Non si tratta di una semplice auto-traduzione : il ruolo ... · Contrariamente a quanto potrebbe...
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“Non si tratta di una semplice auto-traduzione”: il ruolo della
riscrittura nella postura d’autore di Amara Lakhous1
Rainier Grutman, Université d’Ottawa
Citation: Grutman, Rainer (2016), “‘Non si tratta di una semplice auto-traduzione’: il ruolo della riscrittura nella postura d’autore di Amara Lakhous”, in Chiara Denti, Lucia Quaquarelli, Licia Reggiani (a cura di), Voci della traduzione/Voix de la traduction, mediAzioni 21, http://mediazioni.sitlec.unibo.it, ISSN 1974-4382.
Contrariamente a quanto potrebbe suggerire una paraetimologia del prefisso
“auto”, l’autotraduzione è tutto tranne che automatica. Innanzitutto, per una
ragione pratica: è cronofaga. Costringendo lo scrittore a reimmergersi in un
testo già concluso (o persino già pubblicato) e a dedicarvi perciò ulteriore (o
persino troppo) tempo, l’autotraduzione impedisce a chi la esercita di passare
ad altro, di iniziare un’opera interamente nuova. L’autotraduzione ha inoltre un
carattere vincolante, anche per l’autore stesso dell’opera originale. Infatti, l’atto
traduttivo è tutto fuorché un semplice travaso linguistico, in quanto richiede un
lavoro di ridefinizione per il quale il testo è riorientato verso un nuovo pubblico:
cambiano così l’orizzonte d’attesa, i riferimenti, i presupposti, le aspettative e i
sottintesi.
Benché possiedano le competenze linguistiche per farlo, molti scrittori non
hanno né il tempo, né la pazienza per dedicarsi a questa impresa. Ecco
spiegato il motivo per cui la maggior parte degli scrittori bilingui rinunciano a
1 Una prima stesura in francese di questo saggio è stata tradotta da Tiziana Nannavecchia, alla
quale sono molto riconoscente (anche di aver controllato la versione finale del testo italiano). La
mia gratitudine va inoltre a Chiara Lusetti (per avermi permesso di consultare la sua copia di Le
cimici e il pirata), a Boussad Berrichi e Heba Alah Ghadie (per aver verificato la traduzione e la
traslitterazione dei titoli arabi) e ai due revisori anonimi (per i riferimenti bibliografici sulla
scrittura migrante in Italia e altri suggerimenti).
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priori a tradursi. Con questo non intendo sostenere che l’autotraduzione sia un
fenomeno rarissimo, come si è a lungo creduto, ma piuttosto che essa non si
verifica ovunque e in qualsiasi momento. Mi pare altresì legata a circostanze
precise e ricorrenti, sia nella traiettoria personale dell’autore bilingue, che nel/i
sistema/i letterari/o (infra)nazionale/i di appartenenza.
Studiando il bilinguismo degli autori russi costretti all’esilio dalla rivoluzione
bolscevica, Elizabeth Beaujour (1989) ha osservato che, tra di loro, il
cambiamento della lingua letteraria è avvenuto gradualmente e ha compreso
una fase caratterizzata da un intenso lavoro di autotraduzione. Arriva così a
concluderne che questa fase costituisce il punto cardine della loro carriera e, in
maniera più generale, ne deduce che l’autotraduzione è dunque un “rito di
passaggio” tipico degli scrittori “che lavorano in una lingua diversa da quella
con la quale si sono inizialmente definiti come tali” (Beaujour 1989: 51).
Spesso, questo si verifica in seguito a un trasferimento in un altro paese, sia in
veste di esiliati politici (come i Russi studiati da Beaujour) che come migranti
per ragioni socio-economiche, o ancora per una combinazione dei due fattori.
Si noti però che né la scrittura bilingue né l’autotraduzione sono una prerogativa
esclusiva degli scrittori migranti: entrambe sono infatti praticate dalle minoranze
linguistiche più tradizionali (Grutman 2013; Ferraro, Grutman 2016). Tuttavia,
sono i migranti ad aver richiamato maggior attenzione da parte della critica in
questi ultimi anni. È questo il caso dell’autore oggetto d’analisi in queste pagine,
nelle quali si intende non tanto studiare l’ampia problematica delle “scritture
migranti” attraverso la lente dell’autotraduzione, quanto esaminare
l’autotraduzione alla luce delle opinioni espresse e delle posizioni prese da un
esponente molto lucido della “letteratura italiana della migrazione”2.
Giunto in Italia nel 1995, l’Algerino Amara Lakhous vanta una notevole attività
letteraria come romanziere, sia (e a volte simultaneamente) in arabo che in
italiano, rispettivamente la seconda e la quarta lingua da lui imparate (Lakhous
2 Secondo l’etichetta creata da Armando Gnisci negli anni 1990, ora sostituita da diverse
formule (letteratura dell’immigrazione, italofona, postcoloniale, migrante…) in attesa che diventi
letteratura italiana tout court.
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è di stirpe amazight o berbera)3. La scrittura parallela in queste due lingue è
talmente sistematica da poter parlare di una “strategia” (una parola che
potrebbe – sebbene non dovrebbe – sorprendere usata in relazione a questioni
letterarie). Infatti, dalle numerose dichiarazioni di Lakhous si delinea il profilo di
un autore che, senza definirsi “impegnato”, si ritiene ciononostante “in
situazione nella sua epoca”, come diceva Sartre (1945). Questo profilo non è
definito a priori, ma costruito, formato, modellato a colpi di parole.
Corrisponde, in altri termini, a quella che Jérôme Meizoz (2004), sviluppando
un’intuizione di Alain Viala (1993: 216) ha chiamato una “postura d’autore”. La
definisce come “un modo personale di investire o abitare un ruolo, ossia uno
status: un autore gode di e rinegozia la sua ‘posizione’ nel campo letterario
grazie a diversi modi di presentazione di sé” (Meizoz 2004: online). Meizoz
presenta l’esempio di Romain Gary (pseudonimo di Roman Kacew), il quale
“reinventa la sua identità autoriale” sotto la veste di un nuovo pseudonimo:
Émile Ajar. Questo gesto gli permetterà di firmare negli anni 1970 quattro
romanzi dai motivi e dallo stile molto diversi da quelli di Gary.
In queste pagine vorremmo studiare il ricorso ripetuto all’idea di “riscrittura”, da
parte di Amara Lakhous, come una maniera di reinventarsi o almeno di
risforzare la sua “identità autoriale”, la sua autori(ali)tà. Negli esordi della
letteratura migrante in Italia, l’autori(ali)tà degli scrittori “italofoni” era spesso
fragilizzata da diverse forme di scrittura indiretta o “a quattro mani” (Comberiati
2010: 53-58; Mengozzi 2013: 109-114; Pezzarossa 2014: 137-9). Lakhous,
invece, preferisce occuparsi lui stesso del trasferimento della sua opera, sia in
italiano che in arabo.
In un primo momento, lavora a partire dell’arabo e si traduce in italiano, una
lingua di adozione tardiva e non ancora pienamente padroneggiata. Il risultato è
Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio. Nel peritesto, non viene
menzionato l’originale arabo, omissione che permette appunto di lanciare la
3 Come peraltro buona parte della popolazione algerina (tra cui scrittori eminenti quali Kateb
Yacine, Mouloud Mammeri, Rachid Boudjedra o Slimane Benaïssa). La lingua berbera
(tamazight) viene insegnata in Algeria da solo una ventina d’anni, ciò spiega perché Lakhous
(che lascia il paese nel 1995) la parla senza saperla scrivere.
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carriera di Lakhous come scrittore non soltanto italofono, ma soprattutto
italiano. Nei tre romanzi successivi, Lakhous cambia direzione: scrive il testo
direttamente in italiano e quando è arrivato a una stesura soddisfacente, la
trasferisce in arabo. Poiché non pubblicato, il testo italiano può essere ancora
modificato alla luce della versione araba, così da confondere i confini fra testo
di partenza e testo d’arrivo, fra “originale” e “copia”. Questa confusione è voluta:
fa parte del progetto creolizzante di Lakhous (il quale sostiene di avere una
tendenza ad “arabizzare l’italiano e [a] italianizzare l’arabo”) e partecipa della
costruzione del suo profilo d’attore (e di vettore) interculturale.
1. Dalle cimici algerine alla lupa romana
Nato ad Algeri nel 1970, dove si laurea in filosofia e intraprende la carriera di
giornalista, Amara Lakhous si trasferisce nel 1995 in Italia (nazione di cui
diventerà cittadino nel 2008). Continuerà gli studi, questa volta in antropologia,
presso l’Università la Sapienza di Roma. Nella sua tesi di dottorato, intitolata
Vivere l’Islam in condizione di minorità: il caso della prima generazione di
immigrati arabi musulmani in Italia e discussa nel 2008, Lakhous si occupa di
una problematica, quella dell’integrazione dei migranti, che era già stata il fulcro
dei suoi romanzi.
Genere polifonico per eccellenza, il romanzo permette di moltiplicare le voci e i
punti di vista narrativi grazie a tecniche comprovate come la focalizzazione
interna multipla (dominante in Scontro di civiltà) e il monologo interiore
(utilizzato con risultati felici in Divorzio all’islamica). Ne nascono romanzi che,
seppur non sprovvisti di didattismo, non cadono nella trappola del romanzo a
tesi. Amara non diventa mai amaro, ma al massimo dolce-amaro. Lakhous si
rifiuta di compatire la triste sorte che attende gli immigrati in Italia (o, più in
generale, nell’Unione Europea). Raccontando le mille brighe del loro
(soprav)vivere quotidiano con un tono all’insegna dall’umorismo, riesce ad
attirare la nostra attenzione e a condurci a riflettere sulle serie questioni
presentate. Lakhous sostiene di ispirarsi alle pellicole della commedia
all’italiana e afferma che “l’umorismo è un’arma di combattimento. È una
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risposta alla tristezza” (Ruta 2008: 17). Diversi episodi della sua commedia
(troppo) umana sono stati tradotti in francese, in inglese, in tedesco, in
nederlandese e persino in giapponese, tutti (senza eccezione) a partire dalla
versione italiana.
Come già accennato, il romanzo che lancia la carriera di Amara Lakhous è
Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, vincitore di due premi
letterari nel 2006: il Flaiano (che prende il nome dallo sceneggiatore di Fellini,
nonché autore del famoso/famigerato romanzo coloniale Tempo di uccidere) e il
Racalmare-Leonardo Sciascia (in memoria del romanziere siciliano). Scontro,
portato sullo schermo da Isotta Toso nel 2010, si era fatto notare inoltre grazie
alla sua presenza nella lista dei best-seller del Corriere della Sera, dove
figurava nella categoria della “narrativa italiana” piuttosto che in quella della
“narrativa straniera” (Gallippi 2013: 894), un segno evidente del riconoscimento
di Lakhous in quanto scrittore “italiano” a pieno titolo. Come faceva osservare
Laura Mancini (2011), “l’autore può ormai dirsi dentro la letteratura
contemporanea nazionale, e non più confinato al famoso scaffale nordafricano
dove in pochi vanno a curiosare”.
Occorre però non trascurare il fatto che quest’opera ne nasconde un’altra,
concepita e pubblicata previamente (nel 2004) in arabo, con un titolo altamente
evocativo della situazione ambivalente in cui si trova l’immigrante
extracomunitario in Italia: Kayfa tarda’u min al-dhi’ba dūna an tarda’aka (Come
farti allattare dalla lupa senza che ti morda). Chiarissima l’allusione a Roma
come città (e, per metonimia, all’Italia come paese) che accoglie e al contempo
divora gli immigrati. Questa immagine verrà ripresa da Armando Gnisci nel
curare il volume Allattati dalla lupa, una scelta di testi presentati al ciclo
d’incontri “Scrittori migranti” al Campidoglio di Roma, ciclo iniziato (il 3
novembre 2004) dallo stesso Lakhous, presentato da Gnisci (2005: 9-11) come
un “romanziere e giornalista algerino” che “sta riscrivendo – per sé e per noi –
in italiano” il suo romanzo “scritto e pubblicato in arabo-algerino”.
L’originale di Scontro, infatti, era stato scritto in arabo standard (fusha),
garantendo così al libro una distribuzione più ampia: uscito in Maghreb (ad
Algeri, nel 2004), vedrà la luce anche nel Mashrek (a Beirut, nel 2006)
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(Comberiati 2012: 235). Era invece stato il cosiddetto “arabo-algerino” (o
meglio: darija, una varietà regionale e vernacolare, ricca di parole francesi,
connotata come “magrebina” e poco accessibile, anche agli altri arabofoni) la
lingua del primissimo tentativo letterario di Lakhous, scritto in Algeria nel 1993
ma rimasto inedito a causa dell’inospitale clima intellettuale. Giunto in Italia,
Lakhous riesce a pubblicarlo in un’edizione bilingue, mantenendo l’arabo
vernacolare dei suoi connazionali “per una sorta di obbligo morale nei confronti
dei [suoi] amici assassinati” in Algeria (Lakhous 2011: 13).
Le cimici e il pirata/Al-baq w’al qurṣān (1999), il primo libro di Lakhous, oramai
introvabile, fu pubblicato a tiratura relativamente limitata (1000 esemplari) da
una piccola casa editrice romana, grazie all’aiuto della Casa dei Diritti Sociali4.
La traduzione italiana fu firmata dall’arabista Francesco Leggio, che all’epoca
aveva già al suo attivo La stagione della migrazione a nord, di Tayeb Salih,
apparso in italiano nel 1992. Questa parte sarà ripubblicata nel 2011, anno
della primavera araba, accompagnata da una introduzione di Lakhous e una
postfazione di Leggio. Il nuovo titolo (Un pirata piccolo piccolo) rimanda al film
Un borghese piccolo piccolo con Alberto Sordi, tratto dal romanzo di Vincenzo
Cerami. Il titolo è stato probabilmente suggerito dallo stesso Lakhous,
appassionato conoscitore della commedia all’italiana (Moll 2014: 183-186) e
promotore della traduzione di Cerami in arabo (Ruta 2008: 17).
Soffermiamoci un instante su questa edizione bilingue. Le due versioni
linguistiche non sono presentate, com’è consueto, a fronte, in modo da facilitare
l’andata e ritorno nel corso di una lettura stereoscopica, ma iniziano invece alle
due estremità del libro. Partendo da direzioni opposte (da sinistra in italiano, da
destra in arabo), i due testi non si accompagnano durante la lettura ma si
toccano soltanto nel mezzo fisico del libro, presentazione che evoca “la
presenza, vera o virtuale, di due lettori distinti” (Polezzi 2011: 23). Prima facie,
4 Le cimici e il pirata/Al-baq w’al qurṣān è stato pubblicato in versione bilingue dall’Associazione
culturale ARLEM (acronimo di Arte-LEtteratura-Media), un editore legato al Sindacato
Nazionale degli Autori che ha come scopo quello di distribuire “la loro opera prescindendo nella
misura del possibile dalla logica del mercato, in ogni caso prescindendo totalmente dalla logica
del profitto. Lo scopo di ARLEM è promuovere le opere dell’ingegno e i loro autori” (informazioni
fornite sul risvolto di copertina, di fronte al titolo (Lakhous 1999: online).
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la presenza di Francesco Leggio in quanto tramite, interprete e portaparola di
Amara Lakhous ricorda la situazione degli scrittori migranti di prima
generazione, di cui i testi venivano riletti (e a volte riscritti) da un madrelingua
prima di essere dati alle stampe. La scrittura “a quattro mani” aveva
caratterizzato il tandem di Pap Khouma e Oreste Pivetta (Io, venditore di
elefanti 1990) e quelli, ora produttivi ora controproducenti, formati da Saidou
Moussa Ba e Alessandro Micheletti (La promessa di Hamadi 1991), da Nassera
Chohra e Alessandra Atti di Sarro (Volevo diventare bianca 1993). Qui però, il
ruolo di Leggio è senz’altro più discreto: né ghost writer, né super-io linguistico,
Leggio non “indebolisce” (Burns 1998: 215-6) la posizione di Lakhous in quanto
autore. Lakhous si descrive come il “consulente”5 di Leggio piuttosto che come
il suo “informante nativo”, ruolo al quale erano di fatto ridotti gli autori migranti
menzionati. Grazie all’edizione bilingue, la voce di Leggio non si sovrappone a
quella di Lakhous. Le due voci rimangono distinte, ognuna nella propria corsia
parallela, visivamente separate dall’impaginazione descritta sopra, ognuna
rivolta a un pubblico diverso: quello italiano per Leggio, quello magrebino per
Lakhous.
Trascorrono non meno di cinque anni fra questa pubblicazione e la redazione di
Kayfa tarda’u min al-dhi’ba dūna an tarda’aka, il secondo romanzo di Lakhous.
Ambientato in Italia, nel quartiere di Roma dove si era stabilito l’autore, viene
scritto ancora una volta in arabo, anche se in fusha (piuttosto che in darija),
lingua che aveva imparato a scuola in Algeria. Tuttavia, se Lakhous non si
sente ancora abbastanza sicuro di sé da scrivere in italiano, la sua passione
per la lingua del suo paese adottivo è sufficiente per fargli prendere l’iniziativa
della traduzione. Così nasce Scontro (titolo trovato in corso di lavoro: all’inizio, il
manoscritto si intitolava, come in arabo, Come farti allattare dalla lupa senza
che ti morda). Maria Grazia Negro ci mostra un Lakhous che traduce “pagina
per pagina, senza dizionario” e apporta delle precisioni utilissime rispetto al suo
modus operandi:
5 “Io gli feci da consulente, soprattutto per alcune espressioni del dialetto algerino, di cui il
romanzo è pieno e il caso ha voluto che Francesco stesse preparando proprio in quel periodo la
sua tesi di dottorato sul dialetto nel romanzo maghrebino” (Lakhous 2011: online).
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Una volta finita la resa in italiano Lakhous distribuisce il manoscritto ad una
trentina d’amici che fanno il lavoro di editing e che gli consigliano una serie
di correzioni […]. L’autore lavora quindi contemporaneamente su trenta
stesure e questo può dare l’idea dello sforzo titanico che comporta la
riscrittura. Infine consegna un manoscritto unico alle Edizioni e/o6, che si
limitano a pubblicare il testo senza altre revisioni. L’editor Sandro Ferri non
interviene minimamente nella correzione, nella convinzione che l’unico vero
signore del testo è Amara Lakhous. (Negro 2006: online)
2. “Non l’ho tradotto, l’ho riscritto”
Ritorneremo più avanti sull’importanza di questo rapporto privilegiato nella
pratica autotraduttiva di Lakhous. Tuttavia, occorre precisare che, per lui, tale
pratica non esiste, almeno per quanto riguarda i suoi romanzi. Lakhous
sostiene ripetutamente che il legame tra la versione araba e quella italiana non
appartiene infatti alla sfera della traduzione. In un post da lui pubblicato nel
marzo 2013 sul sito altritaliani.net (consacrato agli “otheritalianos” nel mondo, di
ieri e di domani), per esempio, si può leggere quanto segue:
Il mio progetto letterario consiste nella scrittura di un romanzo in due
versioni. Ogni romanzo ha due versioni, una in arabo e l’altra in italiano. Il
mio primo romanzo, Scontro di civiltà per un ascensore in Piazza Vittorio, è
stato pubblicato in Algeria nel 2004, in arabo. Successivamente, l’ho
riscritto in italiano. Non l’ho tradotto, l’ho riscritto. Per due anni ho lavorato
su una trentina di versioni. (Lakhous 2013: online)
Oltre l’omissione del suo debutto bilingue (Le cimici e il pirata/Al-baq w’al
qurṣān) del 1999, notiamo l’ambiguità dell’ultima frase, che lascia intendere che
Lakhous stesso abbia rilavorato al testo italiano di Scontro una trentina di volte,
ovvero che ne esisterebbero pertanto trenta versioni successive (una cifra
degna di Madame Bovary!). In realtà, sappiamo che un solo testo di partenza,
fornito da Lakhous, è stato rivisto, annotato e corretto da una trentina di
6 Fondata nel 1979 da Sandro Ferri e la moglie Sandra Ozzola (i quali la dirigono tutt’oggi),
questa casa editrice romana si è specializzata nella letteratura est europea prima di aprirsi alla
World Literature anglofona e francofona. Oggi, è diventata molto conosciuta grazie al folgorante
successo di Elena Ferrante, da loro pubblicata dal 1992.
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persone diverse 7 , le cui proposte sono state infine vagliate dall’autore. È
evidente che non si tratti della stessa cosa. La riscrittura non ha né lo stesso
senso, né la stessa portata: trenta riscritture successive avrebbero allontanato
considerevolmente la versione finale dal punto di partenza. Qui invece, durante
la trentina di revisioni (quasi) simultanee che fecero gli amici di Lakhous, si
suppone si siano verificati dei controlli incrociati, specialmente nei punti del
testo più “problematici”, nelle cruces philologicae (per usare la terminologia
dell’emendatio dei testi antichi), in cui alcuni erano inciampati.
Forte di questa esperienza (molto originale, sebbene non unica negli annali
della storia della traduzione)8, Amara Lakhous decide di scrivere il romanzo
successivo, Divorzio all’islamica a viale Marconi, direttamente in italiano, una
lingua che sente sempre più sua. Contrariamente a quanto afferma a Suzanne
Ruta, questa scelta linguistica non viene motivata dalla diegesi del romanzo9
ma traduce una volontà di radicarsi nella lingua e nel paese adottivi. Mi sembra
che Lakhous potrebbe condividere l’opinione espressa da un altro scrittore
italo-algerino, Tahar Lamri, giunto in Italia una decina d’anni prima di lui:
Per me, scrivere in Italia, paese dove ho scelto di vivere e con-vivere,
vivere nella lingua italiana, convivere con essa e farla convivere con le altre
mie lingue materne (il dialetto algerino, l’arabo ed in un certo senso il
francese) significa forse creare in qualche modo l’illusione di avervi messo
radici. (Lamri 2003: online)
Salta agli occhi il “repertorio” (come dicono i sociolinguisti) condiviso dai due
7 Temendo il fallimento del suo “debutto italiano”, Lakhous decide di non nominare
esplicitamente questi suoi amici nel peritesto di Scontro; li ringrazierà però alla fine del romanzo
seguente (Lakhous 2010: 187).
8 Si pensi alla versione spagnola del romanzo Ferdydurke (si veda Ceccherelli 2014: 75-9),
preparata a Buenos Aires dallo stesso Witold Gombrowicz, notevolmente aiutato da un
“comitato” di amici scrittori ispanoamericani che nulla sapevano della lingua polacca (come la
maggioranza dei rilettori di Lakhous ignoravano l’arabo). Il loro contributo consisteva in una
revisione e una riscrittura collettive della faticosa traduzione spagnola che aveva preparato
Gombrowicz, il quale non era ancora riuscito ad appropriarsi lo spagnolo in modo sufficiente
(anche qui è possibile, mutatis mutandis, il paragone con Lakhous).
9 “Non ha senso che le persone parlino in arabo, visto che si svolge in Italia” (Ruta 2008: 16).
Valga quel che può valere questo ragionamento: non era forse in arabo la prima versione di
Scontro, pur ambientata a Roma e scritta in Italia?
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autori. Hanno a loro disposizione le stesse (varietà di) lingue, gli stessi
strumenti linguistici: il dialetto algerino, l’arabo, il francese, l’italiano (in ordine
cronologico). È altresì vero che, nel caso di Lamri, questo multilinguismo
biografico non si è tradotto in un bilinguismo propriamente letterario, cioè di
scrittura e di riscrittura fra due lingue. La preferenza dei due scrittori algerini è
andata all’italiano, una scelta da considerarsi positiva, un’elezione dell’italiano
insomma, non una condanna dell’arabo. Nel Pellegrinaggio della voce, Lamri
ha scritto parole spesso citate al riguardo:
Attraverso la lingua italiana, dove si coltiva l’illusione, a torto o a ragione,
che in essa convivono l’Europa della ragione e il mediterraneo della
passione e del cuore – poiché si sa che ogni progetto letterario in una
lingua neutra è sempre e prima di tutto un progetto emotivo –, passa l’idea
che la scrittura potrà forse un giorno, malgrado tutto, riunire ciò che la
storia ha separato. (Lamri 2003: online, corsivo mio)
In modo simile, Lakhous difende la sua preferenza per l’italiano dicendo che “la
scelta di una lingua è una decisione estetica, non una decisione politica” (Ruta
2008: 16). Non c’è dubbio che la scrittura translinguistica comporti
un’importante dimensione “emotiva” o “estetica”, ma ciò non toglie che, almeno
per gli scrittori d’origine maghrebina, l’italiano presenti il vantaggio non
trascurabile di permettere loro di evitare il francese, lingua così carica del
passato coloniale da rendere impossibile una scelta puramente “emotiva” o
“estetica”. Pur essendo Lakhous e anche Lamri troppo giovani per aver vissuto
le atrocità della guerra d’Algeria (1954-1962) – Lamri aveva quattro anni
durante l’indipendenza, Lakhous è nato otto anni dopo, pertanto la lingua
francese non può più rappresentare per loro il “bottino di guerra” di cui parlava
Kateb Yacine – non possono ancora utilizzarla come se fosse uno strumento
“neutro” (per riprendere il termine usato da Lamri per qualificare l’italiano).
Come fatto osservare da lui stesso nel saggio già citato, il francese, in quanto
“lingua di un’ex-potenza coloniale”, è un’arma a doppio taglio. Scrivere in
francese significa da una parte “essere letti da molte persone in Francia e fuori
dalla Francia”, cioè raggiungere un pubblico più ampio, ma dall’altra parte, si
corre il rischio di essere troppo letti, di “suscitare dibattiti o essere contestati e
condannati dai propri connazionali” (Lamri 2003: online), i quali non sono
generalmente in grado di leggere l’italiano, per esempio. Come è stato
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acutamente osservato da Jennifer Burns che riporta l’esempio di Lamri:
[…] la scelta dell’italiano da parte di scrittori di paesi francofoni espone un
rifiuto dell’intera storia coloniale e un invito a uno scambio linguistico in un
ambiente interculturale non più strutturato secondo la logica dell’impresa
coloniale. La lingua francese diventa un elemento del passato, la lingua
italiana un elemento [del] futuro. (Burns 2010: 132)
In questa configurazione dunque, scrivere in italiano è ipso facto una maniera di
non scrivere in francese. L’inclusione di una lingua implica l’esclusione di
un’altra, di modo che la scelta “positiva” dell’italiano ha anche un lato
“negativo”, che ne inverte i valori tonali (come fa l’immagine negativa di una
fotografia). Anche ammettendo la presunta “neutralità” dell’italiano (secondo un
leitmotiv nel discorso sulla letteratura dell’immigrazione formulato, come
abbiamo visto, dagli stessi scrittori) non lo può essere… Non può essere neutro
per due altri motivi, che si intrecciano, e che sono: 1) le aspirazioni coloniali
passate dell’Italia fascista (in Somalia, Eritrea o Libia… da dove provengono
certi altri scrittori “italofoni”) e soprattutto 2) la posizione semi-centrale che
occupa ancora oggi l’italiano nella “galassia delle lingue” (Abram de Swaan
2001).
È vero che a confronto delle lingue postcoloniali per eccellenza, il francese o
l’inglese, in italiano risulta più facile “accantonare le questioni macro-politiche” e
“mettere l’enfasi sulle negoziazioni micro-politiche” (Burns 2010: 129-130). Ciò
non impedisce tuttavia che scrivere in italiano dia accesso a una lingua
veicolare nel mercato europeo. Avverte Jennifer Burns (2010: 132) che la
“correlazione fra mobilità linguistica e mobilità socio-economica” fa dell’italiano
un vettore di promozione (“talking up” piuttosto che “talking back”) sia all’interno
della società italiana che sul piano internazionale. Oltre a permettere una
diffusione nazionale, la scelta dell’italiano (molto di più dell’arabo, infatti)
promette “l’inserimento, [almeno] potenziale, in un circuito mondiale”
(Quaquarelli 2011: 57-58) attraverso la traduzione, com’è peraltro successo con
i romanzi di Amara Lakhous.
Ecco rapidamente delineata la “situazione” (come direbbe Sartre), la
configurazione nella quale si situa la scelta da parte di Amara Lakhous di
riscrivere in italiano il suo romanzo arabo sull’immigrazione in Italia. Il suo
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percorso letterario, pur essendo individuale, illustra benissimo i rapporti
asimmetrici tra le lingue che egli ha a sua disposizione. Riesce a negoziare
questi rapporti attraverso l’autotraduzione, “rito di passaggio” (Beaujour) che
costituisce una vera transizione fra la scrittura in arabo e la creazione in
italiano. Con il terzo romanzo, concepito nei mesi in cui è in attesa della
cittadinanza italiana, Lakhous attraversa il Rubicone translinguistico. Non è
casuale, per esempio, che il titolo di questo romanzo giochi su un’intertestualità
“D.O.C” facendo riferimento al classico della commedia all’italiana per
eccellenza, Divorzio all’italiana (il cui attore principale, Marcello Mastroianni,
serve da modello per il protagonista del romanzo, Christian Mazzari, il quale
viene ribattezzato “il Marcello arabo” da Safia). Ed è proprio questa
intertestualità “italianissima”, lo vedremo in seguito, che Lakhous dovrà
modulare, cambiare, adattare quando vorrà riscrivere il romanzo in arabo.
Difatti, appena terminata la prima stesura di Divorzio in italiano, comincia a
prepararne la versione araba, senza però impedirsi di ritornare sul testo italiano,
così che si assiste alla genesi parallela e, al contempo, incrociata di due
versioni “gemelle”:
Invece con Divorzio all’islamica a viale Marconi, uscito nel 2010, ho fatto
una nuova esperienza. Ho scritto la prima stesura in italiano, poi ho aperto
il file sul computer e ho riscritto la versione italiana. Ogni tanto cambiavo la
tastiera, dall’arabo all’italiano e viceversa, scrivendo due versioni gemelle
dello stesso libro, con titoli e copertine differenti, la stessa trama e gli stessi
personaggi, anche se con nomi diversi. (D’Alessio 2014: online; cfr. Ray
2014: online)
Pur essendo “gemelle” perché “nate insieme”, le due versioni “non sono
identiche” secondo Lakhous. Sebbene non cambi il numero dei personaggi,
cambia il loro nome. Rimane anche intatta la diegesi del romanzo, ma viene
modificato il titolo. Questo cambio si può spiegare sia come una forma di
autocensura (a causa del riferimento esplicito al divorzio) che come
un’adattamento culturale (perché l’allusione al film con Mastroianni avrebbe
rischiato di perdersi). Infatti, Lakhous baratta un’intertestualità con un’altra: oltre
a rimandare al call center egiziano e all’operazione di spionaggio che si trovano
al centro della finzione romanzesca, il titolo della versione araba, Al-Qāhira al-
saghira (Il piccolo Cairo), allude chiaramente a uno dei primi romanzi – Al-
13
Qāhira al-jadīda (1945) o Il nuovo Cairo – dell’unico premio Nobel arabo,
l’Egiziano Nagib Mahfuz.
Le differenze con il primo progetto autotraduttivo di Lakhous sono notevoli.
Contrariamente a quanto successe nella genesi di Scontro (che aveva coinvolto
una trentina di persone…), l’impresa non è “collettiva” questa volta: l’autore
lavora da solo o quasi (si suppone che abbia consultato almeno il suo editore).
La seconda differenza è di carattere temporale, cioè riguarda la cronologia di
redazione. Scontro era basato su un testo già completato e pubblicato,
rendendo perciò l’autotraduzione “differita” (come si parla di una “trasmissione
differita” in TV). Qui invece, le due versioni sono molto più ravvicinate, tanto da
comprometterne lo status rispettivo di “originale” e “copia” anche dal punto di
vista cronologico. Senza arrivare a essere “simultanea” in senso stretto, Il
piccolo Cairo è un’autotraduzione di tipo “consecutivo”10, la quale presuppone e
permette un altro tipo di lavoro sul/i testo/i. Infine, come non notare l’inversione
(rispetto al caso precedente) tra lingua di partenza e lingua di arrivo? Lakhous
abbandona l’agio di una lingua appresa alla scuola elementare, l’arabo
(ricordiamo che è di madrelingua berbera), per avventurarsi nell’italiano, lingua
che ha dovuto conquistare da adulto. Questo apprendimento (sia linguistico che
culturale) Lakhous non lo presenta tanto come un’iniziazione quanto come una
lotta: “nessuno mi ha aiutato in questo processo. È stata una cosa che ho
conquistato giorno dopo giorno, andando a studiare, a lavorare, e l’ho
conquistata da solo” (Calabretta-Sajder 2014: 13). Senza testo di partenza
diciamo “affidabile”, poiché redatto in una lingua pienamente padroneggiata
come l’arabo, Lakhous si getta simbolicamente in acqua senza salvagente
quando scrive direttamente in italiano, una lingua per lui (e
contemporaneamente da lui) deterritorializzata. Ritradursi dall’italiano in arabo
non rappresenta dunque un illusorio ritorno alle origini, ma un modo di
riterritorializzarsi; non un tentativo di riancorarsi, ma un ritrovare la familiarità
della vecchia riva dopo l’abbandono della riva scoperta più di recente
(riprendendo la metafora della riva che, per quanto discutibile, viene utilizzata
10 Per la tipologia “differita-consecutiva-simultanea”, si veda Grutman (2015: 119-23, dove si
sviluppa lo schema proposto in Grutman 1998).
14
dallo stesso Lakhous)11.
3. “Arabizzo l’italiano e italianizzo l’arabo”
Il cambio di direzione nel processo autotraduttivo ha un altro vantaggio: quello
di consentire di fare la spola tra le lingue e i paesi in cui i testi circolano,
occupando così una posizione intermedia. Questa posizione, che per Lakhous
rappresenta anche una posta in gioco, sta molto a cuore allo scrittore, come
evidenziato sia dalle sue opere creative che dal discorso che le accompagna. I
suoi personaggi, per esempio, sono spesso passatori dotati di una doppia
identità. In Scontro, l’algerino Ahmed ha piena padronanza dell’italiano (tanto
da parlarla senza “accento straniero”) e esercita il mestiere di traduttore; in
Divorzio, Christian Mazzari è un siciliano che parla perfettamente l’arabo
tunisino e lavora come interprete al palazzo di giustizia di Palermo. A causa di
un capriccio linguistico (la tendenza romana all’apocope), la maggior parte dei
personaggi italiani di Scontro crede erroneamente che il nome di Ahmed sia
Amede’ (forma abbreviata di Amedeo), scambiandolo quindi per un italiano. In
Divorzio, il cristiano Christian si fa passare per un musulmano di nome Issa
(ossia Gesù in arabo).
A mia conoscenza, Lakhous non ha mai pubblicato sotto pseudonimo,
diversamente da quanto fatto da altri scrittori bilingui: Isak Dinesen/Karen Blixen
in Danimarca, Jean Ray/John Flanders in Belgio. Egli, tuttavia, si dedica
ugualmente alla mediazione interculturale, sia creando ponti sul piano
istituzionale che “creolizzando” le sue due lingue letterarie:
Ho cercato [confida a Emanuela D’Alessio nel giugno 2014] di creare ponti,
soprattutto sul piano letterario, perché sono uno scrittore bilingue, scrivo
anche in arabo. Ho cercato di far conoscere la cultura italiana in Algeria e
nel mondo arabo e di far conoscere la cultura araba in Italia. È questo il mio
lavoro di intellettuale. Imparare a scrivere in una nuova lingua è stata una
bellissima esperienza, come se fossi rinato un’altra volta. Sul piano
linguistico cerco di compiere uno sforzo ulteriore, arabizzando l’italiano e
italianizzando l’arabo, e scoprire così una via per l’originalità. Non ci sono,
11 “La traduzione è un viaggio per mare da una riva all’altra” (Lakhous 2006: 155).
15
infatti, autori che scrivono in questo modo. Ho alcuni amici arabi che
scrivono racconti in italiano, ma scrivere romanzi con una certa continuità
nelle due lingue e rafforzare questo bilinguismo letterario è un caso
senz’altro particolare. (D’Alessio 2014: online)
Queste ultime dichiarazioni andrebbero indubbiamente rivedute alla luce di
quanto sappiamo oggi riguardo all’autotraduzione (si vedano, per limitarci alle
pubblicazioni in italiano, Ferraro 2011; Rubio Arquez, D’Antuono 2012;
Ceccherelli et al. 2013). Così, tra i connazionali di Lakhous, si trova almeno uno
scrittore bilingue che ha sperimentato l’autotraduzione a diverse riprese. La
carriera di Rachid Boudjedra (anche lui berbero), iniziata con molto successo in
Francia e in francese, comprenderà in seguito un vero e proprio andirivieni tra il
francese e l’arabo, comprese le autotraduzioni in entrambi i sensi (è questo il
caso di una mezza dozzina di romanzi, senza contare quelli per cui Boudjedra
si è fatto aiutare dal prete libanese Antoine Moussalli). Boudjedra non è
sconosciuto in Italia: almeno cinque suoi romanzi sono stati tradotti in italiano
fra 1989 e 1996 (Guardi 2005: 94-97). In questi stessi anni di “scoperta” della
letteratura araba dopo l’attribuzione del Nobel a Mahfuz, nel 1988, viene
affidata a Boudjedra l’introduzione di un’opera pioneristica della scrittura
migrante in Italia: Pantanella. Canto lungo la strada (1993) del tunisino Mohsen
Melliti (Burns 1998: 226-33). Scritto inizialmente in arabo ma pubblicato soltanto
(a quanto pare) in italiano, questo romanzo è incentrato su un edificio di Roma,
che vi svolge la funzione di cronotopo12. Il narratore, il giovane Ahmad, ha una
ragazza italiana (come Ahmed in Scontro) e finisce per suicidarsi – una sorte
che viene attribuita da alcuni lettori anche al personaggio di Lakhous, il quale
tuttavia preferisce mantenere un po’ di mistero al riguardo (Ruta 2008: 17).
Melliti non si è autotradotto13. È stata la sua insegnante di italiano, Monica
12 Questo processo è molto frequente in Nagib Mahfuz, considerato da Lakhous “un maestro
per tante generazioni di romanzieri arabi” e verso il quale ammette di avere un debito: “da
Mahfuz ho imparato tantissimo: ad esempio, la nozione dello spazio come protagonista del
romanzo […]. Quindi non è casuale la mia scelta di mettere i luoghi (piazza Vittorio e viale
Marconi) nei titoli dei miei romanzi” (Brogi 2011: online).
13 Con l’eccezione di Lakhous, gli autotraduttori migranti italofoni si trovano soprattutto nella
poesia (si veda Gnisci 2003: 9-10; Comberiati 2010: 100-101, 205-208; Gjurčinova 2013;
Pezzarossa 2014: 141). Il camerunense Ndjock Ngana Yogo (“Teodoro”) ha autotradotto
numerose poesie italiane nella lingua-madre bantou (basàa, più esattamente). L’autotraduzione
16
Ruocco, che conosceva l’arabo, a produrre, a partire dal manoscritto fornito da
Melliti, la versione italiana data alle stampe. Non volendo “banalizzare” la lingua
dello scrittore migrante (il quale sarà stato probabilmente consultato dalla
Ruocco, del resto), la traduzione “contiene una contaminazione linguistica tra
l’italiano e l’arabo volta a raffigurare una lingua italiana ibrida” (Parati 2005: 72).
Si ricorda che è proprio questo il progetto interculturale di Amara Lakhous.
Difatti, quando egli parla di “arabizzare l’italiano” (e viceversa), intende:
anche portare l’immaginario da una riva all’altra del Mediterraneo non
soltanto nel senso dell’incontro tra le culture, ma pure nel senso della
riscoperta di una memoria comune. Perché io come autore arabo che
scrive in italiano non vengo ma torno in Italia, che è un luogo abitato dalla
cultura araba da secoli e secoli, tanto che, per limitarmi a un paio di
esempi, Sciascia e Racalmuto sono parole di origine araba. (Brogi 2011:
online)
Quello di Lakhous non è uno sbarco in Italia (nello specifico, in Sicilia) ma, in
qualche modo, un ritorno a casa propria, poiché per lui l’arabo è il palinsesto
soggiacente alla toponimia e all’onomastica siciliana. Sarà forse un caso che
Lakhous menzioni Racalmuto, il paese natale di Leonardo Sciascia (di cui uno
dei premi letterari vinti da Scontro porta il nome)? Il radicamento “italianissimo”
del suo discorso illustra la superficialità di una metafora come quella del
passatore tra due rive. Il mediatore interculturale non si trova mai veramente in
una terra di nessuno, tra due trincee, o sospeso in assenza di gravità, ma è
vincolato (ovviamente, in misura diversa) alle culture che mette in relazione.
Questo vincolo viene rinegoziato, di volta in volta, a seconda delle diverse
posizioni da lui occupate, fra l’altro, tramite l’(auto)costruzione di un’immagine di
mediatore interculturale nel campo della letteratura italiana.
È principalmente in Italia, infatti, che si trova la rete letteraria di Lakhous (la lista
delle persone ringraziate alla fine dei suoi romanzi ne è ulteriore prova). È lì che
continua a pubblicare e ad essere letto. È nei confini di questo campo nazionale
che si situa e prende la parola Lakhous (a partire dalla posizione che vi occupa
e difende). Non è quindi sorprendente che applichi il suo progetto di
verso l’italiano, invece, è praticata dalla brasiliana Marcia Theophilo e dall’albanese Gëzim
Hajdari, vincitore del prestigioso premio Montale.
17
creolizzazione all’Italia, e mai alla Francia, paese del quale non occorre
ricordare la lunga presenza in Algeria o il conseguente complesso rapporto con
la comunità algerina nell’“Esagono” francese. Pur avendo vissuto un anno a
Parigi (dopo aver lasciato l’Italia e prima di salpare alla volta di New York, nel
2014) e nonostante la sua padronanza del francese, Amara Lakhous non è
neanche tentato di rivedere le traduzioni francesi dei suoi romanzi. Si fida della
sua traduttrice, Élise Gruau, la quale lavora (come, d’altronde, tutti gli altri suoi
traduttori) partendo dal testo italiano, anche quando quest’ultimo nasconde un
altro originale in arabo (come succede con Scontro). In italiano, lingua con la
quale si identifica maggiormente (si descrive spesso come “cittadino della
lingua italiana”), Lakhous si considera, invece, il proprietario esclusivo dei testi,
sia che questi siano stati scritti direttamente in questa lingua che tradotti
dall’arabo da lui stesso.
4. “Non sono un traduttore. Sono l’autore”
La resistenza all’idea di, e persino alla parola, “traduzione” è sintomatica della
postura d’autore di Lakhous. Parlando di Divorzio all’islamica, afferma di aver
“scritto questo romanzo in italiano, poi […] riscritto in arabo”, prima di
aggiungere: “in Italia, sono l’unico romanziere che scrive in italiano e che
riscrive le proprie opere in arabo. […] è un lavoro di riscrittura che si fonda
principalmente sull’adattamento, volto a comunicare con i lettori” (Lakhous
2013: online). Nelle interviste rilasciate in italiano (a Claudia Esposito, Meredith
Ray e Emanuela D’Alessio…) si lascia peraltro (un po’ troppo?) volentieri
trasportare dalla paronimia tra i verbi tradurre e tradire per ribadire che,
riscrivendosi, non si è affatto “tradotto”, ma piuttosto “tradito”. Ben più
interessante del rilancio di questo vecchio cliché è il contrasto tra traduzione
(rifiutata) e creazione (rivendicata, con tutte le connotazioni demiurgiche qui
associate). Questo costrutto trova la sua controparte nell’opposizione
ugualmente dicotomica tra le figure dell’Autore e del Traduttore. A riguardo
dell’autotraduzione araba di Divorzio, Lakhous dice a Meredith Ray:
Questo lavoro mette davvero in discussione l’intero concetto di traduzione,
nel senso che io non sono un traduttore. Sono l’autore e l’autore può fare
18
ciò che vuole. Il traduttore non può aggiungere o tagliar fuori personaggi,
per esempio, o rimuovere delle sezioni e aggiungerne altre o, ancora,
aggiungere personaggi o cambiarne i nomi. Il titolo, forse, se occorre
trovare un titolo migliore. In realtà, quello che faccio, più che tradurre è
tradire. Tradisco il testo originale. Aggiungo cose, ne elimino altre. Si tratta
piuttosto di un atto creativo, un atto di riscrittura, non di traduzione. Quindi,
alla fine, si hanno dei testi gemelli, aventi una stessa madre e padre – ma
forse uno è un maschio e l’altra una femmina, uno alto, l’altro basso – ma
non sono identici. Non sono gemelli identici. (Ray 2014: online)
La frase “io non sono un traduttore”, decontestualizzata, potrebbe essere
interpretata come un’ammissione di ignoranza o di incompetenza. Quando si
dice, per esempio: “non sono un medico/avvocato/idraulico/elettricista”, si
intende più o meno “non ho né la formazione, né le competenze per il compito
in questione”. Non è questo il caso esposto, evidentemente. Qui, la figura del
traduttore serve da contrasto o, al limite, da spalla: è il personaggio secondario
il cui ruolo è solo quello di mettere in risalto il vero protagonista della storia.
Quest’ultimo, secondo Lakhous, non può che essere l’autore: l’unico
depositario della licenza poetica, l’unico autorizzato a riscrivere, a travestire o a
“tradire” l’originale.
Sarebbe sbagliato credere che questa opposizione assiologica tra traduzione e
autotraduzione sia propria di Lakhous o che riguardi unicamente la scrittura
migrante o postcoloniale, o solo l’Italia. L’idea che le traduzioni autografe siano
caratterizzate da una maggiore libertà è tutt’ora particolarmente diffusa. Al
contempo, la traduzione allografa viene spesso e volentieri relegata a un
“idealtipo”, nel senso weberiano, se non alla fantasia. Essa diventa l’Altro
dell’auto-traduzione, che diventa quindi l’eccezione alla “semplice” traduzione:
“è piuttosto un atto creativo, un atto di riscrittura, non di traduzione”, afferma
Lakhous. Tuttavia (non più di altri autotraduttori che adottano la sua stessa
posizione), non si preoccupa di verificare l’esistenza di questa norma.
Affermazioni quali “il traduttore non può aggiungere o tagliar fuori personaggi
[…] o rimuovere delle sezioni e aggiungerne altre o, ancora, aggiungere
personaggi o cambiarne i nomi”, sono petizioni di principio; non si basano
affatto sull’analisi della realtà testuale delle traduzioni.
Tale analisi richiederebbe, però, molteplici sfumature. L’unico luogo in cui
19
Lakhous acconsente all’intervento del traduttore è il titolo (“per trovare un titolo
migliore”)… Orbene, è appunto il titolo una parte del testo in cui è consueto che
intervenga il traduttore. Ne è un esempio (fra tantissimi) il già citato romanzo di
Mahfuz, Al-Qāhira al jadida, il cui titolo presenta forti variazioni nelle diverse
traduzioni14. Si va dalle corrispondenze dirette (El Cairo Nuevo in spagnolo, O
Cairo Novo in portoghese, Nieuw Caïro in nederlandese) alle lievi inflessioni
della traduzione americana (Cairo Modern) e tedesca (Das junge Kairo), fino
alle vere e proprie deviazioni: in francese, per esempio, la traduzione si intitola
La Belle du Caire, e cosa pensare del titolo greco Αδίσταχτος έρωτας,
traducibile come “passione (érotas) senza scrupoli”? Questi cambiamenti
(lascio al lettore il compito di decidere se si tratta di miglioramenti o meno) sono
stati apportati in funzione delle aspettative del pubblico immaginate dal
traduttore (o dall’editore). Sembra quindi applicabile quanto asserito da
Lakhous (2013) riguardo alla propria attività: “è un lavoro di riscrittura che si
fonda principalmente sull’adattamento, volto a comunicare con i lettori”.
Le libertà prese quasi di routine dai traduttori vanno, ciononostante, ben al di là
del semplice titolo. Sarebbe sbagliato affermare (o ingenuo crederlo) che il
numero di personaggi o di sezioni, ecc., non vengano mai toccati. Il vasto
corpus di traduzioni francesi di Shakespeare è ricco di controesempi. Ma anche
senza abbandonare il campo dell’arabo, si può pensare alle mille e una
alterazioni subite dal testo iniziale nelle più celebri traduzioni del Libro delle
mille notti e una notte (per dare una traduzione letterale del titolo arabo Kitāb
ʾAlf Laylah wa-Laylah), sia quella curata in francese da Antoine Galland
(all’inizio del Settecento) che quella inglese di Sir Richard F. Burton (all’epoca
vittoriana).
Lungi dal “manipolare” il testo di partenza come lo fecero Galland, Burton o
tanti autori responsabili di Belles Infidèles, opere non solo tradotte ma “rifatte”,
Lakhous sembra essersi accontentato di adattare il titolo, il nome di (alcuni)
personaggi e certi proverbi. Per poter verificare questa impressione basata sulle
14 Titoli basati sulla seguente lista: https://www.goodreads.com/work/editions/4640892. Da
notare che la traduzione italiana indicata qui (e su wikipedia), Per le strade del Cairo, è in realtà
la traduzione indiretta (passando per l’inglese) di un altro romanzo di Mahfuz: Khan al-Khalili
(1946).
20
dichiarazioni dello stesso Lakhous, occorrerebbero analisi comparative delle
sue autotraduzioni. Ne esiste soltanto una, per quanto io sappia, cioè la lettura
dettagliata fatta da Maria Grazia Negro delle versioni araba e italiana di Come
farti allattare…, una lettura importante, della quale mi permetto di citare un
lungo estratto:
La trama e lo svolgimento narrativo sono infatti identici: identico il numero
di protagonisti, identico il loro nome ad eccezione della badante peruviana
[…]. Identica anche la strutturazione in capitoli che contengono le versioni
dei fatti raccontate dai vari personaggi […]. Nell’originale arabo però tra
ogni paragrafo e l’altro del resoconto dei personaggi si trovano
regolarmente un punto di domanda e dei puntini di sospensione […]. Anche
le date che scandiscono le riflessioni espresse dagli ululati di Amedeo non
corrispondono perfettamente nelle due versioni, c’è qualche piccola
differenza nell’indicazione dei giorni e delle ore, in ogni caso il risultato
complessivo è identico. (Negro 2006: online)
A mio avviso, il confronto rivela che 1) le somiglianze superano le differenze e
che 2) queste ultime rientrano nella classe delle “esplicitazioni” (un
procedimento che si considera oggi come una tendenza quasi “universale” nel
tradurre: si veda Laviosa 1998 e, in italiano, Salsnik 2007: 104, 109-10). Se
anche vi è “riscrittura”, essa appare più “timida”, diciamo, di quanto lascia
intendere l’autore quando esalta la propria libertà d’azione: “l’autore può fare
quel che vuole”.
Se, a un esame approfondito, la convinzione dell’autore di avere carta bianca
non trova riscontro concreto nei testi, su cosa si basa? O piuttosto: a che cosa
serve? È qui che interviene la nozione di postura, di autopresentazione allo
scopo di occupare (o difendere) una posizione. Domandandosi chi sia il
beneficiario (cui bono?), ci si rende subito conto che è il personaggio, il ruolo, la
maschera (pensando all’etimologia della parola latina persona) dell’autore che
mette in scena l’autotraduttore. Questo ruolo viene assunto alle spese di quello
del traduttore, il cui lavoro viene accantonato in quanto troppo “semplice”: “non
si tratta di una semplice auto-traduzione”, dice Lakhous a Cristina Ali Farah
(un’altra figura chiave della letteratura postcoloniale in Italia) in merito al
progetto di tradurre Kayfa tarda’u min al-dhi’ba dūna an tarda’aka). In questo
caso, l’aggettivo qualificativo (“semplice”) scredita l’attività traduttrice e, per
metonimia, l’individuo che vi si dedica.
21
Lo status di riscrittura rivendicato da Amara Lakhous per le sue autotraduzioni
non dipende tanto, allora, dal suo modus operandi (pur essendo a volte
particolare), quanto al suo status di “agente” (Bourdieu) privilegiato del campo
letterario. È quanto emerge dalla risposta data a Cristina Ali Farah quando essa
gli chiede “che cosa intendi quando dici che riscrivi il tuo romanzo in italiano?”.
È un processo lungo che prevede diverse fasi. Prima scrivo il mio testo in
arabo. Poi dico che lo riscrivo in italiano, perché non si tratta di una
semplice auto-traduzione, non essendo obbligato a rispettare il testo
originale, lo ricreo a mio piacimento. In tal senso godo di una libertà che il
traduttore normalmente non ha. (Ali Farah 2005: online)
La parola chiave è la “libertà” di agire a proprio piacimento di cui “gode” l’autore
dell’originale, figura d’autori(ali)tà provvista di agentività (agency). In teoria,
queste stesse libertà e agentività sono negate al traduttore, il quale è invitato a
mettersi al servizio altrui (dell’autore) e quindi a sottomettersi alla volontà altrui
(dell’autore, ma anche dell’editore). Rivelatore, a questo riguardo, il paragone
fatto da Lakhous con il giuramento di Ippocrate:
La traduzione è un codice deontologico. È un po’ come per i medici. Se il
tuo peggior nemico sta per morire e tu sei medico, devi lasciare da parte il
lato personale e cercare di salvare l’assistito. Il traduttore non può e non
deve cambiare il testo. […] Il traduttore fa solo da intermediario, da
interprete, tra due persone che parlano due lingue diverse e non si
capiscono. Deve solo trasmettere quello che dice lo scrittore. (Calabretta-
Sajder 2014: 8-9)
Lakhous è perfettamente cosciente delle questioni di potere e di controllo, di
fiducia e di diffidenza, inerenti alle relazioni spesso asimmetriche fra i diversi
attori della vita culturale. Fra questi attori, l’editor (molto di più del traduttore, il
quale è dunque sottovalutato) rappresenta una vera minaccia per la libertà
d’autore. Nell’intervista rilasciata a Cristina Ali Farah nel 2005, ossia all’inizio
della sua carriera (all’epoca in cui Lakhous stava “riscrivendo” Come farti
allattare e quindi prima che fosse riconosciuto e celebrato come “scrittore
migrante”), possiamo leggere questa confidenza:
Io preferisco non dare il mio testo ad un editor di una casa editrice che ne
può fare quello che vuole. Questo è noto e succede ai migliori scrittori,
soprattutto per quel che riguarda la struttura del linguaggio. Ci sono autori
che riescono a negoziare, perché alla fine si tratta di una questione di
22
potere. Credo che la decolonizzazione consista in questo, nel non lasciarsi
colonizzare da altri. Voglio essere io il comandante della nave. Sono io che
decido quali modifiche apportare al mio testo. (Ali Farah 2005: online)
L’editore al quale decide di inviare il manoscritto di Scontro (un testo finale,
giacché controllato da tanti amici italiani, come abbiamo visto) è la casa editrice
romana diretta dalla coppia Ferri-Ozzola, le Edizioni e/o. In una testimonianza
molto più recente (a Emanuela D’Alessio nel giugno 2014), Lakhous sostiene di
avere “un rapporto bellissimo” con e/o ma aggiunge subito che “non è nato per
caso”:
Per anni, da lettore, ho seguito il mondo editoriale italiano e mi sono
accorto che questa casa editrice era ideale per me, ho iniziato a
corteggiarla. All’epoca lavoravo all’agenzia di stampa Adnkronos e mi
occupavo anche di cultura e libri per la parte araba. Lessi il romanzo La
stella di Algeri dello scrittore algerino Aziz Chouaki [pubblicato da e/o nel
2003 nella traduzione di Silvia Ballestra e vincitore del premio Flaiano
l’anno dopo], mi piacque molto e decisi di intervistarlo, presi contatto con
l’ufficio stampa di e/o e così è iniziata la “storia”. Sono anche molto
fortunato, perché con Sandro Ferri ho un rapporto diretto, è lui il primo a
leggere i miei testi. Una opportunità che pochi autori penso abbiano di
questi tempi. (D’Alessio 2014: online)
Si intende meglio pertanto il motivo per cui Amara Lakhous rifiuta la condizione
servile, l’assoggettamento e la colonizzazione che egli associa al compito del
traduttore, che “fa solo da intermediario” e “deve solo trasmettere quello che
dice lo scrittore” (corsivo mio). Lui, invece, intende fin dall’inizio emanciparsi
dalla dipendenza altrui, dal centro, decolonizzarsi. Pretendendo il diritto a
tradirsi piuttosto che a tradursi, rivendica il diritto a tradursi senza tradirsi e
senza assoggettare né se stesso, né i membri della sua etnia (gli Imazighen), le
cui origini risalgono nei suoi romanzi fino a Giugurta, re berbero “tradito”15 poi
trasferito alle carceri dell’antica Roma, quindi morso mortalmente dalla lupa
invece di esser allattato da lei.
15 Nel “Settimo ululato” di Ahmed, dopo la visita al “carcere Mamertino vicino al Colosseo”, si
può leggere: “è stato molto emozionante. In quel luogo, nel 104 a.C., il nostro grande guerriero
Giugurta è morto dopo avere trascorso sei giorni senza cibo né acqua. Maledetti traditori”
(Lakhous 2006: 88, corsivo mio).
23
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