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NEW-DEAL E CORPORATIVISMO FASCISTA DI FRONTE ALLE CONSEGUENZE DELLA « GRANDE CRISI » DISCUSSIONI STORIOGRAFICHE Il crollo dei titoli azionari a Wall Street nelle drammatiche giornate dell’ottobre 1929 parvero segnare la fine di tutto un mondo, del mondo dell’Ottocento che era stato sì intaccato ma non gravemente colpito dalla guerra del 19 14 -18 , perchè soprat- tutto fra il 1922-23 e il 1929 il ritmo di sviluppo dell’economia mondiale aveva proceduto intenso. Florent Feels ha, infatti, po- tuto scrivere parlando di quegli anni: « Dal 1920 al 1930 era- vamo tutti convinti di essere sul punto di creare qualcosa; non avevamo la pretesa di cambiare il mondo, ma di dargli un aspetto e uno spirito nuovi » \ Il presidente americano, Herbert Hoover, faceva eco a queste parole, quando, nello stesso ottobre 1929, commemorando il centenario della lampada ad incandescenza in- ventata da Edison, esclamava: « In America siamo più prossimi al trionfo finale sulla miseria che in qualunque altro momento e paese della storia ». Si sentiva, qui, la convinzione ancora otto- centesca che la tecnica e la scienza fossero in grado di liberare l’umanità dai suoi mali tradizionali e di aprire la via ad una nuova e più felice era. Ma dopo il « giovedì nero » (the Black Thursday), 24 ottobre 1929, in cui le vendite raggiunsero alla Borsa di New York la cifra impressionante di 12.894.650, ed in cui parve che il mercato fosse « in preda a una cieca paura im- placabile » e al panico \ quella convinzione e quella serena fi- ducia scomparvero lasciando negli uomini un forte ed acuto senso di incertezza e di precarietà: la vita non appariva più come una ininterrotta e continua linea ascendente, ma come una linea spez- zata, infranta, che poteva alzarsi, ma anche precipitare. La riflessione sulle cause di quel repentino crollo iniziò su'1 1 Citato da A. L anoux, Parigi 1925, Milano, 1958. 2 Cfr. J. K. Galbraith, Il grande crollo, Milano, 1962.

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N E W -D E A L E CO RPO RATIVISM O F A SC IST A DI FRO N TE A L L E C O N SEG U EN ZE

D E LL A « G RA N D E CRISI »

D ISC U SSIO N I STO R IO G R A FIC H E

Il crollo dei titoli azionari a Wall Street nelle drammatiche giornate dell’ottobre 1929 parvero segnare la fine di tutto un mondo, del mondo dell’Ottocento che era stato sì intaccato ma non gravemente colpito dalla guerra del 19 14 -18 , perchè soprat­tutto fra il 1922-23 e il 1929 il ritmo di sviluppo dell’economia mondiale aveva proceduto intenso. Florent Feels ha, infatti, po­tuto scrivere parlando di quegli anni: « Dal 1920 al 1930 era­vamo tutti convinti di essere sul punto di creare qualcosa; non avevamo la pretesa di cambiare il mondo, ma di dargli un aspetto e uno spirito nuovi » \ Il presidente americano, Herbert Hoover, faceva eco a queste parole, quando, nello stesso ottobre 1929, commemorando il centenario della lampada ad incandescenza in­ventata da Edison, esclamava: « In America siamo più prossimi al trionfo finale sulla miseria che in qualunque altro momento e paese della storia ». Si sentiva, qui, la convinzione ancora otto­centesca che la tecnica e la scienza fossero in grado di liberare l’umanità dai suoi mali tradizionali e di aprire la via ad una nuova e più felice era. Ma dopo il « giovedì nero » (the Black Thursday), 24 ottobre 1929, in cui le vendite raggiunsero alla Borsa di New York la cifra impressionante di 12.894.650, ed in cui parve che il mercato fosse « in preda a una cieca paura im­placabile » e al panico \ quella convinzione e quella serena fi­ducia scomparvero lasciando negli uomini un forte ed acuto senso di incertezza e di precarietà: la vita non appariva più come una ininterrotta e continua linea ascendente, ma come una linea spez­zata, infranta, che poteva alzarsi, ma anche precipitare.

La riflessione sulle cause di quel repentino crollo iniziò su' 1

1 Citato da A . Lanoux, Parigi 1925, Milano, 1958.2 Cfr. J. K . Galbraith, Il grande crollo, Milano, 1962.

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bito ed uno fra gli economisti che più a fondo le indagò, par- tendo dal punto di vista deH’economia classica liberistica, fu L. Robbins3, il quale ha messo in rilievo come la produzione globale avesse a poco a poco superato il potere d’acquisto delle grandi masse popolari, che anzi andavano riducendo le loro di­sponibilità, sia perchè il processo di « razionalizzazione » e di concentrazione delle imprese condannava alla disoccupazione mi­lioni di uomini, sia perchè i prezzi agricoli, fin dal 1920 ma in particolare dal 1926, erano precipitati a mano a mano che si accumulavano gli stocks: in tal modo, le forbici — cioè la diffe­renza fra questi prezzi e quelli industriali — si erano sempre più aperte, giungendo ad accusare una differenza del 70% e di­minuendo, nel tempo stesso, il potere d’acquisto dei ceti agri­coli, costretti ad ipotecare le terre per rimborsare i loro debiti ed a restringere il loro consumo di prodotti industriali \

Ma il Robbins cerca di andare più a fondo nella ricerca delle cause, e crede di individuarle nella stabilizzazione della sterlina, attuata da Churchill nel 1925 riportando il valore di questa mo­neta a quello dell’anteguerra (4,86 dollari per una sterlina) e af­fiancandola, perciò, al dollaro come moneta-chiave per gli scambi internazionali. Tuttavia, questa rivalutazione era assolutamente priva di realismo, perchè la sterlina risultò sopravvalutata di circa il 10 % : da ciò derivò una quasi immediata e forte riduzione delle esportazioni insieme con un incremento delle importazioni, sicché il regime aureo, appena ristabilito, minacciò di pericolare. Fu necessario, allora, chiedere l’aiuto di altri paesi, soggiunge sempre il Robbins, e la Gran Bretagna trovò benevolo ascolto nelle banche americane, le quali, in parte per aiutarla e in parte per favorire alcune posizioni interne, presero la grave decisione, nel 1927, di inaugurare un regime di denaro a buon mercato. Secondo quanto disse, nel 19 3 1 , A . C. Miller, il più esperto membro del Federal Reserve Board, alla Commissione senatoriale per il credito e la circolazione incaricata di condurre una inchie­sta sulla crisi del 1929, questa « fu la più grande e audace ope­razione mai intrapresa dalle banche federali di riserva e mise capo ad uno dei più costosi errori che siano stati commessi da

3 Cfr. Di chi la colpa della grande crisi? E la via di uscita, Torino, 1935.* Cfr. C. A mbrosi -M . T acel, Histoire économique des grandes puissances à l’époque

contemporaine, 1850-1958, Parigi, 1963.

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esse e da qualsiasi altro sistema bancario negli ultimi settantacin- que anni» (giudizio riferito dal Robbins). A ciò si aggiunga il fatto — al quale, peraltro, il Robbins non attribuisce molta impor­tanza — che la stabilizzazione del franco francese fatta ad un livello basso nel momento in cui sia il dollaro sia la sterlina ap­parivano sopravvalutati, fece affluire oro alla Banca di Francia in misura notevole ed anche se tutto questo oro non fu steriliz­zato — come ha voluto dimostrare il Robbins, contro, però, l ’o- pinione di parecchi altri economisti 5 — , resta il fatto che le fu­ghe di capitali dagli Stati Uniti e dall’ Inghilterra contribuirono a indebolire le due monete.

Ma, tornando al « costoso errore » commesso dalla Federai Reserve Bank di New York, esso consistette nella riduzione del saggio di sconto dal 4 al 3 ,50% e nell’acquisto di una grande quantità di titoli pubblici, lasciando, così, le banche e gli indi­vidui che li avevano venduti con grosse disponibilità monetarie, disponibilità che vennero immediatamente investite in azioni. Si ebbe, perciò, una generale corsa al mercato, e la situazione prese quasi subito a sfuggire ad ogni controllo, tanto che nel 1928 le autorità monetarie cominciarono ad allarmarsi ed alzarono il tasso di sconto, sebbene non riuscissero più a controllare le forze che avevano scatenato. Da quel momento i prezzi delle azioni per­sero il rapporto con gli aumenti degli utili delle società indu­striali: era cominciata la fuga in massa verso la finzione, « ele­mento essenziale della vera orgia speculativa », ha detto il Gal­braith, il quale è propenso ad attribuire unicamente a questa intensa febbre speculativa la grande crisi. Interpretazione che non sembra del tutto convincente, in quanto, come ha affermato G. Mortara, un certo rapporto fra la produzione e le quotazioni dei titoli a Wall Street vi fu senz’altro, nel senso che queste ultime furono spinte in su dalla speranza di un continuo e ulte­riore incremento della prima. Ma verso la metà del 1929 i sin­tomi di una crisi della produzione si erano fatti sempre più evi­denti, eppure il Galbraith mostra di attribuire scarsa importanza a tale « versione dei fatti comunemente accettata » perchè la fa risalire al desiderio di persone, « mosse da un istinto conserva­tore », di non accusare Wall Street per non darle nuovi sfregi.

5 Cfr. soprattutto S. W olff, L ’oro della Francia. Responsabilità francesi nella crisi mondiale, Milano, 1934.

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Tuttavia, anch’egli non può nascondersi che l’inizio del tracollo si ebbe quando la Borsa si rese conto che si annunciava una de­pressione della produzione: la diminuzione degli indici di que- st’ultima spaventò gli speculatori, i quali cominciarono a liberarsi dei titoli che possedevano, e il loro esempio fu ben presto seguito da altri, che tenevano anch’essi d’occhio quei titoli: così, si era forata una vescica che, in ogni caso, o prima o dopo, si sarebbe sgonfiata. Anche l’ « Economist », nei primi commenti a quello che definiva il « tornado » di Wall Street, lo attribuiva, in parte, al diminuito volume dell’attività industriale. E ’, questa, una spie­gazione che ci pare, fra le tante, forse la più plausibile, ma che chiama direttamente in causa lo sviluppo disordinato e anarchico del sistema capitalistico, come del resto fa lo stesso Galbraith, quando sostiene che la cattiva distribuzione del reddito fu uno dei punti deboli che dovette esercitare « un influsso particolar­mente profondo sul disastro finale ». « Nel 1929 — egli ag­giunge ■—- i ricchi erano indubitabilmente ricchi. Le cifre non sono del tutto soddisfacenti, ma sembra che il 5 per cento della popolazione con i redditi più elevati ricevesse quell’anno appros­simativamente un terzo dell’intero reddito nazionale ». Natural­mente, questa diseguale distribuzione del reddito individuale in­dicava che l’economia americana « era basata su un alto livello d’investimenti o su un alto livello di spese in oggetti di consumo di lusso, o su entrambi » : investimenti e spese di lusso soggetti a influenze più capricciose e a maggiori fluttuazioni che le spese di vitto e d’alloggio dell’operaio il quale guadagnava 25 dollari la settimana e dell’agricoltore che viveva fra i debiti. Non ap­pena, pertanto, questo ceto di ricchi non sostenne più il consu­mo, la produzione si contrasse rapidamente e le ripercussioni si fecero sentire sulla Borsa.

Negli anni precedenti il 1929, si era anche aggiunta una serrata rivalità fra Londra e New York per decidere chi avrebbe fornito la maggior quantità di capitali al mondo per assicurare la supremazia della sua divisa e per ritrarne, naturalmente, i re­lativi interessi. Wall Street, approfittando della indiscussa stabi­lità del dollaro e della eccessiva abbondanza di capitali, si spe­cializzò soprattutto nei prestiti a lungo termine, mentre la City- in quelli a breve termine, favorita dal fatto che i paesi del conti-

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nente europeo, ai quali offriva il denaro, cercavano una moneta convertibile in ogni momento in oro (ecco perchè il Gold Exchange Standard, sulla base della sterlina, si sostituì al Gold Bullion Standard, sulla base dei lingotti d’oro). Rapporti molto stretti si stabilirono, in tal modo, fra le banche di Londra e quelle di Vienna, in particolare il Kreditanstalt, dal quale i crediti in ster- line si spandevano sui paesi danubiani e balcanici1’. Ma New York non volle farsi battere ed ecco che nacquero improvvisamente «• nuove stelle nel firmamento bancario », come dice il Delaisi: il gioco era molto semplice e consisteva nell’emissione, sotto la garanzia di qualche monopolio (fiammiferi, come quello di Kreu- ger, poi miseramente fallito, o ferrovie, ecc.), di titoli sui quali potenti banche concedevano forti prestiti. Perciò, si prendevano i dollari al 2% a New York e li si prestava al 6% a Berlino o all’8 % a Vienna. Prima del 1929 questa gara fra Londra e New York si sviluppò serrata, ma dopo lo scoppio della crisi parve che questa funzione dovesse essere assolta dalla Francia, che era costretta a cercare di collocare i capitali che deteneva. Pochi erano, però, quelli che si rivolgevano a Parigi per chiedere l’apertura di crediti, ed allora ecco la Banca di Francia ricorrere a Londra, alla quale dava il denaro al 2 % , che veniva, poi, gi- rato a Berlino al 5 o al 6 % , da dove passava a Vienna all’8 o al 9% e da quest’ultima a Budapest o a Bucarest al 12 % . Alla fine del 1930 Parigi aveva circa 17 miliardi di franchi in ster' line nelle banche inglesi. Ma nell’autunno di quell’anno, la situa- zione si aggravò notevolmente, soprattutto perchè i prezzi dei generi agricoli, di cui gli Stati danubiani erano esportatori, cad­dero e, di conseguenza, i ceti agricoli di quei paesi non furono più in grado di rimborsare il denaro ricevuto dal Kreditanstalt (giugno 1931). L ’Austria cercò di ricorrere all’aiuto del governo francese, ma questo volle imporre un suo piano danubiano, al posto dell’Anschluss, del quale si era avuto un primo accenno nel luglio del 1930 quando la Germania aveva fatto alla vicina piccola repubblica la proposta di una unione doganale. Ma men­tre si discuteva, la banca austriaca cadde, trascinando con sè anche le banche tedesche, fra cui la più importante era la Darmstàdter und Nationalbank, il che obbligò il governo di Berlino a chiu­dere temporaneamente tutte le banche. Nemmeno la moratoria 6

6 Cfr. F . Delaisi, La bataille de l ’ or , Parigi, 1933.

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per i debiti di guerra, riparazioni di guerra tedesche incluse, su­bito concessa dal presidente Hoover, preoccupato di salvare i ca­pitali americani e inglesi prestati alla Germania, « valse ad argi­nare la marea »

Questo tentativo di salvataggio non fu assecondato volentieri dal governo francese e quando finalmente esso si arrese, il Reich, per salvare la sua moneta, aveva dovuto chiedere una moratoria generale di tutti i suoi debiti privati: così, circa ioo milioni di sterline e circa 200 di dollari si trovarono « congelati » in Ger­mania, il che spinse i capitalisti britannici a cercare di ritirare i loro depositi ancora disponibili. Questa volta, la Banca di Fran­cia, che aveva ancora più di 7 miliardi depositati a Londra, corse in aiuto della sterlina, ma troppo tardi, perchè la City, il 2 1 set­tembre 19 3 1 , disancorò la propria moneta dall’oro, cioè svalutò la sterlina, causando alla Banca di Francia la perdita di circa 2 miliardi e mezzo di franchi. In sei settimane, 12 paesi segui­rono l’esempio inglese e abbandonarono la parità aurea, mentre altri paesi, per evitare questa sorte, stabilirono il controllo delle divise. Era veramente la fine di un’epoca (e così, infatti, intitolò un suo articolo l ’ « Economist », The End of an Epoch, 26 set­tembre 1931), dell’epoca dell’economia mondiale integrata e ba­sata su una stabile e solida moneta — la sterlina 7 8 — , mentre, come dice M. Baumont 9, l ’ondata di svalutazioni sottolineò i pro­gressi compiuti dall’ idea di un’ invisibile Economie Empire bri­tannico, che avrebbe aggiunto all’ impero politico il blocco scan­dinavo e baltico ed una grande parte delle nazioni dell’Ame­rica latina.

Anche la Francia cercava di costituire un « blocco economico imperiale » stabilendo una sempre più stretta interdipendenza fra i suoi interessi commerciali e quelli delle sue colonie. An- ch’essa tenne, sull’esempio inglese, una conferenza imperiale a Parigi nel 1933, in cui stabiliva che dovesse svilupparsi la pro­duzione mineraria e agricola nelle colonie. Ma l’enorme ribasso dei prezzi dei prodotti agricoli coloniali e delle materie prime

7 Cfr. W . L. S h i r e r , Storia del Terzo Reich, Torino, 1962.8 Cfr. P. Einzig, The Tragedy of the Pound, Londra, 1932: P. Goetschin, L ’évo­

lution du marché monétaire de Londres, 2931-1952. Politique monétaire et institu­tions financières, Ginevra, 1963.

9 Cfr. M. Baumont, La faillite de la paix, 1928-1935, Parigi, 1951.

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aveva notevolmente ridotto la possibilità per gli indigeni di acqui- stare i prodotti della madrepatria, nè i lavori pubblici che il go­verno francese aveva fatto eseguire nelle colonie, ricorrendo in parte agli stessi indigeni per il loro finanziamento, avevano alzato quel potere di acquisto; sicché, in tale situazione, il mezzo più semplice per incrementarlo consisteva nel promuovere risoluta- mente l’importazione in Francia dei prodotti coloniali. Ecco per­chè, mentre nel 19 13 le colonie francesi partecipavano al com­mercio di importazione ed esportazione nella misura rispettiva­mente del 9,4% e del 13 % , nei primi undici mesi del 1934 tali percentuali erano salite rispettivamente al 25 e al 30 % .

L ’esame del commercio inglese rivelava un andamento molto simile a questo, se nel 1934 circa il 57 % delle importazioni provenivano da Stati appartenenti all’ Impero, mentre al com­prensorio della sterlina si rivolgeva circa il 64% delle esporta­zioni 10 11. Intanto, però, questa tendenza a creare zone autarchica­mente chiuse 11 accentuò, nella vita politica internazionale, la sog­gezione di alcuni paesi ad altri economicamente più potenti e diede inizio a quella corsa verso la formazione degli « spazi v i­tali » che caratterizzò gli anni dal 1935 in poi soprattutto da parte dell’ Italia e della Germania, mentre gli Stati Uniti raffor­zavano la loro influenza sull’America del Sud e il Giappone in­tensificava la sua penetrazione in Cina. Era la disintegrazione dell’economia mondiale a cui si sostituiva prima una sorda e poi aperta lotta degli Stati che ancora non avevano una propria zona per crearsela con metodi pacifici, se possibile, o altrimenti con la forza.

Certo, questa situazione era favorita dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime, che necessariamente accentuava la dipendenza di quei paesi dalle nazioni industria- lizzate: infatti, il rapporto fra i prezzi all’esportazione e quelli all’importazione divenne sempre più favorevole per questi ultimi e sempre meno favorevole per le colonie e i paesi dipendenti. Così le conseguenze della crisi venivano a ricadere, in gran parte, sulle

10 Cfr. The Economist, 30 marzo 1935, England and the Gold Bloc.11 Cfr. H . W. Arndt, Gli insegnamenti economici del decennio 1930-1940, Torino,

1949. L ’Arndt attribuisce giustamente queste tendenze al crollo del sistema del gold standard che spinse le nazioni a cercare « una via d'uscita alle loro difficoltà valutarie attraverso il sistema dei clearings che, date le circostanze, restrinse ne­cessariamente il commercio internazionale entro correnti bilaterali ».

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popolazioni contadine delle colonie e dei paesi economicamente deboli quali quelli dell’Europa balcanica e centrale 12.

Un’altra conseguenza della crisi, anche questa comune a tutte le crisi precedenti, fu la concentrazione industriale 13 *.

Questo fenomeno faceva, peraltro, risorgere la vecchia di­scussione sulla convenienza o meno dei cartelli per il consuma­tore: in Francia, ad esempio, il presidente del trust dei coloranti, Kuhlmann, cercava di dimostrare che la cartellizzazione di tale industria aveva fatto ridurre le spese di distribuzione dal 15 % al 3 3 % . Ma sembrava che la Camera dei deputati non credesse troppo a queste affermazioni se approvava, all’inizio del 1935, una legge sul controllo dei cartelli che destò le vivaci critiche dei fautori della libera economia, i quali denunciavano il pericolo del rafforzamento dell’autorità dello Stato sull’ industria. I fautori del­l’economia controllata, alleati dei socialisti, tentarono di fare in­trodurre in questa legge sui cartelli, sull’esempio dei « codici » americani di Roosevelt, l’obbligo per gli imprenditori di stipulare i contratti collettivi, fissare i minimi salariali e concedere la set­timana di 40 ore: ma non vi riuscirono. Il rafforzarsi dei cartelli faceva rinascere, come era naturale, il problema della difesa dei consumatori, ma la crisi, che colpiva le industrie, li faceva anche apparire come i difensori degli interessi minacciati; ecco perchè « tornò sul tappeto lo studio del rapporto tra la cartellizzazione e il protezionismo doganale » “ .

Una prima risposta alla crisi venne dagli Stati Uniti e dalla nuova amministrazione democratica di F. D. Roosevelt, eletto l’8 novembre 1932 ed entrato in carica il 4 marzo dell’anno se-

12 Cfr. B. O h l i n , Cour et phases de la dépression mondiale, a cura della S. d. N ., Ginevra, 1931: Aperçu général du commerce mondial, a cura della S. d. N ., 1937.

13 Su tale fenomeno, per quanto riguarda l’Italia, dà notizie interessanti R . S c h e g g i , Concentrazioni e coalizioni d ’imprese, in Rivista di politica economica, 31 mag­gio 1935, il quale parla delle agevolazioni tributarie concesse dal governo fascista alla fusione e concentrazioni di imprese ed afferma che « l’ importanza delle di­sposizioni vigenti ora in materia è veramente notevole». Altre notizie sui princi­pali cartelli internazionali sono fornite da G. S g a g n e t t i , Trust e cartelli industriali internazionali con particolare riguardo al loro sviluppo nel dopoguerra, in Rivista di politica economica, nn. 9-12 del 1932 e 2-4 del 1933, mentre per gli abusi delle coalizioni americane, c fr.: F. A . F e t t e r , The Masquerade of Monopoly in the United States, in American Economie Review, supplemento del marzo 1933.

u Cfr. J. J. L ador - L e d e r e r , Capitalismo mondiale e cartelli tedeschi fra le due guerre, Torino, 1959.

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guente. « Questa nazione esige che si agisca e che si agisca su­bito [...] . Dobbiamo agire, ed agire presto», disse nel suo primo discorso presidenziale, e su questa necessità di un’azione « pronta e vigorosa » insistè anche nel discorso successivo del 17 mag­gio 1933 15. Era in lui la stessa ansia che si era impadronita, nel 1930, del Keynes, quando questi aveva, di fronte ai primi ef­fetti della crisi, dichiarato insufficienti i metodi tradizionali e classici ed aveva proclamato la necessità di una politica « molto attiva ed energica ». In verità, anche il Roosevelt doveva avere la convinzione che occorresse allontanarsi dalle vecchie vie per affrontare una crisi di quelle proporzioni e nella storiografia po­steriore si è discusso a lungo se si possa parlare della sua politica economica come di una rivoluzione o se essa non sia piuttosto una semplice evoluzione 16 17.

Fra i sostenitori della evoluzione, che appaiono come i più numerosi, sono L. H artz1', E. Goldm an18 19, G. Mowry 13: tutti questi storici si sono sforzati di ricollegare il New Deal roose- veltiano alle lontane tradizioni culturali americane, l’Hartz al pragmatismo del Locke ed alle tendenze liberali sempre presenti nella storia degli U .S.A .; il Goldman al darwinismo riformista la cui influenza è perdurata nel XX secolo, e il Mowry al Wilson che, a sua volta, si ricollegava al Mryan: ma, secondo lui, il pro­gramma progressista del 19 12 era più vicino al New Deal che a quello del Bryan del 1896. Tuttavia, questa tesi della continuità si trovava di fronte ad una grossa frattura rappresentata dagli anni 1920-1930, occupati da amministrazioni repubblicane, pe-

15 Cfr. F. D . iRtoOSEVELT, Message to Congress on N .I.R .A ., 17 May 1933, nel vol. A Documentary History of American Economic Policy since 1789, a cura di W . Letwin, Chicago, 1961.

16 Cfr. The N ew D eal: 1Revolution or Evolution?, a cura di E. C. Rozweno, Boston, 1965. Anche M. Einaudi ha intitolato il suo libro sul Roosevelt La rivoluzione di Roosevelt, 1932-1952 (Torino, 1959). Partendo dalla constatazione di quanto « sia scoraggiante il fatto che ancor oggi vi sia una diffusa incomprensione circa l ’ importanza decisiva del New Deal », egli si dichiara convinto che questo fu « il più importante tentativo del secolo XX per affermare la validità e il ruolo fondamentale degli strumenti politici della democrazia dinanzi alla crisi del no­stro tempo ».

17 Cfr. The Liberal Tradition in America: An Interpretation of American Political Thought since the Revolution, New York, 1955.

18 Cfr. Rendez-vous with Destiny: A History of the American Reform, NewYork, 1935. •

19 Cfr. Theodore Roosevelt and the Progressive Movement, Madison, 1946.

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riodo di prosperità su cui, però, come ha affermato CI. Fohlen 2n, si sa ben poco. Ad ogni modo, la guerra aveva recato un duro colpo al progressivismo e nel 1920, quasi contemporaneamente alla sparizione dei suoi maggiori rappresentanti (Th. Roosevelt, Wilson, La Follette e Bryan), si può dire che il movimento fosse giunto all’esaurimento, anche perchè aveva realizzato quasi inte- ramente il suo programma.

Ebbene, è proprio allora che, secondo W. E. Leuchtenburg21, si sarebbe manifestata una trasformazione nelle tendenze pro­gressiste da forze basate sulle classi medie delle piccole città e sorrette dagli ambienti rurali, in correnti sostenute dalle masse urbane e spesso dai nuovi immigrati nelle grandi città.

Lo spirito progressista, cosi riassume il Fohlen, perdurò tut­tavia con la richiesta della nazionalizzazione dell’energia elet­trica, con la continuazione della legislazione sulla protezione degli operai, con gli sforzi volti a migliorare il sistema di educazione. Il che equivale, però, a dire che tale spirito quasi scomparso sul piano nazionale continuò sul piano locale e municipale. Ma que­sta tesi, ha detto giustamente Cl. Fohlen, non è del tutto con­vincente, ed allora il problema dell’evoluzione del New Deal va posto su altre basi. Infatti, A . M. Schlesinger Jr. " ha scritto che il New Deal rappresentò uno dei cicli della democrazia liberale e che fu l’espressione delle aspirazioni di milioni di americani: « vi sarebbe stata sicuramente un qualche New Deal negli an­ni 30, anche senza la crisi. Credo — egli ha soggiunto — che i nostri contemporanei abbiano attribuito troppa importanza alla crisi come generatrice di un’età di riforme. Senza dubbio, la lotta contro la crisi è stata il tema centrale del New Deal, ma non è stata certo al centro del riformismo americano tradizio­nale ».

In sostegno di questa tesi, ha ricordato il Fohlen, si potreb­bero citare la proposta del senatore G. Norris, avanzata all’ inizio degli anni 20, che anticipava, in un certo senso, la Tennessee V alley A u thority , oppure il programma sociale già messo in pratica, al- 30 31 32

30 Cfr. L ’Amérique anglo-saxone de 18 15 à nos jours, Parigi, 1965.31 W . E . L e u c h t e n b u r g , The Perils of Prosperity {nella collana « The Chicago

History of American Civilization » a cura di D. ]. Boorstin), Chicago, i960.32 Cfr. Sources of the N ew D eal: Reflections on the Tem per of a Tim e, nel vol.

The N ew Deal, a cura di M. Keller (nella collana « American Problems Stu­dies » a cura di O. Handin), New York, 1964.

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meno parzialmente, da A l Smith, governatore di New York pri­ma di F. La Guardia. Ma, certo, la tesi della continuità, o dehl’evoluzione, se non ha altri argomenti da far valere, sembra alquanto debole, e su di essa si impone abbastanza facilmentel’altra tesi della rottura, o della rivoluzione, sostenuta fra gli altri da S. Lubell23 * 25 26, R. Hofstadter ' l, D. Perkins 2\ Per il Lubell, nel lungo predominio dei repubblicani durato quasi ininterrottamente dal i860 al 1932, il New Deal costituisce una frattura radicale con il passato, ed il carattere della rivoluzione politica del Roose­velt non ha nulla in comune con le lotte di A . Jackson o di Th. Jefferson. R. Hofstadter, a sua volta, pensa che il New Deal rappresenti una « nuova partenza » (a new departure) perchè do­vette risolvere i problemi di una economia malata e perchè ri­spose alle attese di milioni di disoccupati e dei sindacalisti, mentre i riformatori precedenti avevano cercato solo di correggere gli abusi derivanti da una ripartizione ingiusta delle ricchezze. Il New Deal — egli afferma — e il pensiero a cui ha dato origine, rappresentano il trionfo dell’assistenza economica e dei bisogni umani sulle idee e sulle abitudini ereditate dal passato ». Infine,D. Perkins ritiene che il New Deal sia nuovo per tre motivi: anzitutto perchè assegnò allo Stato una funzione dinamica nella vita economica non rifiutando di cadere nel deficit per sovven­zionare i lavori pubblici e aiutare i disoccupati; in secondo luogo perchè i gruppi fino al allora più depressi, agricoltori-contadini e operai, divennero più coscienti della loro importanza; e, in terzo luogo, perchè in politica estera la partecipazione degli Stati Uniti agli affari mondiali si fece più continuativa.

Naturalmente, la tesi della rottura fu sostenuta anche dai conservatori, nemici dichiarati di Roosevelt, ma per diversi mo­tivi: ad esempio, secondo E. C. Robinson J — rimasto sempre fedele ai programmi di Hoover, il Roosevelt avrebbe avviato il paese alla dittatura e al comuniSmo, lasciandolo esposto al « tota-

23 Cfr. The Future of American Politics, New York, 1952.21 C fr. The Age of Reform : from Bryan to F. D. Roosevelt, New York, 1955, trad,

ital., Bologna, 1962; di lui vedi anche The American Political Tradition and the Man who made it, New York, 1958, in cui sembra fare alcune concessioni agli avversari.

25 Cfr. The N ew Age of Franklin D. Roosevelt, 1932-1945, nella collana « The Chicago History of American Civilization ».

26 Cfr. The Roosevelt Leadership, 1933-1945, Filadelfia, 1955.

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litarismo delle masse, più terribile di qualsiasi altro nemico affron- tato da un popolo libero » 2‘.

Era, questa una reazione alquanto ottusa e limitata ai prò- blemi sollevati dagli storici, una risposta che diede modo a W. E. L eu ch ten b u rgd i affermare che la tesi della continuità ha fatto dimenticare la grande ricchezza di questo periodo, per cui esso non può essere paragonato a nessun altro, tranne che a quello che seguì la guerra di successione. Per lui, non di New Deal bisogna parlare, ma di « rivoluzione di Roosevelt ».

Si tratta, come si è visto, di un ampio dibattito che ha te­nuto impegnati storici di diverse generazioni e che pure ci lascia non poco insoddisfatti perchè ci sembra che il New Deal non vada misurato solo sul metro della storia americana e del posto che in essa gli può essere assegnato; in verità, esso va misurato sul metro dell’economia capitalista per vedere se vi ha introdotto elementi nuovi e se ha contribuito ad orientarla in modo diverso oppure no. E ’ senza dubbio esatto quanto ha scritto f. K . Gal­braith 2'J, cioè che « i primissimi anni del New Deal furono un pasticcio olandese che conteneva un piccolo regalo per ognuno: ortodossia finanziaria per i proponenti una sana finanza, mano­vra della circolazione e del cambio per gli entusiasti monetaisti, prezzi fissi per coloro che erano stati troppo severamente toccati dalla deflazione, una buona porzione di un vago Planning per coloro che avevano seguito troppi seminari di scienza politica ». Questo è vero, anche se si può accettare l’affermazione di R. Mo- ley in base alla quale nei famosi « cento giorni » (Hundred Days) le misure adottate furono impulsive: il più forte attacco 27 28 * 30

27 II New Deal — scrive C . C . Spence, The Sinews of American Capitalism — , ha dato origine ad una lunga controversia, perchè pochi sono stati capaci di consi­derarlo con distacco e l’interpretazione sia dei detrattori sia degli esaltatori è stata spesso offuscata dalla passione partigiana. Se alcuni suoi critici hanno gri­dato al « Socialismo », i suoi difensori hanno sostenuto che esso è stato un essen­ziale puntello della struttura capitalistica: ad esempio, H . S. iCOMMAGER (Lo Spi­rito americano, Firenze, 1952) ha affermato che la politica del Roosevelt ha con­tribuito a stimolare la « ricerca del significato della civiltà americana, a cui era stato conferito un aspetto così impellente dal crollo di quella europea » e che il New Deal è stato uno strumento di conservazione.

28 Cfr. F. D. Roosevelt and the N ew Deal, 1932-1940, nella collana The N ew Am e­rican Nation Series, a cura di H . S. Commager e R. B. Morris.

2J Cfr. Monopolio e concentrazione del potere economico, nel voi. L ’economia con­temporanea, a cura di H . S. Ellis, Torino, 1953.

30 Cfr. The First N ew Deal, New York, 1966; dello stesso cfr. anche After Seven Years, New York, 1939.

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alla disoccupazione venne dichiarato incostituzionale; il grandioso schema di controllo dell’ industria di Miss F. Perkins (segretario di Stato al Lavoro) fallì; il sen. Carter Glass, e non il presidente, fu il responsabile del secondo bill Glass-Steagal (la legge bancaria che dava al Segretario di Stato al Tesoro il potere di impedire la tesaurizzazione dell’oro e che prevedeva il riesame e la riapertura delle banche chiuse con un sistema di licenza (quasi 3.000 ban­che avevano dovuto chiudere nel 1933]); la Federal Deposit In­surance fu opera del Congresso. Tutto questo può essere, anzi è senz’altro vero, ma non si poteva pretendere che il Roosevelt elaborasse lui stesso le leggi essenziali e doveva pure affidarsi al suo « brains trust » (del quale, del resto, lo stesso Moley faceva parte con A. Berle, il gen. H. Hohnson, R. Tugwell, i sen. f. F. Burnes e K. Pittman), ed uno dei principali meriti del nuovo Pre­sidente consiste proprio nell’aver creato questo strumento di ri­forma e di progresso. Nè bisogna dimenticare che il suo compito era di dare un sicuro orientamento alla sua amministrazione e questo compito fu da lui assolto con grande consapevolezza, come si può scorgere dai suoi scritti 11 : « Dobbiamo costruire premu­nendoci contro l’eventuale ricorrenza di altre crisi profonde [...] . Meta ultima del contratto [fra il governo e il popolo] è la li­bertà e il perseguimento delle prosperità [ ...] . Il problema della rimessa in marcia del motore economico presenta molteplici aspetti. V ’è chi professa l’opinione che il ricorrente rallentamento del mo­tore sia una delle sue caratteristiche organiche; caratteristica di fronte a cui dobbiamo rassegnarci ed alla quale dobbiamo adat­tarci filosoficamente, perchè il tentar di correggerla potrebbe cau­sare guai maggiori. Siffatto atteggiamento di fronte alla condotta del motore richiede un elevato grado di stoicismo, unitamente ad una certa sfiducia nella capacità umana di temperare i rigori delle leggi economiche. Esso suona come un invito all’ inazione; e credo che oggi stiamo tutti soffrendo appunto perchè quella comoda teoria aveva preso troppo salde radici nei cervelli di taluno dei nostri leaders, sia della politica sia della finanza [...]. E ’ verso l’obiettivo della stabilità che dobbiamo tendere, se vogliamo trar profitto dai recenti insegnamenti [...]. La politica di ogni governo dovrebbe, anzitutto, mirare al maggior benessere per il maggior numero di individui, uomini e donne ». Erano queste afferma- 31

31 Guardando nel futuro, Milano, 1933.

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zioni, che potevano quasi assumere l’andamento di massime tanta era la convinzione con cui il Roosevelt le pronunciava, che pote­vano rappresentare una seria base per un governo animato dal senso della necessità di dover contribuire a liberare la società dai mali che l’affliggevano.

La sua filosofia della vita era alla portata di tutti gli uomini e li richiamava dal culto dei beni materiali al rispetto degli ideali morali e spirituali: « La felicità non consiste esclusivamente — dis­se ancora — nel possesso del denaro: essa si concreta nella gioia del raggiungimento di uno scopo, neH’emozione suscitata da ogni sforzo creativo ». Ed egli richiamava pure i suoi concittadini al- l’obbligo di essere degni di se stessi, di nutrire quella fiducia indispensabile sempre nella vita per poter progredire, e di non abbandonarsi alla irrazionale e cieca paura che distoglie dall’a- gire: « [...] ciò che dobbiamo soprattutto temere è di lasciarsi vincere dalla paura, da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari per trasfor­mare una ritirata in avanzata ». Perchè era profondamente con­vinto che si potesse riprendere l’avanzata, che nessun « fallimento sostanziale » avesse colpito la civiltà capitalistica e che anche la sua generazione potesse superare i gravi pericoli che gli avi ave­vano vinto « grazie alla loro fede e alla loro audacia » 32.

Ecco cosa chiedeva Roosevelt al suo popolo: fede, audacia, spirito di iniziativa, ed il suo atteggiamento destava nuove ener­gie, come ci testimonia un esule russo approdato, verso il 1936, negli Stati U n iti33.

Si veniva così instaurando un clima opposto a quello della precedente amministrazione repubblicana che, nella spaventosa ro­vina della crisi (circa 13 milioni di disoccupati nel marzo del 1933; la produzione diminuita del 4 7% , nelle industrie pesanti del­ib o % ) non avevano saputo esprimere « nè un uomo nuovo, nè una idea, nè un programma ». Si era ripetuto, perciò, anche negli U .S.A ., il dramma delle vecchie classi dirigenti che, come aveva scritto l’ « Economist » l ’8 novembre 1930, non avevano saputo lanciare una sfida all’ inerzia. Nè questo giudizio sulla sostanziale

32 Cfr. anche il libro di ricordi della moglie del Roosevelt, Eleanor, nella trad. ital. Questo io ricordo..., Milano, 1950.

33 Cfr. W . S. W OYTINSKY, Dalla rivoluzione russa all’economia rooseveltiana, Mi­lano, 1966.

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inerzia dell’Hoover può essere mutato, cosi almeno ci sembra, da quanto sostiene W. Appleman Williams 3\ secondo il quale « la [sua] reputazione è un prodotto della disinformazione e della di- storsione, più di quanto sia accaduto per qualunque altro ame­ricano del XX secolo ». Il Williams ritiene ancora che le idee del- l’Hoover siano state poi riprese da altri senza che il merito gli venisse riconosciuto. Ma dalle sue pagine risulta, senza ombra di dubbio, che quello che egli chiama il « progressivismo dell’Hoo- ver » si arrestò tutte le volte che le sue misure potevano intac­care « il sistema », e, perciò, la sua politica non fu affatto una anticipazione del New Deal, anche se si vuole dare a questo — come fa il Williams — il significato di un insieme di misure che « salvò il sistema, ma non lo trasformò » e di una conclusione che non rappresentava altro «che la piena estensione e maturazione di idee e di iniziative molto più antiche ». In realtà, la linea di separa­zione fra la condotta dell’Hoover e quella del Roosevelt fu se­gnata dal rispetto del primo per i canoni deH’economia classica e ortodossa secondo i quali le crisi finiscono sempre con il risolversi da sole, e dalla iniziativa del secondo che volle intervenire nella vita economica per modificare il suo ritmo e accelerarne i battiti (insomma, alla politica dell’Hoover, compendiata nella frase Reco­very is around the corner [la ripresa è all’angolo della strada], il Roosevelt sostituì la convinzione, ben più dinamica, di poter dare a tutti a more abundant life [una vita più agiata]).

Certo il suo non fu un intervento sistematico e vanno, a que­sto proposito, accettate le osservazioni di coloro che mettono in rilievo il carattere essenzialmente empirico della politica econo­mica rooseveltiana 34 35.

E tuttavia il N ew Deal, come lo definì lo stesso Roosevelt,

34 Cfr. Storia degli Stati Uniti, Bari, 1964.35 II Roosevelt aveva parlato, nel 1932, del suo « coraggioso sperimentalismo », ag­

giungendo: ■« Il senso comune suggerisce di prendere un metodo e di sperimen­tarlo. Se dà cattiva prova, lo si ammetta francamente e se ne tenti un altro. Ma soprattutto si tenti qualcosa ». Questo ha consentito a R. HOFSTADTER, The Age of Reform : from Bryan to F. D. Roosevelt, cit., di distinguere, nel New Deal, fra pianificazione e interventismo: quest’ultimo mancò quasi del tutto e anche la prima, se vi fu, ebbe implicito il concetto di razionalità e di coerenza. Tuttavia, pure in questo caso, da « un punto di vista politico [il New Deal] rappresentò un sistema di equilibramento di interessi estremamente efficaci ». E fu con il Roosevelt che il pensiero democratico americano, che aveva sempre concepito il ruolo dello Stato negativamente, si adattò all’idea che il governo si assumesse importanti responsabilità nella vita economica del paese.

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£u « una nuova concezione dei doveri e delle responsabilità del governo nei riguardi deH’economia nazionale », e proprio per tale motivo rappresentò una netta rottura con la tradizione, nella mi' sura in cui anche la dottrina Keynesiana, di cui il New Deal fu in un secondo momento l’applicazione 3B, segnò una rottura nel tessuto dell’economia classica.

E ’ sotto questa luce che vanno valutati alcuni provvedimenti della nuova amministrazione, a cominciare dalla rigida separa- zione tra le funzioni delle banche commerciali e quelle degli isti­tuti di investimenti.

Il nuovo presidente si era detto sicuro, nel suo libro, che la soluzione della crisi dipendesse dalla redistribuzione del reddito nazionale e dall’applicazione di un piano di economia program­mata sotto il controllo dello Stato. Ciò spiega le sue accuse, talora violente — come nel discorso inaugurale alla radio — , contro i ceti capitalistici, i money exchangers, e gli industriali, che avevano sofferto meno della crisi in confronto agli agricoltori e alle classi lavoratrici.

Pertanto, il primo punto della sua opera doveva essere ri­volto a liquidare la crisi ridando lavoro e aumentando il potere d’acquisto dei lavoratori, e, poi, anche ad aumentare i prezzi dei prodotti agricoli che erano caduti molto più in giù dei prezzi in­dustriali; gli agricoltori, inoltre, dovevano rimborsare con dollari apprezzati i debiti contratti negli anni precedenti quando il dol­laro valeva meno. L ’amministrazione democratica si propose, dun­que, di riportare i prezzi al livello 1926, mediante la riduzione della produzione agricola 3' e l’alleggerimento del peso ipotecario sull’agricoltura e sulle case d’abitazione. In tal modo, anche l’in­dustria avrebbe risentito dei benefici effetti dell’aumento del po­tere d’acquisto di così vaste categorie. Intanto, però, il presidente si servì della R.F.C. per aiutare subito le industrie pesanti con un grande programma di lavori pubblici ad opera del governo fede­rale, dei singoli Stati e delle città.

Con questi provvedimenti si restava peraltro nell’ambito del primo punto del programma rooseveltiano, al quale dove- 36 37

36 Cfr. K . G a l b r a it h , op. cit.37 V . la difesa di questa politica svolta da H . A . Wallace, ministro per l’Agricol­

tura, nel suo libro Che cosa vuole l’America?, con introduzione di L . Einaudi, Torino, 1934.

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vano seguire subito il secondo (recovery), consistente nel risana- mento definitivo delle industrie, del commercio e delle banche, e il terzo (reform), che avrebbe dovuto portare a termine una ri' forma sostanziale della vita economica e sociale del paese per giun- gere alla radicale abolizione delle crisi e della disoccupazione. Per attuare questi ultimi provvedimenti, intesi a garantire un nor' male e più giusto funzionamento del sistema economico, fu votato il National Industriai Recovery Act, in base al quale nacque la National Recovery Aministration (N.R.A.) — 16 giugno 1933 — per tutti i problemi attinenti all’ industria, mentre per quelli deh l’agricoltura venne fondata la Agricultural Adjustment Adm inis' tration (A.A.A.) — 12 maggio 1933 — il cui scopo era quello di ristabilire la « parità economica fra l’ industria e l ’agricoltura ». Peraltro, si poteva osservare una certa contraddizione nel prò- gramma industriale della N .R .A ., perchè se da un lato essa si proponeva di migliorare le condizioni materiali e morali delle classi lavoratrici senza sacrificare i consumatori, dall’ altro diede agli industriali la possibilità di sottrarsi temporaneamente alle leggi antitrust purché osservassero i codici di leale concorrenza ed altri simili accordi.

Per ridurre i mali derivanti al paese dalle forti tendenze alla concentrazione delle imprese, i democratici mostrarono di fare molto affidamento sullo sforzo di contro-organizzazione dei sinda' cati, degli agricoltori e del governo. E questo sforzo effettivamente ci fu e si esplicò attraverso l’opera della N .R .A . volta ad ottenere l’elaborazione dei codici industriali, il cui rispetto diventava ob- bligatorio per le industrie che intendevano ottenere l’aiuto del governo 3S.

Questi codici dovevano contemplare il divieto alla elimina' zione od oppressione delle piccole imprese, alla promozione di monopoli, e la stipulazione di norme per i contratti collettivi con i lavoratori, la fissazione dei massimi delle ore di lavoro e dei mi­nimi di salario e di decenti condizioni di lavoro. Il Luzzatto scri­veva che non si poteva imporre l’adozione di minor orario e di maggior salario « senza assicurare che questo maggior costo fosse compensato dal maggior prezzo di vendita », il che veniva con­seguito con la rinuncia alla lotta contro i trust. E di nuovo il 38

38 Cfr. F . L u z z a t t o , l « codici » dell’ industria nordamericana di leale concorrenza — fair play —, in Giornale degli economisti, febbraio 1934.

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Luzzatto si chiedeva se la forza dei nuovi trust non sarebbe stata eccessiva « anche di fronte ai lavoratori, protetti solo quanto a] massimo delle ore di lavoro e al minimo di salario ». Ma per giu- dicare l’efficacia dei codici basta pensare alla reazione negativa dei datori di lavoro soprattutto nei riguardi dell’art. 7 (a), che apertamente riconosceva agli operai « il diritto di organizzarsi e contrattare collettivamente a mezzo dei rappresentanti di loro scelta, liberi da interferenze, restrizioni e coercizioni dei datori di lavoro o loro agenti ».

Ma la resistenza degli imprenditori riportò un certo successo e verso la metà del 1935 P. T . Swanish, direttore dell’Ufficio Studi del Dipartimento del Lavoro dell’ Illinois, potè scrivere che « nella sua forma presente il fiasco del paragrafo 7 (a) è generala mente riconosciuto », il che aveva lasciato nei lavoratori un « pro­fondo risentimento » perchè non si erano sentiti a sufficienza protetti nel loro diritto di organizzarsi e di contrattare collettiva­mente. Ma ciò non impedì che, come hanno messo in rilievo l’Hofstadter e M. Einaudi, nascesse dallo spirito del New Deal un « grande e potente movimento sindacale », il quale diede al New Deal stesso «una tinta socialdemocratica, che mai era stata presente nei movimenti di riforma americani » 39 *. Questo si capì un po’ più tardi, verso il 1937, quando si vide come ormai il riformismo politico americano non potesse rifiutarsi di assumere — dice sempre l’Hofstadter — « vaste responsabilità per la sicu­rezza sociale, l’assicurazione contro la disoccupazione, i salari, gli orari di lavoro e l’edilizia popolare ». Sotto tale aspetto bisogna dire che il New Deal portò a grandi mutamenti che incisero a fondo sul costume del popolo americano (basti pensare a quello che uno storico recente ha detto liberalismo frustrato del periodo hooveriano e che ora si riprese e si rianimò) 4“, così come incisero sul tradizionale capitalismo, al quale sarebbe parsa quasi incon­cepibile la fondazione della Tennessee Valley Authority (18 mag­gio 1933), un ente incaricato di gestire centrali elettriche, ven­dere l’energia elettrica, costruire dighe, rendeve navigabili fiumi e riviere, impiantare boschi sui terreni incolti, produrre fertiliz­zanti artificiali e venderli agli agricoltori a basso prezzo.

39 S. B. CLOUGH, Histoire économique des Etats-Unis depuis la guerre de sécession, 1865-1952, Parigi, 1953.

10 Cfr. K . D. Bicha, Liberalism frustrated: The League for Independent Political Action, 1928-1955, in Mid-Am, gennaio 1966.

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Varando questi provvedimenti, il governo americano aveva raggiunto l’obiettivo essenziale della ripresa economica, che era, come affermava il Keynes, quello di aumentare la produzione nazionale e mettere più uomini al lavoro. E lo stesso Keynes mostrava tutta la sua ammirazione per il Roosevelt, che, malgrado le critiche che potevano essergli mosse, rimaneva « l’eminente uomo di Stato che vede la necessità di un profondo cambiamento nei metodi, e sta tentando di attuarlo senza intolleranza, tirannia o distruzione ».

Evidentemente, il Keynes, nello scrivere queste parole, ave­va presente il pericolo per le società democratiche di cadere nei regimi totalitari, intolleranti e tirannici, e, pertanto, secondo lui, il merito principale del Roosevelt consisteva nell’avere evitato tale pericolo al suo popolo. Eppure, il Mussolini, il 17 agosto 1934. parlando del libro di H. Wallace, Che cosa vuole l’America? ap­pena tradotto in italiano, affermava che esso era « corporativo. Le sue soluzioni sono corporative. Questo libro è un atto di fede, ma è anche una requisitoria tremenda contro l’economia liberale che ha fatto il suo tempo e concluso il suo ciclo ». Egli sosteneva che si poteva tranquillamente affermare « che l’America va verso l’economia corporativa, cioè verso l’economia di questo secolo » 41. Era, questa, una osservazione diventata quasi abituale per i teo­rici dell’economia fascista e nel luglio 1933 la rivista « Lo Stato » aveva pubblicato un articolo dell’americano F. Ermarth in cui si affermava che le misure del Roosevelt avevano posto gli U .S.A. « in prima linea tra quegli Stati che si sforzavano di combattere la crisi mediante una trasformazione fondamentale della loro co­stituzione economica ». A suo parere, il N .I.R .A . era basato sul- l’ « unità fra capitale e lavoro, l’unità della produzione nazionale da garantirsi, da correggersi e persino da dirigersi da parte dello Stato: unità che si personificava nel potere politico: United action of labour and management under adequate governmental sanction and supervision ». Il che gli consentiva di affermare che anche negli U .S.A . il capitalismo moderno era entrato « nella sua fase

41 Ofr. Che cosa vuole l'Am erica?, nel vol. XXVI dell’Opera omnia, Firenze, 1958. A differenza del New Deal rooseveltiano, la bibliografia sul corporativismo fascista in relazione alla grande crisi è estremamente esigua e comunque priva di studi com­plessivi. Perciò le pagine che seguono avranno soprattutto lo scopo di mettere in evidenza i problemi che stanno di fonte alle ricerche future.

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corporativa ». Tuttavia, L. Villari “ , trovava che le disposizioni del presidente americano sebbene presentassero « analogie, forse incoscienti, ma assai significative, col nostro sistema », tuttavia ne differivano anche profondamente. Questo perchè il New Deal era « un complesso di misure temporanee, rese necessarie dalla crisi »; inoltre, in Italia, era stata praticamente eliminata la « lotta di classe come contraria alla convivenza civile » e gli scioperi era' no stati dichiarati illegali, mentre negli Stati Uniti non si era ancora giunti a tanto, e, anzi, in quegli stessi anni, erano scop' piati « parecchi conflitti del genere ». Infine, l’ultima e più evi' dente differenza consisteva nel fatto che il Mussolini poteva di' sporre di un parlamento tutto fascista, cosa che non era concessa al Roosevelt, il quale doveva fare i conti con il Congresso, che comprendeva parecchi oppositori. In realtà, erano proprio queste le differenze sostanziali tra l’esperimento americano e le soluzioni adottate dalle dittature di tipo fascista: l’economia programmata del Roosevelt non era affatto imposta con la forza ai singoli fattori dell’economia del paese e tanto meno voleva colpire gravemente le basi del governo rappresentativo e democratico. Inoltre, come si è visto, il radicalismo rooseveltiano era volto a sollevare le com dizioni dei ceti che più duramente avevano sofferto per la crisi, agricoltori, contadini ed operai, e non si era messo al servizio delle classi economicamente più potenti, come avevano fatto il fascismo e il nazismo per scaricare sulle masse popolari il peso del risana- mento e della ricostruzione. Ed anche i grandi scioperi che si susseguiranno negli Stati Uniti stavano a dimostrare che l’ammi- nistrazione democratica non intendeva affatto comprimere i diritti dei lavoratori, ma era anzi disposta a favorirli, anche perchè par- tiva dal presupposto che fosse necessario, per superare la crisi, allargare il mercato interno e, perciò, aumentare il potere d’acqui- sto di vaste categorie. Invece, i regimi dittatoriali temevano que- sto aumento perchè scorgevano in esso il pericolo di una più alta coscienza umana e civile degli operai, e, quindi, una minaccia per il loro dominio.

Cosi, quei regimi, invece di aumentare i salari e gli stipendi li avevano ridotti, come fece il fascismo nel 1930, quando decise una riduzione del 12 % e poi ancora nel 1 9 3 1 : il risparmio che 42

42 Cfr. La nuova economia americana e il corporativismo italiano, in Rivista di poli- tica economica, luglio-agosto 1934.

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era derivato ai costi di produzione poteva valutarsi « con larga approssimazione — scriveva A . De Stefani — fra il miliardo e il miliardo e mezzo ». Lo stesso economista proclamava con orgo- glio che « nessun regime demo-liberale, individualistico, atomi­stico, avrebbe saputo o potuto raggiungere un tale adeguamento senza maggiori difficoltà di ogni ordine », e lo diceva « un esem­pio mirabile » che andava diffondendosi « oltre il nostro Paese » 43.

Certo, questa riduzione dei salari era avvenuta « con tanta rapidità ed estensione » che non era « facile rintracciare nei no­stri ricordi altro esempio che lo eguagli » e poteva essere celebrata come « un effetto di quella che potrebbe dirsi la raggiunta verte- brazione dello Stato fascista e corporativo », ma il fatto era che essa era diventata assolutamente indispensabile se l’Italia, che man­teneva la sua moneta ancorata all’oro e si rifiutava di svalutare, voleva reggere alla concorrenza straniera sui mercati mondiali (per F. Guarneri sarebbe stato possibile un lieve « scivolamento » della lira, pur senza cadere nella svalutazione, perchè la riforma mo­netaria italiana, realizzata a quota 90, a un certo momento, in seguito alla caduta della sterlina e del dollaro, si era trovata assisa

43 II Mussolini calcolava — nel suo discorso al Senato del 18 dicembre 1530, La po­litica economica del Regime, nel vol. XXIV dell’ Opera omnia, cit. — che l ’ a­gricoltura italiana, con la riduzione dei salari dei lavoratori agricoli, « che va da un minimo di dieci ad un massimo di venticinque e lo supera anche pur­ché non ne risulti un salario inferiore ad otto lire quotidiane », fosse stata alleg­gerita « di un miliardo e duecento milioni », mentre l’ industria, con le analoghe riduzioni, era stata alleggerita « di un totale che va da ottocento milioni ad un miliardo ». A tutto ciò bisognava, poi, aggiungere i 720 milioni di decurtazione degli stipendi ai dipendenti ed i milioni degli operai artigiani, « ed avrete — affer­mava con una certa soddisfazione — un totale di tre miliardi e forse più ». Que­ste riduzioni dei salari —■ diceva lo stesso duce — erano state rese indispensabili dalla necessità di comprimere i costi di produzione: « Allora per ridurre i costi ho mandato altre categorie al fuoco : gli operai delle industrie, gli operai della agricoltura, quelli dei trasporti aerei, terrestri, marittimi, gli impiegati delle ban­che. E tutti hanno marciato! E ho fatto marciare, naturalmente, anche i proprie­tari di case, anche i commercianti » (cfr. anche l’ altro suo discorso nella sede della Confìndustria, all’assemblea dell’Associazione fra le società per azioni, del 2 aprile 19 31, La nuova economia italiana, nel vol. X X V dell’Opera omnia, cit.). Ma la cosa più grave era che -— come metteva in rilievo il Movimento econo­mico dell’ Italia per il 1929, a cura della Banca Commerciale Italiana — la tendenza al ribasso « constatata nei prezzi all’ingrosso delle merci principali non trova quasi nessuna rispondenza nell’andamento dei prezzi al minuto e nelle variazioni degli indici del costo della vita », e la stessa pubblicazione per il 1930 parlava ancora di « resistenza offerta dai prezzi al minuto », sicché il problema della riduzione del costo della vita poneva « da un lato quello dell'organizzazione della minuta vendita da parte dei produttori e dall’altro quello di generali revisioni del prezzo ». Così, le condizioni di vita dei lavoratori dovevano peggiorare con­tinuamente, perchè il fascismo, per quanto facesse la voce grossa, non riusciva affatto ad esercitare un’azione efficace sui prezzi.

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su « quota 60 »: sarebbe stato possibile, dunque, far scivolare la nostra moneta per mantenere il rapporto con le altre due mo­nete, salvando, in tal modo, « la faccia alla ’ quota 90 ', assurta, nel frattempo, a valore di mito e si sarebbe evitato all’economia nazionale un inutile e penoso travaglio ») 44.

Anche il Mussolini, come il De Stefani, sosteneva che « la politica della riduzione dei salari e stipendi, per influire sui prezzi al minuto, che noi abbiamo praticato per i primi, è stata adot­tata in quasi tutta l’Europa » 45.

Ed era vero: era stata adottata pure negli U .S.A . dall’Hoo- ver, ma era un provvedimento preso da classi dirigenti incapaci di rinnovare arditamente gli schemi ereditati dall’economia otto­centesca. In Italia, queste riduzioni erano rese particolarmente facili sia dal regime totalitario, che aveva reso praticamente im­possibile al proletariato il ricorso all’arma dello sciopero e che imponeva una artificiosa pace sociale, sia, dopo il 1930, dal clima dello Stato corporativo (sebbene il duce, nel discorso del 18 di­cembre 1930, attribuisse all’azione della organizzazione corpora­tiva una certa limitazione delle riduzioni salariali). In realtà, la vera e propria fase corporativa, dopo la fase di arresto o fase sin­dacale cominciata nel 1926 e con la Carta del Lavoro del 1927, aveva inizio nel marzo 1930 : fu, infatti, il 1^ marzo 1930 che il ministro Bottai in un discorso al Senato 46 definì l’istituendo Consiglio nazionale delle corporazioni come l’organismo che rea­lizzava « la disciplina dei rapporti economici secondo gli inte­ressi contemperati delle categorie nel quadro dell’ interesse nazio­nale [...] ».

Così, il 20 marzo veniva costituito questo nuovo organo presieduto dal capo del governo, in cui si attuava « quella fu­sione tra economia e politica, che è essenziale elemento della concezione unitaria dello Stato fascista: vale a dire l’organo pre-

44 Cfr. Battaglie economiche fra le due grandi guerre, Milano, 1953, vol. I; E . Cor- BINO, L ’economia italiana dal i860 al 1960, Bologna, 1962.

45 Cfr. il citato discorso del 2 aprile 1931.46 Cfr. G . Bottai, Il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, Milano, 1932; dello

stesso v . anche: L ’economia fascista, Roma, 1930; Sviluppi dell’idea corporativa nella legislazione internazionale, Livorno, 1928; Esperienza corporativa, 1929-1934, Firenze, 1934; Il cammino delle corporazioni, Firenze, 1935: L'ordinamento cor­porativo, Milano, 1936.

New-Deal e corporativismo fascista 25

cipuo di attuazione della sovranità dello Stato nella sfera econo- mica e sociale » *\

Ed il duce celebrò la legge come rivoluzionaria47 48, perchè essa aveva dimostrato come il sindacalismo fascista, attraverso la colla­borazione di classe, sfociasse nella corporazione, e affermato « che tale collaborazione deve [essere] sistematica e armonica, salva­guardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispet­tando la iniziativa individuale, ma nell’ambito della vita e del- l’economia del paese » (è forse inutile dire che questa politica corporativa era presentata dagli scrittori fascisti come la vera e unica soluzione ai problemi di allora di contro alle soluzioni ca­pitalistica — Stati Uniti — e socialistica — Unione Sovietica — : U. Spirito 49 affermava che il corporativismo realizzava una rivo­luzione « che smaterializza il problema economico e lo trasporta al superiore livello politico ed etico ».

Iniziavano, così, la loro vita le sette corporazioni (Industria, Agricoltura, Commercio, Banca, Professioni e Arti, Trasporti ma­rittimi e Trasporti terrestri), come organi di collegamento fra le Associazioni sindacali riconosciute, e veniva risolto il problema del collegamento tra questi organismi, che, nel 1926 e nella stessa Carta del Lavoro, sembravano destinati « a girare isolate l ’una dall’altra, perdutamente, nell’orbita dello Stato; appunto come se­zioni del Consiglio nazionale delle corporazioni. Il Mussolini disse (nel discorso del 21 aprile 1930) che il sindacalismo non poteva esser fine a se stesso: « o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista », ed era vero, perchè, dopo aver sop­presso la libertà politica, il fascismo non poteva lasciar sussistere la libertà sindacale, che avrebbe fatto risorgere le varie correnti politiche. La soluzione corporativa diventava, quindi, inevitabile, nel lento processo con cui la dittatura si andava imponendo e consolidando dopo le elezioni del 24 marzo 1929 dalle quali era uscita una Camera fascista al cento per cento. Essa doveva ren-

47 Cfr. F . E r c o l e , La rivoluzione fascista, Palermo, 1936; dello stesso cfr. ancora: Lo Stato fascista corporativo, Palermo, 1930; Genesi e caratteri costitutivi dello Stato corporativo fascista, Firenze, s. d.

48 Cfr. il suo discorso alla seduta inaugurale del Consiglio nazionale delle corpora­zioni del 2 1 aprile 1930, Per il Consiglio nazionale delle corporazioni, nel vol. XXIV dell’Opera omnia, cit.

49 Cfr. Capitalismo, socialismo, corporativismo, nel voi. cit. Nuove esperienze eco­nomiche.

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dere « sistematica e armonica » la collaborazione facendo rien­trare tutti gli elementi della produzione « nell’ambito della vita e dell’ economia della Nazione ». Ma la struttura corporativa do­veva avere anche il più modesto, ma forse più importante, com­pito di consentire una efficace azione sui salari; e il duce poteva celebrare, come si è visto, il « bell’esempio di disciplina » offerto dal popolo italiano. Tuttavia, in un primo momento e soprattutto ad opera del Bottai, le corporazioni dovevano tradurre nella pra­tica la nuova concezione fascista della funzione dello Stato, non più indifferente di fronte ai fatti economici, bensì partecipe e regolatore di essi in nome del superiore interesse della nazione. Secondo il Bottai, il corporativismo rappresentava un superamento, nel tempo stesso, del liberalismo e del socialismo proprio perchè riconduceva .« sotto la propria sovranità i fattori economici, sia capitalistici che operai, che non soltanto non avevano una disci­plina legale, ma agivano, per di più, come forze contrarie allo Stato » a0. Ma subito si delinearono due opposte interpretazioni, quella dei corporativisti « ad oltranza » e quella « dei custodi dell’iniziativa privata », che venivano contemporaneamente com­battute dal Bottai, il quale, invece, prospettava la sua interpre­tazione dello Stato corporativo, uno Stato che traeva « la sua vita dai suoi cittadini, dall’ armonico coordinarsi di questi per il raggiungimento dei comuni interessi e dei comuni ideali. Nello Stato corporativo — egli proseguiva 50 51 — ognuno ha il suo posto, ogni categoria sociale la sua funzione, riconosciuta e garantita dal potere politico, perchè è interesse collettivo che ognuno esplichi la propria funzione, svolga il proprio compito e porti il proprio contributo alla costruzione comune, che è la garanzia dell’esi­stenza di ciascuno ». In tale senso, in quanto cioè nello Stato corporativo veniva riconosciuto ad ogni gruppo sociale « la par­ticolare dignità, con pari dignità », si risolveva il lungo e tradi­zionale dissidio fra lo Stato e le masse popolari, mantenute lon­tane, anche nella democrazia, dall’effettivo potere politico.

Inoltre, la stretta fusione fra gli interessi del proletariato e quelli dei datori di lavoro in nome del bene superiore della patria, doveva anche servire a scagliare tutte le classi unite contro il nemico esterno, alla conquista della gloria e della potenza, come

50 Cfr. Liberalismo socialismo corporativismo, in Rassegna italiana, marzo 1930.51 G. Bottai, Cittadini e produttori, in Lo Stato, aprile 1930.

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appunto affermava l’Èrcole per il quale la nuova fase permetteva alle associazioni sindacali di superare i piccoli problemi « inerenti alla distribuzione del profitto e alle opere di assistenza e di giu­stizia sociale » per volgersi « al perseguimento della grandezza e della potenza della Nazione, attraverso lo sviluppo e il potenzia­mento, in ciascuno dei suoi molteplici aspetti, della produzione nazionale » 52.

Potenziamento e sviluppo della produzione nazionale, per­seguimento della grandezza e della potenza della Nazione che lasciavano, naturalmente, intravedere la conquista di altri mercati strappati con la forza ai concorrenti. E il trovare questi nuovi mercati diventava particolarmente urgente, perchè il mercato in­terno continuava a rivelarsi molto modesto, e quando, nel 1930, la crisi incominciò a farsi sentire (più tardi che in altri paesi per­chè la struttura del nostro era ancora prevalentemente agricola — gli addetti all’agricoltura erano circa 9 milioni, quasi la metà della popolazione economicamente attiva, mentre gli addetti al- l’ industria erano circa 6 milioni, dei quali 1,8 milioni esercita­vano una attività artigiana — ), le esportazioni andarono sempre più contraendosi, riducendosi, nel 1932, da circa 15 milioni del 1929 a circa 6 milioni e 800 mila lire, mentre le importazioni calavano da 2 1 milioni a 8 53. Così il numero indice della produ­zione industriale scendeva da 100 nel 1928 a 73,0 nel 1932 e il numero indice dell’attività industriale, calcolato sulla base delle ore di lavoro eseguite dalle maestranze, passava da 100 nel 1929 a 72,4 nel 1932

52 V . anche ciò che disse Mussolini nella Dichiarazione per le costituende corpora- Zioni: queste erano lo « strumento che, sotto l’egida dello Stato, attua la disci­plina integrale, organica ed unitaria delle forze produttive, in vista dello sviluppo della ricchezza, della potenza ipolitica e del benessere del popolo italiano»; 13 no­vembre 1933, nel vol. XXVI dell’ Opera omnia. Questa frase egli riprese il giorno dopo nel discorso per lo Stato corporativo, ripubblicato anche nel voi. Le corpo­razioni nel primo anno di vita, a cura della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Roma, 1936.

53 Cfr. G . M o r t a r a , Prospettive economiche, 1930 ed anni seguenti, Milano; la ru­brica Dati statistici sull’attività economica, in Economia, 1933; L ’economia italiana nel sessennio 1931-1936, a cura della Banca d ’Italia, Roma, 1938; E. CORBINO, L ’economia italiana dal i860 al i960, cit.; R. R o m e o , Breve storia della grande industria in Italia, Bologna, 1963.

51 Secondo i dati offerti dalla Banca d’Italia, la produzione dell’acciaio da 2.122.000 tonnellate nel 1929 calava a 1.396.000 nel 1932; nell’industria del cotone la per­centuale dei fusi attivi su quelli installati diminuiva da 95,9 nel 1929 a 78,4 nel 1932, mentre la produzione della ghisa toccava il minimo nel 1932 con 4,6 mi­lioni di quintali. Riusciva a salvarsi l’ industria automobilistica perchè aveva otte-

28 Franco Catalano

Il forte ribasso dei titoli azionari aggravò la posizione delle banche, che, soprattutto dal dopoguerra in poi, si erano assunte il compito di esercitare, oltre al credito commerciale, anche il cre­dito finanziario. Esse avevano fornito i capitali alle industrie in fase di rapido sviluppo durante il periodo inflazionistico, ma quan­do, con il 1926, la tendenza si era invertita e i titoli avevano cominciato a perdere valore in Borsa, non erano riuscite più a collocare i loro pacchetti di azioni invendute, sicché, per difen­dere i corsi erano state spinte a fare nuovi acquisti, il che, in molti casi, come faceva osservare G. Bevione “ , le aveva fatte diventare proprietarie della maggioranza azionaria di determinate aziende industriali; da ciò l’obbligo di continuare a provvedere al loro finanziamento, concedendo sempre nuove aperture di credito con sempre più lontane possibilità di rimborso. Soprattutto la Banca Commerciale Italiana era esposta, poiché possedeva circa 3 miliardi e mezzo di titoli con evidente e grave pericolo per i depositanti. Tuttavia R. Levis affermava che tale azione delle banche era stata benefica perché aveva fornito alle industrie quei capitali che altrimenti non avrebbero saputo come trovare, pre­ferendo al risparmio privato altri investimenti “ .

Da ciò risultava che, secondo taluni, lo Stato avrebbe dovuto intervenire per smobilitare il portafoglio titoli di queste banche, e, in particolare, della Comit. Il 3 novembre 19 3 1 , pertanto, ve­niva annunciato che la Banca Commerciale effettuava la smobi­litazione di tutti i titoli industriali di sua proprietà, in modo da assicurare ad essi uno stabile collocamento e da ottenere per la

nuto dal governo, il 27 giugno 1930, un forte dazio d’importazione sulle automo­bili estere (da 348,65 lire — 95 antiche lire oro — a 1.614,80 — 440 lire oro), dazio che sollevava l’aperta riprovazione di E . Giretti, sempre fedele alla sua vecchia fede liberistica: cfr. L ’industria italiana delle automobili. Il mercato inter­no e le necessità dell’ esportazione, in La Riforma sociale, 19 31. Altri sintomi della depressione furono la perdita di 425 milioni ü ’ 1,4% del capitale versato) delle società industriali con almeno 1 milione di capitale (tessili — 8,30 nel 1932; vetro — 4,82; elettriche — 3,28: cfr. la rubrica R. B a c h i , Rilevazioni sul mercato finanziario, nella Rivista bancaria del 1932 e 1933, e v . anche R . BACH I, Il mer­cato delle azioni bancarie in Italia, in Rassegna economica del Banco di Napoli, 1933); il crollo dell’indice del corso delle azioni sceso da 100 nel 1928 a 44,5 e, infine, l ’aumento dei disoccupati che toccarono nel 1931 un totale di 982 mila unità, mentre la percentuale della riduzione dell’orario di lavoro saliva dall’8,7 nel 1929 al 24.

55 Banche, industrie e l’Istituto Mobiliare Italiano, in Gerarchia, gennaio 1932.56 R. Levis, Note su alcune recenti operazioni bancarie, in La Riforma Sociale, 1931.

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banca stessa un coefficiente di liquidità superiore al cento per cento “7.

In seguito a tale decisione, il 9 novembre, il consiglio dei ministri annunciava la creazione dell’ Istituto Mobiliare Italiano (I.M.I.), destinato ad esercitare il credito mobiliare, offrendo al mercato importanti finanziamenti. Il suo capitale, di circa mezzo miliardo di lire, sarebbe stato sottoscritto da alcuni enti, fra cui la Cassa Depositi e Prestiti. Ma questa soluzione si rivelò inade- guata a risolvere il problema, e, pertanto, il 23 gennaio 1933, fu creato un altro organismo, l’ Istituto per la Ricostruzione Indù- striale (I.R.I.), data la « necessità e l’urgenza (era detto nel preambolo del decreto-legge) di completare l’organizzazione cre­ditizia » mediante un nuovo Istituto di diritto pubblico, la cui azione si rivolgesse « più particolarmente alla riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria delle attività industriali del paese e che, per opportuna unità di indirizzo, [assumesse] anche le ge­stioni attualmente affidate all’ Istituto di liquidazione ». L ’ I.R.I., dunque, all’inizio del 1934, con provvedimento totalitario — scri­ve il Guarneri — rilevava la grande maggioranza delle azioni della Comit, del Credito Italiano e del Banco di Roma limitando la loro funzione allo stretto credito commerciale. « Le perdite de­rivanti da tale operazione chirurgica .— aggiunge il Guarneri — venivano assunte, come le precedenti, dallo Stato e trasferite ai contribuenti » “ . 57 58 59

57 C f r . P. B a f f i , L ’evoluzione monetaria in Italia dall’economia di guerra alla con­vertibilità, 1935-1958, nel vol. Ili delle Letture di politica monetaria e finanziaria. Per la stona della politica monetaria in Italia, a cura di F. di Fenizio e pubblicato dalla Banca Popolare di Milano, 1965; lo studio accenna alle « nuove disposizioni sull’attività bancaria adottate tra il 1931 e il 1936», che «miravano a fronteg­giare la crisi di liquidità causata dalla deglazione mondiale del 1929-1933, e a limitare in seguito le erogazioni di credito bancario a breve termine ».

58 F. G u a r n e r i , op. cit.59 Cfr. il verbale della 3 18a riunione del consiglio dei ministri in cui fu creato l’ I.M .1.

nel vol. X XV dell'Opera omnia, cit., in cui è riportato anche un discorso del duce Per l ’ Istituto Mobiliare Italiano, del 5 dicembre 1931, mentre sull’LR .I. cfr. L . Cl- BRARIO, L ’ Istituto per la ricostruzione industriale, in Politica sociale, 1933; l ’emis­sione di obbligazioni per l’Istituto ricostruzione industriale, in Rivista delle Casse di risparmio, 1933. Già prima, durante l’ estate del 1930, in mesi « assai labo­riosi », il Mussolini aveva continuato, e quasi ultimato, il risanamento bancario degli istituti confessionali mediante l ’intervento di « quell’ospedale bancario che si chiama l’Istituto di liquidazione » (cfr. La politica economica del Regime, di­scorso al Senato del 18 dicembre 1930, nel vol. X XIV dell’Opera omnia, cit.). Ma la situazione della Comit era ben altrimenti pesante ed esigeva rimedi assai più drastici: il racconto delle drammatiche sedute presso la Banca d ’Italia — dram­matiche perchè il suo presidente, Toeplitz, cercò fino all’ultimo altre vie per sai-

3° Franco Catalano

Ma neppure questa « particolare socializzazione del rispar- mio e dell’ impiego di esso » “ , che meglio si sarebbe dovuta dire « saccheggio dei risparmiatori » riusciva a migliorare la situazione generale dell’economia italiana. Le esportazioni, come si è visto, crollavano, mentre diminuivano fortemente anche le rimesse degli emigrati e dei noli, si intensificava la fuga dei capitali all’estero (dal 1929 alla fine del 1932 le riserve dell’Istituto di emissione subirono una perdita di 3 .19 7 ,3 milioni di lire, cioè più di un miliardo all’anno) e il bilancio tornava ad essere in deficit, di circa 500 milioni del 19 3 0 -19 3 1, di 3.867 milioni nel 19 3 1- 19 3 2 e di 3.549 nel 19 32-19 33 “ .

Occorreva, dunque, per evitare un rapido aumento del disa­vanzo, cercare di mantenere aperti gli scambi con l’estero, anche per poter continuare la politica deflazionistica, a cui il fascismo, per motivi di prestigio, non voleva rinunciare. Ed infatti, nel 19 30 -19 3 1, il governo italiano si guardò dal prendere iniziative in materia di divieti alla libertà di commercio, « trattenuto — scri­ve il Guarneri — dal timore che in una lotta condotta a base di ritorsioni, divieti e contradivieti, le esportazioni italiane, spe­cie agricole, [avessero] la peggio ». Ma nel 1932 la politica com­merciale subì un netto mutamento e nel settembre fu varata, « quasi di soppiatto », dice il Guarneri, una misura di ritorsione di portata generale contro la Francia. Tuttavia, da una politica protezionistica, che avrebbe reso ancor più difficili le esporta­zioni, nascevano due conseguenze, la prima che si sarebbero do­vute trovare all’ interno nuove fonti di lavoro per non aumentare la disoccupazione, e la seconda che anche all’ Italia si sarebbe posto il problema di costituire, sull’esempio di altri paesi, una zona soggetta alla sua influenza e, perciò, sottratta alla concorrenza di altri paesi.

vare la banca — ci è stato lasciato da E. C o n t i , Dal taccuino di un borghese, Mi­lano, 1946. A. C a b ia t i (cfr. La crisi e i nuovi provvedimenti del governo, in La Riforma sociale, gennaio-febbraio 1933) commentava favorevolmente questa poli­tica trovando che essa si muoveva « sulle linee della dottrina classica dell’econo­mia », e ribadiva, poi questo suo punto di vista in un altro articolo Ancora sugli interventi: cause ed effetti, ibid., marzo-aprile 1933, in polemica con E. GIRETTI (Sugli interventi a favore delle imprese pericolanti, ibid.).

“ Cfr. A . C a b ia t i , La crisi e i nuovi provvedimenti del governo, in La Riforma sociale, gennaio-febbraio 1933.

C1 Cfr. il discorso del Mussolini alla Camera, La situazione economica, del 26 mag­gio 1934, nel vol. XXVI dell’Opera omnia, cit.

New-Deal e corporativismo fascista 31

Ora, tale zona, verso cui si rivolgevano gli sguardi dei fa ' scisti e che dall’ inizio del secolo le correnti nazionalistiche ave' vano abituato a considerare come rientrante nei nostri interessi, era l’Europa danubiana e balcanica: « La politica danubiana e orientale dell’Italia >— aveva detto Mussolini ai federali del par- tito, il 27 ottobre 1930 62 63 * — è dettata da ragioni di vita [ ...] . E ’ solo verso Oriente che può indirizzarsi la nostra pacifica espan- sione. Si comprendano quindi le nostre amicizie e le nostre al­leanze ». Da queste premesse si giunse presto al tentativo di aprire definitivamente l’Europa danubiana alla penetrazione ita- liana con « gli accordi speciali per l’esportazione » conclusi con l’Austria e con l’Ungheria (accordi di Semmering, 18 e 23 feb' braio 1932), accordi, dice ancora il Guarneri, voluti dalla ragione politica per neutralizzare le influenze di alcune potenze che, in quel momento, si stavano esercitando in quella zona (e che tra l’altro, ci imposero un onere economico molto grave per soste- nere i due paesi, proprio quando la nostra situazione stava rapi­damente peggiorando). Poco prima, verso la metà del 19 3 1 , era stato firmato un altro accordo con l’Albania, che avrebbe dovuto favorire, attraverso quella porta, il nostro commercio con i Bai-

* 63cani .Poi, venne anche stipulato un trattato commerciale con

l’U.R.S.S., accolto con grandi speranze per le possibilità offerte da quel vasto mercato “ , il Mussolini, nel discorso al Senato del 18 dicembre 1930, disse che il dumping russo, al quale molti attribuivano il turbamento dell’economia mondiale, era « una cosa abbastanza importante », perchè aveva consentito all’ Italia di im­portare, in sei mesi, quasi due milioni di quintali di grano a un prezzo più basso del mercato internazionale.

In quel periodo, dunque, si mirava soprattutto all’Europa centro-orientale e balcanica quale zona favorevole all’allargamento dei nostri traffici, sebbene da parte di qualcuno si cominciasse a parlare anche delle nostre colonie e dei nostri possedimenti auspi-

62 Messaggio per l’anno nono, nel vol. XXIV dell 'Opera omnia, cit.63 Commercio estero dell'Albania e principali importazioni dall’ Italia, in Bollettino

di informazioni commerciali, 1931.61 C fr. Il mercato russo e l’ Italia, a cura della Camera di Commercio italo-orientale,

in Commercio, 1931.

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cando, sull’esempio di altri paesi, il rafforzamento dei legami eco- nomici “ .

Alcuni economisti del regime si spinsero allora ad auspicare una politica di espansione coloniale in accordo con la Germania. Eppure proprio con la Germania, che nel luglio 19 3 1 aveva sti­pulato accordi commerciali con la Bulgaria, la Romania e l’U n­gheria molto favorevoli ai prodotti agricoli di questi paesi, il con­trasto si scavava sempre più profondo.

E. Hantos, dell’Università di Budapest, metteva in rilievo come il blocco degli Stati danubiani e balcanici rappresentasse quel fascio (faisceau) di Stati con cui la bilancia commerciale tedesca era in continuo sviluppo e in un altro articolo dello stesso anno scriveva che « la Media Europa è il punto in cui gli interessi dei due paesi almeno in parte divergono fortemente. Entrambi gli Stati sono in Europa protesi verso una stessa area economica, entrambi devono cercare un compenso alle perdite sofferte sui mercati dell’Europa occidentale, dell’America setten­trionale e meridionale, negli sbocchi dei loro prodotti industriali. La circostanza che molte industrie dei due Stati indirizzano i loro sforzi di esportazione nelle stesse direzioni, inasprisce la situa-

67zione » .Ma nel 1943 il Mussolini aveva già risolto il problema e per

rimediare alla continua contrazione delle nostre esportazioni aveva deciso di abbandonare il bacino danubiano (che ancora all’ inizio del 1933 aveva ritenuto, come aveva detto al capo delle Heim- ivehren austriache, Stahremberg, il naturale retroterra dell’ Italia, senza il quale questa sarebbe stata costretta a fare « la parte insignificante di una penisola ai margini dell’Europa ») e di spin­gersi alla conquista dell’ Impero, che (come si leggeva nella dot­trina del fascismo, scritta, in realtà, dal Gentile e pubblicata sulla « Enciclopedia italiana » nel luglio 1932), per il fascismo era « una manifestazione di vitalità », perchè lo Stato fascista era « una volontà di potenza e d’impero ». Fin dall’autunno del 1933 il duce aveva parlato delle sue mire sull’Abissinia, uno dei pochi 65 66 67

65 Cfr. J. Mazzei, I problemi della politica doganale coloniale del dopo guerra, in Ri­vista Internazionale di scienze sociali, 1931; nello scritto viene prospettata l ’oppor- tunità di una politica con carattere preferenziale per la madrepatria.

66 L ’Allemagne et l ’Europe danubienne, in Journal des économistes, 1934.67 L ’ Italia e la regione danubiana, in Giornale degli economisti, 1934.

N eW'Deal e corporativismo fascista 33

Stati africani ancora indipendenti, con il De Bono, poi primo comandante delle truppe italiane sul fronte eritreo: « solo luied io ne eravamo al corrente » “ .

Nel tempo stesso cominciò ad accennare sempre più aper­tamente alla necessità di svolgere la vita del regime « attorno a questo asse: la potenza militare nella nazione » 68 69.

E in questo stesso discorso assegnò al popolo italiano i due obiettivi storici: Africa e Asia: « Al Nord c’è poco o nulla da fare, ad Ovest nemmeno: nè in Europa nè oltre Oceano ». T u t­tavia, sembrava che ancora non pensasse a « conquiste territo­riali » bensì ad « un’espansione naturale che deve portare alla collaborazione fra l’ Italia e genti dell’Africa », e può darsi che l’ idea di occupare l’Etiopia gli sia venuta in seguito al tentativo di annettersi l’Austria compiuto da Hitler il 25 luglio 1934, dopo che nazisti austriaci avevano' ucciso il cancelliere Dollfuss. La rea­zione del duce era stata pronta ed egli aveva inviato due divi­sioni di alpini al Brennero, ma l’ inerzia delle potenze occidentali gli aveva fatto capire che il destino del vicino, piccolo paese era segnato, tanto più che oltre la metà delle azioni della Alpinen- Montan Gesellschaft — che possedeva le miniere di ferro della Stiria e che si era risollevata lavorando per il riarmo tedesco — era nelle mani del Thyssen e del trust tedesco dell’acciaio 70 71 72.

Ma con la Germania padrona dell’Austria tutte le posizioni italiane nell’Europa centrale e balcanica sarebbero crollate, ed ecco da ciò precisarsi sempre meglio il bisogno di conquistare l ’Abis- sinia. « Avremo fra non molto — disse in quei giorni al Grandi, allora ambasciatore a Londra — , la disgrazia della Germania al Brennero. La sola alternativa che ci rimane è l’Africa » n. L ’A fri­ca, verso la quale spingevano i ceti industriali ormai da tempo.

Come già era avvenuto nel 1 9 1 1 per l’ impresa di Libia, anche questa impresa avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi economici del popolo italiano: il Bottai riferisce '2 che nel con-

68 Cfr. E . D e B ono , La conquista dell’ Impero, Roma, 1936.® Cfr. Sintesi del regime, 18 marzo 1934 alla IIa assemblea quinquennale del regi­

me, nel vol. XXVI dell’Oliera omnia, cit.70 Cfr. E . W lSK EM A N N , L ’Asse Roma-Berlino. Storia dei rapporti tra Mussolini e

Hitler, Firenze, 1955.71 C fr. Grandi racconta ciò che ha sempre taciuto, a cura di G . Cavallotti.72 Gfr. Vent’anni e un giorno, Milano, 1949.

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siglio dei ministri del 5 dicembre 1936, il duce disse: « L ’Im­pero. Nel 1938 gl’ italiani dovranno avere caffè, pelli, lane, co­tone dell’ Impero. Dovranno provare il senso tattile, direi quasi olfattivo, dell’Impero ». E, in realtà alle origini della spedizione coloniale v ’erano stati evidenti motivi di natura economica, fra cui soprattutto quello di creare all’Italia una zona autarchica da sfruttare con sistemi neomercantilistici (perciò, la guerra ritornava in Europa proprio quando le conseguenze della svalutazione della sterlina e del dollaro andavano riassorbendosi e le due monete si arrestavano su nuovi livelli, che avrebbero consentito la ripresa di un più vasto commercio internazionale). Il capo del fascismo cercò anche in tal modo di superare le ripercussioni della crisi eco­nomica, che fra il 1933 e il 1934 erano ancora molto profonde, ed infatti, dal momento in cui ebbe inizio la preparazione all’ im- presa, i settori più direttamente interessati — quello metallur­gico e meccanico, quello tessile e quello chimico — si ripresero 73.

Rinnovati tentativi di costruire il nuovo ordine corporativo, compressione dei salari, acquisizione di ben protetti mercati di esportazione, ripresa della produzione industriale in funzione di una politica di conquiste coloniali: era questa la risposta che il fascismo italiano offriva alle conseguenze della « grande crisi », ponendosi come alternativa al New-Deal, agli sforzi di Roosevelt per democratizzare la vita economica americana e sottrarla al do­minio incontrollato di quelle forze capitalistiche che l’avevano con­dotta al più totale collasso.

Franco Catalano.

73 La ripresa risulta dalle statistiche pubblicate ne L ’economia italiana nel ses­sennio 1931-1936, Roma, 1938, parti I e LI, vol. II: ad esempio « le esportazioni di autoveicoli e trattrici, che nel 1929 erano state complessivamente di 23.700 unità, sono andate diminuendo fino a raggiungere, nel 1932, un minimo di 6.567; sono poi risalite alquanto nel 1933 e 1934 e più fortemente nel 1935 e 1936 a causa delle aumentate spedizioni nelle colonie italiane » dopo l’istituzione del regime della preventiva autorizzazione. All 3 1 dicembre 1936, per la metallurgia, esclusa la siderurgia, erano stati autorizzati 55 nuovi impianti, 26 ampliamenti e 9 mo­difiche mentre erano state respinte 46 domande per nuovi impianti e 8 per am­pliamenti. « Come per L’industria siderurgica, anche per l’industria meccanica, la ripresa è stata in gran parte determinata dalle eccezionali esigenze militari della nazione », e il numero indice della produzione, calcolato sulla base dell’occupa­zione operaia, era salito da un minimo di 70,5 nel 1932 a un massimo di 119,9 nel 1936.