Noemi Corlito - La magia al femminile

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Indice

1. RITRATTI DI DONNA…NOCIVA ............................................................................................................... 3

2. LE PROFESSIONISTE DELLA MAGIA: SAGA ............................................................................................. 9

3. LE PROFESSIONISTE DELLA MAGIA: ANUS ............................................................................................ 14

BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 21

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1. Ritratti di donna…nociva

Un tratto che caratterizza le testimonianze della letteratura e della paraletteratura latina è

quello che dà largo spazio alla presenza della figura femminile quando con rapidità ci si vuole

riferire a chi opera nel campo della magia: a parte il corrispondente femminile del termine magus,

ossia maga, si offrono all’attenzione del lettore sostantivi altri, quali saga e venefica, affiancati da

un termine, anus, che, per quanto in latino designi automaticamente ‘la vecchia’, non manca

però, in talune occorrenze testuali, di concentrare in sé insieme e la figura di una donna anziana e

la figura di una donna da lungo tempo esperta di pratiche magiche: insomma di fronte a questa

tipologia di anus si pensa immediatamente a quella che oggi definiremmo una vecchia

fattucchiera. Del resto, è il mito stesso che ci presenta famose figure femminili (si pensi a Circe, a

Medea o a Deianira) la cui familiarità con le erbe ‘magiche’ le colloca agevolmente nella

categoria dei ‘raccoglitori di erbe’ (in greco rhizotomoi). Sono per lo più le donne a vantarsi -

quando indossano gli abiti di una maga - di influenzare gli astri e il loro corso o di provocare le

eclissi di luna (la frase formulare in questo caso è deducere lunam, ossia “trascinare giù la luna”).

Scrive Francesca Formica1:

“Il carattere magico delle donne dipende strettamente dalla loro qualificazione sociale,

cioè dai sentimenti sociali di cui sono oggetto le loro qualità. In specifici periodi della loro vita esse

provocano, infatti, stupori e apprensioni: durante le regole mensili, nella gestazione e in occasione

dei parti, oppure nella menopausa, le loro virtù magiche raggiungono la maggiore intensità”.

L’attribuzione alle donne di una fitta serie di effetti che rasentano il soprannaturale

costituisce la premessa perché nell’immaginario esse possano essere ritenute capaci di sovvertire

le leggi di natura. In questa prospettiva il resoconto fatto da Plinio il Vecchio si fa chiarificatore di

quell’alone di mistero che circonda la figura femminile, rendendola sospetta e pericolosa.

1 Formica 2005, 8.

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TESTO 1. Plinio il Vecchio, Storia Naturale XXVIII,77

Iam primum abigi grandines turbinesque contra fulgura ipsa mense nudato; sic averti

violentiam caeli, in navigando quidem tempestates etiam sine menstruis. ex ipsis vero mensibus,

monstrificis alias, ut suo loco indicavimus, dira et infanda vaticinantur, e quibus dixisse non pudeat,

si in defectus lunae solisve congruat vis illa, inremediabilem fieri, non segnius et in silente luna,

coitusque tum maribus exitiales esse atque pestiferos, purpuram quoque eo tempore ab iis pollui;

tanto vim esse maiorem. quocumque autem alio menstruo si nudatae segetem ambiant, urucas et

vermiculos scarabaeosque ac noxia alia decidere Metrodorus Scepsius in Cappadocia inventum

prodit ob multitudinem cantharidum; ire ergo per media arva retectis super clunes vestibus. alibi

servatur, ut nudis pedibus eant capillo cinctuque dissoluto. cavendum ne id oriente sole faciant,

sementiva enim arescere, item novella tactu in perpetuum laedi, rutam et hederam, res

medicatissimas, ilico mori. multa diximus de hac violentia, sed praeter illa certum est, apes tactis

alvariis fugere; lina, cum coquantur, nigrescere; aciem in cultris tonsorum hebetari; aes contactu

grave virus odoris accipere et aeruginem, magis si decrescente luna id accidat; equas, si sint

gravidae, tactas abortum pati, quin et aspectu omnino, quamvis procul visas, si purgatio illa post

virginitatem prima sit aut in virgine aetatis sponte manet.

“Anzitutto dicono che il sangue mestruale esposto di fronte alle saette allontana la

grandine e i turbini: così si placherebbe la furia degli elementi; basterebbe poi a stornare le

tempeste durante la navigazione il denudarsi di una donna anche non mestruata. Dalle

mestruazioni che producono per altri versi effetti soprannaturali, come a suo luogo dicemmo, si

traggono presagi sinistri ed esecrabili, tra i quali si potrebbero citare senza vergogna i seguenti: se

quella forza misteriosa del sangue coincide con una eclissi di luna o di sole, contro di essa non c’è

riparo, né gli effetti sono minori durante il novilunio; allora per i maschi i rapporti sessuali sono

rovinosi e funesti, addirittura in quel periodo la donna mestruata macchia la porpora, tanto

maggiore è allora la potenza del flusso. Quanto poi alla notizia secondo cui, in qualsiasi altro

momento venga il mestruo, se le donne indisposte percorrono nude il perimetro di un campo di

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grano, cadono dalle spighe i bruchi, i piccoli vermi, gli scarabei e gli altri insetti nocivi, ciò fu

scoperto, secondo Metrodoro di Scepsi, in Cappadocia a seguito di una invasione di cantaridi; per

questo - egli dice - le donne di quella regione hanno preso l’abitudine di attraversare i campi con

le vesti rialzate sopra le natiche. Altrove vige l’usanza di andare in giro a piedi nudi, coi capelli

sciolti e la cintura slacciata. Ma bisogna stare attenti che queste donne non lo facciano al sorgere

del sole, altrimenti - dicono - si seccano le sementi, come pure, al loro contatto, le viti novelle

vanno irrimediabilmente in rovina, la ruta e l’edera, pregiate erbe medicamentose, muoiono

all’istante. Con ciò abbiamo detto molte cose su questa forza micidiale delle mestruazioni; ma è

anche certo che se una donna in tale stato tocca gli alveari, le api fuggono via, al suo contatto il

lino, durante la cottura, annerisce, il filo del rasoio dei barbieri si spunta, il rame prende un odore

fetido molto forte e si trasforma in verderame, particolarmente se il fatto capita in fase di luna

calante; le cavalle, se gravide, abortiscono, anzi a provocare questo incidente basterebbe

addirittura lo sguardo della donna mestruata, anche da lontano, se quella è la prima mestruazione

dopo la perdita della verginità o in una vergine la prima in senso assoluto a ragione dell’età”.

Ad accrescere poi il sospetto che le maghe fossero capaci dei peggiori crimini contribuiva

anche la descrizione del loro aspetto così come viene fuori dai passi latini dove l’intellettuale di

turno indugia nel riportare i segni esteriori della loro malvagità: dalla pelle rugosa ai denti rosi e

lividi, dalle lunghe unghie adunche alle vipere che si attorcigliano intorno ai loro capelli il ritratto

che viene fuori è di quelli che inquietano e fanno presagire atroci sventure. Ne sono testimonianza

il TESTO 2 e il TESTO 3: nel primo agisce la maga Canidia, il cui orrendo aspetto è propedeutico al

rito macabro sul corpo di un fanciullo; nel secondo è in azione la maga Eritto, la cui ‘confidenza’

con i morti e i cimiteri ispira paura e orrore.

TESTO 2. Orazio, epodo 5,15-24

Canidia brevibus inplicata viperis

crinis et incomptum caput

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iubet sepulcris caprificos erutas,

iubet cupressos funebris

et uncta turpis ova ranae sanguine

plumamque nocturnae strigis

herbasque quas Iolcos atque Hiberia

mittit venenorum ferax,

et ossa ab ore rapta ieiunae canis

flammis aduri Colchicis.

“Allora Canidia, i capelli avviluppati di piccole vipere, la testa arruffata, comanda di

bruciare con fiamme della Colchide caprifichi strappati ai sepolcri, cipressi funebri, uova di viscida

rana sporche di sangue, penne di uccello notturno, erbe venute da Iolco e dall’Iberia, feconda di

veleni, ossa strappate alla bocca di cagna digiuna”.

TESTO 3. Lucano, La guerra civile VI,517-522

…………………………. tenet ora profanae

foeda situ macies, caeloque ignota sereno

terribilis Stygio facies pallore grauatur

inpexis onerata comis: si nimbus et atrae

sidera subducunt nubes, tunc Thessala nudis

egreditur bustis nocturnaque fulmina captat.

semina fecundae segetis calcata perussit

et non letiferas spirando perdidit auras.

nec superos orat nec cantu supplice numen

“Una magrezza spaventosa dominava nel volto dell’empia Eritto e sul suo viso, circondato

da chiome scarmigliate e che non aveva mai conosciuto il cielo sereno, gravava orribilmente un

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pallore infernale: se i nembi e le nere nuvole sottraggono la vista delle stelle, la maga tessalica

esce dai vuoti sepolcri e si impadronisce delle folgori notturne”.

Emblematico, in rapporto a quanto fin qui detto, è un episodio di cronaca nera, restato

impresso nella memoria grazie ad una iscrizione ritrovata a Roma. Come succede molto spesso

nelle iscrizioni funebri dei Romani, è il defunto a rivolgersi al passante dalle righe incise sulla pietra

per raccontare la sua vita terrena, in questo caso, in verità per raccontare la modalità della sua

morte. Secondo la concezione dei Romani, questa sopravvive come unica forma di

comunicazione fra chi non c’è più e i vivi, una comunicazione che dipende dall’attenzione che il

passante rivolge alla lapide, magari incuriosito da quel patetico messaggio che chiede solo di

essere letto.

TESTO 4. Corpus inscriptionum Latinarum (CIL), VI,3,19747

IUCUNDUS LIVIAE DRUSI CAESARIS, F(ilius) GRIPHY ET VITALIS.

IN QUARTUM ANNUM SURGENS COMPRENSUS DEPRIMOR ANNUM,

CUM POSSEM MATRI DULCIS ET ESSE PATRI,

ERIPUIT ME SAGA MANUS CRUDELIS; UBIQUE

CUM MANET IN TERRIS ET NOCIT ARTE SUA,

VOS, VESTROS NATOS CONCUSTODITE, PARENTES

NI DOLOR IN TOTO PECTORE FIXUS EAT.

“Iucundus, di Druso Cesare e di Livia, figlio di Gryphi e Vitalis.

Affacciandomi al quarto anno di vita sono stato rapito e ucciso, mentre avrei potuto essere la

gioia di mia madre e mio padre. Mi ha strappato via la mano crudele di una megera; si sa che si

trova dappertutto sulla terra e nuoce con la sua arte, voi, genitori, custodite i vostri bambini

affinché il dolore non invada il vostro cuore e vi rimanga impresso”.

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Il testo in questione, come è facile intuire, non fa parte della letteratura e certamente rifiuta

ogni sospetto di retorica compassionevole. Si tratta certamente di un documento autentico, così

come molto probabile è la ragione criminosa che sta alla base del rapimento: un indizio forte - in

situazioni del genere - proviene dalla lettura dell’epodo V di Orazio dove si narra dell’omicidio di

un bambino, un omicidio perpetrato da maghe che intendevano utilizzare i suoi organi per

realizzare improbabili pozioni magiche.

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2. Le professioniste della magia: saga

Premesso che quasi sempre le maghe professioniste hanno una provenienza straniera e si

portano dietro quegli aspetti esotici che sono tipici di nazioni e contrade remote (si pensi al Mar

Nero, alla Colchide, alla Tessaglia), rispetto alle quali l’immaginario collettivo si sbizzarrisce

naturalmente nella ricerca del misterioso e dell’insondabile, quel che adesso conta è la

denominazione alla quale queste mestieranti di malefici sono soggette. Questa denominazione,

peraltro, si raccorda con l’atteggiamento ideologico con cui si guarda a queste fattucchiere,

chiamate genericamente sagae: la saga, infatti, ritenuta capace di sovvertire l’ordine cosmico, è

vista con paura dal cittadino romano che teme il disordine che il suo Stato stesso potrebbe subire

in conseguenza delle attività criminali portate avanti da queste donne la cui sigla, rispetto alla

identità romana, si fa latrice di una profonda alterità, incline a indagare sul tessuto sociale che

adesso le ospita.

TESTO 1. Cicerone, Della Divinazione I,65-66

«Praesagibat animus frustra me íre, cum exirem domo». Sagire enim sentire acute est; ex

quo sagae anus, quia multa scire volunt, et sagaces dicti canes. Is igitur, qui ante sagit, quam

oblata res est, dicitur praesagire, id est futura ante sentire. Inest igitur in animis praesagitio

extrinsecus iniecta atque inclusa divinitus. Ea si exarsit acrius, furor appellatur, cum a corpore

animus abstractus divino instinctu concitatur.

“«Me lo presagiva il cuore, uscendo di casa, che sarei venuto inutilmente». Sagire, difatti

significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di

saper molto, e ‘sagaci’ son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione (sagit) di qualcosa prima che

accada, si dice che ‘pre-sagisce’, ossia sente in anticipo il futuro”.

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Dobbiamo a Cicerone la riflessione di tipo etimologico e semantico che riguarda il nome di

saga con cui, fra gli altri, si indicavano a Roma le maghe. Si intuisce che alla base della

denominazione c’è il verbo sagire, che in italiano si è conservato nel verbo ‘presagire’ e

nell’aggettivo ‘sagace’: l’idea di fondo di questo vocabolario è il riconoscimento ad una persona

la capacità di ‘aver fiuto’, una capacità che ancor oggi riteniamo caratteristica dei cani; sagit si

dice di chi sente le cose prima che arrivino ed è per questo motivo che sono dette sagae anche le

donne che pretendono di sapere molte cose. Questo significa che originariamente la saga

potrebbe essere stata una specie di indovina, prima ancora di essere maga; ma, come spesso

avviene, l’indovina è anche una maga. Ne abbiamo conferma nel fatto che i maghi possono

essere chiamati oltre che venefici, malefici e magi, anche vates o addirittura haruspices.

TESTO 2. Tibullo, elegie I 2,41-56

Nec tamen huic credet coniunx tuus, ut mihi verax

Pollicita est magico saga ministerio.

Hanc ego de caelo ducentem sidera vidi,

Fluminis haec rapidi carmine vertit iter,

Haec cantu finditque solum Manesque sepulcris

Elicit et tepido devocat ossa rogo;

Iam tenet infernas magico stridore catervas,

Iam iubet adspersas lacte referre pedem.

Cum libet, haec tristi depellit nubila caelo,

Cum libet, aestivo convocat orbe nives.

Sola tenere malas Medeae dicitur herbas,

Sola feros Hecates perdomuisse canes.

Haec mihi conposuit cantus, quis fallere posses:

Ter cane, ter dictis despue carminibus.

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“[E se qualcuno malaccorto mi avrà visto, mantenga il segreto; affermi, giurando per tutti

gli dei, di non ricordare; perché, se andrà spettegolando, proverà come Venere sia nata dal

sangue, sia nata dal mare funesto]. Tanto l’uomo che vive con te non gli potrà prestare fiducia;

così mi promise con magico rito la veritiera indovina. Io la vidi trarre giù dalla volta celeste le stelle;

con incantesimi inverte il corso del rapido fiume; con formule spacca il suolo; evoca dai sepolcri le

ombre; giù dal rogo fumante, attira le ossa; ora con magico fischio governa le schiere infernali;

ora, asperse di latte, dà l’ordine che si ritirino. Quando le aggrada, spazza le nubi dal cielo

imbronciato; quando le aggrada, aduna in piena estate le nevi. Dicono sia la sola che possieda i

filtri maledetti di Medea, la sola che domi i cani di Ecate rabbiosi. Mi ha dettato le formule, con cui

tu potessi ingannare: pronunciale tre volte, e pronunciate sputa tre volte”.

Nel passo tratto dalle Elegie del poeta elegiaco Tibullo, il ruolo della saga è qui assimilato a

quello, per l’appunto, di indovina, ma nel contesto si apre tutta una rappresentazione che porta

questo personaggio femminile a condensare in sé tutte le prerogative di una maga. Il tutto si

inserisce in un contesto di tradimento, che vede Delia tradire suo marito ospitando nel suo talamo

l’audace amante Tibullo. Questi sa che potrebbe essere visto e denunciato ma ha fiducia che

questo non avvenga grazie alla protezione che una saga gli ha garantito Costei non solo è ‘saga’,

che tutto sa prevedere e presagire, ma è anche dotata di quel deposito canonico di poteri

magici, grazie ai quali Delia, seguendo le prescrizioni d’uso, potrà continuare a commettere

adulterio.

TESTO 3. Orazio, carmi I,27,21-24

quae saga, quis te solvere Thessalis

magus venenis, quis poterit deus?

vix inligatum te triformi

Pegasus expediet Chimaera.

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“Quale maga, quale incantatore potrà liberarti con tessali veleni, quale dio potrà liberarti?

Forse Pegaso, chi sa, ti potrà liberare dai lacci della Chimera triforme”.

Il contesto è il seguente: Orazio ha partecipato ad un pranzo fra amici. Ad un certo punto

la discussione s’è fatta troppo animata; qualcuno ha cercato di calmare gli spiriti. Orazio ne

approfitta per scrivere un’ode gaia e vivace, in cui, se si lascia andare a considerazioni

moraleggianti, le esprime tuttavia in maniera scherzosa. E suppone che a un certo punto un

commensale gli faccia alcune confidenze; sùbito allora mostra di preoccuparsi per lo stato di

costui, degno di ben altro destino (v. 20): è probabile che insieme all’infinito presente solvere

(“liberare”) si debba sottintendere dementia, se non amore o genericamente malis (“sventure”). In

questo caso si tratta però di magia bianca, visto che la saga (alla stessa stregua di quella che,

nell’Eneide di Virgilio, la regina cartaginese Didone consulterà per liberarsi dall’amore per Enea,

opera a scopo benefico). La situazione in cui versa l’innamorato ha bisogno di interventi possenti:

se non dovesse riuscire la saga a liberarlo dalla passione, allora bisognerà sperare che il cavallo

alato Pegaso lo raggiunga e lo porti in alto salvandolo da quel ‘mostro’ di donna che lo tiene

prigioniero: quel ‘mostro’ somiglia tanto alla Chimera, un ibrido costruito da tre forme (leone,

capra, serpente).

Puntualmente il grammaticus Ps.Acrone spiegava ai propri studenti quale fosse il senso della

denominazione applicata a questa figura di maga:

TESTO 4. PseudoAcrone, commento a Orazio, Carmi I,27,21

QVAE SAGA THESSALIS Incantatrix et malefica dicta ab eo, quod satis agat, idest quae

carminibus vel arcessere possit mala hominibus vel pellere

QVAE SAGA THESSALIS “Si intende per saga una donna capace di incantesimi e di malefici;

era detta così perché ci sa fare abbastanza [si noti la diversa etimologia rispetto a quella proposta

da Cicerone: satis in latino significa “abbastanza”; agere in latino significa “agire”, “fare”], visto

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che con le sue formule è capace di far arrivare agli uomini tutti i mali che vuole, così come è

capace di scacciarli via”.

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3. Le professioniste della magia: anus

Che il termine anus assolvesse anche al compito di significare una maga lo si è visto già dal

brano ciceroniano riportato sopra, nel quale erano affiancati sia il termine saga che, per

l’appunto, il termine anus. Il seguente brano, tratto dalle satire di Orazio, contempla, a riprova di

quanto appena detto, che alla anus sono attribuite le stesse prerogative profetiche che sono

riconosciute alla saga. Il contesto è quello che coincide con un autentico bozzetto dedicato da

Orazio ad una figura ‘molesta’ nella società augustea nella quale vive anche il poeta di Venosa:

una tale figura viene definita come ‘il seccatore’, ossia colui che, conoscendo i rapporti di Orazio

con l’imperatore Augusto vuole curiosare sull’ambiente della corte, nella quale anche lui vorrebbe

entrare, e per questo motivo sottopone il Venosino ad una serie di domande impertinenti. Orazio,

nel raccontare questo episodio di cronaca quotidiana, sta usando una caricatura e per questo

motivo fa la parodia dei vaticini espressi dagli indovini. Giocando su questo tema, il poeta allora

dice che sta per avverarsi la profezia fattagli da una anus, una profezia che prevedeva che un

giorno Orazio sarebbe stato ‘finito’ fa un personaggio esageratamente loquace e curioso, che

avrebbe incontrato per strada.

TESTO 1. Orazio, satire I,9,29-34

Confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella

quod puero cecinit divina mota anus urna:

«hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis

nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra:

garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,

si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas».

“Finiscimi: pende infatti su di me un triste destino, che una vecchia Sabella mi predisse

quand’ero ragazzo, dopo aver agitato l’urna delle sorti: «Questo non lo porteranno via né sinistri

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veleni, né una spada nemica, né la pleurite o la tosse, né la podagra che fa lento il cammino:

questo, una volta o l’altra, lo finirà un chiacchierone; quando sarà adulto, se avrà giudizio, eviti la

gente che straparla»”.

La presenza di una anus capace di condizionare i cuori e renderli legati all’amore di una

donna è ipotizzata dal poeta Tibullo in questa elegia, in cui cerca di ammorbidire la resistenza che

Fòloe ha nei confronti di Marato: costui, respinto, si lamenta della superbia con cui la donna tiene

le distanze da lui e allora Tibullo ricorda alla sprezzante donna che gli dèi non vogliono che si

faccia soffrire un ragazzo per amore; se lei insiste nel suo duro atteggiamento, finirà per essere

punita dalle divinità vendicatrici. Il brano è ricco di spunti che rinviano direttamente al vocabolario

della magia e al complesso di poteri che la maga si vanta di mettere in campo. Qui la maga è

semplicemente indicata come una anus, che si avvale di carmina, di herbae dagli effetti magici e

che ha scelto di obbligare (devovere) a quel genere di sofferenza il giovane Marato. A seguire, gli

effetti che possono suscitare le pratiche magiche: dal trasferire il raccolto da un campo all’altro

con il cantus (cantus vicinis fruges traducit ab agris) al bloccare un serpente che sta per slanciarsi

all’attacco: anche qui tutto avviene con la recitazione di una formula, ossia con la stessa modalità

con cui le maghe riuscivano a provocare l’eclissi di luna trascinandola verso la terra (e curru lunam

deducere), a meno che qualcuno non riuscisse a interrompere questa violenza esercitata sul carro

che la trasportava facendo risuonare timpani e catini di bronzo.

TESTO 2. Tibullo elegie I 8,17-22 (A Fòloe per Màrato)

Num te carminibus, num te pallentibus herbis

Devovit tacito tempore noctis anus?

Cantus vicinis fruges traducit ab agris,

Cantus et iratae detinet anguis iter,

Cantus et e curru Lunam deducere temptat

Et faceret, si non aera repulsa sonent.

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“Forse con incantesimi o con erbe,

che fanno impallidire,

ti ha stregato una vecchia

nel cuore silenzioso della notte?

Gli incantesimi al campo del vicino

sottraggono le biade;

gli incantesimi arrestano il cammino

del serpente irritato;

gli incantesimi tentano di trarre giù la luna

dal suo carro e ci riuscirebbero

se di colpi non tuonassero i bronzi”.

Alle prese con la sua opera didascalica finalizzata a far guarire dal mal d’amore quel

pubblico di lettori che lui stesso aveva istruito nell’Arte di amare perché si dedicasse alla conquista

amorosa, Ovidio ritaglia una sezione dei suoi remedia per far riflettere sulla non sempre affidabile

pratica della magia per ottenere gli scopi previsti. Siamo insomma di fronte ad una sorta di

palinodia dell’arte magica, un’arte perseguita tenacemente per far innamorare, un’arte però

fallimentare quando magari la si voglia praticare su se stessi per curare la malattia derivante da un

amore conclusosi infelicemente. In altre parole, se in altri loci della produzione ovidiana,

campionesse della magia - come Circe e Medea - erano state citate per ‘incantare’ i lettori sugli

effetti dei loro sortilegi, qui proprio le due ‘maghe’ per eccellenza della mitologia sono chiamate a

testimoniare il fallimento delle loro arti quando invano hanno cercato di trattenere, l’una, Ulisse,

l’altra, Giasone. Ci sarebbe da aggiungere che Ovidio non si esime dal ritoccare, per i fini che

persegue nel frangente, la statura ‘fatale’ delle due eroine, sicché, nel caso di Medea, ad

esempio, si viene ad apprendere che lei avrebbe fatto ricorso alla magia prima della partenza

dalla Colchide (cum cuperes patria manere domo) e successivamente per guarire dall’amore (al

massimo si sapeva che Medea avrebbe usato la magia per conservare l’amore di Giasone); più

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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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profondo invece il ritocco operato nei confronti di Circe notoriamente famosa per essere una

maga potente e per nulla addolorata dalla partenza di Ulisse: qui invece il poeta di Sulmona la

trasforma in una delle tante donne abbandonate della letteratura classica. Stesso

ridimensionamento per il personaggio di Ulisse, che è ritratto, anzi quasi cristallizzato, in un unico

atteggiamento, quello di chi si imbarca per partire. A voler entrare nella poetica ovidiana, si ha

l’impressione di trovarsi di fronte al ‘divertissement’ del poeta di Sulmona nei confronti delle

superstizioni dei contemporanei e nello stesso tempo al pretesto per gareggiare con tanti illustri

modelli greci e latini in un pezzo di bravura su incantesimi e maghe. Peraltro - come scrive Pinotti2 -

“la tradizionale presenza di figure femminili come operatrici di magie offriva a Ovidio il modo di

variare l’esposizione, introducendo un saggio di analisi psicologica centrato sui sentimenti di una

maga innamorata; né si deve dimenticare quanto sia funzionale, in vista della finalità didascalica

dei Remedia Amoris, la correlazione stabilita fra rifiuto della magia, in quanto inutile e pericolosa,

ed esaltazione del potere taumaturgico della poesia”.

TESTO 3. Ovidio, Rimedi per l’amore 249-270

Viderit, Haemoniae siquis mala pabula terrae

Et magicas artes posse iuvare putat.

Ista veneficii vetus est via; noster Apollo

Innocuam sacro carmine monstrat opem.

Me duce non tumulo prodire iubebitur umbra,

Non anus infami carmine rumpet humum;

Non seges ex aliis alios transibit in agros,

Nec subito Phoebi pallidus orbis erit.

Ut solet, aequoreas ibit Tiberinus in undas:

Ut solet, in niveis Luna vehetur equis.

Nulla recantatas deponent pectora curas,

2 Pinotti 1993, 167.

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Nec fugiet vivo sulpure victus amor.

Quid te Phasiacae iuverunt gramina terrae,

Cum cuperes patria, Colchi, manere domo?

Quid tibi profuerunt, Circe, Perseïdes herbae,

Cum sua Neritias abstulit aura rates?

Omnia fecisti, ne callidus hospes abiret:

Ille dedit certae lintea plena fugae.

Omnia fecisti, ne te ferus ureret ignis:

Longus in invito pectore sedit amor.

Vertere tu poteras homines in mille figuras,

Non poteras animi vertere iura tui.

“Se qualcuno crede che possono aiutare le erbe malefiche della terra Emonia e le arti

magiche, veda lui. Codesta dei veleni è una vecchia via; con la sacra poesia il mio Apollo offre un

rimedio innocuo. Sotto la mia guida non si comanderà alle ombre di uscire dalla tomba, la

vecchia non spaccherà la terra con incantesimi, le messi non passeranno da un campo all’altro e il

disco del sole non diventerà improvvisamente pallido. Come sempre il dio Tevere andrà nelle onde

del mare, come sempre la luna andrà sui cavalli bianchi. Nessun cuore si libererà di affanni

scacciati con incantesimi e Amore non fuggirà, vinto da zolfo puro. A che ti servono, Medea, le

erbe della terra del Fasi, quando desideravi restare nella casa del padre? A che ti servirono, Circe,

le erbe di Perse, quando un vento favorevole portò via le navi di Ulisse? Facesti di tutto perché

l’astuto straniero non partisse: lui dette le vele piene di vento a una fuga senza pentimento. Facesti

di tutto perché il fuoco crudele non ti bruciasse: a lungo Amore t’è rimasto nel cuore che pure

riluttava. Potevi mutare gli uomini in mille forme, non potevi mutare le leggi del tuo cuore”.

L’inventario degli ingredienti tipici della magia, così come la loro nomenclatura rafforza

l’ipotesi che questo brano ovidiano sia un po’ la summa di tutta la tradizione letteraria in proposito.

Non mancano i mala pabula, che sono le erbe usate per i filtri, così come non è assente

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l’ambientazione esotica in cui gli ingredienti necessari sono presenti in abbondanza: in questa

prospettiva la terra Haemonia altra non è che la Tessaglia, famosa per essere la culla delle arti

magiche, soggetto al quale si allude con il sintagma magicas artes: queste non è detto che

possano giovare, così come al verso 261 a Medea non sono giovate le erbe (gramina) che lei era

solita raccogliere per i suoi riti magici. Al v. 251 compare un termine chiave per comprendere

l’ambiguo rapporto tra medicina e magia: veneficium, che, nel lessico giuridico, indica sia la

somministrazione del veleno (sostanza di pertinenza del medico), sia della pozione magica (propria

del mago), ma anche, in senso più generico, l’‘incantesimo’, il ‘sortilegio’ vero e proprio.

Segue poi (vv. 253-256) una rassegna di canonici atti magici, rispetto ai quali il poeta si pone in

antitesi: sotto la sua guida (me duce), non capiterà nessuno dei fenomeni prodigiosi (e anche

spaventosi) scatenati dalla magia. Ai maghi infatti si attribuisce il potere di sovvertire l’ordine

naturale delle cose: esemplari, a questo proposito, sono i casi dei fiumi che iniziano a scorrere al

contrario, della luna che viene trascinata giù dal cielo e del sole oscurato, del fenomeno

dell’excantare fructus, ovvero indurre le messi a spostarsi dal sole, da un campo all’altro (un atto

contemplato come reato dalle leggi delle XII Tavole). Al centro di questa rassegna spicca la

presenza delle maghe associata al termine anus: è questa categoria di agenti magici la

responsabile di spettacoli orripilanti come l’evocazione dei morti dall’Ade, attraverso le spaccature

della terra prodotte dall’incantesimo: tutto il distico 253-254 si riferisce alla necromanzia, ma mentre

nell’esametro esce in primo piano la figura più spaventosa, lo spettro evocato dall’aldilà, è solo nel

pentametro che compare l’anus artefice della magia che rumpet humum. Ovidio nel frangente si

compiace di avvincere l’attenzione del lettore con il fascino dell’orrido, un fascino molto in voga a

Roma stando alla nota circolazione di racconti terrificanti di νεκυομαντείαι (necromanzie). Ai vv.

257-258, si apprende che, grazie alla guida e all’ars del poeta, il corso della natura procederà

indisturbato: «come sempre il dio Tevere si getterà nelle acque del mare, come sempre la Luna

cavalcherà i suoi bianchi cavalli». I vv. 259-260 invece fanno riferimento a due pratiche che

usavano sia i Greci che i Romani a scopo terapeutico (incantesimi e zolfo puro), presenti sia nel

campo occulto della magia che in quello ufficiale della religione: qui, con valore antitetico, si

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ribadisce il fatto che con questi espedienti non si potrà guarire dal mal d’amore. Infine, i vv. 261-

264 offrono gli esempi delle due famosissime maghe, Medea e Circe, alle quali il poeta si rivolge

direttamente, con un’apostrofe, per chiedere, provocatoriamente, se incantesimi e arti magiche

abbiano arrecato loro qualche vantaggio in amore: in realtà, servendosi dei loro poteri, nessuna

delle due è riuscita a tenersi stretto il proprio amato. Grazie a questi due casi, Ovidio mostra al

lettore che la magia è impotente di fronte all’amore, e lo esorta a non fidarsi degli inefficaci rimedi

dei maghi, affidandosi piuttosto alla sua ars (termine che può riferirsi sia all’arte poetica sia a quella

medica, dato che entrambe vengono esercitate dal poeta stesso).

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Bibliografia

• Formica 2005 = F. Formica, Colchica Venena. Magia e superstizione

nell’antica Roma, Napoli 2005.

• Pinotti 1993 = P. Pinotti (cur.), P. Ovidio Nasone, Remedia amoris, Bologna

1993.