioperando contro la ditta per i tagli che voleva fare all'impresa, per lo spostamento d'alcuni settori e per la sicurezza sul posto del lavoro, dato che molti erano stati gli incidenti accorsi alle persone. Secondo alcune voci, la dirigenza aveva fatto in modo che i soccorsi fossero rallentati perché nessuno di loro sopravvivesse, eliminando in questo modo i contestatori e il ramo d'impresa che si voleva tagliare, evitando costi per mobilità e licenziamenti, anzi guadagnando un grosso rimborso dall'assicurazione. Naturalmente dall'indagine non era saltata fuori nessuna prova contro la ditta e il caso era stato chiuso. L'esito non lo aveva minimamente meravigliato: gli appoggi politici di cui godeva quell'impresa erano influenti, a cui c'era da aggiungere che avevano assunto i migliori avvocati della città. Oltre a comprare i giudici e parte della polizia; sospetto che avevano in molti e che era quasi certezza. Senza prove però non si poteva contestare nulla: il mestiere glielo insegnava. L'unico dato certo era che Mark Deastin, uno dei rappresentanti degli operai che si batteva per i loro diritti, era uno di quei morti. La risata del poliziotto oltre la porta gli ricordò le parole appena sentite. "Stiamo parlando di un morto." Perché quella cosa lo inquietava tanto? Perché nella sua mente era nata l'idea che la tentata denuncia a un defunto, potesse essere collegata al caso irrisolto dell'assassinio degli industriali? Come poteva pensare che quel Mark Deastin fosse l'uomo tanto cercato? Certo, se fosse stato ancora vivo, la pista della vendetta sarebbe una delle più plausibili; come altrettanto plausibile sarebbe stata quella di una mente malata nata a causa di un tremendo trauma. Che fosse riuscito a salvarsi e a tenersi nascosto preparando quel malefico piano? Impossibile. Nemmeno i pompieri con le loro speciali tute erano riusciti a oltrepassare le fiamme dell'incendio: nessuno sopravviveva a fiamme capaci di fondere macchinari grossi come camion. L'ipotesi cadeva subito, senza contare che nessun uomo da solo poteva compiere tutti quei misfatti; eppure la sua mente non voleva saperne di cessare di tormentarlo, ripetendogli il nome dell'operaio. Scosse il capo. Ormai era defunto, polvere e cenere: non si tornava indietro dal mondo dei morti. Doveva lasciar perdere quelle elucubrazioni; aveva accantonato quel caso, non voleva tornare a finire nel circolo vizioso d'illazioni e supposizioni. Specie se erano delle assurdità. Però non riusciva a liberarsene. E poi perché proprio in quel momento gli tornava alla memoria quel romanzo di M.R.James? Come s'intitolava pure? Ah, sì. Il Conte Magnus. L'aveva letto prima che iniziasse tutta quella faccenda. Una storia di fantasmi; non certo un romanzo del terrore puro, ma capace di evocare una sensazione di sottile allarme in ogni scena. Gli erano sempre piaciute le storie di spettri e paranormale: fatti che esulavano dalla

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scienza e dalla mente razionale, incontrollate e incontrollabili, talmente potenti da sconvolgere ogni regola e certezza. Le trovava letture divertenti, ma i contorni della trama oscura del libro di M.R.James gli avevano dato una sgradevole sensazione di disagio. Ed era esattamente quello che provava anche in quell'istante. Fantasmi. Deastin non poteva che essere questo ormai. "E se lo fosse davvero?" Lo colse l'improvviso pensiero. Se Deastin fosse diventato una di quelle creature, si sarebbe potuto spiegare com'erano accadute le vicende delle quali non c'era spiegazione. Già, con poteri paranormali poteva uccidere in qualsiasi modo. Giocherellò con la penna che aveva in mano, un tic che lo prendeva quando si apprestava a risolvere un caso. Il movente era la vendetta: palesemente chiaro, se non scontato. E avevano anche una testimone che l'inchiodava. Il cerchio si chiudeva, il caso era concluso. Tutte le fatiche e il tempo perso nelle indagini convergevano in quel punto. Però c'era il problema che non avrebbero potuto sbatterlo in prigione, dato che non avevano celle che potessero trattenerlo. Serrò gli occhi con forza: ma che stava facendo? Stava credendo alla storia della ragazza. Una storia assurda e inverosimile. Però se così fosse stato, tutto sarebbe andato a posto: era la soluzione che avevano cercato e mai trovato. Ogni tassello trovava collocazione. Tutte quelle morti, una vendetta senza fine. Una storia di fantasmi. Di fronte a quel pensiero, la mente razionale oppose di nuovo un ferreo diniego e si chiuse di fronte all'assurdità. Non si tornava dal mondo dei morti. I fantasmi non esistevano: facevano parte di storie inventate. Eppure il modo in cui erano morte quelle persone non poteva essere una coincidenza: un marchio inconfondibile, che nessun umano poteva lasciare. Tuttavia era qualcosa d'impossibile. Nessuno sano di mente avrebbe preso in considerazione tale eventualità. Le vicende che erano capitate alla giovane donna potevano giustificare lo stato confusionale che l'avevano portata a fare una denuncia del genere, ma per lui le cose erano differenti; se avesse sostenuto una teoria simile, i superiori avrebbero potuto richiedere una perizia psichiatrica e nel caso sospenderlo dal servizio. Valeva davvero la pena rischiare il posto di lavoro per gente che Per essere dov'era, di porcate ne doveva aver fatte parecchie? Per quale motivo doveva sbattersi per quei morti? Non erano innocenti, solo vittime delle azioni che avevano scelto. Era come voler indagare sull'assassino di un mafioso: a chi poteva importare? Loro non erano tanto diversi da quei criminali; non erano così puliti da meritare che la giustizia facesse luce sulla loro fine. Ma neanche lui in fondo era tanto pulito se faceva simili ragionamenti. Dov'era la verità che tanto diceva di ricercare nel suo lavoro? La risposta già la sapeva: non era mai stato un paladino della legge e aveva scelto quel lavoro per avere uno stipendio sicuro e un posto dove non ci si dovesse spaccare la schiena. Non si sarebbe mai immaginato che in una cittadina come la sua si scatenasse un simile inferno.

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La nebbia fuori della finestra mulinellò accidiosa e sorniona, una danzatrice ammiccante e traditrice, sempre a celare qualche cosa dietro il velo. "Lo stai per caso nascondendo?" Domandò silenziosamente al grigio vuoto in cui si era perso il suo sguardo. La bianca coltre ebbe un guizzo improvviso, come se un grosso gigante fosse passato vicino alla palazzina. Posò lo sguardo titubante sulla pila di fogli che aveva in mano. Che conseguenze poteva avere riprendere le indagini seguendo quell'insolita direzione? Un altro guizzo oltre il vetro. Strano, quel giorno la nebbia pareva agitata: di solito sembrava una muffa stantia. "Ciò che maggiormente sembrava turbare la mente del locandiere, fu il fatto che il Conte avesse percorso il Sentiero Oscuro, e che avesse portato qualcosa o qualcuno indietro con sé." Si slargò il colletto della camicia con un dito. Ripensare al libro di James con quella nebbia lo aveva messo in uno strano stato d'agitazione: gli sembrava l'atmosfera nella quale i personaggi pativano l'orrido fato assegnatogli dal destino. In fondo non potevano fare altro, dato che erano in balia della mente dello scrittore. Ma lui non aveva forse libertà di scelta? Di certo non amava pericoli e ripercussioni d'alcun genere. Non poteva dunque liberarsene solamente volendolo? In fondo, non era tenuto a fare niente. Fantasmi. Rabbrividì. Ripose il fascicolo nello schedario e richiuse il cassetto. Alle volte l'ignoranza era davvero un bene. Fuori dell'ufficio i due poliziotti erano tornati ai propri compiti. «Che roba tocca sentire a questo mondo.» Sospirò il più tarchiato lasciandosi sprofondare sulla sedia a rotelle. «Stiamo davvero impazzendo. Peggio di quel film dell'a ltra sera. Ci mancava quella che si mette a vedere la gente morta.» «E' comprensibile.» Commentò il compagno. «Immedesimarsi o vedere la gente morta?» Un'espressione divertita illuminò il volto pacioccone. «Mi riferivo allo stato confusionale di quella donna. Non l'hai riconosciuta? E' l'industriale a cui hanno ammazzato il padre e il fratello, alcune delle prime vittime di quell'assassino che non siamo mai riusciti a prendere.» «Quello bruciato vivo e quello impalato dai macchinari di trasporto merci?» Chiese il poliziotto tarchiato. «Già.» Asserì il poliziotto magro. «Che brutta storia. Sono convinto che c'è rimasta. Perdere la famiglia in quella maniera è qualcosa di tremendo.» «E non sai ancora l'ultima.» Aggiunse l'altro. «Cosa c'è ancora? Le sta fallendo la ditta?» Sbottò il poliziotto tarchiato, l'espressione che manifestava l'incredulità che la sfortuna potesse accanirsi su qualcuno con tanta tenacia. «No, riguarda una sentenza da poco conclusa.» «E' nei guai con il fisco?» S'informò il poliziotto tarchiato. «Non riguarda lei.» Sottolineò il collega. «Riguarda suo padre. Un processo avviato contro di lui dopo la sua morte e che l'ha portato a essere incriminato e condannato.»

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«Un processo contro un morto.» Il poliziotto tarchiato rimase allibito. «Mai sentito prima, vero? E' stata una cosa unica e rapidissima, considerando i tempi della burocrazia; forse le vicende accadute hanno aiutato a velocizzare.» Ipotizzò il poliziotto magro. «Che è successo?» «Ma tu li leggi i giornali ogni tanto? Le vicende di quella ditta hanno occupato le pagine dei quotidiani per diverse settimane. Gli operai hanno scioperato ininterrottamente per impedire la mobilità di una parte di loro, senza ottenere alcun successo. Ma la cosa non è finita lì. Un dipendente, Alphons Liberty, ha continuato la lotta anche dopo la chiusura della mobilità, raccogliendo testimonianze e battendosi contro il modo scorretto in cui le persone erano state messe a casa. E' sempre difficile trovare prove per il mobbing e soprattutto convincere le persone a testimoniare contro un datore di lavoro: siamo in una società d'omertà e accondiscendenza, come con la mafia.» Commentò disgustato il poliziotto magro. «Lui però c'è riuscito e le ha portate in tribunale davanti al giudice. La sua lotta ha sollevato indignazione, sia perché non si era tirato indietro dallo sputtanare l'industriale, sia perché ha portato avanti la lotta anche dopo la morte del padre e del figlio. Non ha mai mollato.» Costatò con una certa ammirazione. «"E' una questione di giustizia, non fate discorsi legati alla moralità. Non tiratela in ballo quando non avete fatto niente di fronte alla morte di un lavoratore che si è suicidato a causa delle angherie del mobbing. Per lui non avete speso una sola parola e non ne spenderete nessuna neppure per quei due. Non perché sono morti che potete farne dei santi. La giustizia è uguale per tutti e dev'essere fatta." E' stata la sua unica dichiarazione ai giornalisti quando hanno provato a intervistarlo sul motivo della sua ostinazione.» Il poliziotto tarchiato assunse un'espressione stupita e ammirata. «Un carattere davvero forte. Devono avergliele fatte girare di brutto se ha voluto colpirli anche da defunti.» «Colpirli? Li ha massacrati. Le prove e le testimonianze portate davanti al giudice hanno fatto emettere una sentenza che impone di risarcire tutte le vittime del mobbing e quanti sono stati sbattuti a casa, senza possibilità d'appello.» Batté una mano sulla scrivania. «Spiaccicati come mosche.» «Però.» «La condanna in cui sono incorsi è stata simbolica, data la loro condizione di defunti, ma toccherà alla figlia dare il risarcimento alle famiglie. La cifra si aggira su un paio di milioni.» Asserì il poliziotto magro. Il compagno fischiò esterrefatto. «Davvero una bella botta. Ci credo che sia un po’ fuori di testa.» La porta s'aprì ed entrarono altri due poliziotti. «Il nostro turno in ufficio è finito. Dobbiamo andare a fare la ronda per le strade.» S'alzò in piedi il poliziotto tarchiato. «Forza, diamoci una mossa. Non vedo l'ora che arrivi stasera: c'è la partita di coppa.» «Chi dici che vincerà?» Gli chiese il compagno mentre s'avviarono verso le scale. «Noi. Non lo facciamo forse sempre?» «Sì, certo, come no.» Lo prese in giro l'altro. La radio continuò a suonare. Nessuno si era ricordato di spegnerla. Solita notte da lupi nel Bronx… Mark Deastin.

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Il nome di un morto. Una delle vittime dell'incendio della Steel Energy Production, uno dei cinquanta arsi vivi nell'incendio che aveva distrutto lo stabilimento. Rammentava la cronaca dell'epoca. Era stata una delle tragedie che aveva scosso di più l'opinione pubblica, facendo scatenare scioperi di massa; gli industriali avevano tentato di reprimere tali iniziative chiedendo l'intervento della polizia, pretendendo dal governo di sciogliere ogni organizzazione sindacale e di tutela dei lavoratori. Tutti i cinquanta operai erano morti carbonizzati, le loro salme annerite distese su lenzuoli bianchi prima di essere deposti in casse d'acciaio e portate all'obitorio. All'appello mancava solo un lavoratore, l'unico di cui non si era potuto recuperare il corpo perché nella parte più lontana dello stabilimento, quella più vicina allo scoppio dell'incendio, dove le fiamme avevano raggiunto le temperature più elevate. Non era stato possibile rinvenire nessun resto. Mark Deastin. L'assassino di suo padre e suo fratello. Quell'uomo aveva preso in giro tutti quanti, facendosi credere morto per mettere in atto i suoi piani. Ma ora era uscito allo scoperto e aveva commesso un errore: l'aveva lasciata in vita. Avrebbe fatto luce sulla vicenda. E gliel'avrebbe fatta pagare. Morto? Impossibile. La polizia si sbagliava: lo avrebbe dimostrato. Avrebbe portato dei testimoni. L'auto corse veloce sulla strada, sfrecciando accanto agli altri veicoli che procedevano sull'asfalto bagnato. Incurante della pioggia, pigiò sull'acceleratore, facendo levare alti spruzzi d'acqua quando centrò una pozza. Sbandando paurosamente di lato per aver preso troppo velocemente la curva, imboccò la stradina che portava al motel. Quasi sgommando arrivò al parcheggio, inchiodando di colpo per fermarsi. Scese in fretta dall'auto e a passo deciso entrò nella reception. Le porte scorrevoli si aprirono per lasciarla passare. "Perfetto, c'è la stessa inserviente di quella sera." Costatò soddisfatta. «Salve. Ho bisogno del suo aiuto.» Le disse non riuscendo a celare una certa apprensione. «Mi dica.» La donna al banco appoggiò la biro che aveva in mano. «Qualche giorno fa ho preso una stanza in questo motel.» Cercò di spiegare con calma. «Sì, mi ricordo di lei.» «Allora si ricorda anche dell'uomo che era con me.» La sua vendetta avrebbe presto trovato compimento. «Quale uomo?» La donna era perplessa. «Quello che mi ha accompagnato.» S'accorse troppo tardi del malo modo con cui aveva risposto. «Signorina lei era da sola. Infatti ha prenotato una camera singola.» Spiegò pazientemente l'addetta alla reception. «E' vero» si ricordò del particolare «volevamo cambiarla, ma l'uomo che era con me ha detto che non importava e ha dormito sulla poltrona. Non può averlo scordato. Ha anche dimenticato la sua sciarpa grigia, lasciandola sul bancone.» «Non abbiamo né visto né trovato nessuna sciarpa. Lei è venuta qui da sola, me lo ricordo bene: erano le undici, glielo può confermare anche mio marito. Ehi, Alfred.» L'uomo che stava annaffiando i vasi di piante s'avvicinò. «La signorina dice che è venuta con un uomo la settimana scorsa. Tu lo ricordi?» Chiese la moglie.

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«Lei è quella con la macchina sportiva, vero? L'ho vista arrivare ed era sola.» Confermò le parole della consorte. «Si sente bene?» Chiese vedendola sbiancare. Li sentì confabulare mentre usciva, ma le loro parole erano confuse. Come potevano non averlo visto? Ora che ci pensava, lui non aveva detto una parola quando si erano recati alla reception del motel: forse era per quello che non si ricordavano di lui. Che idea assurda: non si dimenticava un uomo in quella maniera. Cosa però c'era da aspettarsi da dei vecchi rincretiniti a guardare la televisione? "La gente vede quello che vuole vedere." La frase scivolò via travolta da altri pensieri. Doveva trovare assolutamente degli altri testimoni. Si bloccò nel mezzo del parcheggio. Il ragazzo di quella notte. Lui si sarebbe ricordato di Mark, senza alcun dubbio. Ma la speranza com'era nata, morì. Aveva visto la sua figura in controluce e questo gli aveva celato i suoi lineamenti. Non sapeva il suo nome o se era dei paraggi. Non aveva nemmeno il numero di targa della sua auto. Una profonda disperazione l'avvolse. Avere la chiave di volta e non potere utilizzarla. Avrebbe potuto fare degli appelli, effettuare delle ricerche, ma cosa avrebbe trovato senza sapere nulla di quello che cercava? Se l'immaginava a recarsi da un investigatore o un giornalista per mettere un annuncio. "Salve. Sto cercando un ragazzo incontrato di notte in un parcheggio, a cui è morto un cane e al quale l'uomo a cui sto dando la caccia ha regalato un cucciolo. Non so come si chiama, né dove abita, non so farvi neppure un identikit, ma mi serve da testimone per dimostrare che l'uomo che ha ucciso gli industriali ha tentato di eliminarmi e vuole uccidere tutti quelli rimasti. Come faccio a sapere queste cose? E' logico perché me l'ha detto l'assassino in persona. Perché non vado alla polizia? E' semplice: crede che sia morto. Pensa che non ci sia già stata? Perché altrimenti sarei qui?" Ora come poteva riuscire a fargliela pagare? Da sola non ne era capace e non c'era nessuno disposto a crederle: se avesse raccontato una storia del genere sarebbe stata presa per matta e messa sotto cura psichiatrica. Solo ora si accorgeva di essere stata lasciata in vita sapendo che non avrebbe rappresentato una minaccia. Nessuno le avrebbe creduto. A parte lei e quel ragazzo, nessun altro aveva visto Mark Deastin. Per la società non esisteva più; il suo nome non era altro che l'eco di un morto di cui non si voleva più sentir parlare. "Il fantasma sono io." Sussurrò la voce di Mark, facendole sentire leggera la testa. "Pensi forse che la gente crederebbe all'esistenza di uno spettro? Perché è questo che io sono." Si voltò di scatto. Non c'era nessuno nei paraggi. Eppure era sicura di aver sentito quella voce. Scosse il capo: doveva esserselo immaginato. Ormai era ossessionata dalla faccenda in cui era invischiata. Non poteva essere un fantasma: doveva essere una messinscena per farla desistere dal denunciarlo alle autorità. Lo aveva visto combattere, guidare l'auto, giocare con il cane. Solo chi aveva un corpo poteva compiere simili azioni. Solo un umano poteva farlo, non qualcosa d'effimero e intangibile come uno spettro. Eppure aveva visto compiere azioni di cui nessun uomo era capace. Fantasma. Fantasma.

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Le mani le presero a tremare e si dovette mettere a sedere dato che le gambe non la sostenevano più. Sentì i denti battere uno contro l'altro, scossi da un tremito incontrollabile. Si coprì la bocca con una mano, sconvolta dal pensiero che le aveva fulminato la mente. In nessun momento passato con lui si erano mai toccati, neppure sfiorati per sbaglio. Come poteva avere la certezza che veramente non fosse il fantasma? Tutto quello che le aveva detto poteva essere realtà. "Il fantasma sono io." La testa le prese a girare ferocemente, causandole nausea. E poi era davvero sicura che il cane e il ragazzo fossero davvero reali e non una delle illusioni di cui le aveva parlato? Una messinscena creata per farle sembrare veritiera la sua menzogna? «Perché gli hai dato il cane?» «Perché dove vado io non è adatto a un cucciolo.» «Ho capito, ma perché proprio a lui e non a qualcun altro?» «Anch'io ho perso un cane nella maniera capitata a lui: è successo tempo fa, quando ero ancora una persona normale e non conoscevo le realtà che anche tu hai visto. Mi è sembrato di rivivere la stessa scena. So cosa si prova: per questo sono certo che sarà in buone mani.» Come aveva fatto a non capire? «Mi è sembrato di rivivere la stessa scena.» Allora quello che aveva visto non era stato reale? Soltanto un frammento del suo passato, forse neanche quello? Le coincidenze erano state troppe per essere casuali. Ma lei non era stata capace di vedere. Il cane non aveva mai voluto giocare con lei, si era sempre tenuto alla larga; non aveva mai risposto ai richiami. Eppure i quattro balordi che l'avevano aggredita, lo avevano tenuto legato. Quelle persone erano reali: le loro mani sulle braccia, l'alito che sapeva d'alcool, erano una conferma. Come faceva a distinguere realtà da illusione? Le immagini scorsero una dopo l'altra, immutate e inconfondibili. Il loro incontro. La fuga. La notte in motel. Lo scontro finale. In tutte quelle occasioni erano stati così vicini, ma non c'era mai stato contatto. «Non ci deve essere attaccamento tra di noi, perché finita questa vicenda ognuno andrà per la sua strada e non c'incontreremo più. Io sono qui per te, ma la cosa non deve andare oltre i ruoli che abbiamo adesso. Ti sembrerò crudele, ma è per il tuo bene. Alla fine mi ringrazierai per questa scelta.» Si piegò su se stessa mentre un singhiozzo saliva a squassarle il corpo. Ancora una volta aveva avuto ragione lui. L'aveva pure avvisata, gli aveva rivelato tutto, solo che lei aveva non aveva voluto vedere. Aveva avuto bisogno di sentirsi protetta, a tal punto che si sarebbe gettata nelle braccia dell'assassino pur di farlo cessare. La solitudine era talmente grande che chiunque sarebbe andato bene purché avesse trovato quella comprensione che tanto le mancava. «Cosa si prova quando il proprio mondo va in frantumi?» «Si muore. E poi si rinasce. Solo che non si è più se stessi. Tutto cambia: scopri cose che non credevi possibili, azioni e pensieri che pensavi non potessero mai appartenerti. E' un percorso nuovo, sconosciuto. E si è soli. Maledettamente soli.» Scoppiò a piangere a dirotto e continuò a farlo anche quando le iniziò a fare male la testa.

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Perché non c'era qualcuno vicino a lei in quel momento? Perché non c'era mai nessuno nella sua vita quando aveva bisogno? Perché l'unico a esserle accanto era stato un fantasma, un frammento di un passato che non voleva morire e che era tornato a far seguire ad altri la sua stessa sorte? Un fantasma che sapeva guidare un'auto, ma che solo chi lui voleva poteva vedere; un fantasma che uccideva senza toccare. L'unico capace di parlarle sinceramente in un mondo dove ci si nascondeva dietro le menzogne. E nel farlo, le aveva fatto un male tremendo. Sgranò gli occhi, mentre tutto intorno era annebbiato e indistinto. Che razza di pensieri le saltavano in mente? Come poteva pensare una cosa simile dopo che aveva sterminato la sua famiglia e aveva tentato di eliminarla? La pazzia si stava facendo largo nella sua mente? Il seme della follia stava forse sbocciando in lei? Un baratro profondo si aprì sotto i suoi piedi e si sentì vacillare. Con uno sforzo cercò di riprendere il controllo di sé. Quello era uno psicopatico, un malato. Nessuno andava in giro a uccidere la gente in quella maniera. Nessuno si proclamava giudice e boia senza essere investito dal potere dei suoi simili: soltanto chi aveva il cervello andato in pappa poteva cercare di mettere in atto un'idea del genere. Eppure le sue parole continuavano a ronzarle dentro. E più cercava di scacciarle, più le ascoltava. Sembrava di vivere in un incubo. Dovunque gli sembrava di vedere la sua ombra, nascosta a sussurrarle dubbi insinuanti. Qual era la realtà e quali erano gli scherzi della sua mente? Aveva giocato con lei al punto che non sapeva neppure se poteva più fidarsi di se stessa. L'aveva presa e fatta a pezzi. L'aveva rivoltata, non era più padrona di niente: né dei suoi pensieri, né delle sue azioni; andavano dove voleva lui e non poteva farci nulla. Aveva l'impressione che qualsiasi mossa o decisione prendesse, fosse quella voluta da Mark. Si sentiva manovrata e sfruttata e che il suo persecutore se ne stesse a guardare divertito in disparte, ridendo della sua limitatezza, che con tanta solerzia non aveva mai tralasciato di farle notare. Perché non l'aveva uccisa? Perché farle passare quell'inferno invece di eliminarla subito come aveva fatto con gli altri? Aveva voluto fare in modo che arrivasse a desiderare la morte, costringendola a suicidarsi? Era il modo in cui aveva deciso di punirla? Aprì la bocca inspirando aria affannosamente. Si sentiva mancare l'ossigeno e i battiti del cuore sembravano impazzit i. Per due lunghi interminabili secondi non riuscì a respirare. A fatica si calmò, riportando la respirazione alla normalità. Lei non aveva nessuna colpa e non doveva patire nessun giudizio, allo stesso modo degli altri industriali. Loro erano nel giusto e lui nel torto. La maggioranza non aveva sempre ragione? Lui era il diverso, lui era l'assassino da punire. E aveva pagato bruciando tra le fiamme. Il respiro tornò a farsi affannoso. Così avevano creduto tutti quanti la prima volta e si erano sbagliati. O forse no? Quale delle due volte era veramente morto, se veramente lo era? E se non era così, allora cos'era? "Tu sai chi sono io? Puoi darmi questa risposta?" Chi diavolo era? Non poteva nemmeno dire se era vivo o morto, se era illusione o realtà. Qual era la verità? " Il fantasma sono io." La testa prese a girarle e sentì un fiotto amaro risalire dallo stomaco. Che fosse imprigionata ancora nella sua illusione e che Mark stesse soltanto aspettando il momento in cui ne divenisse consapevole per colpirla e finirla definitivamente?

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Fin dove si sarebbe spinto per annientarla? Si guardò intorno disperata. Perché non veniva? Tutto sarebbe stato meglio di quello stato. Tutto, purché non fosse la pazzia e quel bombardamento di frasi e immagini che schizzavano senza controllo nella sua testa. E poi un pensiero le insorse nella mente. Che in realtà avesse provato compassione, risparmiandola? Le aveva fatto talmente pena da impietosirlo e lasciarla andare? La considerava una così misera cosa da non concederle neppure la morte? Inutile. L'aggettivo rintoccò nitido. Totalmente, completamente. Priva d'ogni valore. Era questa la verità; non si trattava di compassione. Le lacrime smisero di scorrere, lasciandola stordita e smarrita. "Maledetto." Fu l'ultimo pensiero che si ricordò. Non seppe quando risalì sull'auto, immettendosi sull'asse attrezzato e raggiungendo il traffico cittadino. Non si accorse dei semafori che passò con il rosso e nemmeno dell'incidente accaduto sulla carreggiata nel senso inverso alla sua marcia. Non vide l'auto di grossa cilindrata completamente divelta, come se fosse stata centrata da una granata; né il corpo annerito del conducente che i pompieri stavano estraendo dalle lamiere. Non prese coscienza della portiera con la dicitura di componenti elettrici presente nella sua corsia e che per poco non aveva investito con le ruote. Si ritrovò cosciente delle sue azioni soltanto alla sera, seduta davanti alla televisione. Stranita guardò l'orologio. Le undici. Meccanicamente s'avviò alla finestra e guardò fuori. Sotto il lampione non c'era nessuno. Strano. Si era aspettata di vedere una figura nell'ombra. Ancora più strano che non avesse provato paura nell'avvicinarsi. A pensarci bene, non provava più niente. Tirò le tende, lasciando all'esterno le immagini della città. Era meglio andare a dormire: l'indomani aveva la visita di un cliente importante e non doveva lasciarsi scappare l'occasione di stringere accordi vantaggiosi. A prescindere da come si sentiva, doveva andare avanti. Gli affari prima di tutto.

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XIV. Fuoco epuratore. Masha passò una mano sull'abito da sera, cercando di stirare le pieghe della stoffa purpurea. Era il vestito migliore che aveva, ma quella sera non la soddisfaceva il modo in cui le stava addosso. Fece un respiro profondo. Non c'era niente che non andava: il suo era semplice nervosismo. Non era da tutti ricevere un invito del genere. Sistemò gli orecchini, rimirandosi allo specchio nell'ingresso. Davanti ai suoi occhi c'era la figura di una donna giovane e determinata, sicura di sé e decisa a raggiungere gli obiettivi prefissati. Obiettivi che ora le stavano portando riconoscimenti meritati. Traguardi impensabili se pensava a com'era ridotta fino qualche tempo prima. Era andata vicina a spezzarsi, ma era riuscita a riacquistare un certo equilibrio, dopo che a lungo aveva pensato d'impazzire. Aveva rimesso insieme i cocci della sua vita, risollevato le sorti della ditta quando ormai era sull'orlo del fallimento e gli avvoltoi stavano volteggiando su di essa per avere ognuno la sua parte. Un'impresa che a molte persone era sembrata impossibile; di certo non ci sarebbe riuscita la ragazzina che era stata tre anni prima. Ma certe esperienze cambiavano e la donna che ora vedeva riflessa ce l'aveva fatta e non si sarebbe fatta intimorire più da niente e nessuno. Non dopo quello che aveva passato. Strinse le labbra. L'incubo era finito, ogni minaccia svanita. Lui non sarebbe più tornato. Lui era morto. Girando un paio di volte su se stessa si rimirò per l'ultima volta prima di andarsi a infilare il cappotto. Afferrò le chiavi dell'auto dal tavolo e scese lungo la scala a chiocciola che portava nel seminterrato. Si lasciò alle spalle la tavernetta andata in disuso e varcò la soglia del garage. I neon si accesero all'unisono con il lampeggio delle quattro frecce direzionali dell'auto. Masha si sistemò sul comodo sedile di pelle della spaziosa ammiraglia, scrutando lo spazio della rimessa mentre aspettava che il portellone del garage si aprisse automaticamente. Senza fretta guidò lungo il vialetto che affiancava il giardino: era in anticipo e poteva godersi il tragitto in tranquillità. Arrivata al cancello guardò entrambe le direzioni di marcia della strada per assicurarsi che non sopraggiungessero auto. Per qualche istante il suo sguardo si soffermò sotto il lampione che stava dirimpetto alla casa, poi pigiò sull'acceleratore e lasciò che l'auto prendesse velocità sull'asfalto, rallentando quando fu prossima ai limit i permessi dalla legge. Quando si fermò al semaforo rosso, tirò fuori dal cruscotto il depliant ricevuto. Il luogo dell'incontro era in un hotel posto tra le colline, lontano dal traffico e dal caos della città. Sentì una vampata allargarsi nel petto. Un invito riservato a pochi, all'elite. E lei era tra questi. Le era stato concesso il riconoscimento di essere tra le realtà più promettenti e progredite del settore e, come tale, ammessa a fare parte delle persone che avrebbero formato il consiglio della dirigenza dell'economia industriale. Nemmeno suo padre era arrivato a tanto, nonostante possedesse una posizione ben consolidata all'interno di quell'organismo. Non voleva montarsi la testa, ma c'era da essere orgogliosi di quel risultato.

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Le luci dei lampioni si riflessero in strane scie luminose sul parabrezza. Evidentemente il ragazzo dell'autolavaggio non aveva pulito il vetro in maniera omogenea, lasciando degli aloni sulla superficie. La prossima volta si sarebbe guardata dal lasciargli la mancia. Si fermò all'incrocio, dando la precedenza al veicolo che passava nella strada principale. Era la seconda auto che incrociava quella sera; le vie erano deserte. Tanto meglio, sarebbe arrivata con largo anticipo e avrebbe potuto ripassare il discorso che si era preparata. Conoscere per tempo il luogo dove avrebbe dovuto parlare a gente importante, l'avrebbe aiutata a calmare l'ansia che la stava assalendo in continue vampate. Lasciandosi alle spalle le decorazioni natalizie che addobbavano le vie della città, prese la rampa che conduceva all'asse attrezzato, percorrendolo fino ad arrivare al primo svincolo della tangenziale. La ventina di chilometri che mancavano all'uscita da prendere scorsero velocemente sotto i pneumatici della grossa auto, ritrovandosi nel giro di un quarto d'ora a salire la strada dei pendii collinari. L'orologio del cruscotto fece scattare le otto in punto. Mancava un'ora per l'appuntamento. Tutto perfetto. Il lampeggio di una luce arancione in prossimità di una curva le fece scivolare il piede sul freno, rallentando l'andatura dell'auto. C'era da sperare che non ci fosse un incidente a intralciare il suo arrivo. Nessun incidente, ma la strada era sbarrata dal crollo di un grosso albero che occupava la carreggiata. Un paio d'operai vicino al furgoncino della manutenzione stradale stavano studiando il modo per liberare il passaggio. Uno impugnava una motosega e stava mostrando i punti in cui doveva avvenire il taglio. "Non adesso." Strinse stizzita i pugni sul volante. L'operaio senza motosega le si avvicinò. Il sottile rumore elettrico dell'alzacristalli ronzò flebile, facendo entrare l'aria gelida all'interno dell'abitacolo. «Ci vorrà molto per liberare la strada?» Domandò Masha a bruciapelo appena l'uomo le fu a tiro. «Il tempo di tagliare il tronco in pezzi e toglierlo dalla carreggiata.» Rispose asciutto l'uomo. «Si, ma quanto? Ho fretta.» Disse spazientita dall'ovvietà della risposta. «Anche noi signorina. A star qua fuori gelano anche le ossa. Non vediamo l'ora di tornarcene al caldo. E' stata fortunata che qualcuno abbia fatto la segnalazione dell'incidente: difficilmente qualcuno passa a quest'ora.» Disse alzando dalla fronte l'elmetto giallo con la punta del pollice. Il rumore della lama che affondava nel legno giunse fino all'interno dell'auto, mentre dal parabrezza vedeva la segatura lanciata in un getto biancastro lungo la carreggiata. Il taglio del tronco avveniva troppo lentamente per i suoi gusti e i minuti scorrevano veloci. Guardò il cruscotto. Le 20.15. Soltanto la base dell'albero era stata tagliata, la parte che non era sulla strada, Ma che stavano combinando quei due? Perché non avevano cominciato dalla cima, tagliando la parte più sottile del tronco e liberando alla svelta almeno una corsia, così da poterle permettere di passare? 20.30. La metà dell'albero era stata tagliata. E adesso che stavano facendo? Gli operai continuarono nel taglio, persi nel loro lavoro. Perché non rimuovevano dalla via i tronconi già pronti? Tamburellò stizzita sul volante. Aveva l'impressione che quei due stessero facendo apposta per farle perdere tempo.

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Tutto il vantaggio era andato sprecato: se fosse andata bene sarebbe a malapena giunta in orario. Che seccatura. Avrebbe dovuto fare un reclamo sull'effic ienza della manutenzione, ma dato i tempi che correvano e l'efficienza dei servizi, buona grazia che erano intervenuti. Alzò il riscaldamento all'interno dell'abitacolo. Già a quell'ora della sera, la brina aveva ammantato la terra di un manto bianco da far sembrare il paesaggio coperto di neve, tanto era candido e rilucente sotto le stelle. Il silenzio la sorprese all'improvviso. Da quando il ronzio della lama dentata era cessato? Non se ne era accorta. I due operai stavano ora spostando i rami tagliati e presto sarebbero arrivati a togliere i pezzi di tronco. Le 21. Addio anche alla puntualità. Cercò di controllare il suo nervosismo. Le premiazioni si sarebbero svolte verso le 22: nessuno si sarebbe accorto fino a quel momento della sua assenza. Quando l'ultimo pezzo fu rimosso dalla strada, l'uomo che le aveva parlato le fece cenno di passare. Premendo il piede sull'acceleratore fece partire la macchina a razzo, passando a poche spanne dall'operaio. Dallo specchietto retrovisore sbirciò se l'individuo inveiva o la stava guardando storto, ma l'uomo se ne stava andando a riporre gli utensili con grande flemma, senza degnarla della minima attenzione. La sagoma illuminata dell'hotel addobbato a festa per il periodo natalizio fece la sua comparsa quando superò l'ultima curva della collina. La sua luce rischiarava la pineta sottostante, donandole una luminescenza bluastra. Anche da quella distanza la sua imponenza era ragguardevole. Insieme all'ampio parcheggio, ai giardini e agli impianti sportivi, occupava un quarto del versante opposto a dove si trovava. Diede gas, riacquistando la velocità perduta. Non era il momento di fermarsi a guardare il paesaggio. Doveva ancora scendere dalla collina e raggiungere la vallata e da lì cinque chilometri di statale prima di tornare a salire per arrivare a destinazione: gli ci sarebbero voluti come minimo altri venti minuti, se non ci fossero stati ulteriori imprevisti. Se quei due maledetti operai si fossero dati una mossa, ora sarebbe già arrivata. Mezz'ora dopo l'auto schizzò attraverso l'ingresso, correndo sul viale illuminato da lampioni di ferro battuto che ricordavano lo stile ottocentesco. Una lunga fila di mezzi di fuoriserie era assiepata nell'ampio parcheggio, costringendola a posteggiare in uno dei pochi posti liberi in fondo al grande spiazzo. Una folata d'aria gelida la investì appena aperta la portiera, costringendola a chiudere in fretta il bavero della giacca e ad avviarsi a passo svelto sul ghiaino del sentiero. Passò accanto a lunotti e parabrezza imperlati da una miriade di microscopici cristalli gelati. Si guardò intorno. Oltre le punte degli abeti si stendeva la vallata. Da quella posizione, nonostante la collina di fronte, si riusciva a scorgere la città. O almeno il punto dove si trovava la città: il centro urbano era sempre avvolto da una cappa nebbiosa che non si levava mai, neppure durante l'estate. In giro non si vedeva nessuno. Naturale: a quell'ora dovevano essere tutti alla convention. L'unica a mancare era lei. Davvero irritante. Le porte scorrevoli dell'atrio si aprirono appena entrò nel raggio dei sensori, scivolando silenziosamente sulle guide. La temperatura mite dell'atrio l'accolse insieme al luccichio dei lampadari di cristallo. Nell'ampia sala d'attesa, poltrone di velluto rosso erano disposte

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intorno a tavoli di vetro e ottone, contornate da piante ornamentali a foglia larga. Le tende erano tirate per coprire l'ampia vetrata che s'affacciava sul giardino e sul parco. Accompagnata dalla musica di sottofondo degli altoparlanti, s'avvicinò al bancone della reception. Intorno non si vedeva nessuno. L'inserviente doveva essersi allontanato un attimo. Logico, dato che ormai tutti gli invitati dovevano essere già arrivati. S'innervosì ancora di più. Suonò il campanello: nessuno comparve. Suonò una seconda volta, ma ancora nessuno si fece vedere. Seccata, s'incamminò lungo la moquette che copriva il pavimento. Trovare dove erano riuniti non fu difficile: indicazioni per raggiungere l'aula magna erano tappezzate sulle pareti, un percorso guidato con il quale era impossibile sbagliarsi. Uno scroscio d'applausi la raggiunse prima di arrivare alla porta a doppio battente. La riunione doveva essere entrata nel vivo. E lei se l'era persa per un banale ritardo. S'affacciò al vetro circolare di una delle ante. La sala era gremita. Tutti gli invitati erano seduti su poltrone rosse rivolte a un palco costruito per l'occasione. Sembrava di essere a uno di quei comizi per le elezioni presidenziali. Socchiuse di un poco la porta in modo da poter sentire. Qualora fosse stato il suo turno, poteva fare un'entrata a effetto, come se fosse arrivata proprio nel momento della chiamata del suo nome. Forse non tutto il male veniva per nuocere. Sentì il corpo rilassarsi. Sarebbe rimasta in attesa senza farsi vedere. S'appoggiò allo stipite, restando in ascolto delle tematiche che tanto stavano a cuore alle persone lì riunite. «I tempi sono maturi: non sarà più come il passato. Nessun ostacolo ci fermerà ancora. I nostri nemici sono spezzati e divisi; non avremo più stupidi intoppi che rallentano e intralciano. Ritorneremo agli albori, come dovrebbe sempre essere stato, quando eravamo noi i creatori del futuro e della fortuna. Non saremo più limitati. Potremo agire come vorremo.» Uno scroscio d'applausi partì dalla platea. L'oratore sorrise accondiscendente. «Fratelli d'economia, commercio e guadagno! Menti dell'industria e del lavoro! Il tempo del destino che ci appartiene è scoccato! L'ora imprescindibile della decisione. La guerra contro i sindacati e i lavoratori da tempo in atto è vinta e la bandiera del trionfo ci appartiene. Da decenni siamo scesi in campo contro coloro che hanno ostacolato la marcia e insidiato l'esistenza medesima della nostra classe. Con noi il mondo intero è testimone che abbiamo fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che ha sempre spazzato il mondo del lavoro; ma tutto è stato vano. Bastava che accettassero le nostre proposte per evitare inutili disagi e perdite. Oramai tutto ciò appartiene al passato. Decisi abbiamo affrontato rischi e sacrifici, perché grandi persone non evadono dalle prove supreme che determinano il corso della storia. E dopo le scelte e i dadi che furono gettati e le nostre volontà unite, raccogliamo il frutto che spetta ai meritevoli. In questa vigilia di un evento di portata secolare, rivolgiamo il nostro pensiero a chi ci ha preceduto ed è morto per il nostro fine, interprete della nostra anima. La nostra parola d'ordine è stata una sola, categorica e imperativa: vittoria! E ora abbiamo vinto e finalmente potremo aprire un'epoca di ricchezza e prosperità.» Gli applausi questa volta furono più carichi. Masha sentì aumentare i battiti del cuore. «Con la mozione di domani al governo, ogni associazione sindacale sarà sciolta, non venendo più riconosciuta a livello legale. La nostra vittoria sarà ancora più schiacciante giacché ogni organizzazione di tal genere sarà perseguitata penalmente e quanti vi

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aderiranno saranno incriminati di terroris mo contro le basi della nostra civiltà. E' giunto il tempo di dire basta ai vili ricatti di cui siamo stati schiavi. Basta con inutili cavalli burocratici atti solamente a far perdere tempo e denaro. Basta con normative sulla sicurezza solamente perché la gente non è capace di guardare quello che fa; perché chi non è in grado di badare a se stesso, è giusto che subisca le conseguenze delle sue azioni. Soldi sprecati. Non siamo enti benefici che si devono occupare della salvaguardia altrui. Basta con le pressanti richieste di rinnovi di contratto e aumenti di stipendio. Vogliono rubarci quello che è nostro di diritto, approfittare della nostra generosità che gli permette di lavorare e di avere uno stipendio. Ridurremo i salari: per troppo tempo hanno pesato sui nostri portafogli. Elimineremo ogni pretesa. Non saremo più ricattati da gente qualunque, sempre in balia dei capricci d i lavoratori che si sentono privati di presunti diritti. Ora che nel governo ci sono dei nostri rappresentanti e abbiamo tra le mani lo scettro del comando, non dovremo più temere l'azione del popolo, ma saremo noi a manovrare il popolo come meglio vogliamo. E' tempo di raggiungere le vette del firmamento dell'economia e che ci sia riconosciuto il posto che ci compete di diritto.» Gli altoparlanti fecero risuonare la voce carica e potente dell'uomo infervorato dal proprio discorso. La platea esplose in un applauso assordante, senza dare l'impressione di voler calare d'intensità. L'oratore, con le palme delle mani rivolte verso il basso, fece cenno di calmarsi. «Capisco il vostro entusiasmo e ne avete ragione. E' una data storica. In questo giorno le nostre volontà, i nostri intenti si sono incontrati in un patto che porterà vantaggi per tutti noi. Per la prima volta dalla nascita dell'era industriale, ci ritroviamo a un passo dell'avverarsi del sogno d'ogni imprenditore: ricchezza assoluta.» Alzò il pugno stretto con forza. «E' l'era dell'economia e il potere le appartiene. E ora appartiene a noi.» Tutti i presenti si alzarono in piedi, riprendendo ad applaudire. Trascinata dall'impeto del discorso e dall'atmosfera d'euforia, Masha fece per entrare, ma si bloccò subito, gettando un'occhiata alle sue spalle. Guardò il corridoio vuoto. Nulla. Come aveva potuto pensare di aver sentito un rumore con tutta quella baraonda? Lo sguardo si posò nuovamente sull'assemblea esultante. L'oscurità calò improvvisa. Brusii e mormorii sorpresi e confusi sostituirono le risate e gli applausi che scemarono fino a scomparire. «State calmi: è solo un black-out. Pochi minuti e i tecnici dell'hotel sistemeranno l'intoppo.» Parlò con calma l'oratore. «Fra poco rivedremo la luce.» «Sì, la luce in fondo al tunnel che una volta nella vita ogni persona vede.» Una voce risuonò nelle tenebre. «Vedrete di nuovo, solamente che a illuminarvi saranno i bagliori dell'inferno che vi sta attendendo.» «Che scherzo è questo?» Intimò qualcuno seccato in mezzo al buio. «Scherzo?» C'era divertimento nella voce. «Nessuno scherzo. Sono sempre serio. Dannatamente serio.» Un buco nero esplose nell'animo di Masha. "Quella voce, Dio, quella voce…no, non ancora, non di nuovo." «La vogliamo smettere? Se è una sceneggiata, vogliamo che finisca subito. Non siamo qui a perdere tempo!»

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«Sempre a guardare al tempo, sempre a cercare profitto da ogni vostro secondo, da ogni azione compiuta. La vostra ossessione è troppo radicata per essere estirpata, siete diventati un tutt'uno con lei: non si può più fare niente. A questo punto voi dovete essere estirpati. Non si potano forse i rami secchi per salvare tutta la pianta?» Nella voce non s'avvertiva più il riso di prima: solo un freddo e deciso distacco, come di un medico in sala operatoria che discorreva di un'amputazione. «Che sta succedendo?» Protestò irritato un altro uomo. «Benvenuti nel mio viaggio nell'oscurità.» Il buio parve farsi ancora più nero. «Ma chi è che parla?» Strepitò una donna. «Il vostro Edmond Dantes.» «Che cosa stai dicendo?» Protestò esasperata una voce femminile. Una piccola risata riecheggiò da ogni angolo della stanza. «Non mi riconoscete; si vede che siete gente che non legge molto, specialmente i classici della letteratura. Peccato, non sapete quello che vi perdete.» Si sentì un sospiro quasi di dispiacere. «Vorrà dire che mi dovrò presentare in altra maniera.» La voce si fece più dura. «Ma forse non c'è bisogno di presentazioni, perché già mi conoscete.» «Dicci il tuo nome!» Urlò una voce maschile. «Nome? No, quello non vi direbbe niente. L'etichetta che mi hanno affibbiato sì. Siete di fronte all'assassino di vampiri.» «Smettila! Non è il momento né il luogo per giocare!» «Perché no? E' divertente, dovreste farlo un po’ più spesso anche voi. Guarirebbe molte delle vostre ossessioni.» Una sibilante amarezza sembrò concretizzarsi nell'aria. «E' tutto assurdo. Voi siete assurdi. Combattete su tutti i fronti, con estranei e amici; chiunque vinca, la dignità umana è sconfitta. Vittoriosi, perdenti: la cosa è priva di senso.» «Non facciamo scherzi: non è il momento.» Continuarono a inveire gli invitati. «Io non scherzo mai. E per farvelo capire, vi darò una dimostrazione.» Ci fu un lieve chiarore, ma era un baluginio oscuro, come d'acqua scura su cui si rifletteva la luce. La parete dietro al palco prese a muoversi, come se stesse animandosi: un’onda nera, gelatinosa, tremolò incessante sfasciando lo sfondo di tela. Una superficie liquida brulicò instabile e minacciosa, informe e protuberante. Al suo interno si scorsero movimenti sempre più intensi e pronunciati, accompagnati da un gorgogliare cacofonico. Uno stridio simile a uno stormo di pipistrelli irruppe nella sala nello stesso istante in cui figure umanoidi presero ad affacciarsi e a spingere contro la sottile parete nera, facendola tendere al limite di rottura, come se volessero squarciarla. La traslucida superficie, simile a olio nero, demarcò volti umani con zigomi sporgenti e bocche spalancate all’inverosimile; la pellicola rientrò nelle orbite vuote degli occhi, aderendo sulla testa priva di capelli. Mani e braccia si sporsero in avanti alla ricerca spasmodica di qualcosa da ghermire. «Che cos'è?» Fu la domanda sussurrata da una donna mentre decine di volti e corpi s’affacciarono contro il velo, un mulinello d'arti che pareva volersi staccare dai corpi emaciati «Perché allarmarsi tanto?» Sembrò deriderla con nonchalance la voce. «Non notate nulla di familiare? Eppure dovreste riconoscere i vostri collaboratori e compagni d'affari. Vi hanno preceduto e ora stanno aspettando che li andiate a raggiungere.» Sbuffò. «I vostri Marley, si potrebbe dire. Ma voi non siete degli Ebenezer che possono essere redenti.» «Chiamate le guardie.» Urlò qualcuno terrorizzato.

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«Non scomodatele: si meritano un po’ di riposo. Non vorrete diventare degli schiavisti, vero?» Insinuò malevolo. «Ah, dimenticavo: lo siete già. E io sono qua per questo.» Ogni traccia di divertimento e derisione era svanita: c'era solo una fredda furia controllata. «Libertà dai tiranni e dai vampiri.» Declamò. La parete liquida si spostò in avanti, trascinandosi pesantemente. La gente corse alla disperata, spingendosi e calpestandosi per arrivare alle porte, una fiumana convulsa che inciampava e s'accapigliava. Inchiodata dalla paura, Masha riuscì solamente ad appiattirsi contro la parete e alzare le braccia a protezione del volto, preparandosi alla carica. L'unica speranza di sopravvivere era non cadere a terra. Invece dell'urto avvertì un rimbombare continuo di colpi a pochi centimetri dalle sue orecchie. Attraverso lo spiraglio delle dita vide la porta chiusa e un nugolo di facce che s'accalcavano contro il vetro. Un rivolo di sangue scendeva lentamente sulla superficie trasparente. "Oh mio Dio." Pregò vedendo alle loro spalle la parete avvicinarsi e ingrandirsi. «Aiutateci! Aiutateci!» Era il mantra di soccorso che s'alzava da gole disperate. L'urlo di Masha s'unì a quello della folla terrorizzata. L'orrore che credeva dimenticato divampò inarrestabile come l'incendio che aveva distrutto il suo cottage anni prima. La donna che vedeva oltre il vetro aveva ancora un'espressione di supplica sgomenta quando lingue di fuoco le uscirono dalle orbite e dalla bocca. Neppure il tempo di lanciare un lamento e s'accasciò al suolo. Masha schizzò all'indietro, un riflesso incondizionato al bagliore improvviso. Tutt'intorno le fiamme esplosero appiccando fuoco ai vestiti e ai capelli dei presenti. Come tante bambole di pezza impazzite, le persone che s'accalcavano contro le vie d'uscita furono abbattute in pochi attimi. Chi riuscì a scampare alla tremenda vampata, indietreggiò verso il centro del salone. «Credevate che vi avrei lasciato andare così facilmente?» La voce che ancora non aveva mostrato il proprio volto sovrastò ogni cosa. «Ma vi offrirò una possibilità di scelta.» In tutta risposta il muro vivente avanzò ancora. «Potete decidere la morte che preferite: la possibilità che non hanno avuto le persone che sono decedute per i vostri profitti.» Tutto il perimetro della sala fu avvolto dalle fiamme. Lambito dall'infuocata muraglia, il soffitto nero bramava d'oscurità e di sacrific io. I sopravvissuti si strinsero verso il centro del salone. «Chi sei? Cosa vuoi da noi?» Strepitò l'oratore. «Temo di non essermi spiegato.» Si schiarì la voce, assumendo un tono teatrale. «Sono il fantasma del natale passato e anche di quello futuro che non ci sarà. Almeno per voi.» Nei loro abiti firmati, g li imprenditori sembravano bimbi sperduti in un'isola che non c'era più, pronti a essere assaliti da una belva feroce. In fondo alla stanza le fiamme si divisero, lasciando libero il passaggio. Dall'oscurità profonda giunse il passo di stivali, segno di qualcuno che s'avvicinava. Ma non c'erano corridoi o porte in quella direzione: soltanto duro cemento. Con passo tranquillo la figura entrò nel cerchio illuminato, passando in mezzo ai cadaveri senza curarsene, indifferente della sofferenza di chi era ancora vivo. «Soffrite. Avete paura. Adesso sapete quello che avete fatto passare: ora vivetelo e sopportate, se ne siete capaci.» Lunghi tentacoli saettarono dal muro vivente. Molti furono afferrati e trascinati sul pavimento. Urla strazianti e lo stridio delle unghie sul marmo lucido fendettero l'aria.

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Braccia si protesero e bocche addentarono la carne di coloro che erano stati presi, stritolati dalle protuberanze nere che spuntavano dal fondo del molle pantano spazio-temporale. Con uno schiocco furono fagocitati nella parete traslucida. «Perché urlate tanto? Non siete felici di rivedere i vostri simili? Non siete contenti di stare con loro?» Li derise beffardo. «Eppure questo è l'inferno che avete fatto vivere a molti poveracci la cui unica colpa era dover lavorare per sopravvivere.» «Fate qualcosa!» Strillò una donna sulla quarantina. «Perché quelle espressioni supplichevoli e impaurite? Dove sono quei volti tanto sicuri e duri quando sbattevate a casa le persone?» La rabbia spumeggiava in ogni parola dell'individuo comparso dal nulla. «Ora capite quello che provavano i vostri sottoposti. Vi credete predatori, lupi, ma siete solo dei cani randagi. Sbranate le prede anche se siete sazi e lo fate solo per ingordigia e divertimento. Un vero lupo sa quando andare a caccia e quando fermarsi, anche il più malvagio; un idiota no.» Le fiamme divamparono con maggior violenza. «Basta con questa sceneggiata!» Urlò l'oratore, muovendosi in mezzo alla folla e usando le altre persone come scudo. «E perché? Tutta la vita non è forse un'immensa sceneggiata?» «Basta con i trucchi!» Strepitò isterico l'oratore. «La gente morta ai tuoi piedi ti sembra un trucco?» Lo provocò beffardo. I lamenti s'ammutolirono di colpo. «Ti prego aiutaci, salvaci. Risparmiaci la vita! Abbiamo capito, cambieremo sistema!» Implorò un distinto uomo dalla cravatta a righe bianche e blu. «Il sistema non può essere cambiato. Non può essere rivoluzionato. Solo le persone cambiano. Ma voi non potete più, perché siete morte. Bruciate nel vostro inferno.» Sentenziò l'assassino di vampiri. «No! Noi abbiamo il potere di creare tutti i sistemi che vogliamo, come vogliamo! Come vuoi tu!» Supplicò l'oratore; sceso dal palco la malia della sua voce era scomparsa. «Voi non avreste nessun potere, se non fossero altri a darvelo. E soprattutto a me non interessa rivoluzionare il sistema: non saprei che farmene.» Fece spallucce l'assassino. «Non cercate di comprarmi: non avete nulla che m'interessi. Niente mi farà cambiare idea. L'unica cosa giusta che potete fare è morire. State inaridendo il mondo per il vostro ego smodato: non è possibile che milioni di persone stiano male per un pugno d'individui.» «No! Ma che ti abbiamo fatto di male?» Implorò l'oratore avendo perso ormai ogni briciolo di coraggio. «Avete attirato la mia attenzione. E non è una cosa buona quando questo avviene.» Allungò la mano verso di loro. «No! Ti prego! Faremo tutto quello che vorrai!» Ripeterono decine di voci. «Deboli. Codardi. Senza i vostri soldi e le persone che vi seguono credendovi degli dei, non siete niente. Maledetti voi che avete creato insidie: siete la rovina di questo mondo e di quanti lo abitano. Sarebbe stato meglio se foste sprofondati negli abissi con un peso al collo, piuttosto che perpetrare il vostro operato. Ma non creerete più insidie a nessuno. Ora, andate davvero all'inferno.» Obbedienti al suo comando, cavalloni infuocati s'abbatterono sul cerchio degli astanti, consumandoli con il loro impeto. Un turbine improvviso, un ultimo guizzo e le fiamme balzarono lontane, tornando ad arrampicarsi sulle pareti e a lambirle languidamente.

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Il muro vivente si trascinò in avanti a un cenno indifferente dell'uomo che l'aveva evocato. Con i lunghi tentacoli iniziò il lavoro di sciacallaggio, raccattando i corpi anneriti e privi di pelle. I muscoli si staccarono dalle bianche ossa mentre l'orrida cosa li sollevava dal terreno e le fredde braccia trascinavano i cadaveri al suo interno. Paralizzata dall'orrore, Masha non riuscì a staccarsi dall'impietoso spettacolo, nemmeno quando i poveri resti di una donna furono sollevati per i piedi e la testa con un tonfo sordo si staccò e rotolò vicino alla porta, sorridendole in un ghigno snudato. Doveva fuggire, doveva fuggire! Urlava la sua mente. Sarebbe bastato che lui si voltasse per scoprirla e farle fare la stessa fine. Miracolosamente non posò mai lo sguardo verso la sua direzione. Se ne restò fermo nella sala, contornato da una cornice rossastra che lanciava sinistri bardigli sulla sua faccia. Per un attimo ancora, lo vide nella maniera di quell'a ltra tremenda notte: aveva la stessa gelida,determinata espressione. Con un ultimo risucchio, l'unico corpo rimasto venne inglobato dalla massa semi liquida. In uno stato di catalessi il muro vivente abbassò le braccia, fissando con le orbite vuote e le bocche aperte il danzare delle fiamme. A un cenno della mano dell'assassino prese a ritrarsi, ritornando da dove era venuto. Un ribollire di fango s'alternò al crepitio del fuoco, mentre la cosa lentamente tornò a fondersi con la parete di cemento. Una a una le orride figure scomparvero, trascinando con sé la traslucida sostanza nera che le aveva avvolte. Fu come se non fossero mai esiste. Ma anche con la penombra fitta e persistente, Masha vedeva impressa nel muro ogni faccia dei partecipanti al meeting, la loro espressione pietrificata nell'istante in cui la morte li aveva ghermiti. Mark Deastin s'aggirò per la sala vuota, fermandosi di fronte a una solitaria scarpa. «Non siete intoccabili!» Riecheggiò il suo monito. Le fiamme divamparono un'ultima volta, danzando con lingue rosse e arancioni sul volto e avvolgendolo in un abbagliante falò. Masha fu costretta a ritrarre lo sguardo. Quando tornò a vedere, l'ambiente era immerso in una spessa nube di fumo. Il silenzio che seguì fu assordante, peggiore delle urla che sentiva ancora nella mente. Come se fosse stata vittima di uno stupro, se ne andò barcollante, lo sguardo fisso lungo il corridoio rischiarato dalle luci d'emergenza.

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XV. Giorni grigi e notti insonni. Al piano sottostante le macchine operavano al consueto ritmo produttivo; un ronzio ovattato che le giungeva fin sulle scale. I neon illuminavano l'ambiente, non riuscendo a dissipare l'apatia che albergava tra le pareti del capannone. Alla finestra le gocce di pioggia scivolavano lungo il vetro. La vita continuava con i suoi schemi e le sue azioni che andavano ad aprire e chiudere il ciclo delle cose. Ma non era più la stessa: era deragliata in maniera da non poter più essere rimessa sul solito binario. Era stata spezzata e stravolta oltre ogni illusione. Niente sarebbe stato più come prima. Masha si strinse le braccia al petto, guardando attraverso il velo di pioggia. Lui era là fuori. Fantasma o persona, era in mezzo a loro. Vegliando, osservando; valutando e giudicando ogni scelta, pronto a tornare a colpire se la via non era quella retta. C'erano stati morti e ce ne sarebbero stati ancora se ce ne fosse stato bisogno. Dipendeva dalla nuova generazione industriale come guidare il nuovo sistema sorto dalle ceneri del precedente. La vecchia guardia era stata sradicata; un processo necessario, se si voleva salvare tutto. Bisognava soltanto aspettare e sperare che non fossero rimasti dei rimasugli capaci di attecchire nuovamente e far risorgere la pianta tagliata. Nel qual caso, lui sarebbe tornato. "Non si può mettere vino nuovo in otri vecchi." Aveva letto da qualche parte. Quella frase le ricordava la storia di un popolo che era stato guidato per anni verso un paese promesso, ma che non vi era potuto entrare finché la vecchia generazione non era completamente sparita; l'unica soluzione per eliminare la mentalità dominante che aveva portato alla rovina una civiltà e far sì che una nuova generazione crescesse. La sua vendetta. La sua volontà di fare un mondo migliore. Prima della creazione, c'era la distruzione e il caos che essa portava. Una distruzione che bruciava il marcio. Lui aveva acceso tanti piccoli focolai, esplosi in una gigantesca vampata finale che aveva fatto piazza pulita, ma non che aveva spazzato via tutto. Lui sapeva che certi costrutti dovevano rimanere. Sapeva che qualche pilastro doveva restare perché gli uomini non erano in grado di ripartire da zero, non avevano la capacità di ricominciare dal nulla e pensare di vivere una vita completamente diversa. Sapeva che gli uomini avevano bisogno di capi che li guidassero, la loro mente ancora incapace di accettare il fatto di non aver bisogno di guide. Un male necessario, ma che andava controllato perché restasse in limiti molto ristretti. Strinse le labbra. Come sapeva altrettanto bene che non erano abbastanza intelligenti da non ripetere gli stessi errori. Per questo aveva utilizzato un mezzo che aveva funzionato tanto bene con il vecchio sistema; ora avrebbero provato quello che avevano fatto agli altri: la paura. Il più grande guardiano che l'umanità potesse avere, che sin dagli albori della vita era convissuto con loro. E che si era mutato, adattato con il cambiare dei tempi per rimanere sempre una presenza forte e non venire mai lasciato indietro. Una maschera malleabile che si plasmava a seconda della gente, assumendo infinite manifestazioni per insinuarsi nei meandri più bui e sconosciuti della psiche, covando e crescendo come un virus letale e subdolo, più pericoloso e dannoso di qualsiasi epidemia. Non a caso le società da sempre erano governate mediante le paure, perché questo rendeva più controllabile le folle.

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Stesso mezzo, ma usato in maniera diversa. La sua arma più tremenda era stata la verità, tagliente e feroce; solo il suo non volersene accorgere gli aveva fatto credere che mentisse. La menzogna non era mai stata nel suo codice. Non come i loro governanti che ripetendo continue bugie, le avevano fatte accettare alla lunga come verità incontestabili. E in fondo non potevano agire diversamente se volevano che il loro potere fasullo reggesse. Lui aveva osservato e appreso bene la lezione. Paura e ignoranza. Paura di quello che poteva fare e ignoranza di dove si trovasse e quando potesse colpire. Avrebbero vissuto nell'incertezza, assoggettati all'angoscia e alla sudditanza verso le sue azioni, ossessionati e spaventati da una minaccia invisibile, ma presente e reale come la morte stessa. Ora erano alla sua mercé, schiavi come loro avevano reso schiavi altri. Un controllo che risiedeva nella loro mente, alimentata e rafforzata dalla paura verso il carnefice che li aveva colpiti. Si erano sentiti onnipotenti in passato e ora vedevano realizzarsi l'incubo tanto temuto: perdere la presa sulle masse. L'ordine costituito era stato sovvertito e il loro status di classi ricche, agiate e possidenti, perso. Il potere forte, violento, atto a garantire la sicurezza e l'ordine di società diviso in classi, costruito con tanta cura, erano stati smantellati impietosamente. Un neon tremolò. Masha lo fissò a lungo prima di distogliere lo sguardo. Ormai si aspettava di vederselo comparire davanti in qualsiasi istante. Era viva, ma l'incubo non l'avrebbe mai lasciata. La notte non riusciva a dormire. Se ne stava a fissare le tenebre con gli occhi sbarrati, pronta a cogliere ogni rumore; non riusciva a rilassarsi quando era sola. Nel buio della stanza, sdraiata nel letto, gli pareva che negli angoli si delineasse la sua figura e venisse a soffermarsi un poco presso di lei nel suo viaggio attraverso l'oscurità, osservandola e muovendo le labbra, pronunciando silenziose parole che già conosceva. Era soltanto la sua immaginazione a farle vedere cose che non c'erano, ma sapeva che il ricordo di lui non l'avrebbe mai lasciata. Adesso capiva perché le aveva risparmiato la vita: non per pietà, disprezzo o irrisione, ma perché aveva un compito. Perché doveva portare un monito. Doveva ricordare agli altri la paura perché le lezioni del passato non venissero dimenticate. Non importava se avevano raggiunto la totale comprensione dei fatti accaduti, se avevano capito le cause degli eventi trascorsi. Contava solo che la paura bloccasse ciò che erano stati nel passato, impedendo che si verificassero tragedie, si ripetessero ingiustizie. Il modo per espiare le colpe commesse. Ma, forse, per alcuni poteva essere diverso. La paura, oltre a fermare il male, poteva aiutarli a capire cos'era la vita. Almeno così le piaceva pensare: che ci fosse in quel cammino oscuro un barlume di speranza. «Signorina Masha.» La voce la fece trasalire. Una dipendente in camice blu era in piedi alle sue spalle. «Sì?» Chiese cercando di non farsi vedere sorpresa. «Mi scusi.» Disse la ragazza timidamente. «So che occorre un giorno di preavviso per avere un permesso, ma mi servirebbero due ore questo pomeriggio. Un imprevisto.» Spiegò senza trattenere un certo senso di colpa, come se quello successo fosse tutta causa sua. Masha scosse la testa, sorridendo. «Non ti preoccupare: vai pure. Non è un problema.»

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«Grazie.» Rispose la ragazza affrettandosi a tornare al posto di lavoro. Continuò a sorridere per tutto il tempo in cui la vide discendere le scale. Quando tornò a guardare oltre la finestra, il sorriso era svanito, lo sguardo fisso su un vicolo scuro oltre la l'inferriata della recinzione. un buio trasparente, una tenebra nella quale si scorgono visioni di sventura Lui era là fuori.

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XVI. Nuovo inizio. Sulla sedia era posato il quotidiano della settimana precedente Alla televisione stava passando l'ultima edizione del telegiornale. L'uomo s'avviò verso l'elettrodomestico e lo spense, disinteressato alle notizie trasmesse. Anche se parlavano dei fatti recenti, ormai erano storia antica. Il passato era morto e quindi privo d'interesse; contava solo il futuro che poteva nascere dal presente. Un'opportunità che poteva concretizzarsi se fosse stata colta da molti. Si recò alla finestra e scostò le tende. Sotto la linea della ringhiera del terrazzo brillavano le luci dei palazzi e i fari delle auto. Centinaia d'individui simili a lui: diversi e uguali allo stesso tempo, con lo stesso potenziale di libertà, la voglia sopita di liberarsi dal pesante gioco che gravava sul proprio collo. "Ribellatevi." Visualizzò gli invisibili tentacoli della mente fluire verso le vite sottostanti. "Fatelo prima che sia troppo tardi. O presto pagherete un caro prezzo: il tempo sta per finire, la nave sta per salpare. Non perdete questa occasione." Ma più che il pensiero contava l'agire, per essere d'esempio a chi sapeva cosa c'era bisogno di fare, ma non aveva il coraggio di metterlo in pratica perché servivano eventi tragici per dare il via al cambiamento. C'era bisogno di qualcuno che si prendesse la responsabilità di fare il primo passo; di uno che desse il via. Come era stato fatto per lui. Il sistema era morto, i poteri che lo sostenevano distrutti: la gente avrebbe cercato il nuovo o avrebbe voluto fare rivivere il vecchio? L'intelligenza e la saggezza avrebbero scelto la prima opzione, ma erano valori che le persone avevano perso da tempo; per questo c'era da aspettarsi di tutto, anche una risposta che avrebbe portato rovina. Lasciò che le tende tornassero a posto, permettendo alla stoffa di celare la visuale sul mondo esterno. Certo, sarebbe stato da pazzi tentare di rimettere in piedi una civiltà basata su valori vertenti su un unico ego smisurato. Eppure era stato da pazzi il solo permetterne la creazione: la gente lo aveva voluto, smaniosa di farsi dominare. Incredibile come la maggioranza della popolazione si fosse rispecchiata, e avesse dato potere, a un solo, misero uomo. Un unico individuo che aveva rimosso qualsiasi cosa fosse d'intralcio al proprio io, mettendolo sopra ogni cosa. Un egocentrismo che aveva avuto la pretesa di essere riverito e adorato come se fosse una divinità. In effetti la politica di quel periodo era stata molto simile a una religione, con la popolazione che aveva fatto un culto della figura che guidava il paese. Perché la memoria degli uomini era così labile? Perché il sapere appreso non riusciva a essere trasmesso alle generazioni successive, onde evitare il ripetersi di tragedie già viste? Nessuno trasmetteva più niente, nessuno si ricordava del tempo trascorso e i figli scontavano gli errori dei padri. Un perpetrarsi d'atteggiamenti e scelte uguali a quelli del passato; tutto a causa della venerazione portata a incapaci capi di stato, ottusi e cinici, che per il proprio tornaconto sacrificavano tutto e tutti. Ma la colpa più grave apparteneva alle persone, ugualmente egocentriche, che li avevano sostenuti, canalizzando in essi energie per farli divenire ciò che loro non avrebbero mai avuto il coraggio di essere. Uno specchio nel quale rimirarsi compiaciuti e sentirsi appagati, un vivere ciò che non si era attraverso altri.

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Come avevano potuto concentrare tutto il potere in un'unica persona? Lentamente, senza accorgersene, consciamente o inconsciamente, avevano permesso la nascita e la crescita di un dittatore. Ma all'inizio le cose non erano certo sembrate in quel modo e la gente aveva voluto credere nell'illusione che si era creata. Tornò a sedersi sulla poltrona. Se solo avessero studiato la storia: si sarebbero accorti che in passato, poche decine d'anni prima, era esistita un'altra figura che era la copia di quella attuale. Stesse capacità oratorie, stesso tamtam mediatico incentrato sulla propria persona; perché la gente aveva voluto mentire a se stessa? Forse per negare l'ombra che era dentro di lei e che stava dilagando, perché se molti perseguono la stessa direzione significa che si è nel giusto, che non c'è nulla di sbagliato, nulla da temere; un modo per placare la coscienza. O ucciderla. Sorrise caustico. Davvero una cultura di morte, come l'uomo che avevano erto a proprio simbolo. Un individuo che parlava d'amore, ma il cui tono di voce era carico di livore e imposizione, come se in bocca e nelle viscere avesse veleno da far stillare all'esterno. Parole che non facevano altro che creare divisioni, rotture, discriminando qualsiasi diversità che esulasse dall'unico pensiero dominante approvato da chi era al potere. Scosse il capo. Un uomo che voleva essere adorato come un dio, ma che non aveva i mezzi per esserlo. Eppure la gente lo aveva venerato e osannato per questo suo ego smodato. E dire che per arrivare a questo si era partito dal basso, da piccole cose; con un minimo di consapevolezza si sarebbe potuto cogliere quello cui si era andato incontro. Ma era dell'uomo sottovalutare i segni dei tempi. E la storia si era ripetuta con precisione. I posteri avrebbero creduto che milioni di persone avevano volutamente permesso di farsi sfruttare e prendere in giro da un individuo di così bassa caratura? Un uomo che non aveva usato la forza per salire al potere, che quando aveva iniziato la scalata non aveva nessun mezzo, ma vedeva lontano e sapeva dove voleva arrivare. Aveva intuito che utilizzare metodi forti non sarebbe stata la via migliore: dispendiosa, causa di forte critica nell'opinione pubblica, creatrice di nemici potenti. Mosse violente lo avrebbero penalizzato, facendogli perdere punti. Punti pubblicitari. Tutto era business, tutto era imprenditoria e il successo o l'insuccesso di un prodotto si basava sulla riuscita della pubblicità. Perché farsi rovinare dalla fretta quando presto sarebbe stato acclamato? La gente avrebbe imparato ad amarlo: bastava mettersi sotto la luce migliore. Occorreva della buona pubblicità: un tamtam mediatico che avrebbe convinto un gran numero di persone d'essere la scelta migliore, facendo in modo che non si accorgesse di quanto stava succedendo intorno. Distogliere l'attenzione dalle cose importanti, coprire ciò che non doveva essere visto e ripetere che con lui tutto sarebbe andato bene. Perché, si sapeva, che anche una menzogna, se ripetuta nel tempo e con insistenza, poteva divenire verità. Strinse la mascella. Come era facile illudere le persone, fargli vedere solo quello che volevano vedere. Bastavano pochi specchi per le allodole per ridurre il campo visivo, facendo credere che la vita era solo divertimento e che altri si sarebbero occupati dei problemi.

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La gente era ignorante e lo era voluta diventare ancora di più, dando il permesso nell'innescare il meccanismo, arrivando addirittura a stimarsi per quello che aveva fatto, credendosi qualcosa di fenomenale: un popolo che si credeva in gamba, con l'occhio avanti, ma che in realtà era privo d'iniziativa e spessore, capace solo di seguire, andare a traino; una massa di furbetti da quattro soldi in grado di fregare la mela al vicino, ma di perdere casa e lavoro. Un popolo incapace di creare, ma efficiente nel rovinare. Maledetta ignoranza. Molte persone si erano fatte manipolare, soggiogare con la tecnica della goccia che cade sulla roccia. Cambiamenti fatti avvenire un passo alla volta, finché non ci si era trovati stravolti, talmente mutati che le persone avrebbero fatto fatica a riconoscersi se si fossero viste con gli occhi posseduti un tempo. Erano occorsi anni per compiere questo processo, costruendo un sistema basato sull'anticultura. Una guerra invisibile, dove si era preparato con cura il terreno, selezionando le armi e le tattiche giuste. La prima era l'informazione: il mezzo per promulgare il proprio verbo. Un verbo che perché potesse essere assorbito appieno doveva diventare quotidianità e pensiero comune: un tarlo che lavorava senza fretta, meticoloso e inarrestabile. Per questo si era iniziato con l'acquisizione di piccoli g iornali ed emettenti televisive, facendoli ingrandire con il tempo, acquisendo chi era più piccolo e incorporandolo dentro il meccanismo avviato, crescendo fino a diventare un colosso, capace di controllare i quotidiani e le reti d'influenza nazionale. La qualità di quanto trasmesso e pubblicato con il passare del tempo era stata volutamente fatta calare, la banalità e stupidità erano diventate dominanti, un siero che somministrato in dosi sempre più massicce aveva svuotato la mente delle persone: un piano studiato a tavolino per eliminare quanto era in grado di far pensare. "Riflettere crea dubbi e conflitti interiori, ansie e patemi, mentre la vita deve scorrere tranquilla, bisogna diffondere serenità e ottimismo." Era stata la frase che veniva ripetuta nelle interviste. Per questo, era stato somministrato il falso sport spettacolo, il talk show del basso sentimentalismo, atto a far piangere e commuovere, istigante all'apparenza e alla superficialità per far pensare solo a divertimento e banalità. Perché la riflessione era in grado di distruggere il potere. Per questo l'obiettivo successivo era stato il limitare l'accesso alla cultura, porre dei blocchi perché un numero sempre minore di persone vi potesse accedere. L'istruzione era stata la prima a essere colpita, divenendo qualcosa solo per ricchi, la classe destinata a comandare: le scuole pubbliche erano state chiuse, lasciando aperte solo le private, mettendo un filtro che avesse limitato gli accessi: tasse così elevate che solo chi apparteneva all'elite della società, aveva la disponibilità necessaria per frequentarle. La cultura tuttavia non passava solo attraverso l'istruzione: esisteva la letteratura. La gente poteva sempre leggere e questa era un'azione che non si poteva impedire; in passato c'era chi lo aveva fatto e tale scelta in alcuni casi aveva portato a rivolte. E con l'avvento della tecnologia, censurare era divenuta un'impresa laboriosa e dispendiosa. Molto più facile abbassare il livello della qualità, come già fatto con l'informazione: velocemente, e anche illegalmente (un dettaglio irrisorio, dato che una volta al potere sarebbe bastato fare una legge per rendere legale l'illegale), si erano acquisite una alla volta le case editrici presenti sul territorio nazionale, a partire dalla più grande, per avere la totalità del mercato del libro; dopodiché si era cominciato a commercializzare prodotti di bassa lega, in linea con gli standard preposti per seguire il piano d'abbassamento culturale.

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Per completare l'opera tuttavia mancava ancora una pennellata: un dettaglio che rendesse le radici del potere salde e profonde, non solo per il presente, ma anche per il futuro, in modo che le generazioni giovani e quelle ancora da nascere, non incontrassero un'idea capace di farle dubitare della veridicità del fantastico castello di carte campato in aria che i loro padri avevano aiutato a costruire. Per questo era stata distrutta anche la fantasia, anestetizzando la parte creativa e sognante dei ragazzi, limitandoli a desiderare solo quanto c'era all'interno del recinto approvato dal sistema: erano stati creati romanzi fantastici (il genere che andava per la maggiore nella fascia d'età giovanile) per bambini scemi. Ed era stata permessa la pubblicazione solo di linee corrispondenti a tali requisiti. "Perché leggere maestri della fantasia degli anni passati, quando esistono mostri di bravura contemporanea?" Era stato il dictat che tanto aveva pubblicizzato i romanzi prodotti della nuova linea editoriale; una linea che aveva acclamato storie che non dicevano niente, ma dove tutti erano felici e contenti, utilizzando un linguaggio scarso ed elementare. Un altro sintomo dell'impoverimento della cultura di una popolazione. Sintomo che sarebbe stato mostrato dalla lettura dei maestri della fantasia, svelando la natura della società e dando la conoscenza, perciò il potere, per disgregarla: una società narcisista e adolescenziale, vuota e viziata, superficiale e incapace di veri sentimenti, incapace d'amare e vivere veramente. Un intero paese era crollato per l'egocentrismo di un solo individuo. Le persone si erano sottomesse, avevano proiettato in quella figura ogni sogno, ideale, aspettativa: erano responsabili in ugual maniera di chi aveva architettato il piano diabolico. Pertanto erano state colpite con forza e private di tutto, perché potessero tornare a essere libere: per questo il loro mondo era dovuto andare in pezzi. Per questo il simbolo su cui avevano investito tanto, e in cui avevano creduto, era stato annientato senza scampo. Senza più una guida, se non volevano smarrirsi, ora dovevano cercare una nuova via da percorrere e l'avrebbero dovuta trovare, o costruire, da soli. Il secondo Potere era caduto. Presto anche il terzo avrebbe subito la stessa sorte, senza aver bisogno d'intervenire, dato che, come l'edera attaccata agli alberi, traeva linfa vitale dal sistema politico. Era la sorte in cui s'incappava quando si diveniva totalmente dipendenti da qualcuno o qualcosa. Potere economico, politico, mediatico. Un trittico che si era concentrato in un unico punto, formando l'assolutismo. Si era tornati al medioevo, all'epoca delle dittature: un tempo c'erano i nobili, ora gli industriali, ma la storia non era cambiata. La libertà uccisa, il diritto negato. Una civiltà fondata su simili basi non era più ammissibile. Ora, di quel sistema fatto di menzogne, non rimaneva che cenere: era stato distrutto totalmente. Era finito il tempo in cui i potenti elargivano in pubblico sorrisi e promesse e dietro le quinte si spartivano la carogna che ormai era il popolo, spolpandola fino al midollo. Basta con individui che si sentivano superiori agli altri uomini, considerandoli pedine per raggiungere una posizione migliore e poi buttarli quando non servivano più: quegli esseri non vedevano negli altri dei fratelli, ma solo degli schiavi, che arrivavano anche a torturare, solo per il gusto che dava il potere di avere in mano una vita che non fosse la propria. Ma ormai questo era solo passato. Un senso di completezza avvolse il suo animo. Aveva fatto quanto era necessario; un'azione che semplicemente aveva accelerato l'inevitabile.

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Posò lo sguardo sulla tenda tirata, intravedendo le luci dei palazzi d i fronte. "Siete liberi. Liberi di scegliere, liberi d'essere ciò che volete. Se non ne creerete altri, non avrete più oppressori, a meno che non decidiate di esserlo di voi stessi." S'alzò dalla poltrona. "Avete la possibilità di un nuovo inizio." Il pensiero corse veloce ai milioni d'individui suoi fratelli, tutte parti dell'Essere Umano, cellule di un corpo più grande. "Esistono ancora delle spoglie del vecchio sistema: ribellatevi, non permettete che continuino a esistere. Ognuno deve compiere la sua parte e vi è stato mostrato come fare. Così come è stato fatto con me, io l'ho fatto con voi. Pulite la lavagna a fondo, per ricominciare da zero. C'è molto da ricostruire, ma se starete attenti sarà qualcosa di soltanto vostro: create un ordine vero, un ordine volontario. Un ordine migliore fondato sulla giustizia e sulla libertà; un mondo basato sulla creatività, sulla conoscenza e sulla volontà di crescere insieme. Un mondo vero, non più una Bengodi di folle, sterile e apparente divertimento, dove, dopo sguaiate risate, c'erano fruste e catene pronte a reclamare un prezzo cui non si è preparati a pagare: lo sfruttamento. Un mondo totalmente nuovo, pieno d'opportunità, che aspettano solo di essere colte: chi può dire quante mele ci sono in un seme? Così è quello che vi sta attendendo: infinito." S'avviò lungo l'ingresso. Il compito che lo attendeva non era ancora finito. Ma non sarebbe stato solo: altri avrebbero seguito i suoi passi, percorrendo e creando nuove strade. L'uomo prese dall'attaccapanni il giubbotto e premette il pulsante dell'interruttore, facendo cadere la penombra nell'appartamento. Le luci dei grattacieli filtrarono attraverso la tenda, disegnando un piccolo triangolo luminoso, una piccola goccia nella pozza d'oscurità che ora era la stanza. Alzò il bavero e aprì la porta: la cacofonia delle strade salì le scale come un ronzio d'insetti. Lungo le vie asfaltate la gente correva senza posa, donando tempo ed energie a una divinità avida che si cibava della loro inconsapevole offerta. Con calma prese a discendere i gradini, respirando l'aria sporca delle strade, sapendo che era là fuori, intenta a osservare che ogni cosa andasse secondo il suo volere. Lei era sempre pronta, vigile a che nessuno sfuggisse al controllo, pronta a riportare nei ranghi o a distruggere. Individuo senza nome, s'immerse nel fiume di persone che scorrevano sul marciapiede, avviandosi verso un vicolo oscuro, un altro viaggio attraverso l'oscurità. Si voltò per guardare la cima dei palazzi. Per un attimo nella forma delle nubi gli parve di vedere la sagoma della Bestia. "Abbiamo usato il tuo Potere contro di te, vincendo una battaglia. Arriverà il tempo in cui ti sconfiggeremo per sempre e non dominerai più le vite degli uomini." La massa grigia nel cielo s'allontanò, sparendo dietro i giganti di cemento. Sorrise. Nessuno era intoccabile.

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Popolo, ricordati che se la giustizia

non regna con impero assoluto, la libertà

non è che un vano nome! (Robespierre)