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New media. Cosa questo territorio comprenda è controverso. Alcuni lo restringo-no alle tecnologie digitali e informatiche; per noi è invece un termine ombrello cheinclude opere costruite con tecnologie sia analogiche che digitali, compreso il web(quanto poi l’arte in rete – ideata esclusivamente per essere fruita attraverso Inter-net – sia in relazione col mondo dell’arte o di pertinenza delle sociologie dei pro-cessi culturali, è un dibattito appena agli inizi e ancora tutt’altro che definito; Tri-be-Jana 2006).

L’arco storico che occupa il nostro campo di indagine è racchiuso fra glianni settanta del XX secolo e i primi del XXI. Si tratta di un periodo caratterizza-to anzitutto da una forte contaminazione fra le arti. Per sintetizzare al massimo: laprima sperimentazione videografica si colloca nel contesto di azzeramento e rein-venzione dei linguaggi, e di sconfinamento nell’extra-artistico, della performanceart (1970-1975): per gli artisti dei primi anni settanta il dispositivo elettronico in-carnava un’idea di opera processuale, non finita, modificabile, non consumabile sulmercato dell’arte (azione vs prodotto). Il periodo compreso tra la fine degli annisettanta e i primi anni ottanta vede invece consumarsi l’esperienza della perfor-mance art con la conseguente messa in crisi dell’elitarismo delle neo-avanguardiee l’affermarsi di un’arte spettacolare capace di dialogare, con l’apporto delle nuovetecnologie, con la cultura popolare e mediatica, insieme al consolidarsi di un lin-

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IMPARARE A RIDEREE RESTARE PERFETTAMENTE

PESSIMISTI

VALENTINA VALENTINI

«Bisogna mandare il tutto in frantumi, disimparare a rispettare il tutto.» Friedrich Nietzsche

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guaggio e di un’estetica videografica grazie al lavoro di artisti che utilizzavano il di-spositivo elettronico all’interno del sistema delle arti visive, rivelatesi più aperte ri-spetto al cinema e alla televisione. Con l’avvento delle tecnologie digitali e infor-matiche, negli anni novanta, si produce una uniformazione dei supporti e dei pro-cessi produttivi che determina una svolta storica nell’ambito dell’immagine in mo-vimento e dell’immagine fissa, e la rimozione del patrimonio storico-artistico-teo-rico costituito dall’arte video (Lissoni 2006).

Questo saggio tuttavia non si costruisce su una narrazione storica, ordi-nando in successione cronologica opere e autori; tenta semmai di evidenziare, al-l’interno di ciascun paradigma “comico”, lo specifico contesto di un territorio ibri-do, indefinito e complesso come quello dei new media, che attraversa land art, bo-dy art, environment, installazioni, video arte, “la televisione intelligente”, net art elive media. All’interno del fenomeno del comico, che si connota anch’esso comeambiguo, contraddittorio e inafferrabile, assumiamo i seguenti tratti: la gioia delnonsense, il rovesciare l’esperienza nel suo contrario, le tecniche di sottrazione edistorsione, il prelevare dettagli dall’insieme, il disarmonico, lo smembramento del-la figura umana nella caricatura; la parodia non tanto come imitazione rovesciata,ma come appropriazione di testi e loro decontestualizzazione (postproduction); ledimensioni dell’assurdo e del grottesco; il doppio; l’opposizione fra il calmo (la de-celerazione) e il frenetico (la velocità di scorrimento delle immagini); la mascheracome passaggio da una forma a una differente; le epifanie, il fulmineo elemento chesconvolge l’andamento continuo delle immagini (e che molto spesso si presenta co-me bloccarsi del moto); l’animazione dell’inanimato e viceversa; l’uso del fuori sca-la, sia del piccolo che diventa grande che della moltiplicazione pullulante di ogget-ti sullo schermo.

In particolare le pratiche videografiche enfatizzano lo spirito decostrut-tivo del dionisismo in quanto la natura live del dispositivo elettronico privilegiatadalle installazioni delle origini, insieme al valore forte del contesto e al ruolo de-terminante dello spettatore, fanno di queste nuove forme artistiche la “dimora” incui non solo si smantellano le convenzioni del vedere e le norme delle arti plasti-che, ma si costruiscono nuove modalità di rappresentazione e interferenza fra learti.

Nelle pagine che seguono abbiamo raggruppato opere e artisti in cinquecostellazioni. Guardare dall’angolazione del tempo comico a queste opere realiz-zate con tecnologie elettroniche, digitali e multimediali ci porta a scoprire i modiin cui la video arte, nel contesto della new media art, ha manipolato trasformato eridefinito il senso stesso del comico.

L’ironia delle performance di body art

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1 Bruce Nauman,Clown Torture (dark andstormy night with laughter),1985, still da video. Gent,Collection S.M.A.K.

2 Bruce Nauman,Clown Torture (dark andstormy night with laughter),1985, still da video. Gent,Collection S.M.A.K.

3 Bruce Nauman,Art Make-Up No. 1: White,1967-1968, film 16mm, 40min.

4 Bruce Nauman,Art Make-Up No. 2: Pink,1967-1968, film 16mm, 40min.

5 Bruce Nauman,Art Make-Up No. 4: Black,1967-1968, film 16mm, 40min.

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ni, persiste una duplice attitudine nei confronti dello spettatore, di seduzione e ag-gressione: in Instant House (1980) l’artista rinchiude il visitatore letteralmente traquattro pareti di una “casa” che imprigiona e protegge il corpo; con Bad Dream Hou-se (1984) la casa viene capovolta, messa sottosopra, a testa in giù; con Bodies in thePark (1985) vengono predisposti dei sedili a forma di corpo umano ricoperti di tral-ci di vite, con un volto e delle gambe, che sembrano sedie da giardino “ma anche,per un istante, cadaveri mimetizzati” (Shearer 1988, 46). Con le videosculture incalcestruzzo, i Telebodies (1991), giganteschi corpi che hanno introiettato il dispo-sitivo elettronico di ripresa e proiezione, Acconci letteralizza il processo di ingur-gitamento, assimilazione ed espulsione di cibo-immagini da parte del corpo uma-no come metafora del processo produttivo dell’opera da parte dell’artista.

Insieme alla radicale messa in questione del procedimento di composi-zione dell’opera, primo obiettivo da demolire, per gli artisti che per primi speri-mentavano il dispositivo elettronico, era senza dubbio la televisione. “You are theproduct of Tv” recita la scritta del video di Richard Serra, Television Delivers Peo-ple (1973), uno dei primi manifesti, lapidario e ironico, contro il potere della televi-sione. La performance di Joseph Beuys, Filz-tv (1966, ripresa in video nel 1970),presenta una serie di azioni rivolte all’oggetto Tv con un esito finale inequivocabi-le: lo schermo va messo faccia al muro e coperto con un telo, in modo che non pos-sa diffondere né immagini né suoni (l’artista è seduto davanti a un televisore il cuischermo è ricoperto da un pezzo di feltro; si sente un notiziario, ma quando solle-va il feltro, si scopre lo schermo vuoto. Poi l’artista infila dei guantoni da boxe e sicolpisce ripetutamente il viso. L’azione successiva, con un’inquadratura più ravvi-cinata, mostra Beuys che taglia un salame a metà e ausculta lo schermo con uno deidue pezzi. Poi affila a forma di punta l’estremità del salame, lo avvicina al muro elo preme contro di esso. Infine mette il televisore verso il muro e lo dispone di fron-te a un pezzo di feltro che sporge dalla parete).

La condizione dell’artista, il suo sentimento ironico nei confronti del si-stema e del mondo dell’arte, è un altro soggetto ricorrente nelle opere video dei pri-mi anni settanta. La serie dei quattro film brevi di Bruce Nauman, Art Make up (N.1: White, N. 2: Pink, N. 3: Green, N. 4: Black) (1967-1968), nei quali si vede l’artistache si applica sul viso, sulle braccia e sul torace in ciascun film un colore diverso, èuna visualizzazione letterale del ruolo sociale dell’artista, il quale prevede – comenel caso dell’attore – un rituale e una maschera. In questi film Nauman non si tra-veste né interpreta alcun ruolo, ma si prepara simbolicamente a farlo. In Clown Tor-ture (1987) sul muro sinistro viene proiettato Clown Taking a Shit, che mostra unpagliaccio seduto in bagno nell’atto di defecare mentre sui monitor, a un clown con-dannato a ripetere in interminabile loop una filastrocca per bambini, fa eco un al-tro clown che supplica No, no no no… Il soggetto dell’opera richiama la tradizionedi rappresentazione dell’artista come clown, ma è enorme la distanza fra i saltim-

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Lo spirito ironico è il coefficiente che porta a compimento il processo di disinte-grazione della logica quotidiana e meccanica e lo fa esplodere nella risata, che san-cisce la complicità fra emittente e destinatario. L’umorismo è il risultato di una bru-sca e improvvisa cesura, dell’interruzione di un ritmo continuo “che è quello dellavita che passa al ritmo suo proprio” – la linea temporale – per effetto “dell’appari-zione bizzarra d’immagini tanto precise quanto imprevedibili”, come scriveva An-tonin Artaud (il quale, a proposito del cinema del suo tempo, scriveva non a caso:“I film più riusciti in questo senso sono quelli pervasi da un certo humour […] co-me gli Charlot meno umani. Il cinema costellato di sogni, e che ci dia la sensazio-ne fisica della vita pura, trova il suo trionfo nello humour più eccessivo. Una certaagitazione di oggetti, di forme, di espressioni non si traduce bene che nelle convul-sioni e nei soprassalti di una realtà che sembra distruggersi da se stessa con un’iro-nia in cui si sentono gridare gli estremi dello spirito”: Artaud 1927, 22).

Nelle performance realizzate appositamente per la registrazione (in pel-licola e in magnetico) da Gerry Schum (Colonia), Art Tapes 22 (Firenze) e dalla Gal-leria Castelli-Sonnabend (New York), fra la fine degli anni sessanta e i primi annisettanta (esperienze accomunate sotto la definizione di body art), il sentimento iro-nico scaturisce dall’estrema serietà e concentrazione che ciascun artista investe inazioni insensate, fuori dal senso comune, come Il tentativo di volo (1970) di GinoDe Dominicis e il tentativo di lievitazione di Bruce Nauman (Failing to Levitate inthe Studio, 1966).

In queste opere lo spazio disegnato da telecamera e monitor diventa unapalestra-laboratorio entro i cui confini l’artista può in solitudine, restando nel suostudio, sperimentare una nuova grammatica di rapporti fra il corpo e lo spazio, l’ioe il tu, il soggetto e l’ambiente, il fisico e il mentale: uno spazio che include lo spet-tatore e che attiva tutti i sensi, non solo la vista. La possibilità della ripresa diretta,che permette di vedere se stessi nel momento stesso in cui l’artista è in azione, isti-tuisce lo spazio del proprio io diviso come spazio di comunicazione interpersona-le con uno spettatore assente al quale affidare messaggi politici, prescrizioni di ri-volta, ammaestramenti, confessioni private. È il caso di Home Movies (1973) e OpenBook (1974) di Vito Acconci, opere nelle quali si assiste all’intimità di una comuni-cazione amorosa, ironicamente e paradossalmente resa “pubblica”, condotta cioècon ossessiva reiterazione verbale nei confronti di una spettatrice virtuale da se-durre: “Sono aperto, non sono chiuso. Vieni... Puoi fare qualsiasi cosa con me”, ri-pete Acconci spalancando la bocca sino a farle occupare per intero l’inquadratura.Il tratto concettuale di queste performance si rinviene nelle situazioni paradossa-li in cui l’esecuzione “letterale” dell’enunciato o compito che l’artista o lo spettato-re esegue fedelmente, si trasforma in una gag comica eseguita con estrema serietà.

Nei body works di Vito Acconci, come nelle sue successive installazio-

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banchi e gli Arlecchini di Picasso, circonfusi di grazia, e i patetici e aggressivi clowndi Nauman (Paul Mattick, in Morgan 2002, 226). I clown osceni di Nauman, insie-me a quelli di Mike Kelley e Paul McCarthy, oltre a essere “La principale incarna-zione dell’infantilismo contemporaneo” sono figure ibride “in parte malati psico-tici, in parte attori circensi” (Foster 1996, 157).

In Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful (1975) di Marina Abra-movich l’azione di pettinarsi i capelli, che l’artista compie di fronte alla telecame-ra-specchio, è la visualizzazione, ma anche la smentita, del concetto espresso daltitolo. Infatti i gesti sempre più violenti con cui l’artista passa un pettine a denti lar-ghi fra i capelli, l’espressione del volto, la sofferenza e il dolore che l’azione del pet-tinarsi le procura, la voce angosciata e il respiro affannoso, svelano la vera naturadel farsi bella in nome dell’arte. I due video I Am Making Art (1971) e I Will Not Ma-ke Any More Boring Art (1971) di John Baldessari sono ironiche considerazioni sul-lo statuto dell’artista e sulla nuova estetica concettuale: nel primo si vede Baldes-sari in piedi di fronte alla telecamera in uno spazio vuoto che fa movimenti imper-cettibili con le mani, con lievi variazioni, ripetendo la frase “I am making art” (“stofacendo arte”), come se il suo corpo fosse sacro e ogni suo gesto significativo (evi-dente l’ironia nei confronti delle performance di body art); nell’altro scrive comese fosse una penitenza, per tutti i trenta minuti della durata del nastro, la frase chedà il titolo al videotape: “Non farò più arte noiosa”.

L’uso del linguaggio parlato e scritto in queste performance video hauna funzione pragmatica: lega la parole all’azione in una relazione di contraddizio-ne e non di linearità fra ciò che si dice e ciò che si fa. Così facendo enfatizza la sog-gettività del linguaggio, la sua ambiguità anziché trasparenza, la natura espressivae non comunicativa dell’arte. Le parole, veicolate attraverso la spazializzazione del-la voce dell’artista, sono e inducono atti performativi: nel senso che in tempo rea-le producono un’esperienza.

Dispositivi parodici

Citare, ironizzare, ripresentare, evitando il monumento oleografico al classico delpassato. Tutto questo viene inteso da Linda Hutcheon (1985) come una sorta di in-tegrazione fra passato e presente: un modo per ripresentare quanto già immagaz-zinato nell’archivio della cultura, in linea con la tendenza postmoderna di esauto-rare l’autore e mettere sullo stesso piano il patrimonio artistico con quello massme-diatico. L’intento è quello di cambiare di senso, snaturare la fonte con rallentamen-ti, desincronizzazioni, disturbi sonori, cancellazioni. L’imitazione parodica, che haespresso l’ambivalenza di fascinazione e repulsione del video nei confronti delleconvenzioni e dei generi cinematografici e televisivi, caratterizza il procedimento

6 Gorilla Tapes,John Heartfield and thePolitical Image, 1991.

7 Gorilla Tapes,John Heartfield and thePolitical Image, 1991.

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costruttivo di molte opere video. Tre appaiono gli indirizzi principali: quello di de-costruire materiali preesistenti immagazzinati in archivio al fine di ricomporre untesto molteplice; quello di proporre attraverso la riscrittura una riflessione sui ge-neri; quello infine di riprogrammare opere del passato, realizzando veri e propriremake di performance di film.

Nel suo video-manifesto Changer d’image (1982), Jean-Luc Godard so-steneva che cinema e Tv si sarebbero dovuti interessare a cercare la “formula” percambiare le immagini. Per lui la televisione era il luogo di un metadiscorso sui mo-di degli scambi fra emittente e destinatario, fra autore e spettatore; un modo perinterrogarsi sul compito del regista che, da quel momento, comincia a mettere inscena se stesso sdoppiandosi in più ruoli: intervistato e intervistatore, actor e spec-tator. Nelle sue trasmissioni televisive (Six fois deux. Sur et sous la communication,1976 e France tour détour deux enfants, 1977-1978) Godard mette in atto meccani-smi che esaltano la vocazione autoriflessiva della Tv, destrutturando, così, l’interouniverso dell’immaginario televisivo, dai generi ai personaggi e ai linguaggi. Stra-tegie di frammentazione, decontestualizzazione e ricomposizione dei codici lin-guistici sono adottate con finalità di straniamento, per una ironica ritrattazione del-la realtà (riproducibile e alterabile) che produce una deformazione del messaggio.

In queste strategie di “aggressione” rivolte agli apparati mediatici e ar-tistici rientrano differenti metodologie: la controinformazione della guerrilla tele-vision degli anni settanta, la scratch television dei Gorilla Tapes negli ottanta, i pro-grammi di Rai Tre (Blob, 1990; Fuori orario 1990-1992; Avanzi, 1991-1992); gli hac-tivist (come gli [epidemiC]), individui e gruppi militanti che agiscono sulla rete te-lematica diffondendo virus invisibili che “corrompono” il senso dei messaggi; ilgruppo europeo di Share art denominato Etoy – che si autodefinisce “la prima stre-et gang dell’autostrada dell’informazione” – che nel 1996, con un’azione chiamataDigital Hijack, rapì più di seicentomila internauti dirottati sul suo sito mentre na-vigavano su Internet.

Negli anni ottanta esemplare è stata la produzione del gruppo inglesedi community Tv Gorilla Tapes, che ha prodotto una serie di video attraverso il mon-taggio di materiali di repertorio, con i quali veniva demistificata la politica di Ro-nald Reagan e Margaret Thatcher. Una tecnica dalla forte carica politica, che orga-nizzava un controdiscorso sulla natura del medium televisivo: frantumando il flus-so continuo delle trasmissioni Tv, il montaggio scratch manda in aria, sparpaglia edevia la completezza, la finitezza e l’assolutezza dell’immagine televisiva, negan-do alla radice la sua presunta trasparenza e oggettività: una vera e propria arma diguerriglia mediatica, in grado di far emergere ingenuità e fragilità dei leader poli-tici. L’effetto che produce è comico, perché fa dire a Reagan l’esatto contrario di ciòche intende dire: “Noi abbiamo il diritto di mentire, di barare, mettetevelo bene intesta!” (Cubitt 1994, 22-24).

8 Mike Kelleye Paul McCarthy,Blind Country, 1989.

9 Mike Kelleye Paul McCarthy,Blind Country, 1989.

10 Mike Kelleye Paul McCarthy,Blind Country, 1989.

11 Mike Kelleye Paul McCarthy,Blind Country, 1989.

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La rubrica Cinico Tv (1992-1996) di Daniele Ciprì e Franco Maresco perBlob, il programma televisivo ideato da Enrico Ghezzi e Marco Giusti per Rai Tre,ha costituito negli anni novanta una sfida per la televisione italiana: massima si ri-velò infatti la sua capacità di corrosione – con le armi della comicità, dell’ironia edel paradosso – degli stereotipi televisivi. All’inizio del prime-time, alle otto di se-ra, quattro minuti di silenzio terminavano violentemente con uno sputo in facciaal pubblico. Impudicamente Cinico Tv esibiva i suoi non-attori: Marcello Miranda,quasi sempre in mutande, immobile negli intervalli; Rocco Cane, parodia di porno-divo; il ciclista Tirone; Abbate Franco (il San Polifemo che nel lungometraggio Lozio di Brooklyn, del 1995, estrae l’occhio di vetro e viene portato in processione); Fi-langieri Giuseppe, occhiali spessi, voce sommessa, tic; Giordano con le sue barzel-lette che non riesce a concludere; Paviglianiti con la sua enorme pancia nuda, chemangia pasta e fagioli, rutta e scoreggia. Al di là dell’acuta consapevolezza lingui-stica degli autori (“La sfida è stata questa: è possibile in un mezzo dove c’è un taleappiattimento estetico come in Tv, portare invece un discorso di qualità estetica, diricerca, di sperimentazione anche applicata allo spettacolo di varietà, al quiz, agliintervalli, insomma a tutti quelli che sono gli stereotipi televisivi. Noi abbiamo cer-cato di farlo attraverso la comicità, l’ironia, attraverso dei riferimenti precisi, comeil nostro amore per Ford, per il cinema americano, soprattutto quello degli annitrenta-quaranta, la ricerca scrupolosa del bianco e nero”: Ciprì-Maresco 2003, 290-291), colpisce come essi siano riusciti a costruire con pochi tratti dei veri e propritipi, ciascuno bloccato a ripetere l’azione del proprio desiderio irrealizzabile e, in-fine, impietrito in questa coazione a ripetere: irrigidito nei propri tic e atteggiamen-ti ripetitivi, meccanici e indifferenti al reale. Proprio questo attiva il meccanismodel comico che, come indicato da Bergson nel suo storico saggio (Bergson 1900), simanifesta laddove comportamenti rigidi blocchino l’agilità del corpo e le sue pos-sibilità di interazione sociale.

Perfect Lives di Robert Ashley, John Sanborn e Peter Gordon (1978-1983)si presenta come messa in forma televisiva del teatro musicale: versione aggiorna-ta all’elettronica dell’antica forma dell’opera, dove i nuovi Parsifal sono musicistiche agiscono in un paesaggio metropolitano. La storia racconta le avventure di quat-tro personaggi, “R”, “Blue”, Jill e David, che per ottenere la vita eterna devono at-traversare una serie di luoghi deputati: The Park, The SuperMarket, The Bank, TheChurch, The Bar, The Living Room, The Backyard. Ogni luogo corrisponde a un epi-sodio (sono sette di trenta minuti l’uno) e ha una propria struttura (template) conleit-motiv formali e tematici che si ripetono da un episodio a un altro. Sia i mate-riali musicali che quelli visivi sono coordinati da sette diversi templates, schemi ba-se (legati a valori emozionali e stati d’animo) a partire dai quali ciascuno dei tre au-tori ha composto la sua partitura. L’opera è un racconto mitico, attualizzato in unapiccola città americana dei giorni nostri, una sorta di Dallas o Dynasty musicale:

12 Nam June Paik,Chicken Box, Chicken Farm,1986, videoscultura.

15 Nam June Paik,nam june paik RealPlant/Live Plant, 1978(versione del 1982),videoscultura, 61 x 17,57 x 50cm.

14 Nam June Paik,Family of robot: Uncle (lozio), 1986, videoscultura contelevisore e radio d’epoca.

13 Nam June Paik,Family of robot: Aunt (la zia),1986, videoscultura contelevisore e radio d’epoca.

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una ripresa dell’opera classica in cui il tema della reincarnazione e del viaggio si ro-vescia in divertimento comico e la struttura musicale dell’opera assume l’idiomarock e la forma della canzone.

Double Blind di Sophie Calle e Gregory Shepard (1992) è un road moviegirato in elettronica che racconta la storia di due persone, interpretate dagli auto-ri stessi, che attraversano gli Stati Uniti coast to coast in Cadillac decappottabile,muniti ciascuno di una telecamera. Lungo il viaggio celebrano il proprio matrimo-nio a Las Vegas, in una chiesa lungo l’autostrada; e arrivati alla meta, a San Franci-sco, si separano e vendono l’automobile. Con la fine del viaggio termina anche il vi-deo (quando veniamo a conoscenza del tradimento epistolare di Shepard con unamisteriosa donna siglata H). In Double Blind apparentemente tutto è concreto e rea-le: c’è una storia e c’è un percorso – una destinazione, un conflitto e il suo sciogli-mento. In realtà tutto è rovesciato: a partire dai ruoli (maschile e femminile) e daltopos del viaggio che, da espressione di libertà dell’individuo alla ricerca di nuovivalori fuori dallo spazio-tempo quotidiano, si trasforma in una situazione claustro-fobica all’interno dell’automobile. Anziché inquadrare l’esterno, infatti, i due pro-tagonisti rivolgono la telecamera su di loro, producendo un ininterrotto stream ofconsciusness. Perfettamente assente, dunque, il paesaggio (senza che vi sia, peral-tro, alcuna comunicazione fra i due viaggiatori). Double Blind rovescia sia la dico-tomia sessuale che il genere del road movie perché la coppia non sfugge da un or-dine sociale repressivo e chiuso in cerca di libertà. Non è neanche inscrivibile nelfilone del cinéma verité, perché tipica dei lavori di Sophie Calle è la confusione dipiani tra biografia e fiction, persona e personaggio. Una serie di polarità bloccate –road movie/melodramma, campo/controcampo, dentro/fuori, staticità/movimen-to, pensieri/azioni, realtà/finzione – struttura l’opera fino alla sequenza finale delmatrimono della coppia che, come scrive Robert Beck, è una sorta di scena prima-ria in cui il dentro e il fuori si mettono in comunicazione: “l’interno si apre all’ester-no, il movimento di campo e controcampo lascia spazio a un’inquadratura totale[…] Ma il cuore rosso che sigilla il bacio degli sposi incrina d’ironia la meta raggiun-ta” (Beck 1993; si vedano pure Calle 1994 e Auster 1992, romanzo in cui lo scritto-re fa dell’artista una delle sue protagoniste. Più in generale, per lo sguardo degli ar-tisti al mondo mitico del cinema, si veda Fürstenberg 2007).

Una vera e propria tendenza al rifacimento e al remake di celebri per-formance degli anni Sessanta e Settanta accomuna, poi, l’operatività di molti arti-sti contemporanei. Francesco Vezzoli, con The Return of Bruce Nauman BouncingBalls (2008), ripropone Bouncing Balls del 1969, nella quale Nauman riprendeva sestesso mentre faceva rimbalzare con una mano i suoi testicoli (così come in unaprecedente, Bouncing Two Balls between the Floor and Ceiling with Changing Rhythms1967-68, faceva rimbalzare fino al soffitto delle palline di gomma). Vezzoli sostitui-sce la presenza dell’artista col corpo nudo e perfettamente levigato di un porno-di-

16 Nam June Paik,Standbild von manipulierenFernsehen, 1963, GalerieParnass, Wuppertal.

17 Nam June Paik,Standbild von manipulierenFernsehen, 1963, GalerieParnass, Wuppertal.

18 Nam June Paik,Charlotte Moorman spieltwahrend der Satelliten LiveUbertragung derDocumenta 6 Eroffnung,1977, performance.

19 Nam June Paik,Tiger Lives, 1999, 45 min.,colore, sonoro.

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vo ripreso in slow-motion; inoltre allo spazio chiuso dello studio (luogo significa-tivo in cui Nauman aveva pensato ed eseguito la sua performance) ha sostituito unpaesaggio naturale, utilizzando infine una colonna sonora di musica classica. Ri-marchevole la distanza che si viene a creare fra le due opere: il video di Vezzoli haun’evidente ascendenza cinematografica, nella definizione dell’immagine, nel re-gistro sonoro, nella plasticità del rapporto fra figura e sfondo e, soprattutto, per ilcompiacimento voyeuristico che ci porta sensibilmente lontani dall’umorismo edall’autoironia della di body art delle origini, così come dalla messa in questionedel ruolo dell’artista, che interessavano a Nauman.

L’artista portoghese João Onofre, col video Believe (Levitation in the stu-dio) del 2002, ripropone sempre di Nauman Failing to Levitate in the Studio (1966):performance in cui l’artista, sempre chiuso nel suo studio, si concentrava al fine disollevare il proprio corpo in aria (senza evidentemente riuscirci), come eserciziodi esplorazione delle possibilità psicofisiche. Trentasei anni dopo Onofre porta in-vece a buon fine il compito con l’ausilio di un illusionista che riesce a far sollevareil corpo della partner senza sforzo alcuno. Un’ironia in qualche modo accostabileal lavoro di Gerry Schum per il progetto di galleria televisiva Identifications, nelquale si torna sul celebre Tentativo di volo di Gino De Dominicis (1970), in cui l’ar-tista, sulla cima di una collinetta, ripete per cinque volte l’atto di staccarsi dal suo-lo stirando le braccia, ruotandole sempre più velocemente e piegando lievementele ginocchia, per infine saltare giù dalla collina (Fernsehgalerie-Gerry Schum, in Va-lentini 1988). Un altro remake simile è il recente (2006) Walk with Nauman di IanForsyth e Jane Pollard, che fanno eseguire a una danzatrice la performance cheNauman sperimentava in uno dei suoi corridoi contrapponendo gamba e spalla co-me nella statuaria classica (Walking with Contrapposto, 1968). Ma numerosi sono ilavori di questo tipo (si veda Perrella 2006, che documenta fra l’altro Coyoteria diYoshua Okon, 2003, nel quale figura un coyote umano al posto del vero coyote colquale s’era rinchiuso Joseph Beuys, per una settimana, nel 1974). Il sentimento iro-nico e profondamente rigoroso al dato sperimentale, connaturato alle esperienzedegli anni settanta, in questi remake assume toni grotteschi; più che un confrontocon la tradizione viene operata qui, il più delle volte, una riduzione sia della speri-mentazione linguistica, negli originali legata all’esplorazione del sé, che del datopolitico.

Ever is over all di Pipilotti Rist con leggerezza e sarcasmo, irrisione e se-duzione, innesca un paradosso: l’artista sfascia i vetri delle automobili con un gran-de fiore, passeggiando con allegra disinvoltura per le strade di una città e chieden-do con charme complicità per il proprio atto, grazioso quanto trasgressivo. Nel vi-deo I’m Not The Girl Who Misses Much (1986) che assume il formato commercialedel videoclip, l’artista – in abbigliamento e pose sexy – canta la canzone di JohnLennon e danza fuori tempo, “dando così vita ad una doppia parodia, che investe

20 Pipilotti Rist,I Couldn’t Agree With YouMore, 1999,videoinstallazione, still davideo.

21 Pipilotti Rist,I Couldn’t Agree With YouMore, 1999,videoinstallazione, still davideo.

22 Pipilotti Rist,I Couldn’t Agree With YouMore, 1999,videoinstallazione, still davideo.

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la popstar maschile e il suo correlato femminile incarnato dalle fans, indispensabi-le alla sua esistenza di star” (Zapperi 2004, 141).

In Twenty Four Hour Psycho di Douglas Gordon (1993), il film Psycho diAlfred Hitchcock viene proiettato con un rallentamento estremo del flusso delleimmagini (tanto che la durata è di ventiquattro ore), con ripetizioni e ingrandimen-ti che alterano il materiale originale (per cui il suono, per esempio, non è più rico-noscibile) e richiamano l’attenzione sulle costruzioni temporali e sulle funzionimnemoniche che si attivano nello spettatore. Il cuore del lavoro di Pierre Huygheè la riscrittura di classici del cinema. In Remake (1994) ripercorre La finestra sulcortile dello stesso Hitchcock: gli attori che interpretano James Stewart e GraceKelly recitano davanti alla telecamera mentre contemporaneamente ricordano lescene viste sullo schermo, definendo così la differenza tra cinema e atto di fruizio-ne. Con The Third Memory (1999), l’artista ricostruisce il film di Sidney Lumet ADog Day Afternoon, sostituendo Al Pacino col protagonista del fatto reale raccon-tato a suo tempo dal film (un omosessuale che organizza una rapina per procurar-si i soldi necessari all’operazione chirurgica con la quale il suo compagno intendecambiare sesso): qui non si tratta di una semplice parodia quanto di una sorta dimetacommento, che dà luogo a un attrito tra fiction e memoria autobiografica.

Il procedimento di appropriazione parodica come strumento di dialo-go con la storia dell’arte favorisce in effetti un indebolimento di storicità dell’ope-ra, per cui la funzione di critica attribuita alla parodia può trasformarsi in addome-sticamento della complessità e alterità dell’opera originaria. Inoltre la tendenza al-l’appropriazione e riprogrammazione di forme artistiche esistenti porta con sé im-plicitamente la messa in crisi del ruolo dell’artista come autore-produttore indivi-duale dotato di competenze specifiche, insieme alla svalutazione dei valori origi-nari dell’opera, del suo capitale culturale, e all’assottigliarsi della soglia che separal’atto di produzione dall’atto di consumo. L’opera si colloca così in un processo dicostruzione e decostruzione di universi eterogenei e tende a rappresentare “l’in-stabilità di culture che collidono”: quella alta e quella popolare, quella d’Oriente ed’Occidente, procedendo a scontornare la figura dal suo sfondo e a riposizionarlain un altrove privo di contesto. È questo l’elemento che sottrae l’opera alla “verti-gine della non referenzialità della cultura ‘selvaggia’” (Bourriad 2002, 39).

La gaia scienza di Nam June Paik

«Elevate i vostri cuori, fratelli, in alto! Più in alto! E non dimenticatemile gambe! Alzate anche le vostre gambe, bravi ballerini, e, meglio anco-ra: reggetevi sulla testa. La corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: io stesso

23 Studio Azzurro,Tavoli (perché queste manimi toccano?), 1995,videoambientazioneinterattiva, Triennale di Milano.

26 Studio Azzurro,Il gorgo (nessun mare ètroppo profondo), 1998,videoambientazioneinterattiva (installazionepermanente). MeteoritAndre Heller, Essen - Gallerianazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma.

24 Studio Azzurro,Coro, 1995,videoambientazioneinterattiva in due parti, MoleAntonelliana, Torino.

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ho posto sul mio capo questa corona, io stesso ho santificatola mia risa-ta. Non ho trovato alcun altro abbastanza robusto per farlo.Zarathustra il danzatore, Zarathustra il lieve, che fa cenno con le ali, unoche è pronto a spiccare il volo e intanto ammicca a tutti gli uccelli, di-sposto e pronto a volare, beato nella sua levità.» (Friedrich Nietzsche)

La pratica artistica di Nam June Paik è animata dal gesto dionisiaco del-l’avanguardia che dispiega serietà e giocondità – non in opposizione fra loro per-ché la giocondità premia la serietà – modellate dalla leggerezza elettronica. Prota-gonista del movimento Fluxus e iniziatore dell’arte elettronica, Paik fa conviverenel suo lavoro le due funzioni centrali del medium: memoria, archivio, immagaz-zinamento di immagini da manipolare, riciclare, trasformare grazie all’editing elet-tronico, ma anche la funzione contraria: la diretta, l’immediatezza dell’evento dariprendere e trasmettere in tempo reale, che enfatizza l’aspetto performativo delmedium (in continuità con Fluxus, appunto).

I tratti essenziali del linguaggio videografico di Paik si possono riassu-mere nell’elaborazione di un multistrato di immagini, prive di rapporto gerarchicotra figura e sfondo e di associazioni di piani, stratificazioni di “oggetti” diversi, ri-ciclaggio e montaggio all’interno delle immagini stesse che acquistano, così, spes-sore. Il tempo e lo spazio, nei video di Paik, dissolvono le regole del realismo per-cettivo e della prospettiva monoculare di origine rinascimentale, in favore di un ir-realismo eterogeneo e privo di profondità, uno “zoom inarrestabile”. Nei suoi vi-deo monocanale – da Good Morning Mr Orwell (1984) a Tiger Lives (1999) – è al-l’opera il dispositivo costruttivo del montaggio di materiali d’archivio. In GlobalGroove (1973), commissionato dal governo degli Stati Uniti per esaltare la convi-venza fra i popoli, Paik compone un collage formato con ventuno sequenze audio-visive prese da programmi televisivi di differenti paesi con l’intento di mescolareOriente e Occidente, danzatori coreani e artisti americani, creare una sorta di ca-leidoscopio multiculturale in cui le differenze si annullano di fronte all’unica real-tà che rende tutti uguali: l’impero mediatico.

La sua capacità di dominare e rendere domestica e familiare la tecnolo-gia, di innestarla come protesi sui corpi e come occhio che memorizza le perfor-mance quotidiane della neoavanguardia a New York negli anni settanta, la serenaironia delle sue videosculture composte con vecchi monitor che diventano pollaiper covare le uova (Chicken Box, Chicken Farm, 1986) o giardini con piante elettro-niche (Tv Garden, 1974), la seria giocondità delle sue performance in cui scardinae fa a pezzi un pianoforte o suona il corpo-violoncello-monitor di Charlotte Moor-man, rovesciano con allegro dionisismo il regime televisivo insieme alle conven-zioni delle arti visive. Le sue opere emanano energia per il cromatismo e il ritmodelle trame verticali e orizzontali delle immagini che si succedono velocemente e

27 Zbigniew Rybczynski,Steps, 1987, experimentalvideo, 35 mm, 26 min.

28 Zbigniew Rybczynski,Steps, 1987, experimentalvideo, 35 mm, 26 min.

29 Zbigniew Rybczynski,Steps, 1987, experimentalvideo, 35 mm, 26 min.

30 Zbigniew Rybczynski,Steps, 1987, experimentalvideo, 35 mm, 26 min.

31 Vito Acconci,Telebodies, 1990,installazione, RassegnaInternazionale Videod’autore, Taormina Arte.

32 Vito Acconci,Telebodies, 1990,installazione, RassegnaInternazionale Videod’autore, Taormina Arte.

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si aggiungono l’una sull’altra, restituendo così la variegata molteplicità, il divertitoe vitale disordine del reale. Così come addomestica le macchine, manipolandole,altrettanto defigura, con cerchi e spirali, le immagini dei suoi amici-artisti, gli ap-partenenti alla grande famiglia delle neoavanguardia nella quale ha vissuto: i per-former del Living Theatre, Beuys, Ginsberg, Cage, Cunningham, Moorman attra-versano in ogni video, diversamente composti, lo spazio del monitor, formando unrepertorio di ritratti di famiglia che sono nel contempo un repertorio dei modi dicomporsi delle immagini attraverso il mixer video. Al netto della sua funzione ce-lebrativa e memoriale, la svagata allegria di un video come Living with the LivingTheatre (1989), realizzato dopo la morte di Julian Beck, è data dal procedimentocompositivo basato su associazioni (gli hot dog con una bandiera americana infila-ta nel panino assalgono un uomo che dorme), su domande assurde come “Può unafarfalla abbattere un aereo da combattimento?”, sull’effetto smitizzante dell’ironia– “Può una comune funzionare senza una lavatrice?” – e sulle immagine finali mon-tate al contrario del funerale di Beck: in cui le manciate di terra, lanciate sulla suabara, tornano indietro nelle mani di chi le ha lanciate.

Gioia del nonsense

«Il rovesciare l’esperienza nel suo contrario, l’utile nell’inutile, il neces-sario nell’arbitrario, in modo che tale processo non arrechi danno e ven-ga presentato solo per spavalderia, ci diletta, perché ci libera momenta-neamente dalla costrizione del necessario, dell’utile, di quanto è confor-me all’esperienza.» (Friedrich Nietzsche)

Le pratiche della performance art e dell’arte video sono state modellizzate dal prin-cipio di azzerare quanto è conforme all’esperienza percettiva del soggetto, a parti-re dallo spaesamento provocato dai meccanismi di scardinamento della concate-nazione narrativa sostituiti dall’iterazione, dall’accelerazione, dalla sovrapposizio-ne, dalla scomposizione del quadro. Se la produzione di Nam June Paik è in tal sen-so esemplare, altrettanto pionieristica è quella in elettronica di Jean-Luc Godard.Puissance de la Parole (1988) portava l’attenzione sulla vanificazione del dialogo at-traverso la ripetizioni di domande che non aspettano risposte, voci fuori campo cheprovengono dal satellite, scambio di proprietà fra visivo e sonoro per cui l’immagi-ne ha un ritmo musicale e viceversa il suono diventa immagine.

Un altro esempio paradigmatico di “gaia scienza”, di sperimentazionetecnologica in funzione dell’esperienza spettatoriale, è dato dalla ricerca di StudioAzzurro. Uno spettacolo come La camera astratta (1987) rendeva inutilizzabili leabituali coordinate spazio-temporali come qui e ora, prima e dopo, dentro e fuori,

33 Ciprì e Maresco,Totò che visse due volte,1998, film, 93 min., unascena.

34 Ciprì e Maresco.

35 Tony Oursler,Blue Dilemma, TruncatedDuntata, 2000, installazione,dimensioni variabili.

36 Tony Oursler,Judy, 1994, installazione,dimensioni variabili.

37 Tony Oursler,Punching Dummy, 1989,installazione, dimensionivariabili.

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titesi di divino e profano, di misticismo ed erotismo; e in generale sulla “vertigine”provocata dallo spossessamento dell’io. Lo humour si presenta essenzialmente co-me rottura della logica, emersione di una energia distruttiva e rigenerante nellostesso tempo, reintegrazione della totalità a partire dalla percezione del frammen-tario e dalla disintegrazione della forma data.

Deformazione, frammentazione, rovesciamento illogico e imprevisto siritrovano nei video di Robert Wilson, Video 50 (1978) e Stations (1981), elaborazio-ni originali da collocare accanto alla sua produzione teatrale, grafico-pittorica eplastica il cui universo poetico dispiega la scena del sogno: una scena silenziosa,lenta e contemplativa sulla quale prendono forma l’eccezionale e il meraviglioso, edove i dettagli hanno il potere di risvegliare l’immaginazione. Video 50 si componedi cento frammenti di trenta secondi l’uno, modellizzati sulla formula del video clipche viene però capovolta dal principio dell’iterazione, dell’ironia e del mistero. Pri-vo sia di parole che di musica, Video 50 prevede solo suoni naturali; il dispositivocostruttivo dell’opera fa leva sullo scarto che fa precipitare all’improvviso nel sur-reale una situazione apparentemente banale, guidando l’attenzione sui particolari– il telefono nero con la cornetta staccata – che diventano carichi di mistero. Lepresenze aliene che irrompono a turbare un quotidiano sospetto, perché oleogra-fico, sono spauracchi comici di cui si può ridere. Stations ha una scansione a episo-di (tredici complessivamente) legati fra loro da una presenza fissa, quella di un bam-bino e di un uomo in nero, complici nell’architettare i programmi di disturbo dellaquiete domestica di una coppia che si divertono a spaventare. Il pericolo penetra ecoglie di sorpresa una situazione di pace famigliare: in casa penetrano di volta involta un elefante, un fulmine o i marziani, mentre la donna asciuga le pentole e l’uo-mo legge il giornale.

Rispetto alle categorie cui ci ha abituato il cinema, la pratica videogra-fica ha reso indiscernibile la soglia fra la dimensione della realtà e quelle dell’im-maginario, dell’onirico e del mentale; ha contribuito a mettere in crisi la conven-zionale divaricazione fra realismo e astrazione, non identificando più il realismonella descrizione di una realtà ordinata, modificata dalle azioni del soggetto. In Pas-sage to utopia, che fa parte della trilogia Traces of a Presence to Come di Irit Batsry(1993), le dramatis personæ sono immagini-colore in movimento che passano da untono all’altro e assorbono la limitata varietà delle forme in cui, rimpicciolito, vienerappresentato il mondo. Sono “immagini-sogno” che si rincorrono all’infinito condissolvenze, sovrimpressioni, disinquadrature: nessuna cosa – piante, edifici o stra-de – è reale e concreta, tutto viene ridotto a forma o colore, si sgretola o si cancel-la nell’acqua, si compone e si scompone.

A differenza di Robert Wilson, che fa un uso moderato della specificitàdel linguaggio videografico essendo la sua scrittura già modellizzata visivamente,Zbigniew Rybczynski scatena il suo umorismo surreale utilizzando senza freni il

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presente e assente, organico e tecnologico; e impegnava lo spettatore in un gioco dispiazzamento percettivo che affinava le sue capacità di cogliere questi passaggi eslittamenti. In Vedute (quel tale non sta mai fermo) (1985) le immagini galleggiava-no nello schermo grazie alla rottura dei confini del monitor, sfondato di lato e inprofondità, per cui la destituzione della polarità dentro-fuori, soggetto-oggetto, na-tura-uomo si manifestava come movimento di forze reversibili in cui i poli non per-devano, bensì accentuavano la loro differenza. L’esplorazione di nuove frontiere si-nestetiche da parte di Studio Azzuro è stata una pratica perseguita con strategieben congegnate: fra queste è un tratto rilevante la dimensione incoativa, “attende-re che qualcosa appaia allo sguardo”, ovvero mettere lo spettatore in condizione diessere testimone dell’apparire dell’immagine, della sua epifania che sconvolge l’an-damento continuo delle sequenze audiovisuali. In Correva come un lungo segnobianco (1986) il flusso delle immagini si blocca per mettere a fuoco un dettaglio, sot-tolineando il percorso dell’attenzione dello spettatore, colpito da un particolare chesi carica di flagranza e sensualità. Rispetto alla deprivazione sensoriale provocatadal flusso mediatico, le opere di Studio Azzurro fanno scoprire allo spettatore laqualità sensuale-tattile del vedere; col Giardino delle cose (1992) la concretezza del-l’esperienza della percezione dell’immagine – la dimensione aptica – veniva otte-nuta spostando l’attenzione dalla vista al tatto, formandosi l’immagine dell’ogget-to per contatto. Infatti la sua apparizione sul monitor avveniva in virtù di un’azio-ne eseguita davanti alla telecamera, manipolando insomma la materia.

L’effetto di spaesamento che la sperimentazione dei dispositivi multi-mediali provoca nello spettatore, trova nella dimensione ludica, magica e sensoria-le delle installazioni interattive di Studio Azzurro un ulteriore territorio esperen-ziale. In Tavoli - perché queste mani mi toccano (1995) l’inaspettato appare ogni vol-ta che le immagini della ciotola, della fiamma e della figura umana si scuotono dal-lo stato di riposo in cui versano e balzano nello spazio grazie al gesto di scuotimen-to del visitatore che, sfiorandole, trasgredisce il tabù di “guardare ma non toccare”.Nel caso di Pozzanghera (2006) l’azione trasgressiva – e la gioia che ne consegue –consiste, per i visitatori bambini, nel poter sguazzare in virtuali pozzanghere ge-nerate da videoproiezioni sul pavimento, senza correre il rischio di infangarsi edessere perciò puniti (Studio Azzurro 1999 e 2005; Rosa, in Valentini 2003; Glicen-stein 1996; Vassallo-Di Brino 2003).

Fra onirico e humour nero

In questa costellazione prevale, più che la situazione e l’oggetto comico, uno “sca-tenamento” dello humour vicino al meccanismo di condensazione e spostamentodel piano onirico e alla poetica baudeleriana del “comico assoluto”, fondata sull’an-

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38 Sadie Benning,Flat is beautiful, 1998, videoin b/n - Pixelvision, 16 mm eSuper 8, 56 min, still davideo.

39 Sadie Benning,Flat is beautiful, 1998, videoin b/n - Pixelvision, 16 mm eSuper 8, 56 min, still davideo.

40 Sadie Benning,Flat is beautiful, 1998, videoin b/n - Pixelvision, 16 mm eSuper 8, 56 min, still davideo.

41 Sadie Benning,Flat is beautiful, 1998, videoin b/n - Pixelvision, 16 mm eSuper 8, 56 min, still davideo.

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dispositivo elettronico, col quale ottiene situazioni paradossali. Comuni azioni do-mestiche (cucinare, tagliare il pane, infilzare con la forchetta un’improbabile pie-tanza), costantemente reiterate e giustapposte le une alle altre con un ritmo cre-scente e frenetico – nei video Zupa (1974), Tango (1980) e Media (1980) – produco-no un sentimento di comicità allucinata da accostare allo humour nero degli spet-tacoli di Tadeusz Kantor. Nell’accelerazione e iterazione del quotidiano si inseri-scono poi immagini traumatiche che conducono a un finale tragico. In Capriccio n.29 (1989) l’uso del chromakey è finalizzato a creare situazioni visive paradossali incui la comicità scaturisce dal far scontrare tempi diversi nel medesimo spazio: unpersonaggio, riproposto sette volte, mima con un movimento particolarmente mec-canico il brano violinistico di Paganini. Nel sesto episodio il personaggio maschile,moltiplicato in due, cerca di colpire con una mazza il personaggio femminile, mol-tiplicato in sei; ma non riesce nell’intento perché lei esce in maniera beffarda da seibidoni della spazzatura come se facesse cucù.

Steps (1987) è una sorta di visita guidata al film La corazzata Potemkindi Ejzenstejn: i visitatori percorrono una a una le inquadrature del film, come turi-sti scattano fotografie e cercano di interferire con i personaggi del film, senza pe-raltro riuscire a instaurare una comunicazione fra i due mondi (quello della trivia-le attualità dei turisti americani – il video – e la tragica solennità dello scoppio del-la rivoluzione in Russia – il film). Le sequenze “epiche” del film si ribellano all’in-serimento dei personaggi da sit com creati dal dispositivo elettronico, e solo nel fi-nale le due dimensioni si incontrano: il bambino nella carrozzina, che precipita dal-la scalinata nella scena-madre di Ejzenstejn, si ritrova seduto nello studio televisi-vo: non più inquadrato in bianco e nero, sorridente, a colori e salvo. La cifra grot-tesca, tipica delle opere di Rybczynski, in Steps si declina come metadiscorso suidue medium: fra il tono alto del cinema e il tono basso della televisione fra i qualiil video funziona da dispositivo intermedio (e agisce sul palinsesto dell’opera altruicon un raffinato gioco di sospensioni e iterazioni; per Paul Virilio, cit. in Melcher2004, “Steps si apre su una reale terza dimensione dentro il film stesso. Il film di-venta una architettura da vivere che uno può percorrere”).

Il basso corporeo e le maschere

Col video – un medium adatto a penetrare nell’intimità – il corpo e le sue funzio-ni, tutto il quotidiano più triviale (dal masturbarsi al defecare, dal mangiare all’ac-coppiarsi e al dormire) e gli spazi domestici e privati (la cucina, le stanze da letto)sono diventati degni di rappresentazione.

Gli spazi ritratti in bianco e nero nei video di Sadie Benning (Judy Spots,1995 e The Flat is Beautiful, 1998), per esempio, sono interni di appartamenti de-

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primenti, vuoti di affetti, di mistero e di conflitti, dove sagome senza età, con il vol-to coperto da maschere, guardano la Tv, parlano al telefono, consumano cibi in con-tenitori di plastica Mac Donald. Il mondo racchiuso nei video di Sadie Benning èdesolatamente oppresso dalla solitudine: tant’è che la telecamera, rivolta sul pro-prio volto, diventa il mezzo per istituire quell’alterità con cui comunicare, quel tudi un dialogo con un interlocutore che non c’è, diventa un’altra maschera che sot-trae l’identità singolare della persona.

Il basso corporeo si manifesta con più frequenza, nelle opere video con-temporanee, nella forma del grottesco, secondo il paradigma elaborato da Bachtin(una sorta di ibridazione che non tiene conto delle differenze di specie e mescolain modo fantasioso forme animali, vegetali e umane; inerente al paradigma del grot-tesco è il motivo della maschera: legata, come scrive Bachtin “alla gioia degli avvi-cendamenti e delle reincarnazioni, alla relatività gaia, alla negazione gioiosa del-l’identità e del significato unico, alla negazione della stupida coincidenza con sestessi; la maschera è legata agli spostamenti, alle metamorfosi, alle violazioni del-le barriere naturali, alla ridicolizzazione”: Bachtin 1965, 47). Nel Cremaster Cycledi Matthew Barney (1995-2002) ritroviamo sia il registro grottesco che il motivodella maschera: nella mescolanza di generi differenti (corpi e macchine, umani eanimali), nella deformazione del corpo umano attraverso moltiplicazioni e ingigan-timenti di sue parti, nel transito delle identità che si incarnano nella duplice natu-ra dell’artista satiro, demone crudele e sovrano benefico che presiede alle meta-morfosi dell’essere (e dell’opera). Come ha scritto Antonio Fasolo (2009), lo stessoartista ricopre il ruolo di tutti i personaggi principali: “in una mutazione continuache lo porta ad essere un serial killer paranoico, un apprendista massone, un sati-ro celtico, un saltimbanco, un dio delle acque, un mago in scena, la processualitàmutante del feto-opera d’arte all’interno delle contained forms dei singoli episodi,che nel loro essere contenitori sono appunto restrizioni (restraint) che impongo-no metamorfosi (à la Houdini)”. Più in generale sono innumerevoli le metamorfo-si dei personaggi che popolano il Cremaster, che assumono maschere ironiche, pa-rodiche e ludiche nel contempo: creature mostruose, zoomorfe (donne-ghepardo),ninfe, giganti, umani che si ibridano con animali. Il motivo della maschera dominal’imagerie grottesca del ciclo in quanto suo soggetto è precisamente il modo di pro-durre dell’artista, appunto un processo di trasformazione nel quale l’ironia più dis-sacrante si coniuga con un monumentalismo di ritorno, nell’intenzione (regressi-va) di istituire l’“opera” come luogo in cui trovare un ordine al caos. Un ordine di-verso dal precedente?

Il mondo di Ciprì e Maresco (C&M) si inscrive prepotentemente nelladimensione del basso corporeo. Le azioni delle figure che lo abitano sono quellebrutali del cibo, del sesso e delle funzioni corporali. Lo scambio verbale è ridotto afrasi fatte come quelle proverbiali e a imprecazioni (“minchia” è la più frequente),

42 Matthew Barney,CREMASTER 3, 2002, TheOrder, 4th Degrre, FivePoints of Fellowship, foto diproduzione.

43 Matthew Barney,CREMASTER 3, 2002, foto diproduzione.

44 Matthew Barney,CREMASTER 3, 2002, foto diproduzione.

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urla reiterate e prolungate, gesti sonori e ricorrenti assoli di vecchi o inediti moti-vi cantati con sentimento, come se nel canto i personaggi trovassero un modo di ac-cordarsi con il mondo. Il dialogo non c’è; al suo posto campeggiano il discorso li-bero diretto (il più loquace e forbito è il ciclista Tirone), l’apostrofazione perento-ria della Voce fuori campo dalla quale non c’è scampo. Mangiare e masturbarsi, an-dare a zonzo (qualche volta al cinema) e stare fermi: sono le attività principali diuna umanità che non è occupata produttivamente, in cui la differenza fra i ceti so-ciali, chi domina e chi soggiace, si esprime con l’essere in mutande e l’essere vesti-to con giacca e pantaloni. Entro l’umanità di maghi, nani, vecchie, ciclisti, mastur-batori che non arrivano mai all’eiaculazione (per cui piuttosto che piacere sembra-no ricavare dall’azione dolore e sofferenza) un posto di rilievo occupano i meno-mati che esprimono tratti di umanità e tenerezza, come pure i falliti e i frustrati, i“poveri cristo” e gli uomini-statua (come Marcello che si ritrova con in testa unacorona di spine a fare l’Hecce Homo e San Polifemo portato in processione comeuna statua). Sono tutti non-attori, la cui maschera eccita il riso perché la sua resatragica è spropositata.

Il cibo, anziché placare l’appetito, porta all’ingozzamento-soffocamen-to e alla morte – in un’orgia in cui le bocche sguazzano, si spalancano, straripano,vomitano ciò che non riescono a contenere – e colloca in una relazione di contigui-tà gli uomini con gli animali. È un’umanità oltraggiata e offesa: dallo sputo in fac-cia, dal piscio scaraventato addosso, dalle ingiurie verbali, dalla violenza dei rap-porti familiari (le mamme possessive) e dalla crudeltà fisica e mentale per la qua-le l’amore, se pure diventa soggetto raffigurabile (come nell’episodio di Fefè e Pe-trino nel lungometraggio Totò che visse due volte del 1998), si rovescia in idillio grot-tesco e mostra la sua natura diabolicamente sconcia e disgustosa. Quelli di C&Msono i sopravvissuti di un carnevale rabelaisiano (per cui non una sola volta all’an-no l’orbo può diventare santo e un uomo, non propriamente probo, travestirsi daGesù), o una nuova specie del dopo apocalisse?

Al contrario delle figure di C&M, che rivolgono al mondo uno sguardo“originario” assimilando il pensiero al corpo, i soggetti dei video di John Mayburyhanno completamente disintegrato nel sintetico la dimensione corporea, nonostan-te l’esibizione di corpi nudi, attributi maschili, scene di sesso, corpi artificializzatidal travestimento e dal travestitismo, dall’imitazione di stereotipi presi dalla stam-pa (la vamp biondo platinata), dalla moda, dalla musica e dalla Tv. La costruzionedi identità fittizie a base di comportamenti volgari, cultura della droga, provoca-zioni omosessuali, violenza sado-maso produce un mondo claustrofobico, stereo-tipizzato in ripetitivi emblemi in cui né la malattia né la morte riescono a irroraredi sentimento della fine, disperazione, urlo, perché tutto è raggelato nel patinatolook delle mode di tribù.

Nelle performance di Mike Kelley e Paul McCarthy – al limite fra le in-

45 Matthew Barney,CREMASTER 4, 1994, TheLoughton Candidate, foto diproduzione.

46 Matthew Barney,CREMASTER 4, 1994,Loughton Ram, foto diproduzione.

47 Matthew Barney,CREMASTER 4, 1994, foto diproduzione.

48 Matthew Barney,CREMASTER 5, 1997, TheLankid Bridge, her Diva,stampa a colori in corniceacrilica, 134 x 108,3 x 2,5cm.

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minoso – non è una figura ricorrente (salvo determinate eccezioni, come quelle co-stituite da Nam June Paik e da Studio Azzurro, nelle quali abbiamo riscontrato undionisismo autenticamente eversivo, una felice facoltà di rovesciare l’esperienzapercettiva dello spettatore).

Connessa alla domanda iniziale sull’effettiva portata del paradigma co-mico, se ne affaccia allora una seconda: quanta potenza rigenerativa – propria del-la comicità popolare rabelaisiana, appunto – si sprigiona da tale repertorio di au-tori e opere? La natura eversiva di valori e di forme dell’arte video è naturalmentecomprovata, ben al di là del paradigma comico, ma la sua natura “avanguardista”,l’aver portato un modo diverso di guardare e percepire la realtà, le ha anche datoaccesso a una funzione politica? Si può dire che nelle zone sondate dal rapporto co-mico-video emerga una potenza sovversiva, se non diamo per scontato che tale sov-versione sia propria e intrinseca al medium?

Quello che si può dire è che la funzione eversiva di forme e valori, pro-pria del paradigma comico, appare preservata nelle opere in cui il dispositivo elet-tronico è stato sì esplorato nelle sue specifiche possibilità (come spazio privato-pubblico, come camera del pensiero, come processualità del tempo reale dell’azio-ne, come dispositivo decostruttivo, analitico e autoriflessivo, come spauracchio daaddomesticare, e in molte altre modalità…), in cui pure si sono unite interiorità sog-gettiva e profondità referenziale (non simbolica) dell’immagine (non, dunque, lasua riduzione a simulacro e segno-merce). Quelle in cui, insomma, pensiero, sen-timento e corpo si presentano uniti. È il caso delle performance di body art in cuil’artista ironizza seriamente sul proprio ruolo, le deformazioni dei messaggi me-diatici attraverso il procedimento del montaggio scratch, la rigenerazione di unosguardo “originario” inteso come assimilazione del pensiero al corpo. Se invece l’ar-tificiale prevale sull’organismo, se al posto del corpo-pensiero si installa un corpoacefalo, se ciò che spaventa viene imitato, ripetuto, riproposto, allora la polarità al-to-basso – costitutiva del grottesco – viene mutilata. Se l’avanguardia diventa ma-nieristica – nel senso che rovescia di segno tratti quali la frammentazione, l’ibrida-zione, lo humour – la sua potenza eversiva, di scardinamento dionisiaco, fatalmen-te si dilegua.

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stallazioni e la messa in scena teatrale – cultura pop, sesso, voyeurismo, masturba-zione, stupro, abuso sui minori, coiti con la carne cruda e hot dog infilati nell’anofanno parte di un repertorio condiviso con altri artisti, fra cui i registi teatrali Re-za Abdoh e Rodrigo Garcia. In Bossy Burger (1991) Paul McCarthy utilizzando unset cinematografico riprende la performance senza pubblico, in funzione della pro-duzione del video: “Davanti alla telecamera, McCarthy si comporta come un folle:in una sorta di regressione infantile, imbratta l’ambiente di ogni sorta di liquidi, dalketchup all’urina; taglia e distrugge delle membra posticce realizzate in plastica; faa pezzi il mobilio, urla, urina, trasforma l’ambiente in un vero porcile, coinvolgen-do lo spettatore in una girandola di emozioni che vanno dal divertimento allo scon-forto e al ribrezzo” (Martin 2006, 64).

Il sentimento ironico nei confronti del sistema e del mondo dell’arte, co-mune a molte performance di body art degli anni settanta, è scomparso. Siamo difronte a un soggetto traumatico che ha adottato come strategia di difesa l’assume-re su di sé (reiterando il trauma) ciò che fa paura e disgusta. Per cui invece di ag-gredire il nemico diventa suo complice, oppure si protegge con una sorta di regres-sione infantile. In queste performance dominante è la desolazione che produce ungrottesco mutilato: dal quale è scomparsa la duplicità di morte e vita. Non è più at-tivo insomma, come invece nel paradigma del grottesco di Bachtin, il precipitarenel basso corporeo per rinascere a nuova vita. Siamo oltre il grottesco: nell’abietto,nell’osceno del soggetto traumatico che resiste all’ordinamento formale, così comealla sublimazione culturale e al coinvolgimento politico (Foster 1996, 133-175).

Oltre il grottesco

Dopo aver costruito un repertorio di autori e opere ripartito secondo alcuni para-digmi della costellazione del comico, proviamo a riformulare la domanda da cui èpartita la nostra indagine: come si coniuga il dispositivo elettronico col comico? Faparte del senso comune del nostro tempo identificare la “videoarte” con lo speri-mentalismo tetro e noioso della neo-avanguardia poststrutturalista, con l’aggressi-vità autoritaria degli esercizi rieducativi nei confronti dello spettatore di BruceNauman, con l’accentuata dimensione autoriflessiva e decostruttiva, con lo chocpercettivo provocato dalla velocità stratificata delle immagini. Gettando uno sguar-do d’insieme alla produzione videografica, appaiono dominanti due tratti: la ma-linconia della cerimonia funebre (Histoire(s) du cinéma di Godard, 1988-1998) incui si commemora ciò che sparisce, e la dimensione interiore dello stream of con-sciousness, del rimuginare in solitudine (pubblica) pensieri e ricordi, il vagare del-la mente in una camera del pensiero corrispondente allo spazio dell’artista. In que-ste opere lo “spauracchio comico” – che libera il mondo dalle paure e lo rende lu-

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DIVENTATO BEN PRESTO QUASI UN’ICONA dell’arte contemporanea, MatthewBarney utilizza sistematicamente svariati procedimenti espressivi della nuovavideoarte: l’estetismo, la citazione, la contaminazione parodica; il suo corpo da bodybuilder ibridato con un satiro, e vestito come un dandy, condensa in sé le ossessioni delpost-human: soprattutto l’animalità e la frammentazione corporea. L’opera più famosae più radicale, il ciclo Cremaster (il nome del muscolo che sostiene i testicoli durantel’erezione), è una serie di cinque video girati lungo l’arco degli anni novanta fino agliinizi del nuovo millennio, fruibili sia come parte di installazioni artistiche sia come filmautonomi, di un cinema non narrativo, che richiama alla mente quello delleavanguardie storiche. Nel primo caso il video è parte di un ambiente polimorfico esurreale, ricco di fotografie disegni sculture: il fruitore può recepirlo per frammenti, inmaniera discontinua, dedicandosi agli attraversamenti, sforamenti, e ripetizioni che leinstallazioni favoriscono sempre. Nel secondo caso di trova invece di fronte a un’operad’arte totale, che nella sua energia estrema richiama alla mente il surrealismo eArtaud, e utilizza svariati registri dissonanti, rifiutando ogni concatenazione logico-narrativa.

In una dimensione straordinariamente onirica e ipnotica, si svolge una polifoniaricchissima di citazioni e di manipolazioni, che contamina l’opera lirica con il musical,la pittura romantica con il kitsch; materiali artificiali come polistirolo, silicone, teflon eplastica con paesaggi di natura selvaggia e desertica; memoria mitologica con idolipop e figure camp come Ursula Andress. Quest’ultima categoria estetica, definita a suotempo da Susan Sontag, è particolarmente adatta a leggere alcune caratteristiche delmondo di Barney: l’artificialità esibita e manieristica, l’uso ironico dell’immaginario dimassa (soprattutto la moda), la narrazione visiva sempre obliqua e metamorfica,l’ossessione per ogni forma di travestimento. Cremaster è il trionfo di un’energiacreativa frenetica e proteiforme, che usa non a caso come simbolo guida iltrasformismo di Houdini, e che tende sistematicamente verso lo stato diindifferenziazione caotica primordiale, prelinguistica e pregenitale, in cui i confini fraumano, animale, macchina, architettura, paesaggio, organico, inorganico, io, mondo,corpo, materia, spazio, tempo, sono aboliti e sostituiti da “un’anarchia dell’ibridazione”(Spector 2002). Si celebra così una regressione radicale allo stadio dell’erotismoinfantile, narcisistico e sadico-anale. In questa impresa epica, che scaturisce dal nessofra creatività e perversione (così Barney riformula in termini che discendono da Sade eBataille il desiderio polimorfico), uno dei principi ispiratori è il dio Pan, come dioappunto della regressione all’indifferenziato, e del disagio che si accompagna allaliberazione dionisiaca del desiderio. Non a caso una figura ricorrente è il satiro, ibridofra animale e umano che visualizza il caos primario e l’orgia bacchica.

Concepito come un viaggio dal Northwest americano all’Irlanda e all’Europadell’Est (patrie degli antenati di Barney e del suo alter ego Houdini), il ciclo segue lafalsariga della prima settimana di vita di un embrione non ancora differenziatosessualmente, ma si proietta anche verso un passato ancestrale. Girati secondo unordine non lineare, i singoli video contengono svariati motivi ricorrenti: il contrastoparadossale fra immagini primordiali e immagini ipermoderne, l’androginia, lametamorfosi, il teriomorfismo, il musical, la saga epica. Il primo motivo risaltasoprattutto in Cremaster 3 (2002): ultimo a essere realizzato, più lungo ed autonomoperché riflette in sé tutto il ciclo, è incastonato in una cornice ancestrale, che raccontala saga celtica della lotta fra il gigante irlandese Fionn MacCumhail e il gigantescozzese Fingal, coperto di pelli di capra, che si ciba di carne cruda; la parte centrale sisvolge all’epoca della costruzione di un’icona della modernità, il grattacielo Chrysler diNew York, quindi negli anni trenta, e contiene, fra le svariate immagini e storie ricche disimbologie massoniche, una gara di distruzione fra automobili che è una sorta di

Matthew Barney,CREMASTER 5, 1997, The LankidBridge, her Giant, stampa acolori in cornice acrilica, 134 x108,3 x 2,5 cm

MASSIMO FUSILLOMatthew Barney

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L’OPERA DI JEAN-LUC GODARD sembra lontana da qualsiasi idea del comico.Tuttavia, alcuni aspetti del suo lavoro su video e per la televisione rivelano, al pari dellesue installazioni, un discorso ricorrente, improntato alla parodia di un sistema istituitodal campo egemonico del cinema e delle arti tradizionali. In apparenza alieno a ogniapproccio umoristico, Godard enfatizza una prassi discorsiva segnata daproblematiche palesemente ironiche, quando diviene oggetto di documentari videorealizzati da altri registi. Queste azioni di Godard appaiono significative sotto laprospettiva del comico, in quanto si appropriano dei differenti mezzi audiovisivi e,combinandoli fra loro, manifestano immancabilmente una critica autoreferenziale ingrado di smontare le concezioni predominanti nelle arti mediatiche audiovisive.

Godard è uno dei pochi registi cinematografici all’avanguardia, capace di lavorarein modo pregnante con il video, la televisione e l’immagine digitale: un’impresa che amolti è apparsa come un nonsenso, considerando il mainstream del campocinematografico, sempre restio a riconoscere l’esistenza degli altri supporti nel corsodel XX secolo. La serie antologica Histoire(s) du cinéma (1988-1998) effettua unalettura dell’elemento cinematografico in base alla frammentazione del discorsofilmico, in cui il video diviene il supporto per decostruire e mettere il cinema aconfronto. Godard ci sorprende, e pensa il cinema fuori dal cinema scrivendo unastoria impossibile da realizzare nel suo dispositivo originale. Come aveva già propostocon la sua serie di videosceneggiature, il regista torna a costruire, per default, undiscorso parallelo sul cinema basato sulla sovrapposizione simultanea di immagini esuoni attraverso un processo di postproduzione chiamato a decontestualizzare e aconcettualizzare le idee a partire dalla manipolazione di migliaia di frammenti filmicidella storia del cinema.

Da diversi decenni, Godard si serve dell’immagine elettronica per costruire unaretorica di appropriazione e deformazione del mainstream audiovisivo, in particolaredel sistema cinematografico. I suoi primi esperimenti con il video, databili agli inizidegli anni settanta, confluiscono successivamente in proposte televisive a tutti glieffetti. La serie Six fois deux, del 1976, si struttura a partire dalla parola orale nella suaregistrazione dal vivo. Il quinto capitolo, Nous trois, rappresenta una vera e propriarottura con la condizione televisiva: totalmente muto, esso solleva la sinistra questionedel silenzio come ostacolo alla diretta televisiva. Il segnale video, che a differenza delcinema permette la trasmissione simultanea e istantanea di suono e immagine, vienequi spogliato del suo uso normativo inserendo come informazione sonora la temutafunzione del mute. La sindrome della tv, una radio con immagini incapace di generareun discorso differente, risiede nella possibilità del suono come parte centrale del suomessaggio. Qui, al contrario, il protagonista, recluso dalla polizia, comunica dalla suaprigione scrivendo una lettera su un foglio di carta a quadretti. Un testo scritto insolitudine che si rifà alla memoria dell’altro, nella certezza che l’essere amato,complice del delitto commesso, è lontano, insieme a un altro. La separazione genera ilbisogno di comunicare fra i personaggi di questo triangolo amoroso. Si tratta di duecontrocampi impossibili: i personaggi si trovano in due luoghi diversi, ma vengonoanche spiati. Al cinema potrebbero essere uniti dal montaggio parallelo, ma in questocaso è l’immagine elettronica a combinare le due immagini grazie all’effetto wipe, chesovrappone la missiva in caratteri tipografici simulanti la grafia corsiva, elevandola avalore di immagine chiamata a sostituire l’elemento vivo e diretto della comunicazioneorale e a smontare così l’elemento chiave del verosimile televisivo.

Godard ricorre spesso all’umorismo anche quando appare nei video di altri registi,come quelli realizzati da Jean-Paul Fargier, Alain Fleischer e Alexander Kluge. Il video diFargier, Godard/Sollers: L’Entretien (2006), incentrato sul film Je vous salue, Marie(1985), fa affiorare la saga di commenti godardiani celati dietro l’apparenza del

JORGE LA FERLAOn detourne. Godard e il comico

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uccisione rituale, quasi uno smembramento della macchina, secondo il motivo miticodella frammentazione del corpo (sparagmos). L’animalità trionfa invece in una corsa dicavalli (ognuno con il simbolo di un episodio del ciclo) “ibridati” di sostanze plastichevagamente sanguinolente. Il musical finale, ambientato nella rotonda del MuseoGuggenheim di New York, capolavoro di Frank Lloyd Wright, riconfigura e disloca tuttoil video in una cifra ironica e camp: il protagonista-apprendista massone, impersonatoda Barney, si sdoppia in una figura femminile, che poi si trasforma in pantera.

Metamorfosi e androginia dominano Cremaster 2 (1999), dedicato alla storia diGary Gilmore, famoso condannato a morte e probabile nipote di Houdini (che quicompare nello splendido finale acquatico e nebbioso, interpretato da Norman Mailer,fra l’altro autore di un romanzo sullo stesso personaggio): ritorna più volte l’immaginedella metamorfosi in ape, prima nella scena di sesso in cui il torso maschile subisceuna putrefazione, e poi nel numero finale di Houdini. Il teriomorfismo animasoprattutto Cremaster 4 (1994), che riprende la mitologia celtica: Barney impersona ilcandidato Laughton, nome dell’ariete con quattro corna anomale legatonell’immaginario irlandese all’isola di Man, dove il video è stato girato; è un dandy daicapelli arancio, che è anche inequivocabilmente un satiro, circondato da una serie difigure androgine dalla pelle squamosa e plasticosa. L’uomo-ariete compie unaprodigiosa discesa nelle viscere sottomarine dell’isola, continuamente contrappuntata,in montaggio alternato, da sequenze della corsa motociclistica Tourist Trophy, che sitiene proprio all’Isola di Man dagli inizi del Novecento (ancora quindi il contrasto fraprimordiale e tecnologico). Il viaggio epico e fantastico alle origini della materia delsatiro celtico dovrebbe concludersi con l’incontro-fusione dei due principisimboleggiati dai due colori, ma il finale resta sospeso. Tutto Cremaster 1 (1996) èconfigurato come un musical di Busby Berkeley: un pallone areostatico della Good Yearha al suo interno un tavolo bianco coperto di uva alternativamente bianca e rossa, i cuichicchi vengono lentamente risucchiati da sotto il tavolo da una donna, Goodyear,vestita di satin bianco e con altissime scarpe di plastica bianca, di cui una con unasuola a imbuto che riespelle i chicchi provocando figurazioni quasi astratte. Unelemento naturale e dionisiaco irrompe quindi in un contesto asettico eartificialissimo, che sembra quasi visualizzare l’autosufficienza narcisistica.Specularmente, pur nell’irregolarità della struttura, Cremaster 5 (1997) è improntato aun altro genere musicale decostruito e sottoposto allo smontaggio del pastichepostmoderno: l’opera (composta dal collaboratore di Barney, Jonathan Bepler, in unostile ipercitazionistico); ambientato a Budapest, città doppia per antonomasia e patriadi Houdini, l’episodio tematizza con pathos melodrammatico la lacerazione e laseparazione e fa da contraltare all’ascensione che dominava nel primo episodio; qui ilmomento discendente è rappresentato dall’immergersi del Gigante (una sorta diNettuno), impersonato da Barney (proiezione onirica della protagonista, la Regina dellacatena, Ursula Andress), in una piscina popolata da creature ermafrodite circondate dapiccioni Giacobiti.

L’esibizione ricorrente del proprio corpo atletico, l’estetismo dell’abito intrecciatocon l’iconografia antica del satiro, sono esempi efficaci di una mitologia postmoderna(Nietzsche, Lévi-Strauss, Eliade, Girard sono le fonti dichiarate) che riproponel’attraversamento dionisiaco dei confini fra umano e animale e il suo sovvertimentocomico e grottesco.

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nonsense. In questa esperienza a metà fra il video e la televisione, Fargier rompe con lospazio televisivo classicamente inteso: seduti nello stesso luogo, Godard e Sollersvengono inquadrati e inseriti in due finestre diverse. I due protagonisti non condividonomai la stessa inquadratura: un espediente parodistico della tipica scena dello studioche indica la distanza incolmabile che li separa. Quando, dopo un’interruzione, Fargierannuncia: “Bene, continuiamo. Giriamo”, Godard lo interrompe improvvisamente:“Giriamo? Com’è possibile che continuiamo a usare la parola girare? Quandoapproderemo al digitale l’espressione sembrerà ancora più ridicola, visto che non cisarà più niente che gira su se stesso. Con il video possiamo ancora dirlo perché c’è unnastro che gira, giusto?”. Godard conclude con un lungo silenzio e, guardando unSollers fra il sorpreso e lo sconcertato, riprende il tema principale della trasmissione. Inqueste divagazioni dal chiaro sapore di boutades, il volto gioca un ruolo importante, inparticolare nella situazione di un’intervista o di un dialogo: generalmente, Godard leconclude con un silenzio e un sorriso complice accompagnato da uno sguardoinquisitore e un luccichio particolare negli occhi. Stando allo studioso Eduardo Russo:“è inequivocabilmente vicino al sorrisetto malandrino di Benny Hill quando faceva lesue gag a metà fra l’osceno e l’innocente nel suo programma televisivo. Come seaspettasse la risata del suo interlocutore o dello spettatore. Che la risata arrivi o no èun’altra faccenda, ma in quelle circostanze c’è senza dubbio qualcosa diirresistibilmente comico e misterioso per Godard” (Russo 2008). Un effetto checambia a seconda della posizione dell’interlocutore, con Kluge dietro la macchina dapresa e fuoricampo (Blinde Liebe. Gespräch mit J.-L.G., 2001) o nel dialogo conChristoph Kantchef nel documentario di Alain Fleischer, Morceaux de conversationsavec Jean-Luc Godard (2007). Quando viene intervistato, Godard reitera queste ideecorredandole invariabilmente di un sorriso un po’ lunatico, che sembra aspettare larisata ma al tempo stesso incute paura.

È in questo documentario che Godard, nel suo studio di Rolle, sottopone a JeanNarboni la scena del fotomontaggio di Ici et ailleurs, in cui vediamo appariresuccessivamente Lenin e Hitler, costretto a condividere l’inquadratura con il primoministro israeliano dell’epoca Golda Meir, a cui segue l’immagine del cadaverecarbonizzato di una vittima palestinese del conflitto. In perfetto stile John Heartfield,questa proposta di fotomontaggio trova nel mezzo elettronico lo strumento permettere a confronto delle icone effettuando un’acuta lettura politica della situazione.Sugli still in bianco e nero compaiono scritte digitali mutevoli che, combinando i nomidi Israele e Palestina, richiamano la terminologia variabile con cui attraverso la voce diHitler la Palestina affiora dietro la parola Israele. Questa boutade scomoda, giudicatapoliticamente scorretta, è l’estensione dello slogan c’est juste une image, che adistanza di trent’anni Godard rivendica come corretta: un collage elettronico di foto“nel quale non c’è niente da cambiare”.

Da mezzo secolo, attraverso il video, Godard elabora un discorso corrosivo eironico, un umorismo sarcastico che possiamo ricollegare alla sua idea di montaggiocome creazione metaforica ottenuta attraverso una relazione lointaine et juste(Weinrichter 2004). Idee distanti fra loro vengono messe in relazione attraversomeccanismi associativi che rimandano a un effetto di comicità, ottenuto tramite sceltecostruttive e di messa in scena chiamate a fondere immagini elettroniche eosservazioni mordaci riconducibili a un discorso che ha trovato espressione compiutanella sua opera video, dove Godard esprime il suo dissenso di fronte all’egemonia deidispositivi audiovisivi nei loro effetti di spettacolo e consenso.

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Jean-Luc Godard

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IL TEMPO COMICO non risiede soltanto nell’architettura progettuale della battuta maspesso nel contesto in cui accade o addirittura nel modo attraverso il quale si esprime,nel mezzo attraverso il quale si manifesta. L’arte del secolo scorso propone diversiesempi di come l’utilizzo di dispositivi – collage, fotomontaggi, ready-made,happening, mezzi audiovisuali – abbia spinto a strappare un sorriso perl’inconsuetudine del modo di proporre, per la predisposizione di queste tecniche alcontrattempo. Un accostamento inusuale tra materiali diversi incollati, lasovrapposizione di più fotografie, un filmato accelerato, l’oggetto decontestualizzato orovesciato nel suo utilizzo quotidiano, un personaggio presentato in un ambienteimproprio, con dei gesti improbabili ecc. predispongono a una reazione comica (ma,come vedremo, anche al suo rovescio tragico).

Anche nell’epoca delle tecnologie, che tanto ruolo hanno nella creazione dilinguaggi e di modelli comportamentali, si avverte un’analoga fenomenologia.Prendiamo per esempio, e non a caso, un aspetto particolarmente predisposto a ciò: ildispositivo interattivo. Pochissimo esplorato e utilizzato nel mondo dell’artecontemporanea, questo mezzo è viceversa fortemente significante, data la sua semprepiù invasiva presenza nel panorama della nostra quotidianità. Votato per statuto a unadimensione relazionale e sociale, questo dispositivo evoluto mette in comunicazionevarie componenti e differenti realtà in tempo reale. Associa con facilità elementi cheappartengono al mondo della materialità con quelli impalpabili dell’universo virtuale, litravasa uno nell’altro decontestualizzandoli, genera imprevedibili combinazioni ereazioni. Agisce con immediatezza producendo facilmente condizioni divertite etalvolta giocose. Nei migliori dei casi, nell’ambito della sperimentazione artistica, cismuove un sorriso che nasce come segno di un’apertura sincera a un’esperienzainattesa. Quel tipo di sorriso che Nietzsche definiva prodotto da un motod’intelligenza: “Quanto più lo spirito diventa gioioso e sicuro, tanto più l’uomodisimpara a ridere forte; per contro gli zampilla continuamente in viso un sorrisointelligente, segno del suo stupore per le innumerevoli piacevolezze nascoste dellabuona esistenza” (Umano, troppo umano).

L’interattività inoltre si distingue per essere un’interazione intercettata: fuoriescedal rapporto privato e in qualche modo intimo che sta alla base di una relazione e, pereffetto di un sistema tecnologico, viene rilevata l’intenzione di chi la pratica pergenerare immediatamente la conseguenza inaspettata o per depositarne memoria inun apposito magazzino di dati. Intercettare un gesto, una volontà, una finalità, “ruba iltempo” e lo trasforma in un tempo comico, cioè nel suo verso positivo, in un’esperienzafeconda (il lato inquietante si manifesta nel domandarsi chi intercetta e con qualifinalità?).

Se ad esempio in un’installazione come Tavoli (1995) si è invogliati a toccarel’immagine di una donna corpulenta che dorme distesa su un tavolo di legno, e nelmomento in cui lo si fa essa reagisce infastidita e si rigira con un ruggito da leone,accade qualcosa che cortocircuita il pensiero. La conseguenza al gesto, da parte dellospettatore, è immaginabile come se la figura fosse reale. Ma in realtà si è toccato soloun piano, quel tavolo che da parte sua pare esclamare “perché queste mani mitoccano?”. Il disorientamento generato da un tale sfalsamento percettivo – cosa stotoccando, una superficie di legno (tavolo) o la morbida consistenza della carne(donna)? – provoca la sorpresa divertita, genera un’esperienza sensoriale che apre anumerose questioni riguardanti il rapporto tra realtà e virtualità, fisicità eimmaterialità. Opposizioni che del resto convivono numerose nel nostro quotidiano.Nel prodursi di quest’esperienza l’istantaneità del rapporto causa-effetto è essenziale.Il gesto del toccare deve essere spinto da un moto spontaneo, quasi istintivo e larisposta deve prodursi con effetto immediato. In questa velocità sta l’efficacia dello

PAOLO ROSA(STUDIO AZZURRO)L’arte che morì dal ridere

Studio Azzurro,Tavoli (perché queste mani mitoccano?), 1995,videoambientazione interattiva,Triennale di Milano.

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continuo intrattenimento, che dilagano la loro beatitudine forzata attraverso le boccheridenti delle apparizioni televisive, sostenute magari da esplosioni di applausi o dirisate sintetiche.

Ma basterebbe sospendere l’audio un istante per decifrare con uno sguardo chedietro quel semplice, amabile, universale atto umano si nasconde l’espressione ferocedel ghigno. La risata fuori di sé, indotta dal contagio comunicativo, toglie il piacereimmenso del ridere tra sé e di sé. L’arte che è generatrice di anticorpi dovrebbe agiresu queste inclinazioni patologiche della società, con l’efficacia del suo fuoritempo, conl’esperienza della sua anacronia (Studio Azzurro-Derrida-Sini 1998), provvedendoattraverso le rivelazioni che procura a rigenerare quelle sensibilità incagliate. Maspesso essa si adatta alla contemporaneità, si associa alle sue dinamiche, vieneanch’essa “contaminata” dalle logiche del presente continuo. Lontani ormai dalle feliciscoperte delle avanguardie, dalla spettacolarità della ricerca, si vota anch’essa allaricerca dello spettacolo, stretta nell’epigonismo esasperato e da una logica di sistemache impone un sorriso esteriore: occorre andare subito all’idea brillante, alla battuta dispirito, verso il nonsense, la gag, la provocazione, istantaneamente senza il tempo di unpercorso, di un dialogo, senza aspettare che la cosa venga verso di te, che incrociimprovvisamente il tuo cammino. Senza dunque il sorriso della rivelazione, senza ilpiacere della condivisione. C’è in tutto questo il rischio di un’arte così contemporaneada accordarsi a una società che potrebbe morire dal ridere.

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spiazzamento.Quante volte mi è capitato durante le esposizioni delle nostre opere interattive –

gli Ambienti sensibili (1999) – di osservare il viso stupito e divertito, l’espressionesorpresa degli spettatori dei nostri lavori. Un sorridere della propria ingenuità che siapre ad una scoperta profonda, che si libera degli apparati concettuali e si disponeall’esperienza di ciò che è sconosciuto. Un sorridere tra sé e sé.

In questo istante di incanto disarmato c’è un sottile filo che collega l’attoespressivo provocato dall’interazione (che porta a meravigliarsi del proprio gesto) conquello primigenio dell’autore (portato a spiazzarsi della propria stessa invenzione). Èun momento condiviso di complicità. Il fine dell’artista che lavora con questidispositivi, infatti, non è tanto il sorprendere, lo stupire fine a se stesso, ma innescareun percorso di condivisione dell’esperienza. Far assumere “fuori di sé” l’attimogenerativo dell’opera intera. Non c’è retorica in questo, né demagogia del “siamo tuttiartisti”. C’è solo il progetto – il pensiero – di un’arte diversa da quella che contempla ildialogo con il solo spettatore “specialista”.

Se l’esperienza dello spettatore può nascere dunque da un atto felicementeingenuo, quella dell’artista è senz’altro frutto di un lungo e spesso tormentatopercorso. Qui sta la differenza incolmabile tra le due condizioni. Nello spettatorel’attimo fecondo si manifesta in un sorriso di disponibilità, nell’artista il lampo in cuitutto il bagaglio di ricerca prende la forma inaspettata si traduce in un’incontenibilefelicità. Anch’egli infatti è preso in contrattempo dal suo stesso pensiero. Immaginol’attimo in cui a Braque venne in mente di strappare un pezzo di giornale per incollarlosulla tela, o quando George Grosz e John Heartfield, alle cinque di un mattino delmaggio del 1916, inventarono il fotomontaggio “inciampando in un filone d’oro senzanemmeno accorgersene” (Grosz 1946), o la larga bocca radiosa di Marcel Duchampquando, l’anno dopo, improvvisamente “incontra” nella sua immaginazione l’idea ditravestire un orinatoio qualsiasi in “Fountain” e se stesso in Richard Mutt. Quell’attimoè una rivelazione e come tale non può che sorprendere in modo improvviso il tuovagare tra i pensieri. È il momento in cui non sei più tu che vai alle idee ma è l’idea cheviene a te. Essa arriva come una sconosciuta, rompendo lo schema dell’attesa, ladiffidenza ostile e appare come un qualcosa di felicemente e inconsciamentedesiderato.

Questo schema rimanda ad uno scritto di V.S. Ramachandran sull’origine del riso:“Con tutta probabilità, quando vedevano arrivare da lontano un individuo della stessaspecie, ma ignoto, i nostri antenati scimmieschi all’inizio scoprivano i canini in unasmorfia minacciosa, partendo dall’ipotesi che tutti gli sconosciuti fossero potenzialinemici. Se però riconoscevano nell’individuo un ‘amico’, forse interrompevano lasmorfia, producendo un sorriso che col tempo si è trasformato in una sorta di salutorituale” (Ramachandran 2003).

Se quindi la risata e il sorriso possono essere davvero considerati la provagenerale della creatività, si deve tener conto dell’insidia che ci suggerisce il biologoindiano col suo titolo significativo, La donna che morì dal ridere, e cioè che a un motodi riso possa sempre corrispondere il senso di una regressione che nasconde la suaradice di ghigno, se non di denti sfoderati verso l’azzanno e la sopraffazione.

Inutile dire, per chi si occupa di linguaggi tecnologici, che l’espressione capace diricordarci il nostro passato selvaggio si riscontra facilmente nel panorama mediaticoche ci sta intorno. La gigantesca accumulazione di dispositivi che caratterizza la faseche stiamo vivendo ci fa riflettere insieme ad Agamben che oggi “non c’è un soloistante nella vita degli individui che non sia modellato, contaminato o controllato daqualche dispositivo” (Agamben 2006, 24). Sistemi interattivi e non che si dispieganonella meraviglia del gadget, nel piacere della novità, nella felicità anestetizzata del

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NAM JUNE PAIK HA FINITO DOVE AVEVA COMINCIATO. Dove? Dappertutto! Aroundthe world.

Il terzo dei suoi spettacoli di “satellite art”, Wrap around the world, porta acompimento nel 1988, con un massimo dispiegamento di mezzi (dieci canali televisivi,una rosa di star internazionali), il sogno espresso trent’anni prima su carta, in unalettera a John Cage: “Suonare a San Francisco la parte per mano sinistra della Fuga n. 1(in Do maggiore) per Clavicembalo ben temperato di J.-S. Bach, suonare a Shanghai laparte per mano destra… tempo del metronomo: una semiminima = 80… trasmettere amezzanotte (ora di Greenwich) dalle due sponde del cosiddetto pacific ocean”.

Questo progetto di trasmissione radio, mai portato a compimento, può essereletto come il programma di tutta l’opera di Paik. E Wrap around the world come la suarealizzazione più completa, più totale. Il programma di Paik? Fare arte con tutto (al paridi Fluxus, il movimento in seno al quale Paik partorisce le sue prime creazioni), madavvero con tutto (spingendosi più in là di Fluxus). Tutto, per Paik, non significa solotutto: significa anche il Tutto. Paik non si accontenta dell’appropriazione post-duchampiana degli oggetti più insignificanti del mondo con cui si divertono i suoivecchi compagni di gioco; ciò di cui vuole appropriarsi è la totalità del reale. In un unicogesto. Paik è il primo, forse l’unico artista globale.

Dopo Good Morning, Mr Orwell (1984) e Bye bye Kipling (1986), Nam June Paikapprofitta dei giochi olimpici di Seoul per lanciare in diretta il suo terzo razzo d’artemondiale, ancora più portentoso dei primi due. Al contrario dei due paesi coinvolti nellaprima esperienza (Francia e Usa) e dei quattro della seconda (India, Giappone, Corea,Usa), Wrap around the world riunisce dieci paesi diversi. Questa volta, il papa dellavideoarte è riuscito a mettere d’accordo la Cina, l’Urss, il Giappone, la Corea, gli Usa,Israele, l’Irlanda, l’Italia, il Brasile e la Germania Federale, coinvolgendoli in una sorta diolimpiade della diretta. Ciascun paese deve trasmettere verso gli altri novepartecipanti un minimo di dieci minuti della propria programmazione, da cui ciascunopescherà a piacimento. La trasmissione durerà cento minuti e verrà orchestrata indiretta da dieci registi, mixando le immagini dei propri programmi trasmessi in tutto ilpianeta con quelle trasmesse dagli nove altri paesi.

Il progetto, nell’insieme, si presenta come una maratona di artisti all’insegna di unmix assoluto di generi: il cantante David Bowie, il compositore Ryuichi Sakamoto, ilcoreografo Merce Cunningham, la ballerina Louise Lecavalier e il rocker cinese Cui Jiansi confrontano, insieme ad alcune celebrità locali la cui fama non travalica quasi mai lefrontiere dei rispettivi paesi (il gruppo tedesco, il gruppo russo, il balletto israeliano, itamburi coreani, la scuola di samba di Rio), con i loro tour ordinari eseguiti incondizioni straordinarie. Il loro palcoscenico è il mondo, e sono costretti a condividerlo:i singoli numeri non vengono mai trasmessi a tutto schermo, ma simultaneamenteinvasi da uno o più spettacoli che hanno luogo negli altri paesi coinvolti. Paik haprevisto ogni sorta di incontro e contaminazione. Per esempio, la collaborazione diDavid Bowie e di Louise Lecavalier, étoile della compagnia La La La Human Steps:mentre la ballerina si dimena sulle note di una canzone di Bowie, il cantante si arrischiacon lei in una danza-preludio straordinaria, benché preregistrata.

Si tratta in effetti, unica eccezione alla regola, della sola differita dellatrasmissione: un duello, più che un duo, registrato qualche giorno prima per fare daclamorosa apertura, in un certo senso per dare il la. Un la chiamato a scatenare unavalanga di effetti speciali che ritroveremo nel corso di tutta la trasmissione, chiamato asolcare, a punteggiare, ad avvolgere (to wrap = avvolgere) ogni singola sequenza infasci di colori acidi, di accelerazioni paikiane.

Ma Bowie, elemento trainante di questo show, non può certo fermarsi lì. Un po’ piùavanti, si presterà a una vera diretta: in un collegamento Giappone-Usa, occuperà metà

Nam June Paik,Tiger Lives, 1999,45 min., colore, sonoro

JEAN-PAUL FARGIERWrap around the world di Nam June Paik

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con reti che simulano Mtv, Arte e un canale etnico (navajo) per riprodurre un grandezapping mondiale e transculturale in un’epoca in cui la tecnologia non permette ancoradi ricevere tutti i canali del mondo, costretti a conformarsi allo stesso modello(generalista). Quindici anni dopo, Wrap… dimostra che il groove (l’insieme vuoto,simboleggiato da una o barrata) c’è eccome, e che un artista non può voltargli le spalle.Che deve infilarvisi per giocarci. E per segnare dei punti. A forza di talento, diintelligenza, di immaginazione, di humour. E di relazioni.

Ricordo la risata di Paik, a Parigi, di ritorno da Seoul dopo il suo Wrap…, mentre mimostrava la sua minuscola agendina piena di numeri. Aveva fatto tutto con quella!Tutte le persone che potevano servirgli erano in quell’agendina. No computer, esultavalui, just paper… it’s enough. Superba incarnazione del progetto paikiano: un pugno dinomi dai quattro angoli del pianeta (il mio compreso) stretti nel cavo della sua mano.

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dello schermo intrattenendosi in giapponese con l’amico Ryuichi Sakamoto, chedall’altra metà del video gli risponderà in inglese, da una sponda all’altra dell’oceano.

Segue poi un altro duo transoceanico, di gran lunga più complesso: MerceCunningham che ondeggia a New York su una musica di Sakamoto eseguita in unauditorium di Tokyo, in cui vediamo proiettata l’immagine di Cunningham che danzanel suo studio, con i musicisti di Tokyo alle sue spalle. Un cortocircuito tutt’altro cheevidente, e che induce Paik a sfiorare il miracolo: durante la performance del ballerinoamericano e del musicista giapponese, la comparsa di qualche parola sottolinea ladistanza di più di 10mila chilometri che separa le due figure, fuse a formare un’unicaimmagine. Il che equivale a una dichiarazione di vittoria.

Centro! Il bersaglio a cui Paik mirava con il suo sogno di trasmettere Bachfifty/fifty tra Shanghai e San Francisco è stato colpito. Wrap around the world, inquesto senso, è un capolavoro assoluto. Quei cento minuti di televisione portano aincandescenza le potenzialità del medium dell’immediatezza, che la videoarte si èsempre vantata di esprimere e di superare: l’istantaneità, la simultaneità, lamolteplicità.

L’istantaneità erompe ogni secondo: tutto avviene in diretta, la ricezione coincidecon la trasmissione, la trasmissione con la regia. E non una sola, ma dieci volte. Il solesorge su Gerusalemme, dietro il monte degli Ulivi, quando la Kol Demama DanceCompany di Moshe Efrati esegue il suo balletto di Pace (da lontano si vede passarequalche macchina con i fari ancora accesi). A Leningrado è notte quando SergeyKuryokhin e i Popular Mechanics attaccano un rock sfrenato, al quale cerca disovrapporsi un’orchestra di balalaike trapiantata a New York. E in Cina? Sulla Muragliaè ancora giorno, quando la presentatrice annuncia Cui Jian e la sua Adult Band.All’appuntamento dell’istante T (come trasmissione) i fusi si fondono, segnanoesattamente la stessa ora.

E all’ora X? Tutti gli attori si mescolano, si confondono, gridando “presente!”.Simultaneità, mio dolce cruccio. Gli opposti finiscono per toccarsi. Se lo zapping

constata l’esistenza di una pluralità di mondi hertziani, la “satellite art” organizzaincontri improbabili, crea momenti unici. I tamburi e le ballerine seouliti Jang Go siscontrano con i vocalizzi di Cui Jian a Pechino. Una samba sexy partita da Rio invadel’orchestra classica di Amburgo, intenta a suonare Brahms nel parcheggio in cui sitrovava la casa natale del musicista. I bolidi di Formula 1 che si scatenano a Dublinotagliano la traiettoria di Cunningham, che prosegue il suo assolo senza Sakamoto. E inogni salto da un paese all’altro, un certo Dr. Möbius, in tuta grigio-argentata come uncosmonauta da operetta, elargisce sentenze sulla fine dello spazio chiuso, l’identità didritto e rovescio, l’inclusione di tutto nel Tutto.

La molteplicità si manifesta attraverso la coesistenza di un numero infinito digeneri, di stili, di codici. Sovrapposizione di codici, accozzaglia di generi, pibimpap distili (pibimpap è il piatto nazionale coreano che mescola riso, un uovo e ogni sorta dilegumi). Alta cultura e arte triviale, stessa storia. Tra Brahms e l’hard rock, tra il sorgeredel sole e un’invasione di pixel, tra una melopea antica (ripresa da Sakamoto) e unbrano aleatorio di David Tudor non esistono più frontiere: né di etnia, né di gusto, né divalore. Sono tutte forme accomunate dalla costruzione di un’arte globale. Un’arte incui tutto si avvicina a tutto: come sul nostro pianeta nell’era della televisione, stando aMcLuhan. Sì, perché l’arte deve essere contemporanea alla globalizzazione, se nonvuole produrre quelli che Duchamp aveva definito con grande precisione dei ritardi.Paik, da questo punto di vista, è sempre stato in anticipo.

Fin dal suo primo video, l’artista brandisce la parola globale. Nel 1973, Globalgroove è un fuoco d’artificio visionario, un melting pot di programmi televisivi realizzatiinteramente dall’artista (a eccezione dello spot coreano che reclamizza una bibita),