New MALICK, LA BIBBIA · 2012. 4. 24. · barbone nero: il simbolo di Satana nel Faust di Goethe....

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64 65 ACCORDI E DISACCORDI OLTRE LO SCHERMO MALICK, LA BIBBIA E Il film del regista americano, Palma d’oro a Cannes, trova un’idea sublime per disegnare il cuore dell’uomo: i testi sacri, nella figura biblica di Giobbe. La cui storia è declinata in tutti i suoi significati universali ALESSANDRO CINQUEGRANI Sono passati gli anni in cui il cinema viveva uno straordinario momento di grazia, ed entrare al cinema era spesso un’apertura di mondo, un’espe- rienza in cui era frequente vedere film innovativi e spiazzanti, in gran parte inattesi. Erano gli anni ‘90, quelli in cui Stanley Kubrick era ancora vivo, ed erano straordinariamente vitali autori come Kusturica, Kitano, Kiarostami, mentre facevano scuola, molto più di oggi, registi come Tarantino, Von Trier, Paul Thomas Anderson. Non è più così, fa parte dei normali flussi e riflussi di un’arte che a momenti di splendore ne alterna altri di assestamento: non che oggi ci siano meno registi capaci, anzi forse ci sono più opere perfettamente confezionate e piacevoli e meno tentativi falliti, operazioni audaci malamente deragliate; ma mancano, in genere, le opere che non ti aspetti. Una di queste è, però, The Tree of Life di Terrence Malick. Difficile parlare di un capolavoro inatteso, per un regista già molto noto e riconosciuto, rinato nel 1998 con La sottile linea rossa dopo l’esordio fulmi- Una delle tante, suggestive immagini di The Tree of Life, diretto da Terrence Malick

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ACCORDI E DISACCORDI OLTRE LO SCHERMO

MALICK,LA BIBBIAE

Il film del regista americano, Palma d’oro a Cannes,trova un’idea sublime per disegnare il cuore dell’uomo:i testi sacri, nella figura biblica di Giobbe. La cui storiaè declinata in tutti i suoi significati universali

ALESSANDRO CINQUEGRANI

Sono passati gli anni in cui il cinema viveva uno straordinario momento di grazia, ed entrare al cinema era spesso un’apertura di mondo, un’espe-rienza in cui era frequente vedere film innovativi e spiazzanti, in gran parte inattesi. Erano gli anni ‘90, quelli in cui Stanley Kubrick era ancora vivo, ed erano straordinariamente vitali autori come Kusturica, Kitano, Kiarostami, mentre facevano scuola, molto più di oggi, registi come Tarantino, Von Trier, Paul Thomas Anderson. Non è più così, fa parte dei normali flussi e riflussi di un’arte che a momenti di splendore ne alterna altri di assestamento: non che oggi ci siano meno registi capaci, anzi forse ci sono più opere perfettamente confezionate e piacevoli e meno tentativi falliti, operazioni audaci malamente deragliate; ma mancano, in genere, le opere che non ti aspetti. Una di queste è, però, The Tree of Life di Terrence Malick.Difficile parlare di un capolavoro inatteso, per un regista già molto noto e riconosciuto, rinato nel 1998 con La sottile linea rossa dopo l’esordio fulmi-

Una delletante, suggestiveimmagini di The

Tree of Life,diretto da

Terrence Malick

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nante de La rabbia giovane (1973) e la conferma autoriale de I giorni del cielo (1978), prima di sparire per vent’anni dalle scene, eppure è così. Malick decide di trattare questa volta non di un aspetto della vita, ma dell’essenza più profonda della vita stessa. Ci aveva già provato, cinque anni fa, un altro dei registi più interessanti degli ultimi anni, Darren Aronofsky, che nel 2006 aveva confezionato l’ambizioso The Fountain, distribuito in Italia proprio col titolo (non peregrino come capita a volte) L’albero della vita. Per raccontare la profondità dell’animo umano Aronofsky partiva allora da una storia di amore e morte, che incrociava i temi della ricerca, dell’abbandono, della negazione dei limiti umani: è su tutto ciò che pianta le radici l’albero della vita.Eppure il progetto di Aronofsky, pure stimolante, appariva sfilacciato e poco compatto, e così l’ambizione sfrontata (che può essere un merito) finiva

per sommergere l’autenticità dell’idea che pure si intravedeva. Tre storie si intrecciavano o si giustapponevano, faticando così a mostrare il nocciolo unico dell’esistenza umana, nonostante i nessi evidenti tra le relative trame. Gli stessi temi rientrano potentemente nel film di Malick, che però, dall’altro della sua cultura filosofica, trova un collettore, un’idea unica e compatta per disegnare il cuore dell’essere umano: e la trova nei testi sacri, nella figura biblica di Giobbe, la cui storia è declinata in tutti i suoi significati universali.Ma andiamo con ordine. Amore e morte, come in The Fountain, sono al centro di The Tree of Life, però non si tratta di amore muliebre quanto piuttosto di amore filiale. La famiglia, madre, padre e tre figli, sta al centro del discorso di Malick. Ma il film si apre con la morte: madre prima e padre poi, vengono rag-

giunti dalla notizia della scomparsa del figlio diciannovenne. Eccoli di fronte alla prova più difficile della vita, quella di confrontarsi con il suo rovescio e il suo destino, la morte. In questa prima parte, protagonista assoluta appare la madre (interpretata da Jessica Chastain): è la prima a provare il dolore struggente di soprav-vivere a un proprio figlio. Ma quella donna è molto credente, cresciuta con un’educazione religiosa, è rimasta molto devota, e ci avverte da subito, prima di confrontarsi con la morte (il film, come spesso nelle opere di Malick, fa ricorso ad una voce off profondamente introspettiva per portarci dentro l’emotività dei personaggi) di amare profondamente la Grazia, che è da scrivere con la maiuscola e intendere come Grazia divina. La sua fede è, eti-mologicamente, fiducia incrollabile, amore per questa dimensione divina: “Io

ti sarò fedele”, dichiara a chiare lettere, “qualsiasi cosa accada”. Qualsiasi cosa accada…, già, ma davvero questa fede può restare incrollabile di fronte alla morte di un figlio? Non è, questa, una prova troppo difficile, persino per la persona più ferma nella sua religiosità? Sì, lo è.Ed ecco la prima memoria del Giobbe biblico. Giobbe è il più fedele, il più saldo nella sua fiducia in Dio, il più onesto e leale, il migliore tra i figli di Dio. Ciononostante, o forse proprio per questo, nelle pagine dell’Antico Testamen-to Giobbe viene messo alla prova da Dio, sollecitato a sua volta da Satana. Giobbe perde il bestiame, è colpito da malattia, ma soprattutto perde i suoi figli. Giobbe, il più fedele, il più saldo, non è di fronte ad una prova troppo dif-ficile per non tremare nella sua fede? Sì, lo è. Ha pazienza, aspetta, chiede il

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parere a tre saggi, cerca di resistere, ma alla fine crolla, alla fine si ribella. Si rivolge a Dio e gli chiede: perché? Perché, Dio, hai lasciato che venisse colpito proprio chi non ha commesso mai del male?Anche la donna del film si trova nello stesso punto e si pone gli stessi interrogativi. Dice letteralmente: “Non ti sono stata fedele? Signore, perché? Dov’eri?”. Dove sta la colpa di Giobbe e della donna? Perché se non c’è colpa, non c’è ragione, non c’è logica in quello che è accaduto. Ma Dio questa volta risponde, di fronte alla ribellione di Giobbe, Dio risponde col famoso discor-so della sapienza creatrice: “Dov’eri quando io mettevo le basi della terra? Dillo se hai tanta sapienza! … Chi racchiuse tra due battenti il mare, quando uscì impetuoso dal seno materno? … Per quale via si va dove abita la luce? E le tenebre dove hanno dimora? Potresti tu condurle al loro posto, dato

che conosci il sentiero delle loro case?… Conosci forse le leggi del cielo e determini tu i loro influssi sulla terra? Puoi tu dar ordini alle nubi? … Scagli tu i fulmini e partono dicendoti ‘eccoci!’?…” e così via, in uno dei passi più affascinanti e destabilizzanti della Bibbia, un passo citato peraltro nella frase posta ad esergo del film.Così, dunque, risponde a Giobbe Dio, rendendogli evidente la piccolezza e l’ignoranza umana di fronte alla grandezza divina. E alla donna del film, alla signora O’Brien, Dio risponde? Sì, allo stesso modo, ma non a parole, con le immagini. E così vediamo sullo schermo la potenza e l’enigma della sapienza creatrice: ecco la fondazione della terra, l’apertura dei mari, le creature viven-ti, la caccia tra loro, e poi via via fino alla creazione dell’uomo. Dio risponde a

quella donna, le mostra la sua grandezza, come aveva fatto con Giobbe.Con questo primo elemento che apre The Tree of Life, Malick individua l’archetipo, la storia altissima dalla quale far discendere momenti di vita quotidiana sorretti dagli stessi elementi. Dunque l’archetipo si cala nella vita e il rapporto di una donna con Dio diviene strutturazione delle mec-caniche familiari. In particolare nella ricostruzione della vita passata c’è il confronto di un figlio adolescente col proprio padre. Dalla figura del padre a quella del Padre, il passo è breve. E a sottolinearne il legame interviene una scena a collegare i due momenti. Il figlio maggiore, protagonista, nei fatti, del film, è un bambino, gioca in giardino mentre la madre tiene in braccio il fratellino appena nato (quello che poi morirà giovane). Sta giocando con due coccodrilli, poi si arrabbia, in un momento di gelosia assai frequente nei figli maggiori nei confronti del nuovo nato, e glieli tira addosso. Cocco-drilli: il discorso della sapienza creatrice termina esattamente sulla creazione del mostro levia-tano, chiamato appunto Leviatan, che qualcuno tra-

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duce in italiano: coccodrillo. Il leviatano è il simbolo della potenza divina, ma di quel Dio che include la rabbia e la ferocia, quel Dio che ha in sé piuttosto Natura che Grazia (su questa distinzione si apre il film e ci torneremo tra breve).Questo Dio ha però d’ora in poi, in The Tree of Life, un corrispettivo narrativo nel padre (impersonato da Brad Pitt), quel padre che pretende di essere chiamato “signore” dai propri figli, quel padre che ama i propri figli ma non sa manifestarlo che con la propria autorità. È il padre assoluto, rispetto al quale i figli non possono che chinare il capo, è dunque un Dio precristiano, forse, secondo Freud, ebraico. E il figlio è Giobbe, è il giusto oppresso ingiu-

stamente. Subisce a lungo l’arroganza del padre, cercando di assecondarlo il più possibile, ma non si può con un padre del genere. “Vuoi continuare a sfidarmi?”, chiede provocatoriamente il padre al figlio, e la sfida tra i due non può tardare. Perché anche quel Giobbe, come l’illustre precedente, ad un certo punto si ribella al padre.Il padre parte per lavoro, e i figli restano soli con l’amata madre. È a questo punto che si struttura il triangolo edipico. La madre è così affettuosa e te-nera che non può non essere amata profondamente dal figlio e la distanza del padre è vissuta come una liberazione. È il momento della svolta, ed è annunciato da un passaggio, non certo fortuito o casuale, di un cane

barbone nero: il simbolo di Satana nel Faust di Goethe. Satana è la causa del conflitto tra Giobbe e Dio. Dunque, al ritorno del padre, il figlio Jack conosce il male. Comincia ad infrangere le regole solo per il gusto di farlo, a fare quello che non si può, anche a far male al fratello, il buon compagno di giochi. Il desiderio di ribellione raggiunge il momento più acuto quando Jack ha addirittura la possibilità di uccidere il padre che lavora sotto un’auto, in equilibrio precario, e non esita a dire “ti prego, Dio, uccidilo, fa’ che muoia, mandalo via di qui!”.Siamo all’acmé, al punto massimo del conflitto, è proprio allora che Jack (interpretato, da adulto, da Sean Penn), proprio come Giobbe, si ravvede,

e torna a riconoscere la grandezza del Padre. Jack perdona quel padre autoritario, ne ricerca l’affetto, gli dice di assomigliargli in fondo. E il perdono è un gesto di superiorità che spiazza il padre. È il padre, allora, ad entrare in crisi. Subito dopo dice: “Volevo essere amato perché ero importante, un grande uomo, ma non sono niente, guarda lo splendore intorno a noi, albe-ri, uccelli, ho vissuto nella vergogna, ho umiliato lo splendore e non ne ho notato la magnificenza”. Se pensiamo che queste parole vengono pronuncia-te da una figura simbolica di Dio, allora acquistano un valore aggiunto. Il Dio che parla in queste righe è quello autoritario che aveva parlato con Giobbe, quello che voleva rappresentare attraverso quella sfida a Satana la sua

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superiorità, e invece quel Dio non ha visto, non ha capito, che il mondo creato lo stava superando in splendore e magnificenza. E con quel mondo anche l’uomo.Secondo Carl Gustav Jung la storia di Giobbe è estre-mamente emblematica del rapporto tra uomo e Dio. Racconta, secondo lui, della vergogna di Dio di fronte alla superiorità dell’uomo. Dio ha umiliato l’uomo per una gratuita scommessa con Satana, Giobbe ha avuto pazienza e anche di fronte al suo discorso della sapien-za, ha saputo comprendere e perdonare. Dio se ne rende conto e si sente inferiore a Giobbe, inferiore all’uomo. Secondo Jung Dio ha una sola possibilità di recuperare il proprio ruolo e la propria superiorità: farsi a sua volta uomo, scendere sulla Terra nei panni di Cristo. Così continua la frase del film citata prima: “Chiudono lo stabilimento. Mi hanno fatto scegliere: niente lavoro o il trasferimento a fare un lavoro che nessuno vuole”. Ma questa è l’alternativa che si pone di fronte a Dio: spari-re, smettere di essere se stesso, oppure trasferirsi (sulla Terra) e fare un lavoro che nessuno vorrebbe

fare. Chi vorrebbe scendere sulla Terra per farsi tortu-rare e uccidere? Forse solo Dio può avere il coraggio di quel gesto. È il passaggio decisivo dalla religione del Padre, autoritario e oppressivo, a quella del Figlio, descritte tanto efficacemente da Freud in Totem e tabù. È in questo momento che è possibile la faglia nel tempo che annun-cia il finale sull’acqua, dove vivi e morti, giovani e vecchi, si ritrovano in un solo luogo.Si potrebbe dunque pensare che The Tree of Life sia un elogio delle religioni dei figli, come il cristianesimo, rispetto alle religioni dei padri, come l’ebrai-smo. Ma non è così. Per quello che rappresenta, quel padre è nei fatti una delle identità di Dio, quella di Natura, di quella natura che prevede e con-templa l’autorità, la morte, il dolore. Questa Natura è parte di Dio. Ma c’è poi la Grazia, secondo una distinzione su cui si è aperto il lungometraggio di Malick. E la Grazia è impersonata dalla madre, fin dall’inizio. A lei sono messe in bocca le ultime parole del film, quelle che danno la nuova traccia, la nuova direzione all’uomo: “Fai del bene, meravìgliati, spera”. È grazie a questa indicazione che si può assistere ad una nuova creazione, e anche ad una teofania nuova. Allora la religione che vince non è quella del Padre né quella del Figlio, ma quella della Donna che impersona la Grazia. E del resto è la donna a poter chiamare il figlio, come fa al pari di Dio, “mia creatura”.

Sean Pennin The Treeof Life, nel ruolodi uno dei fratellidivenuto adulto