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N°86 Gennaio 2015 1 Newsletter N° 86 Gennaio 2015 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 3 Le Nostre Sentenze 4 Cassazione 7 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Le Nostre Sentenze 8 Assicurazioni 9 Il Punto su 11 R. Stampa 13 Eventi 14 Contatti 15 I limiti della contrattazione di prossimità: si pronuncia il Ministero del Lavoro con riferimento ai contratti a termine Con Interpello n. 30/2014 del 2 dicembre 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha risposto al quesito sulla possibilità di deroga, da parte della contrattazione collettiva di prossimità, ai limiti quantitativi di utilizzo del contratto a tempo determinato. Come noto, ai sensi dell’art. 8 del D.L. n. 138/2011, i contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale possono derogare, con specifiche intese, alla disciplina legale e contrattuale collettiva, nelle particolari materie elencate al comma 2 dello stesso articolo. L’elenco di cui al comma 2 è tassativo. In particolare, tra i casi previsti alla lett. c) del predetto comma 2, vi sono i contratti a termine per i quali la legge (artt. 1 co. 1, 10 e 7 del D.Lgs. n. 368/2001) stabilisce limiti quantitativi di natura legale e contrattuale, e la cui disciplina risulta derogabile attraverso la contrattazione di prossimità. Tenuto presente che la contrattazione di prossimità è ammessa solo a fronte di specifiche finalità, queste ultime dovranno essere indicate esplicitamente nel contratto. Dovranno, inoltre, essere rispettate alcune condizioni: 1. le intese devono essere finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività; 2. le intese dovranno, comunque, rispettare i limiti costituzionali nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. A tale ultimo riguardo, rileva quanto previsto dalla Direttiva 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato nel quale si prevede che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori.

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N°86 Gennaio 2015 !1

Newsletter N° 86 Gennaio 2015

Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 3

Le Nostre Sentenze 4

Cassazione 7

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Le Nostre Sentenze 8

Assicurazioni 9

Il Punto su 11

R. Stampa 13

Eventi 14

Contatti 15

I limiti della contrattazione di prossimità: si pronuncia il Ministero del Lavoro con riferimento ai contratti a termine Con Interpello n. 30/2014 del 2 dicembre 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha risposto al quesito sulla possibilità di deroga, da parte della contrattazione collettiva di prossimità, ai limiti quantitativi di utilizzo del contratto a tempo determinato.

Come noto, ai sensi dell’art. 8 del D.L. n. 138/2011, i contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale possono derogare, con specifiche intese, alla disciplina legale e contrattuale collettiva, nelle particolari materie elencate al comma 2 dello stesso articolo. L’elenco di cui al comma 2 è tassativo.

In particolare, tra i casi previsti alla lett. c) del predetto comma 2, vi sono i contratti a termine per i quali la legge (artt. 1 co. 1, 10 e 7 del D.Lgs. n. 368/2001) stabilisce limiti quantitativi di natura legale e contrattuale, e la cui disciplina risulta derogabile attraverso la contrattazione di prossimità. Tenuto presente che la contrattazione di prossimità è ammessa solo a fronte di specifiche finalità, queste ultime dovranno essere indicate esplicitamente nel contratto.

Dovranno, inoltre, essere rispettate alcune condizioni:

1. le intese devono essere finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività;

2. le intese dovranno, comunque, rispettare i limiti costituzionali nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro.

A tale ultimo riguardo, rileva quanto previsto dalla Direttiva 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato nel quale si prevede che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori.

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Newsletter T&P Così, sul punto, si legge nell’interpello: “.. va pertanto evidenziato come i contratti di prossimità siano abilitati ad intervenire con discipline che, ad ogni modo, non mettano in discussione il rispetto della cornice giuridica nella quale vanno ad inserirsi”.

Su tali premesse, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha concluso affermando che l’intervento della contrattazione di prossimità non potrà, comunque, rimuovere del tutto i limiti quantitativi previsti dalla legislazione o dalla contrattazione nazionale, ma esclusivamente prevederne una diversa modulazione.

Damiana Lesce

Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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L’obesità può costituire una causa di discriminazione sul luogo di lavoro? A cura di Antonio Cazzella Con una recente sentenza del 18 dicembre 2014, la Corte di Giustizia si è pronunciata sul licenziamento di un dipendente del comune di Billund (Danimarca), che svolgeva mansioni di babysitter presso la propria abitazione, licenziato per ragioni organizzative, in quanto la riduzione del numero di bambini da sorvegliare aveva determinato un calo del lavoro e, quindi, la necessità di ridurre l’organico dei babysitter.

Il lavoratore ha dedotto che il licenziamento non aveva riguardato altri colleghi con analoghe mansioni e che tale provvedimento era stato, in realtà, determinato da una ragione discriminatoria, ovvero la sua obesità. Il lavoratore era sempre stato “obeso” (ai sensi della definizione fornita dall’Organizzazione mondiale della Sanità) nel corso di tutto il rapporto di lavoro (durato circa 15 anni); egli aveva cercato di perdere peso, anche con l’aiuto del datore di lavoro, che lo aveva sostenuto economicamente per frequentare corsi di fitness e praticare altre attività fisiche.

In particolare, il lavoratore ha dedotto che, prima di essere licenziato, aveva ricevuto alcune visite inaspettate da parte della responsabile degli assistenti all’infanzia, che desiderava informarsi sulla sua perdita di peso, atteso che, nonostante gli sforzi, nel corso degli anni il peso era rimasto pressoché invariato.

La Corte di Giustizia ha rilevato che la direttiva 2000/78/CE non prevede una discriminazione in ragione dell’obesità, in quanto vieta la discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali.

La Corte di Giustizia, inoltre, ha precisato che l’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 non deve essere esteso, per analogia, ad altre ipotesi di discriminazione che non siano fondate sui motivi sopra richiamati ed elencati tassativamente dall’art. 1 della direttiva medesima.

In particolare, la Corte di Giustizia ha precisato che la nozione di “handicap”, ai sensi della direttiva 2000/78, non dipende dalla determinazione della misura in cui la persona abbia potuto, o meno, contribuire all’insorgenza del suo handicap ed ha, quindi, affermato il principio secondo cui “la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che lo stato di obesità di un lavoratore costituisce un “handicap”, ai sensi di tale direttiva, qualora determini una limitazione, risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con altri lavoratori”.

La Corte di Giustizia ha concluso che spetta al giudice nazionale verificare se l’obesità possa qualificarsi come “handicap” e, quindi, costituire un presupposto per affermare la sussistenza di una discriminazione ove risulti che il provvedimento del datore di lavoro sia stato adottato in ragione di tale condizione fisica.

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LA SENTENZA DEL MESE RSU E ASSEGNAZIONE A DIVERSA UNITÀ PRODUTTIVA IN MEDESIMA SEDE (Tribunale di Busto Arsizio, ordinanza 17 dicembre 2014) Due componenti della RSU aziendale (settore pubblico impiego) agivano con ricorso in via di urgenza (ex art. 700 c.p.c.), sostenendo che la loro assegnazione ad altra unità produttiva, nell’ambito della stessa sede aziendale, avrebbe impedito ai medesimi un contatto quotidiano frequente, come in precedenza, con gli altri dipendenti, inibendo loro di svolgere adeguatamente la campagna elettorale per le nuove elezioni. Il Tribunale, facendo proprie le tesi esposte nella memoria difensiva dell’azienda, ha ritenuto non fondato il ricorso, affermando che la diversa assegnazione in diversa unità produttiva rientra nello ius variandi del datore di lavoro, che ha il solo obbligo di garantire il rispetto dell’equivalenza professionale e di assicurare quanto stabilito dalla disciplina legale e contrattuale (es.: permessi sindacali). Il datore non ha, invece, alcun obbligo di inserire i rappresentanti sindacali “in una posizione lavorativa tale per cui gli stessi possano avere più o meno possibilità di contatto con gli altri dipendenti in orario di lavoro… né alcun obbligo di inserirli in mansioni che consentano di svolgere proficuamente la campagna elettorale”. Il Tribunale ha aggiunto (ma sotto questo aspetto è rilevante la disciplina vigente nel pubblico impiego e, in particolare, l’art. 18 del contratto collettivo nazionale quadro (CCNQ) 7 agosto 1988), che l’assegnazione ad altra unità produttiva nell’ambito della stessa sede non comporta l’obbligo di indicare i motivi, né di richiedere il nulla osta all’organizzazione sindacale di appartenenza, in quanto non si tratta di “trasferimento”. Causa seguita da Stefano Beretta

ALTRE SENTENZE

NON È MOBBING IL RIFIUTO DI CONCEDERE UN’ASPETTATIVA NON PREVISTA DAL CCNL, NÉ LA MODIFICA DEL TURNO IMPOSTA DA ESIGENZE AZIENDALI (Corte d’Appello di Roma, 16 gennaio 2015)

Una recente sentenza della Corte d’Appello di Roma, Sezione Lavoro, si è pronunciata in ordine alla impugnativa di un licenziamento intimato ad un lavoratore per superamento del periodo di comporto ed in merito alla domanda di risarcimento per preteso mobbing formulata dall’ex dipendente, a fronte di asserite illegittime condotte imputate all’azienda (in particolare al nuovo gestore subentrato nella conduzione della medesima). In relazione al licenziamento, si è accertato che il medesimo era stato irrogato, in particolare, in quanto: (i) il dipendente aveva superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, per assenze dovute a malattia, previsto dal CCNL; ( ii) inoltre lo stesso - dopo aver chiesto ed usufruito al termine delle assenze per malattia di un periodo di aspettativa (anche se per una durata inferiore a quella massima prevista dalla contrattazione collettiva) - aveva, successivamente, avanzato la richiesta di usufruire di un ulteriore periodo di aspettativa (nei limiti del periodo massimo previsto dal CCNL), che la società non aveva, tuttavia, concesso. I Giudici d’Appello hanno confermato la sentenza di primo grado che aveva accertato la legittimità della condotta del datore di lavoro, il quale aveva negato la sussistenza del diritto ad un ulteriore periodo di aspettativa (aggiuntivo rispetto a quello già richiesto dal lavoratore), con la conseguente legittimità del provvedimento di risoluzione del contratto al

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al termine del primo periodo di aspettativa concesso dal datore di lavoro, in considerazione del superamento del periodo di comporto. Quanto sopra, in primo luogo, poiché non risulta nessun obbligo di legge e/o di contratto a carico del datore di accoglimento di eventuali plurime richieste del lavoratore di molteplici periodi di aspettativa fino al raggiungimento del tetto massimo previsto dal CCNL, bensì solo il diritto del dipendente di beneficiare di un periodo di aspettativa richiesto entro il limite di durata previsto dalla contrattazione collettiva. Inoltre, la Corte di Appello ha accertato che la pretesa di usufruire del secondo periodo di aspettativa era fondata su una asserita sindrome ansioso-depressiva e, pertanto, da malattia psichica, come tale non legittimante, in base al CCNL, la concessione dell’aspettativa. Peraltro, in sentenza, si è rilevato che l’appellante non aveva formulato specifici motivi in ordine alla pretesa frazionabilità del diritto all’aspettativa, né in relazione alla asserita esclusione della suddetta sindrome ansioso-depressiva dal novero delle malattie psichiche (con conseguente, rispettivamente, infondatezza e genericità dei relativi motivi di ricorso). La pronuncia in esame ha, altresì, confermato il rigetto delle domande avversarie in materia di mobbing. Il lavoratore, infatti, aveva lamentato una condotta illegittima del nuovo gestore dell’azienda che non avrebbe mantenuto la possibilità, in capo al medesimo, di operare in turno serale (come accadeva con il precedente gestore), così da consentirgli di svolgere altra occupazione (sic!). In punto, i Giudici di secondo grado hanno statuito che la modifica dei turni deve ritenersi legittima, in quanto rientrante nei poteri organizzativi ed imprenditoriali di cui all’art. 41 cost. e, comunque, anche a fronte del fatto che la rotazione dei turni è stata applicata, da parte del nuovo gestore, a tutto il personale. A ciò si aggiunga il fatto che il brevissimo lasso di tempo tra l’introduzione della nuova organizzazione e l’inizio della asserita patologia depressiva (solo una settimana di lavoro prima che insorgessero i pretesi primi sintomi di ansia depressiva dedotti e posti quale conseguenza del mobbing, con successive assenze dal lavoro), rendeva evidente la non riconducibilità della malattia ad una condotta aziendale (fra l’altro senza altri comportamenti vessatori, tali da incidere sullo stato di salute dell’interessato). Alla luce degli elementi sopra riportati è stato confermato l’esito del primo grado di giudizio, statuendo l’inesistenza di condotte illegittime e/o vessatorie in capo al datore di lavoro. Causa seguita da Vittorio Provera e Marta Filadoro

SE LE PARTI HANNO FORMALIZZATO UN RAPPORTO AUTONOMO, RIVENDICANDO LA SUBORDINAZIONE IL LAVORATORE DEVE PROVARE LA SIMULAZIONE DEL CONTRATTO (Corte d’Appello di Milano, sentenza 30 maggio - 17 giugno 2014)

Una lavoratrice, svolgente mansioni ausiliarie in ambito sanitario, ha convenuto in giudizio una struttura ospedaliera, allegando di aver espletato attività libero professionale, per conto di tale struttura, che ha poi risolto il contratto. La lavoratrice ha, quindi, rivendicato la pretesa natura subordinata del rapporto, chiedendo la condanna della medesima struttura a reintegrarla nel posto di lavoro e al pagamento di un rilevante importo a titolo di differenze retributive. La struttura sanitaria, costituendosi, ha eccepito il mancato assolvimento dell’onere della prova, da parte della lavoratrice, della sussistenza di un preteso rapporto subordinato. In particolare, l’Ente ha evidenziato che le parti hanno formalizzato un contratto di collaborazione libero professionale e che il rapporto non si è mai svolto con vincolo di esclusiva, essendo pacifico che la lavoratrice collaborava con altre strutture concorrenti e, anche per questo, aveva orari di lavoro molto flessibili, dalla stessa stabiliti, onde poter coordinare i propri impegni professionali ulteriori, rispetto a quello presso l’ente resistente. Tanto il Tribunale, quanto la Corte d’Appello hanno rigettato le pretese della lavoratrice, evidenziando i seguenti principi di diritto:

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1. poiché qualsiasi attività umana economicamente rilevante può essere svolta sia in regime di lavoro subordinato, che nelle forme del lavoro autonomo, in relazione alla scelta liberamente compiuta dalle parti, l'analisi sulla qualificazione del rapporto non può prescindere da quella operata dalle parti in sede di iniziale stipulazione del contratto. Pertanto, laddove le parti abbiano formalizzato il rapporto come autonomo, il lavoratore che contesta tale qualifica e rivendica la subordinazione deve offrire la prova rigorosa della simulazione del contratto e/o della novazione oggettiva del rapporto in corso di esecuzione;

2. in ipotesi di prestazioni lavorative di natura intellettuale o professionale, tali prestazioni non richiedono per la loro stessa natura, da parte di chi le fornisce, alcuna organizzazione imprenditoriale, né postulano un'assunzione di rischio a carico del lavoratore. Per tale ragione, l’assenza di un rischio di impresa non comporta l’automatica conversione del rapporto da autonomo a subordinato;

3. l’assenza di un vincolo di esclusiva depone a favore della natura autonoma del rapporto, soprattutto quando essa comporta anche una necessaria flessibilità dell’orario di lavoro, determinato dallo stesso lavoratore;

4. la natura autonoma del rapporto non è incompatibile con la fungibilità della prestazione resa, elemento che inerisce alla struttura organizzativa aziendale, non alla qualificazione dei rapporti di lavoro.

Causa seguita da Tommaso Targa

SUPERIORE INQUADRAMENTO: ONERI DI ALLEGAZIONE E PROVA A CARICO DEL LAVORATORE (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 12 maggio 2014)

Nel procedimento logico - giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato, non può prescindersi da tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine e i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda. Lo ha ribadito il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, rigettando un ricorso proposto da un dipendente che assumeva di essere stato assegnato a mansioni superiori al livello di inquadramento e, quindi, rivendicava il riconoscimento della superiore qualifica e la corresponsione delle correlate differenze retributive. Nel caso di specie, il lavoratore - pur avendo riportato in ricorso le declaratorie contrattuali del livello di inquadramento e di quello rivendicato - non aveva neppure dedotto di essere in possesso di tutti i requisiti ivi previsti necessari all’attribuzione della qualifica superiore e, in ogni caso, l’istruttoria testimoniale aveva escluso la sussistenza dei medesimi. Causa seguita da Luca Peron e Tiziano Feriani

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE A cura di Stefano Beretta e Antonio CazzellaLICENZIAMENTO DISCIPLINARE: IPOTESI VARIE Con sentenza n. 25608 del 3 dicembre 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore, che svolgeva mansioni di cassiere presso un istituto di credito, il quale, per una “svista”, aveva contabilizzato erroneamente un prelievo in contanti; il lavoratore, peraltro, aveva già ricevuto sanzioni disciplinari analoghe. Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha accolto le censure del lavoratore, in quanto nel giudizio di merito non era stato considerato, ai fini della proporzionalità della sanzione, che la Banca ed il correntista non avevano ricevuto alcun danno da tale errata operazione e non era, altresì, ravvisabile una condotta dolosa da parte del cassiere: infatti, la circostanza che un cassiere possa sbagliare nell’utilizzare il computer e, quindi, digitare erroneamente il numero del conto corrente o fare confusione sul conto di addebito del prelievo, non può comportare l’irrimediabile lesione del rapporto fiduciario. Sempre in materia di dipendenti bancari, con sentenza n. 26039 del 10 dicembre 2014, la Corte di Cassazione ha invece ritenuto legittimo il licenziamento di un cassiere che aveva più volte effettuato prelievi sui conti bancari dei clienti all’insaputa dei titolari ed aveva concesso alla clientela sconfinamenti senza ordine scritto; tale comportamento è stato ritenuto ancor più grave in considerazione del fatto che il cassiere operava in una filiale distante dalla sede centrale e, quindi, era soggetto a minori controlli rispetto agli altri colleghi. Con sentenza n. 26114 del 4 dicembre 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore, addetto a mansioni di pulizia dei rifiuti, che si era rifiutato di svolgere la prestazione, lamentando le carenze igienico-sanitarie del cantiere ove operava; la Corte di merito ha esaminato la prova testimoniale raccolta in primo grado, dalla quale era emerso che il lavoratore, nello svolgimento dell’incarico affidato, doveva entrare in contatto con sostanze nocive e pericolose e, quindi, sarebbe stato necessario metterlo in condizioni di poter effettuare un’accurata pulizia personale alla fine del turno di lavoro; dalle prove era emerso, invece, che non era stata adottata alcune misura igienica in tal senso, circostanza di cui il datore era peraltro consapevole. Con sentenza n. 26744 del 14 dicembre 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore, con mansioni di modellista presso un’industria di calzature, che aveva tentato di sottrarre o ricopiare modelli e disegni; si tratta, infatti, di un comportamento palesemente contrario all’obbligo di fedeltà e, quindi, idoneo a ledere definitivamente il vincolo fiduciario.

DANNO DA DEMANSIONAMENTO: NON SUSSISTE SE IL DIRIGENTE RIFIUTA IL TRASFERIMENTO Con sentenza n. 17 del 7 gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha rigettato la domanda di un dirigente, che aveva chiesto il risarcimento del danno da demansionamento. Nel caso di specie, il dirigente lamentava che, a seguito di una riorganizzazione aziendale, era stato assegnato ad un altro ufficio per un training formativo, presso il quale era rimasto sino al suo pensionamento. La pretesa risarcitoria del dirigente è stata disattesa, in quanto è stato dimostrato che, a seguito della riorganizzazione, l’azienda si era subito attivata sia per la formazione/riconversione professionale del dirigente sia per il reperimento di un altro incarico direttivo, che era stato rifiutato dal lavoratore in quanto comportava un trasferimento lontano dalla sua residenza.

LICENZIAMENTO COLLETTIVO: RISTRUTTURAZIONE DI SETTORE E CRITERI DI SCELTA Con sentenza n. 203 del 12 gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di ristrutturazione aziendale che riguardi uno specifico settore, la platea dei lavoratori interessati al licenziamento collettivo può essere limitata ai soli addetti a quello specifico settore esclusivamente in presenza di oggettive esigenze tecnico-produttive, fermo restando che la comparazione della posizione dei lavoratori deve essere orientata ai principi di buona fede e correttezza. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto che il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da licenziare ai soli addetti del settore interessato se tali soggetti sono idonei ad occupare posizioni lavorative in altri settori.

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N°86 Gennaio 2015 � 8

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Civile, Commerciale, Assicurativo

LE NOSTRE SENTENZE ESTRANEITÀ DELLA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE AL RAPPORTO DI SUBAGENZIA E CONSEGUENTE CARENZA DI LEGITTIMAZIONE PASSIVA (Tribunale di Como, 18 novembre 2014)

Nel settore assicurativo, la Compagnia e l’Agente Generale sono due soggetti giuridici autonomi e distinti e il contratto di agenzia tra di essi intercorrente è, a sua volta, distinto e separato rispetto al contratto di subagenzia, concluso tra l’Agente Generale e i propri eventuali subagenti, che postula la conclusione di contratti di assicurazione soltanto per conto dell’Agente e non anche della Compagnia. Pertanto, qualora l’Agente Generale decida di avvalersi di subagenti ai fini dell’espletamento del mandato, la Compagnia non ha alcun rapporto diretto con detti subagenti, ma rimane estranea al rapporto instaurato tra di essi e l’Agenzia Generale. Lo ha ribadito il Tribunale di Como, dichiarando la carenza di legittimazione passiva della Compagnia di assicurazioni rispetto alle domande avanzate nei suoi confronti dai subagenti della propria Agenzia Generale, relative al pagamento di pretese provvigioni e dell’indennità di liquidazione per fine mandato. Causa seguita da Stefano Beretta e Tiziano Feriani

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N°86 Gennaio 2015 � 9

Newsletter T&P Assicurazioni

A cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

FIDEJUSSIONE

La previsione di un limite di tempo alla fideiussione inferiore a quello del rapporto garantito  deve ritenersi consentita. E invero,  sebbene non espressamente prevista dal codice, una tale previsione può ricondursi alla previsione dell'art. 1941 secondo comma c.c. che consente di prestare la fideiussione per una parte soltanto del debito o a condizioni meno onerose e, in ogni caso, la stessa non è vietata perché pur sempre tesa a mettere il garante in una posizione più favorevole rispetto a quella del debitore principale. (Cassazione, n. 27531, 30 dicembre 2014)

RESPONSABILITÀ EX

ART. 2051 C.C.

Deve escludersi la responsabilità per custodia in capo alla società custode dello stadio cittadino per i danni subiti da uno spettatore mentre assisteva ad una partita di calcio perché colpito al viso da un oggetto (un moschettone da trekking) lanciato da un "anello" dello stadio superiore al suo, riportando la frattura dell'arco zigomatico, trattandosi di danno riconducibile non alla natura del bene custodito, né dall'uso che ne è stato fatto dal custode, bensì al comportamento illecito di un terzo, rispetto al quale lo stadio ha rappresentato esclusivamente il contesto nell'ambito del quale è maturata la vicenda: ed è maturata per ragioni attinenti all'esagitazione del pubblico e non per effetto della peculiare conformazione o delle modalità di gestione del luogo. (Cassazione, n. 26901, 19 dicembre 2014)

LIQUIDAZIONE DEL

DANNO BIOLOGICO

Il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno. (Cassazione, n. 26897, 19 dicembre 2014)

MODALITÀ DI

PAGAMENTO

Il pagamento con un sistema diverso dalla moneta avente corso legale nello Stato o dall'assegno circolare, ma che assicuri al creditore la disponibilità della somma dovuta, può essere rifiutato dal creditore soltanto per un giustificato motivo, dovendosi altrimenti intendere il rifiuto come contrario al principio di correttezza e buona fede (confermata la decisione dei giudici del merito secondo cui il pagamento mediante assegno bancario, invece che in denaro contante, doveva ritenersi legittimo e tempestivo, provenendo peraltro da una società di assicurazione molto importante, mentre il trattenimento del titolo, da parte

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N°86 Gennaio 2015 � 10

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del privato, per lungo tempo e senza fornire spiegazioni costituiva una violazione del principio di buona fede, anche se l'assegno non era stato incassato). (Cassazione, n. 26543, 17 dicembre 2014)

CASO FORTUITO E

RESPONSABILITÀ EX

ART. 2051 C.C.

Una pioggia di particolare forza ed intensità, protrattasi per un tempo molto lungo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, ragionando in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore; ma non quando sia stata accertata dal giudice di merito l'esistenza di elementi dai quali desumere una sicura responsabilità proprio del soggetto che invoca l'esimente in questione (fattispecie relativa all'azione di risarcimento proposta da alcuni proprietari di un fondo per i danni subiti da un fabbricato a causa dell'invasione da parte di un'enorme massa d'acqua proveniente dalla strada statale, su cui erano stati eseguiti lavori di allargamento della sede stradale senza però realizzare un adeguato sistema di deflusso delle acque piovane). (Cassazione, n. 26545, 17 dicembre 2014)

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N°86 Gennaio 2015 � 11

IL PUNTO SU A cura di Vittorio Provera

BREVETTI E VALUTAZIONE “DELL’ALTEZZA INVENTIVA”, COME EVITARE LA BREVETTAZIONE DELL’OVVIO

Nello sforzo continuo delle imprese di valorizzare i propri prodotti e/o trovati al fine di sfruttare in modo più efficace anche gli elementi di novità (e se possibile farne oggetto di tutela brevettuale), assume importanza decisiva l’individuazione dei criteri e modalità attraverso cui può essere accertata la presenza del requisito della cosiddetta “altezza inventiva”. Si tratta di una verifica condotta, soprattutto, nell’ambito dei contenziosi avviati per violazione dei diritti di privativa.

Al riguardo, una pronuncia del Tribunale di Milano avente ad oggetto un’invenzione di procedimento, offre lo spunto per una riflessione in merito (si tratta della ordinanza del Tribunale di Milano del 14 ottobre 2013).

Il ricorrente deduceva di aver brevettato - mediante l’impiego di un apposito bicchiere con particolari nervature interne ed un certo sistema di rotazione del medesimo – un procedimento idoneo ad eliminare l’anidride carbonica in eccesso, contenuta nelle birre ad alta fermentazione. Scopo dell’invenzione era, dunque, quello di diminuire l’assorbimento di alcool nell’organismo attraverso una riduzione dell’ingestione di anidride carbonica da parte del consumatore. L’interessato aveva tutelato l’invenzione con il deposito di un brevetto nazionale, poi esteso in Europa con un brevetto europeo. Il medesimo aveva, quindi, avviato una causa contro un’azienda vetraria, lamentando che detta Società avrebbe realizzato e messo in commercio bicchieri simili attraverso – peraltro – lo sfruttamento indebito delle conoscenze riservate apprese durante le trattative intercorse per la produzione del bicchiere sulla base dell’invenzione di cui sopra. Era, pertanto, chiesto al Tribunale di inibire all’azienda convenuta la prosecuzione della produzione e della commercializzazione dei bicchieri in questione, nonché il ritiro dal commercio degli stessi. La Società resistente, dal canto suo, negava la sussistenza del preteso illecito concorrenziale ed eccepiva l’invalidità dei brevetti.

Nell’ambito del relativo giudizio, il Tribunale disponeva una consulenza tecnica d’ufficio avente – ovviamente – ad oggetto la valutazione dei due brevetti (italiano ed europeo), al fine di verificare l’esistenza in capo agli stessi dei requisiti di validità. Il Consulente Tecnico d’Ufficio designato verificava che (fermo lo scopo dell’invenzione come sopra già illustrato) nella stessa descrizione del brevetto si era asserito che costituiva fatto notorio la circostanza che il trattamento di rotazione e/o inclinazione di un bicchiere, in cui è contenuta la bevanda alcolica prima della degustazione, può determinare una riduzione del tasso di anidride carbonica (e, quindi, del successivo assorbimento di alcol in capo al consumatore).

Da ciò conseguiva l’inesistenza di elementi di novità in relazione alla semplice specificazione (contenuta nel brevetto) che detta rotazione e inclinazione del bicchiere avvenga in fase di riempimento dello stesso “tenuto conto dell’ovvietà del trovato rispetto alle conoscenze proprie dell’esperto del settore”.

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Al riguardo, l’esperto del settore (che ha fornito le indicazioni sul metodo) era stato individuato dal CTU nella figura del sommelier il quale – essendo a conoscenza delle proprietà degli scambi gassosi dei prodotti alcolici, nonché della tecnica di inclinare il bicchiere durante l’operazione di riempimento della bevanda – riteneva ovvio estendere detto movimento (determinato dalle nervature) anche nella fase di riempimento, mantenendo inclinato il bicchiere.

Le conclusioni di “ovvietà” a cui è giunto il CTU, sulla base della valutazione dell’esperto, sono state condivise dal Tribunale che ha pertanto negato, al trovato, il requisito dell’altezza inventiva, in considerazione dello stato delle conoscenze e delle capacità “dell’esperto”.

Da tale statuizione si possono trarre alcune considerazioni. In generale, in caso di invenzioni industriali e altre creazioni intellettuali, l’ambito di protezione conferita mediante il sistema dei brevetti dipende, in primo luogo, dalla corretta individuazione del nucleo tutelabile in funzione della descrizione e delle rivendicazioni inerenti la parte principale del brevetto (c.d. “sufficiente descrizione”) (art. 51 c.p.i.). In altre parole, incombe sull’inventore l’onere di indicare esattamente il trovato, sì da determinare chiaramente l’estensione della privativa. Tuttavia, la chiarezza descrittiva non è di per sé assorbente e si accompagna ad altre condizioni di brevettabilità dell’invenzione. Brevemente, oltre al requisito della liceità (art. 50 c.p.i.), il rilascio di un brevetto può essere ottenuto qualora sussistano anche i requisiti di novità (art. 46 c.p.i.), di inventiva del trovato (art. 48 c.p.i.), oltre a quello della industriabilità (art. 49 c.p.i.).

In particolare, a differenza del presupposto della “novità” – che risulta soddisfatto nel momento in cui un’invenzione non sia compresa nello stato della tecnica (per esso intendendosi tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello Stato o all’estero prima del deposito della domanda di brevetto) – un’invenzione è caratterizzata da “altezza inventiva”, qualora essa sia caratterizzata dalla c.d. novità intrinseca. In altre parole, l’elemento determinante nell’apprezzamento dell’attività inventiva è stabilire se la soluzione oggetto di brevettazione non risulti già in modo evidente dallo stato della tecnica. Pertanto, dovrà essere considerato privo di “altezza inventiva” quel trovato che il tecnico medio del settore, tenendo conto dello stato dell’arte, avrebbe considerato ovvio realizzare.

Ma come si deve ricercare, in concreto, la sussistenza di detto requisito? In base al percorso delineato dal Tribunale, tale giudizio c.d. “di non ovvietà” presuppone: (i) in primo luogo, l’individuazione del settore cui attiene l’invenzione coperta da brevetto; (ii) in secondo luogo, la costruzione di un modello astratto di “persona esperta del ramo” – le cui conoscenze e capacità dovranno essere fissate in modo da rispecchiare quelle presumibilmente possedute da un operatore reale di livello medio – che fungerà da parametro di riferimento del giudizio di non evidenza; (iii) quindi deve essere operato un confronto tra la soluzione sostanzialmente alla portata degli esperti del settore – secondo le comuni conoscenze generali, nonché quelle c.d. “potenziate” dello specifico settore cui l’invenzione appartiene, in combinazione con le diverse anteriorità – e quella oggetto di pretesa invenzione, oggetto di brevetto. Se, in seguito al confronto, risulterà che le due soluzioni sono identiche o simili, ossia, sebbene espresse in una forma diversa, sono tecnicamente equivalenti, allora non v’è alcuna invenzione. Come stabilito dalla pronuncia in esame, infatti: “Non può ritenersi effettivamente inventiva la mera evidenziazione di uno dei noti effetti di un’operazione o di un trattamento già utilizzato e conosciuto nello stesso settore, posto che l’invenzione costituisce la soluzione nuova ed originale di un problema tecnico”.

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Rassegna Stampa

Gennaio 2015 Highlights T&P 2014

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 29/01/2015 Il Fisco riliquida una maggiore imposta sull’incentivo all’esodo: il datore di lavoro non pagadi Marina Olgiati e Francesco Torniamenti

Gazzetta di Parma: 24/01/2015 Jobs Act, nei contratti di lavoro si cerca equilibrio e flessibilità

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 22/01/2015 Licenziamento per superamento del periodo di comporto, periodo di aspettativa, mobbingdi Vittorio Provera e Marta Filadoro

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 15/01/2015 Non costituisce mobbing un mutamento di mansioni disposto per comprovate esigenze organizzativedi Tommaso Targa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 13/01/2015 Oltre la Riforma Fornerodi Stefano Beretta

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 07/01/2015 L’obesità può costituire una causa di discriminazione sul luogo di lavoro?di Antonio Cazzella

JOB24 – Il Sole 24 Ore: 22/12/2014 Norme europee – I licenziamenti collettivi e i dirigentiVideo intervista a Giacinto Favalli

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Eventi

Milano, 3 Febbraio 2015, ore 15:00 – 18:00 Salone Valente – Via Freguglia n. 14Convegno AGI: Prime riflessioni sulla nuova disciplina dei licenziamenti Relatore: Avv. Giacinto Favalli

Milano, 4 Febbraio 2015 Grand Hotel et de MilanConvegno Paradigma: Il contratto a tutele crescenti nelle disposizioni del Jobs Act Comparazione di convenienza tra gli strumenti classici di flessibilità e il nuovo contratto a tutele crescenti • Contratto a termine e contratto a tutele crescenti • Collaborazione a progetto e contratto a tutele crescenti • Contratto di apprendistato e contratto a tutele crescenti Relatore: Avv. Giacinto Favalli

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