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1581.31 L. MECHI, D. PASQUINUCCI INTEGRAZIONE EUROPEA E TRASFORMAZIONI Integrazione europea e trasformazioni socio-economiche Dagli anni Settanta a oggi a cura di Lorenzo Mechi, Daniele Pasquinucci FRANCOANGELI Storia internazionale dell’età contemporanea S i c e

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Scritti da storici, economisti e giuristi, i saggi qui raccolti ricostruisconoalcune delle trasformazioni socio-economiche più significative che hannointeressato l’Italia e l’Europa negli ultimi decenni, mostrandone le connes-sioni con il processo di integrazione sovranazionale. Partendo dalla crisi degli anni Settanta, essi descrivono l’evoluzione delle

maggiori politiche comunitarie – dalla politica monetaria a quella sociale,dalla politica agricola alla cooperazione allo sviluppo –, delineano il ruolodi alcuni attori fondamentali e mostrano l’interazione fra le dinamicheeuropee e quelle della politica e dell’economia italiana, facendo luce suaspetti cruciali come la partecipazione al Sistema monetario europeo, l’a-desione all’Atto unico e poi al Trattato di Maastricht, l’evoluzione delleposizioni nazionali in materia di immigrazione.Il volume intende così offrire un contributo approfondito alla compren-

sione di alcune delle principali problematiche che interessano tutt’oggi ilnostro paese e l’intero continente.

Scritti di: Daniele Caviglia, Francesco Farina, Maria Eleonora Guasconi,Giuliana Laschi, Fabrizio Loreto, Lorenzo Mechi, Guia Migani, EdmondoMontali, Giovanni Orlandini, Simone Paoli, Daniele Pasquinucci, FrancescoPetrini, Francesco Saraceno.

Lorenzo Mechi è professore associato di Storia delle relazioni internazio-nali nel Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionalidell’Università degli Studi di Padova. È autore dei volumi L’Europa di UgoLa Malfa (Milano 2003) e L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ela ricostruzione europea (Roma 2012), oltre che di numerosi saggi sullastoria internazionale ed europea della seconda metà del XX secolo.

Daniele Pasquinucci è professore ordinario di Storia delle relazioni inter-nazionali e Cattedra Jean Monnet in “Opinione pubblica, mass media e inte-grazione europea” nel Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cogniti-ve dell’Università degli Studi di Siena. Fra le sue pubblicazioni: Uniti dalvoto? Storia delle elezioni europee 1948-2009 (Milano 2013).

Integrazione europeae trasformazionisocio-economicheDagli anni Settanta a oggi

a cura diLorenzo Mechi, Daniele Pasquinucci

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Storia internazionale

dell’età contemporanea

Si ceFrancoAngeliLa passione per le conoscenze

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Negli ultimi decenni le discipline storiche hanno fatto registrare un cre-scente interesse nei confronti degli eventi e delle dinamiche di carattere in-ternazionale. Se per lungo tempo tali aspetti erano risultati oggetto quasiesclusivo della storia diplomatica, il diffondersi della “histoire des relationsinternationales” ha aperto l’interesse degli studiosi ad altre dimensioni:da quella economica a quella sociale, a quella culturale. L’influenza esercitatadalle storiografie britannica e americana, l’attenzione verso ambiti temporalipiù recenti, la moltiplicazione delle fonti archivistiche, i rapporti con altrisettori delle scienze sociali e l’interesse verso temi quali la “guerra fredda”el’integrazione europea hanno condotto alla sempre più ampia diffusionedegli studi di storia delle relazioni internazionali. Inoltre numerosi studiosidi storia contemporanea hanno preso a sottolineare l’importanza del rapportoesistente fra dimensioni politica, economica e sociale interne e quelle in-ternazionali. Infine il processo di “globalizzazione”non poteva lasciare insensi-bili gli storici.Ciò ha condotto all’emergere di una ampia quanto complessaStoria internazionale.

La collana nasce quindi con l’intento di creare uno spazio specifico in cuipossa trovare collocazione parte della crescente produzione storica in questosettore: dai lavori di giovani ricercatori ai contributi di studiosi di riconosciutaesperienza,dai manuali universitari di alto livello scientifico agli atti di convegni.

Comitato scientifico: FFrrééddéérriicc BBoozzoo (Université de Paris III Sorbonne Nou-velle), MMiicchheell DDuummoouulliinn (Université de Louvain-la-Neuve), MMiicchhaaeell GGeehhlleerr(Universität Hildeshaim), WWiillffrriieedd LLootthh (Universität Duisburg-Essen), PPiieerrssLLuuddllooww (London School of Economics), GGeeoorrggeess--HHeennrrii SSoouuttoouu (Universitéde Paris IV Sorbonne e Institut de France).

Il comitato assicura attraverso un processo di peer review la validitàscientifica dei volumi pubblicati.

cSStoria internazionale dell’età contemporanea, collana diretta da AAnnttoonniioo VVaarrssoorrii (Università degli Studi di Padova)

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Integrazione europeae trasformazionisocio-economicheDagli anni Settanta a oggi

a cura diLorenzo Mechi, Daniele Pasquinucci

Storia internazionale dell’età contemporanea

FRANCOANGELI

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Questa pubblicazione è stata finanziata con i fondi della Cattedra Jean Monnet in “Opinione pubblica, mass media e integrazione europea” dell’Università di Siena, Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive (DISPOC) – con il sostegno del Programma Erasmus + dell’Unione Europea.

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Indice

Introduzione, Lorenzo Mechi e Daniele Pasquinucci

Libertà di circolazione e dimensione sociale europea. Storia di un’integrazione mancata, Giovanni Orlandini

I mutamenti europei degli anni Settanta e la loro infl uenza sulla Pac, Giuliana Laschi

“La politica antinfl azionistica è la politica europeistica e viceversa”. L’adesione italiana al Sistema monetario europeo, Francesco Petrini

La Reaganomics e il suo impatto sullo Sme nel dibattito del Comitato dei governatori delle banche centrali della Cee, Daniele Caviglia

Il peso del vincolo europeo nell’evoluzione della sinistra comunista e post comunista italiana. Il caso della politica migratoria, Simone Paoli

Globalizzazione e aiuti allo sviluppo. Quale ruolo per la cooperazione allo sviluppo della CEE negli anni Ottanta?, Guia Migani

La Commissione Delors e il dialogo sociale europeo, Maria Eleonora Guasconi

La Cgil di fronte all’Atto unico europeo e al Trattato di Maastricht, Fabrizio Loreto

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L’integrazione economica europea: trade-offs ed innovazioni istituzionali, Francesco Farina

Neoliberale o niente? Unione europea e teoria macroeconomica, Francesco Saraceno

Il Modell Deutschland di fronte alla crisi: i cambiamenti in Germania e il dibattito italiano, Edmondo Montali

Indice dei nomi

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Introduzione

Lorenzo Mechi e Daniele Pasquinucci

Il volume raccoglie gli atti di un convegno di studi storici svoltosi all’Uni-

versità di Siena nel marzo del 2017 per iniziativa della Cattedra Jean Monnet

in “Opinione pubblica, mass media e integrazione europea”, del Dipartimen-

to di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Ateneo senese e del Diparti-

mento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’Università

di Padova. L’obiettivo scientifi co del convegno era analizzare alcune delle

principali trasformazioni sociali ed economiche interne al e indotte dal pro-

cesso di integrazione europea a partire dagli anni Settanta del ’900. Il termine

a quo si spiega con la centralità, ormai ampiamente riconosciuta dalla storio-

grafi a, degli avvenimenti che si susseguono in quel decennio, che appaiono

decisivi anche per lo sviluppo della Comunità europea e per l’impatto che

essa ebbe sugli Stati nazionali. I saggi contenuti nel volume si snodano in-

torno ad alcuni assi tematici che riteniamo suffi cientemente rappresentativi.

In primo luogo, molti contributi affrontano il tema della governance econo-

mico-monetaria europea, mettendone in luce le origini, puntualizzandone i

limiti, avanzando proposte per la sua riforma anche sulla base dei “modelli”

– come quello tedesco – che appaiono prevalenti. Il sistema di governo della

Comunità prima e dell’Unione poi ha notoriamente rappresentato, almeno

per l’Italia, un potente vincolo esterno utile a “obbligarci” a comportamenti

virtuosi nell’ambito delle politiche di bilancio. Ma, come emerge dal volu-

me, la nostra partecipazione ai vari stadi del processo di integrazione europea

ha imposto un adattamento a regole e a una disciplina che ha fi nito per ri-

guardare ambiti più ampi rispetto a quelli strettamente economico-monetari.

D’altro canto, il volet economico-monetario ha avuto come tradizionale cor-

rispettivo – almeno nel passato dell’integrazione europea – la cosiddetta “di-

mensione sociale”, sulla quale si incentrano molti dei contributi qui proposti,

volti ad analizzare gli attori, gli avanzamenti e i limiti della politica sociale

comunitaria. Progressi e arretramenti che, al di là delle visioni piattamente

lineari sovente fatte proprie dalla storiografi a, hanno costantemente conno-

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tato il processo di integrazione europea, anche in settori cruciali – come ad esempio la politica agricola oppure le relazioni esterne e l’aiuto allo svilup-po, temi di cui si occupano alcuni dei saggi qui contenuti.

Nel saggio che apre il volume, Giovanni Orlandini ci ricorda che la libertà di circolazione delle persone è consustanziale a qualunque processo di inte-grazione tra ordinamenti statuali; non a caso le odierne forze euroscettiche la mettono insistentemente in discussione. Se le cose stanno così, prendere in esame il modo in cui si è disciplinata giuridicamente quella libertà signifi ca analizzare – da una prospettiva rilevante – la storia dell’integrazione euro-pea. All’uopo, l’autore richiama una delle principali fragilità strutturali della costruzione comunitaria, ovverosia la chiara asimmetria tra la sua fragile di-mensione sociale e la sua robusta dimensione economica. L’origine storica di questo squilibrio va ricercata nella struttura duale che ha caratterizzato la Co-munità sin dalla sua nascita. I Trattati di Roma, infatti, suddividevano rigida-mente le competenze degli Stati membri e quelle della Cee. Era solo ai primi che spettava il compito di far funzionare i sistemi di welfare e le regole del mercato del lavoro, mentre alla Comunità era attribuita la responsabilità di istituire il mercato comune. Sottesa a questa ripartizione vi era la convinzio-ne, di impronta ordoliberale, che il mercato sovranazionale avrebbe favorito naturaliter le politiche espansive, di cui gli Stati avrebbero potuto benefi cia-re per consolidare ed estendere, sul piano nazionale, i propri sistemi di wel-fare. Per questo, come puntualizza Orlandini, la libera circolazione dei lavo-ratori entrò tra i principi fondamentali della Cee come elemento funzionale alla piena integrazione del mercato. Ma questa concezione, che equiparava implicitamente la libertà dei lavoratori di muoversi dentro ai confi ni della Cee con le altre libertà di circolazione (dei beni, dei servizi e dei capitali) con il tempo iniziò a mostrare la sua intrinseca inadeguatezza: il lavoratore non è un mero fattore produttivo. Di questa contraddizione si è occupata la Corte di Giustizia delle Comunità con una serie di sentenze volte ad arricchire i diritti dei lavoratori stranieri soggiornanti in altri Stati membri. Il saggio le analizza attentamente, mettendo tra l’altro in luce come il consolidamento giurispru-denziale dei diritti dei lavoratori sia stato propedeutico alla cittadinanza eu-ropea creata con il Trattato di Maastricht e abbia inoltre contribuito a mettere in crisi – senza però superarlo defi nitivamente – il potere statuale di controllo e regolamentazione dei sistemi di welfare. Al contempo, l’azione della Cor-te ha incrementato il tasso di confl ittualità tra la dimensione comunitaria e quella nazionale, con quest’ultima protesa a difendere le proprie prerogative nella gestione dei sistemi di welfare; una confl ittualità che rimanda, in ultima analisi, all’aporia implicita negli sforzi di creare una “cittadinanza sociale” senza una qualche forma di Stato sociale europeo.

Giuliana Laschi analizza la Politica agricola comune (Pac) negli anni Set-tanta, e ne ricostruisce alcuni cambiamenti, limitati ma affatto secondari. Tali cambiamenti furono dovuti a tre fattori: le conseguenze dell’adesione nel

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1973 del Regno Unito alla Comunità; la pressione riformatrice esercitata da Sicco Mansholt, senz’altro il principale artefi ce della Pac; la decisione presa dal Parlamento europeo (Pe) nel 1979, subito dopo la sua prima elezione di-retta a suffragio universale, di respingere il bilancio comunitario proprio in ragione dell’andamento insostenibile della spesa per la politica agricola. Ri-guardo alla Gran Bretagna – per la quale, ed è noto, la confi gurazione della Pac era sempre stata un problema –, il suo ingresso nella Cee pose immedia-tamente un problema di compatibilità con la Politica agricola comunitaria, tale da indurre Londra e la Cee a negoziati per individuare un compromesso accettabile per entrambe le parti, alfi ne trovato in un’apertura per i prodotti agricoli provenienti dal Commonwealth e in una promessa di revisione pro-fonda dei meccanismi di quella politica. Su queste basi, il nuovo governo di Harold Wilson – che nel 1974 attraverso il suo ministro degli Esteri James Callaghan aveva rinegoziato i termini della membership britannica nella Cee – poté convocare il referendum confermativo della partecipazione del pae-se alla Comunità, risoltosi con un largo 67% di voti favorevoli. Il secondo agente di trasformazione parziale della Pac fu, come detto, Sicco Mansholt. L’infl uente “eurocrate” olandese (che presiedé la Commissione europea tra il 1972 e il 1973) fu colpito – come molti – da The Limits to Growth pubblicato nel 1971 da un gruppo di ricercatori del MIT di Boston. Il rapporto denun-ciava la limitatezza delle risorse a disposizione dell’umanità e i guasti provo-cati dall’inquinamento e dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Mansholt vi aggiunse la necessità di ripensare i rapporti con i paesi in via di sviluppo, notoriamente danneggiati dalla Pac, e propose una riforma (solo molto parzialmente attuata) proprio della Politica agricola, al fi ne di tener conto della preservazione “dell’equilibrio naturale”. Infi ne, Laschi si soffer-ma sul tentativo del Parlamento europeo di circoscrivere le spese per la Pac iscritte nel bilancio comunitario – in particolare la vera e propria “emorragia di denaro” destinata al mantenimento delle eccedenze.

La storiografi a indulge sovente in visioni linearmente evolutive del pro-cesso di integrazione europea, fi no al punto da offrire interpretazioni raffi -gurabili con la formula delle magnifi che sorti e progressive. Il contributo di Francesco Petrini si colloca ben lontano da questa chiave di lettura, pren-dendo in esame la partecipazione dell’Italia al Sistema monetario europeo (Sme) entrato in vigore nel 1979. A parere dell’autore, l’ingresso nel Sme ha reso ancora più fragile il nostro paese, indebolendone il tessuto industriale e favorendone la marginalizzazione nel quadro europeo. Eppure, la “svolta” del dicembre del 1978, quando il presidente del Consiglio Giulio Andreotti accantonò dubbi ed esitazioni annunciando che l’Italia sarebbe stata parte, da subito, del Sistema, era stata accolta da molti ambienti, non solo politici, con termini entusiastici. Come argomenta, Petrini, questa sua diversa opi-nione? Intanto la vicenda del Sme va collocata all’interno “del lungo ’68”, ovvero in un arco temporale più ampio rispetto a quello solitamente usato. È

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allora necessario risalire, almeno, al collasso del sistema di Bretton Woods e al tentativo di disciplina monetaria esperito con il “Serpente nel tunnel”, presto però abbandonato. Il ritorno alla fl uttuazione delle monete fu accolto positivamente dal capitalismo italiano che, in una fase storica caratterizzata dalla forte capacità negoziale dei lavoratori, in grado di imporre l’idea che il salario fosse una “variabile indipendente”, condivideva l’abbandono del “vincolo esterno” a favore di quello interno, con l’uso della coppia infl azio-ne/svalutazione per sostenere l’economia nazionale. Il contesto cambia nel-la seconda metà degli anni ’70, quando il capitale riacquista forza rispetto al lavoro. La crescita della disoccupazione e la diminuzione dei salari reali obbligarono i sindacati ad accettare la concertazione e la “politica di austeri-tà”. Il contenimento dell’infl azione divenne una priorità, benché non sempre conseguentemente perseguita. Erano, comunque, le premesse per un nuovo ciclo di stabilizzazione, rinvigorito dai progetti di integrazione monetaria – promossi dalla coppia franco-tedesca – basati sulla defl azione. Quei progetti, peraltro, erano del tutto coerenti con il piano Pandolfi , elaborato nel 1978 e fondato – tra l’altro – sulla defl azione e sul contenimento dei salari. Così, il Sme avrebbe potuto giustifi care i sacrifi ci in esso previsti con la necessità di non tradire la “causa europeista”. Ma quale fu il signifi cato reale del varo del Sme e della nostra partecipazione ad esso? Intanto la centralità all’infl azione annullava il carattere prioritario dell’obiettivo dell’occupazione; in secondo luogo, le autorità monetarie prevalevano su governo e parlamento. Inoltre, in Italia rimase un differenziale signifi cativo di infl azione rispetto ai paesi “for-ti”, che determinò una sopravvalutazione reale del cambio della lira. Ciò si tradusse in una perdita di competitività per le esportazioni italiane. Infi ne, il Sme ebbe un ruolo anche nell’esplosione del debito pubblico. Quest’ultimo, sostiene Petrini, attraverso la cassa integrazione e l’occupazione nel settore pubblico ha fi nito per svolgere un ruolo di ammortizzatore per la manodo-pera espulsa dal settore privato in seguito alle scelte di politica economica e monetaria messe in atto con l’adesione al Sme.

Il dibattito in seno al Comitato dei Governatori delle Banche centrali della Comunità intorno alla politica economica dell’amministrazione Reagan e ai suoi effetti sul Sistema monetario europeo è al centro del contributo di Da-niele Caviglia. La cosiddetta Reaganomics – basata sulla lotta all’infl azione, sulla riduzione del peso fi scale a carico delle persone, sul ridimensionamen-to del ruolo del governo in economia e sulla deregolamentazione del settore privato – rappresentò in effetti una svolta nelle relazioni tra USA ed Europa comunitaria e, come ben dimostra Caviglia, provocò divergenze in seno al Comitato, favorendo una chiarifi cazioni sulle diverse priorità delle banche centrali, per poi contribuire a mettere la basi di una divaricazione tra i go-vernatori e le rispettive leadership politiche nazionali. L’apprezzamento del dollaro fu la prima ricaduta della politica economica americana sotto Rea-gan, che si combinò con un rialzo dei tassi di interesse. Nel Comitato si regi-

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strarono molte voci critiche – non ultima quella di Mario Sarcinelli – verso questa politica economica unilaterale; ma, come rileva Caviglia, al coro di disapprovazione non partecipò Karl Otto Pöhl, da poco alla guida della Bun-desbank, per il quale l’indirizzo monetario restrittivo degli Stati Uniti elimi-nava il rischio di importare l’infl azione in Europa. Allo stesso tempo, tutti i membri del Comitato concordavano sui limitati poteri di cui essi disponeva-no per opporsi alle scelte promosse da Washington. Peraltro, per i motivi cui abbiamo accennato, questa ammissione di impotenza non risultava affatto sgradita alla Bundesbank, come emerse nella riunione del Comitato del 14 aprile del 1981. Ma, in quell’occasione, Pöhl non si limitò a prendere atto della debolezza dell’Europa. In confl itto con la volontà, espressa dai france-si, di premere sulle autorità americane affi nché modifi cassero le loro politi-che, il presidente della Bundesbank invitò i colleghi a concentrare piuttosto la loro attenzione sui livelli di spesa dei settori pubblici e sul ruolo svolto dalle banche centrali per fi nanziare la spesa. Una posizione, questa, capace di suscitare consensi diffusi all’interno del Comitato, e destinata d’altronde a porre le premesse di quel confronto tra “tecnici” e leadership politiche che ha avuto come posta in gioco la possibilità di combattere l’incremento della spesa pubblica senza ledere l’autonomia delle banche centrali. La crescente sfi ducia verso ”la politica” e la sua capacità di contenere la spesa gradual-mente sostituì, nel Comitato, il tema della politica monetaria americana; e di-venne una questione essenziale, come ben conclude l’autore, per il processo di integrazione europea.

Simone Paoli, valorizza il vincolo europeo, la cui concettualizzazione è attribuibile a Guido Carli ma che venne evocato per la prima volta, all’inizio degli anni Cinquanta, dal suo predecessore quale governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella. Come sottolinea Paoli, al vincolo europeo si è fatto sovente ricorso per spiegare le motivazioni che hanno indotto il nostro paese ad aderire alle diverse fasi del processo di integrazione europea; ma esso ha altresì rappresentato un paradigma usato per valutare ed interpretare i rapporti, non sempre idilliaci, tra la tecnocrazia, in particolare quella legata a via Nazionale, sostanzialmente diffi dente del ruolo del politico e, in alcuni suoi esponenti, incline a ritenersi depositaria non solo dei mezzi ma anche degli scopi dell’azione sociale, e la classe politica, proclive a cedere alle sire-ne delle varie corporazioni e poco attenta alle esigenze della modernizzazio-ne sociale ed economica del paese imposta (anche) dalla partecipazione alla Comunità/Unione europea. Paoli amplia lo spazio di applicazione del vinco-lo europeo, proiettandolo sulla strategia adottata da uno schieramento politi-co (la sinistra comunista e post comunista italiana) sulla questione migratoria – ovvero una issue diversa rispetto a quella economico-monetaria alla quale esso viene tradizionalmente associato. Questa operazione è consentita dalla trasformazione del vincolo europeo in una vera e propria ideologia sostitu-tiva. Su questa base, l’autore ricostruisce l’evoluzione del Partito comunista

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nei confronti, appunto, del problema migratorio. In una prima fase, tale evo-luzione è raffi gurabile con il passaggio da una posizione solidaristica – ma al contempo prudente – ad una radicalmente pro-immigrazione, a cui il Pci giunse alla fi ne degli anni Ottanta. La dimostrazione di questa svolta si ebbe con le critiche inizialmente rivolte alla legge Martelli sulla politica migrato-ria, ritenuta troppo restrittiva; conseguentemente, anche l’accordo di Schen-gen venne considerato come componente del tentativo di erigere una “for-tezza Europa” chiusa al mondo esterno. Lo scioglimento del Pci e la nascita di due diversi soggetti politici (il Pds e il Prc) segnarono l’ennesima critical juncture nella sofferta storia della sinistra italiana. Schengen contribuì a defi -nire i perimetri delle due nuove formazioni. Rifondazione votò contro la rati-fi ca da posizioni pro-immigrazione e contrarie alla deriva politica e ideologi-ca dell’Ue ipostatizzata da Maastricht. Il Pds invece accettò Schengen: ma lo fece piegando i molti dubbi all’esigenza superiore di seguire “l’europeismo”, ossia il nuovo quadrante ideologico di un partito dall’identità piuttosto de-bole. Il vincolo europeo diventa quindi essenziale – come mostra Paoli – per comprendere i successivi sviluppi, fi no al sostegno dato dal Pds al pieno in-serimento del paese, ai tempi del Governo Prodi I, nell’area Schengen, con la collegata batteria di misure (tra cui il consolidamento dei meccanismi di espulsione) che contraddicevano l’atteggiamento pro-immigrazione matura-to in precedenza (e creavano problemi con la rappresentanza parlamentare del Prc); ma questa aporia fu superata precisamente con il ricorso allo slogan divenuto ormai consueto: “lo chiede (impone) l’Europa”.

Guia Migani analizza il graduale cambiamento che si sviluppa, nel corso degli anni Ottanta, nei rapporti tra la Comunità europea e il Terzo mondo. Questa evoluzione, come illustra Migani, fu in verità abbastanza inattesa. All’inizio della decade, infatti, le determinanti dell’aiuto allo sviluppo pro-mosso dalla Comunità parevano tutto sommato collocarsi su una linea di continuità con le priorità stabilite nel decennio precedente: trattamento spe-ciale ai paesi africani e mediterranei, preferenza per un approccio globale al tema dello sviluppo. Tuttavia, sin dalla fi ne degli anni ’70 appaiono alcune novità in questo ambito. In primo luogo, un ritorno di attenzione per il set-tore agricolo – dovuto alla sensibilità di Edgar Pisani, commissario europeo allo sviluppo tra il 1981 e il 1984 – che spinge la Cee a proporre progetti per favorire una produzione agricola suffi ciente a soddisfare le esigenze di base della popolazione. Questo sforzo si coniuga con altre tendenze, in particolare la lotta per sviluppo sostenibile e la campagna contro la fame nel mondo. Ul-teriori elementi di innovazione sono introdotti dalle successive revisioni del-la Convenzione di Lomé, che portano all’introduzione dei criteri della pro-grammazione e del maggior controllo comunitario sui fondi stanziati. Negli anni Ottanta, peraltro, si assiste all’integrazione dei diritti umani nell’ambito della cooperazione allo sviluppo (oltreché delle relazioni esterne) della Co-munità, un processo imposto dai paesi della Cee e non sempre ben accolto

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dai recipients. Nondimeno, come ci ricorda l’autrice, il cambiamento più im-portante registrato negli anni Ottanta è l’estensione geografi ca dell’interven-to comunitario. Si istituiscono, oppure si consolidano, rapporti con i paesi bisognosi di aiuto in Asia e in America latina, i quali vengono ben descritti nel saggio. Nell’insieme, il ri-orientamento nel corso degli anni Ottanta ha risposto alle esigenze di precisare meglio gli obiettivi economici e politici dell’aiuto allo sviluppo; fi nalità quali la tutela dell’ambiente e il rispetto dei diritti umani hanno portato a un’articolazione dei rapporti tra Cee e Terzo mondo, aggiungendo la condizionalità politica accanto a quella economica. Al di là dei suoi risultati concreti, si tratta di un’evoluzione che è frutto, come ben rileva Migani, di una visione integrale, ed integrata, dei rapporti Nord-Sud e di una concezione dell’ambiente come bene comune. Ne consegue che nella politica di sviluppo vengono presi in considerazione anche gli interessi dei cittadini della Cee.

Maria Eleonora Guasconi ricostruisce i primi tentativi di dare una dimen-sione sociale alla Comunità europea, esperiti negli anni Settanta soprattutto come risposta alla recessione economica. Si trattava, tutto sommato, di una novità nel ventaglio degli interventi comunitari, dacché i Trattati di Roma non avevano previsto altro che un modesto Fondo sociale europeo, al quale si aggiunse – ma solo nel 1968 – l’approvazione del regolamento sulla libera circolazione dei lavoratori. Strumenti circoscritti, insomma, che attestavano come gli Stati nazionali custodissero gelosamente (come ha appunto mostra-to anche il saggio di Orlandini) le loro prerogative nell’ambito delle politiche relative all’occupazione e al mercato del lavoro. Ma il malaise economico (per citare Charles Maier) degli anni Settanta cambiò l’agenda, spingendo i governi della Comunità a immaginare azioni convergenti per attenuare le diffi coltà vissute dai lavoratori; ne conseguì un “fi orire di iniziative” – come scrive Guasconi – frutto anche dell’impegno profuso negli anni Sessanta da Lionello Levi Sandri, commissario europeo per gli Affari sociali, al fi ne di creare un embrione di “dialogo sociale” nell’ambito comunitario. Né si deve dimenticare come in quegli stessi anni ’70 prendesse forma la Confederazio-ne europea dei sindacati, epitome – tra l’altro – di una più diffusa consape-volezza della dimensione sovranazionale dei temi cari alle rappresentanze dei lavoratori. Tutto ciò, comunque, non si tradusse né in un vero confronto tra le parti sociali né tantomeno in una reale “politica sociale” europea; per questo fu necessario attendere che Jacques Delors assumesse la guida dell’e-secutivo comunitario. Su di lui, e sul ruolo che egli giocò nell’istituire un confronto strutturato tra sindacati e imprenditori pubblici e privati si focaliz-za dunque il saggio di Guasconi. La quale esamina, in particolare, le princi-pali iniziative che il presidente francese mise in campo per contemperare il suo grande obiettivo, il mercato interno, con strumenti volti ad ammortizzare gli effetti di quel processo di liberalizzazione. Guasconi sottolinea anche il ruolo frenante svolto da Margaret Thatcher, a cui però Delors contrappose

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una notevole capacità diplomatica non disgiunta da iniziative “aggressive”, come quella – riuscita – volta ad attrarre nel campo europeista il sindacato britannico, proprio grazie alla tutela del ruolo del sindacato che la Lady di ferro contestava in patria e di cui invece il presidente della Commissione era difensore sul piano europeo. Il Trattato di Maastricht, conclude l’autrice, con l’istituzionalizzazione del dialogo sociale portava a compimento il disegno di Delors.

Il tema dei sindacati, e del loro ruolo sul piano comunitario tra il 1985 e il 1993, è ripreso nel contributo di Fabrizio Loreto, che studia l’azione svol-ta dalla Cgil proprio in rapporto alle novità introdotte dalla Commissione di Jacques Delors; un’analisi, quella di Loreto, svolta mettendo in costante re-lazione il piano interno con quello europeo. Peraltro la Cgil, come viene pun-tualizzato dall’autore, si confi gura come un case study particolarmente signi-fi cativo: intanto perché la centrale sindacale italiana era terza in Europa per numero di iscritti (dietro alla tedesca Dgb e alle Trade Unions britanniche); in secondo luogo perché la sua componente comunista, soprattutto dopo il 1989, maturò un interesse costruttivo per la Comunità europea. Determinan-te, in tal senso, fu la spinta impressa da Bruno Trentin, divenuto Segretario generale della Cgil nel 1988, dopo l’interregno di Antonio Pizzinato, ma che già precedentemente – in qualità di segretario della Fiom – aveva mostrato sensibilità europeista. In questa prospettiva, Loreto valorizza giustamente la Conferenza programmatica della Cgil svoltasi a Chianciano nell’aprile del 1989, prima che il Muro di Berlino crollasse, nella quale Trentin avviò il processo di “autoriforma” della Confederazione (di cui aveva nel frattem-po assunto la guida) schierandola nel campo europeista. Nondimeno, com’è ovvio, il collasso del comunismo accelerò sia le dinamiche di rinnovamento interno del sindacato, quanto la sua adesione al disegno di “unità europea” – come si stabilì al Congresso nazionale di Rimini dell’ottobre del 1991. Con queste scelte la Cgil si dotò di strumenti “politici” (ma anche organizzativi: ad esempio nel 1992 apre un proprio Uffi cio a Bruxelles) idonei a infl uire sugli eventi che si dipanarono in Europa tra la fi ne degli anni Ottanta e l’i-nizio dei ’90 (“Dialogo sociale”, “Protocollo sociale”, mercato interno, Ma-astricht, ecc.). Questo anche in virtù del rapporto instauratosi tra Delors e Trentin, il quale è noto agli studiosi, ma di cui adesso si conoscono nuovi ele-menti (valorizzati da Loreto) grazie alla pubblicazione dei diari del sindaca-lista italiano. Diari dai quali emerge scarsa fi ducia nei confronti del “dialogo sociale”, sostanzialmente inconcludente, della Ces, appesantita dal carattere burocratico, e di alcuni sindacati del nord Europa, motivati prevalentemen-te da logiche interne e settoriali. Tutto ciò non deve però farci dimenticare, come conclude Loreto, lo sforzo congiunto compiuto da Delors e Trentin di individuare un “modello sociale europeo” capace di operare una sintesi tra diritti civili e politici, primato assoluto della persona umana e valore sociale del lavoro.

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Francesco Farina richiama l’attualità di una frase di Jean Monnet per ana-lizzare i recenti sviluppi economici e monetari vissuti dall’Unione europea (e i problemi e le diffi coltà di cui essi sono stati allo stesso tempo una causa ed un effetto). Il grande tecnocrate francese affermava che l’Europa sarebbe stata costruita sulle proprie crisi e “sulla somma delle soluzioni adottate per superarle”. Una visione reattiva ed incrementale, quindi, rivelatrice di una intuizione fondamentale: il carattere cruciale della path dependence nel far progredire l’Unione europea. Ne consegue, tra l’altro, una precisa interpre-tazione dell’unifi cazione europea, sostenuta dalla prospettiva specifi ca, ma fondamentale, dell’integrazione economica e monetaria: come scrive l’auto-re, ad ogni stasi del processo integrativo si determina uno scambio tra obiet-tivi, che fi ssa nuove architetture istituzionali (non necessariamente frutto, perciò, di riforme di trattati, che non sono l’unica via attraverso cui si è svi-luppata l’integrazione, come invece pretende una certa scuola interpretativa) che a loro volta creeranno le condizioni per nuove stagnazioni e conseguen-ti avanzamenti. Se in questa visione c’è un fondo di meccanicismo, essa ha però dalla sua parte alcune evidenze storiche. L’autore, d’altronde, sottolinea opportunamente come i trade-offs, abbastanza agevoli nella fase di espansio-ne economica registrata ai tempi delle prime Comunità, siano divenuti più complessi dalla metà degli anni Ottanta, quando la globalizzazione ormai incipiente ha iniziato a imporre una competizione sempre più serrata. I due casi di studio presi in esame da Farina per misurare l’applicabilità della path dependence (e la validità dell’intuizione monnettiana) sono entrambi shock esogeni, ovvero la liberalizzazione dei capitali perfezionatasi nel 1990 e la crisi fi nanziaria apertasi con il 2008. Questi momenti sono stati selezionati anche perché considerati propedeutici alla creazione di un contesto carat-terizzato da un trilemma: compresenza di tre obiettivi vicendevolmente in-conciliabili. Su queste basi interpretative e concettuali l’autore dipana con dovizia di particolari la sua analisi delle congiunture critiche individuate e conclude che la soluzione della crisi dell’eurozona è nella capacità di pro-muoverne gli interessi come un singolo aggregato, anche attraverso misure quali l’unione bancaria e l’avvio di un programma di unione fi scale.

Francesco Saraceno offre la prospettiva dell’economista per discutere in-torno alle possibili alternative al “consenso neoliberale” su cui si è disegnata la governance economica europea. Questo “consenso” era all’apice al mo-mento della stipulazione del Trattato di Maastricht e della successiva ap-provazione del Patto di stabilità e crescita, che ha fi ssato le regole del gioco per la politica fi scale dei paesi aderenti alla zona Euro (di fatto limitando gli strumenti di quella politica agli stabilizzatori automatici). Coerente con que-sto quadro concettuale è il compito affi dato statutariamente alla Banca cen-trale europea di perseguire esclusivamente la stabilità dei prezzi (e Saraceno ci ricorda la differenza con la Federal reserve americana che a quel dovere associa l’obiettivo della piena occupazione). Ma la governance economica

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europea ha dato buona prova di sé? Evidentemente no, e Saraceno sottolinea come le politiche condotte in Europa dall’inizio della crisi del 2008 siano state prima inerti e poi controproducenti. La Grecia è stata oggetto di qual-cosa che assomiglia molto a un experimentum in corpore vili, con tre pro-grammi di bail out a cui hanno corrisposto quattordici piani di riforme e tagli dolorosissimi che però – come scrive l’autore – hanno deluso le attese dei “turiferari del consenso”. Peraltro, tanto la “cittadella comunitaria” quanto le organizzazioni internazionali – su tutte il Fondo monetario internaziona-le – hanno da tempo iniziato a interrogarsi su quelle ricette. Al centro del dibattito vi sono il ruolo della politica fi scale (sacrifi cata a quella monetaria perché sottoposta ai vincoli dei defatiganti processi decisionali propri della democrazia) e il totem delle riforme, la cui effi cacia in tempi di recessione è assai dubbia. La ricerca di vie diverse alla governance economica dell’UE, insomma, pare ineludibile, al di là del rispetto di ortodossie e “leggi” econo-miche ritenute (erroneamente) infallibili. Una ricerca che serve anche a supe-rare la paralizzante alternativa tra i difensori dello status quo e quanti invece sostengono la necessità di uscire dalla moneta unica. La crisi del “consenso” pare quindi offrire un’opportunità irrinunciabile per profondi ripensamenti, i più noti dei quali potrebbero (dovrebbero, secondo alcuni) condurre alla isti-tuzione di un budget comune per l’Eurozona, all’ampliamento del mandato per la Banca centrale europea sul modello della Federal reserve americana, all’armonizzazione dei sistemi fi scali e, in ultimo ma certo non meno impor-tante, a una maggiore attenzione nei confronti della protezione sociale e della lotta alle diseguaglianze.

Chiude il volume il saggio di Edmondo Montali, dedicato all’analisi del Modell Deutschland. L’autore ne ricostruisce la genesi, non prima di aver ri-cordato come quel modello non sia statico, ma frutto piuttosto di un processo iterativo, di sedimentazione nel tempo di istituti, norme, prassi e così via. Per di più, esso è stato generato in un contesto storico-politico ben determinato, in grado di favorire un compromesso tra tendenze diverse, quelle ordolibe-riste, del solidarismo sociale di matrice cattolica e social-democratiche. Da qui si sviluppa la ricostruzione di Montali, che mette in luce alcune delle ca-ratteristiche precipue del modello tedesco (tra le quali val la pena di ricorda-re la convivenza della libertà di esercizio dell’iniziativa imprenditoriale con l’intervento dello Stato nell’economia; un’economia orientata alle esporta-zioni; la mitbestimmung, ovvero la partecipazione societaria dei rappresen-tanti dei lavoratori). Questo modello, a lungo confi guratosi come una “storia di successo”, è stato contaminato parzialmente – a partire dagli anni Ottanta – con le correnti neoliberiste propagatesi dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher e dagli Stati Uniti di Ronald Reagan. È poi entrato in piena crisi alla metà degli anni Novanta a causa della riunifi cazione tedesca, del pieno dispiegarsi degli effetti della globalizzazione, dell’allargamento dell’Unio-ne europea ai paesi dell’Europa centro-orientale (con i connessi problemi di

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delocalizzazione industriale) e della creazione della moneta unica. Montali analizza i termini di questa crisi, ma soprattutto analizza e valuta le riforme economiche e del lavoro adottate in Germania per superare lo stallo e gli ef-fetti (non del tutto positivi) che esse hanno prodotto nell’economia, nelle re-lazioni industriali e nella società di quel paese. Il saggio si chiude con alcune considerazioni relative, da un lato, alla diffi coltà di innestare gli elementi del sistema tedesco in quello italiano e, dall’altro, sull’attualità del Modell Deutschland per l’Unione europea; purtuttavia, come sottolinea opportuna-mente l’autore, propedeutica alla scelta di qualsivoglia modello (o esempio) è la defi nizione precisa della strada che si intende far intraprendere all’Ue.

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Libertà di circolazione e dimensione sociale europea. Storia di un’integrazione mancata

Giovanni Orlandini

Introduzione

La libertà di circolazione delle persone è, come noto, un principio che sta a fondamento del processo d’integrazione europea. E d’altra parte l’accetta-zione di questo principio caratterizza qualsiasi forma di integrazione tra or-dinamenti statuali. Così come, specularmente (lo dimostra la storia dei nostri giorni), la sua negazione è il primo e più qualifi cante passo di ogni politica nazionalista e sovranista.

Ma se nel livello di protezione della libertà di circolazione degli indivi-dui è da cogliere il segnale del grado di integrazione tra gli Stati, allora sof-fermarsi sulle vicende che hanno caratterizzato l’evoluzione della disciplina giuridica di questa libertà nell’ordinamento dell’UE signifi ca parlare della storia stessa dell’integrazione europea; e rifl ettere sulle ragioni per le quali il pieno riconoscimento di questa libertà è oggi messo in discussione signifi ca rifl ettere anche sulle ragione dell’attuale crisi dell’Unione.

Nelle pagine che seguono s’intende quindi ripercorrere (seppur a gran-dissime linee) l’evoluzione di questo principio nell’ordinamento dell’UE per mettere in luce le fragilità strutturali della costruzione europea; fragilità che chiamano in causa la storica e mai superata asimmetria tra la sua dimensione economica e la sua dimensione sociale.

Come noto, questa asimmetria trova la propria radice nel modello originario che a Roma si scelse di adottare per costruire la Comunità (Economica) Europea. In base ad esso la neonata Comunità avrebbe dovuto mantenere una struttura duale1, cioè fondata su una rigida ripartizione di competenze tra la Comunità stessa e gli Stati membri. Alla prima spettava il compito di realizzare un mercato unico, nel quale la libertà degli scambi fosse assicurata in un regime pienamente concorrenziale. Ai secondi di

1. J.H.H. Weiler, Il sistema comunitario europeo, Bologna, il Mulino, 1985.