Nella Mente E Nel Cuore

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1 NELLA MENTE E NEL CUORE di GIORGIA SEPE Sono qui da qualche minuto e ancora non ho ricevuto notizie; decido perciò di procurarle da me. Mi alzo e mi guardo intorno prima di camminare: non c’è nessuno, a parte qualche passante distratto, quindi posso proseguire. La porta è socchiusa e da fuori si sente solo qualche rumore di tastiera; qualcuno sta scrivendo al computer. Mi metto ad osservare, ad origliare, per capire se posso entrare o se devo aspettare ancora un po’ qui fuori; non riesco ad avere le idee più chiare, anzi sono ancora più in ansia. Improvvisamente una folata di vento apre la porta e ci guardiamo negli occhi; lei mi fissa ed ha smesso di scrivere al computer, le mani sono ancora lì sulla tastiera, immobili. Sono molto imbarazzata, perché mi ha scoperta a spiare e non so che fare. Potrei andarmene frettolosamente senza che nessuno se ne accorga, ma mi sembra inutile e troppo tardi; oppure potrei entrare, e fare finta di niente. Intanto sono lì impalata a guardare nel vuoto; decido di entrare, chiedo scusa e permesso e vengo accolta con molto garbo; vengo invitata a sedermi e mi presento. Fino a qualche minuto prima, quando ero seduta, non riuscivo a tenere ferme le braccia e le gambe ed ero in ansia come quando si va al primo appuntamento e la notte prima non si è chiuso occhio. Il tempo non passava mai ed ogni tic tac della lancetta dell’orologio fisso su quel muro mi suonava stridulo. Ora invece sono molto calma e rilassata, ed è tutto merito del suo viso dolce. Lei mi sorride, mi dice qualche parola di conforto, e poi mi chiede di parlare. Mi dice che devo dirle tutto quello che penso, e che lei non mi interromperà. Resto per un attimo perplessa, ma sento che se continuerò a rimanere zitta mi farò prendere dal panico di nuovo e correrò fuori a gambe levate. Da dove comincio? Dall’inizio? Perfetto. Incomincerò dall’inizio della mia vita. Sono nata in un piccolo ospedale di provincia e sin dal mio primo giorno di vita devo aver sentito che tutto il resto sarebbe stato un gran tumulto. Quando sono nata ho pianto, ma questo io non lo posso sapere, e non posso nemmeno chiederlo a mia madre. L’ostetrica che ha assistito alla mia nascita, e che io ho avuto modo di conoscere in seguito, mi ha raccontato come è andata. Dice che ho pianto sin dal primo istante in cui sono venuta al mondo e che non ho smesso di piangere per ben due giorni, creando un gran caos in maternità, tanto che mi hanno dovuto portare in una stanza da sola per evitare di svegliare tutti gli altri neonati come me. Pina, così si chiama l’ostetrica, mi ha raccontato qualcosa anche di mia madre, o meglio, della donna che mi ha messo al mondo. È difficile spiegare ciò che provo nei suoi riguardi; non ci sono mai le parole giuste per descrivere questo tipo di sentimento. Ora che sono cresciuta, ora che mi sento più matura per comprendere la mia vita, ora che riesco anche a mettermi nei suoi panni, non ho più niente contro di lei. Con il tempo ho saputo che mia madre, quando mi ha messo al mondo, aveva poco più di sedici anni; Pina mi ha raccontato che ha pianto anche lei durante tutto il parto, che chiedeva mie notizie, che non ha voluto vedermi nemmeno per un istante. Non so neanche come si chiamasse, ma immagino fosse bella e somigliasse a come sono io ora. I suoi genitori probabilmente non hanno voluto che tenesse il bambino, o meglio me, la sua bambina. Hanno

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NELLA MENTE E NEL CUORE

di GIORGIA SEPE

Sono qui da qualche minuto e ancora non ho ricevuto notizie; decido perciò di procurarle da me. Mi alzo e mi guardo intorno prima di camminare: non c’è nessuno, a parte qualche passante distratto, quindi posso proseguire. La porta è socchiusa e da fuori si sente solo qualche rumore di tastiera; qualcuno sta scrivendo al computer.

Mi metto ad osservare, ad origliare, per capire se posso entrare o se devo aspettare ancora un po’ qui fuori; non riesco ad avere le idee più chiare, anzi sono ancora più in ansia.

Improvvisamente una folata di vento apre la porta e ci guardiamo negli occhi; lei mi fissa ed ha smesso di scrivere al computer, le mani sono ancora lì sulla tastiera, immobili. Sono molto imbarazzata, perché mi ha scoperta a spiare e non so che fare. Potrei andarmene frettolosamente senza che nessuno se ne accorga, ma mi sembra inutile e troppo tardi; oppure potrei entrare, e fare finta di niente. Intanto sono lì impalata a guardare nel vuoto; decido di entrare, chiedo scusa e permesso e vengo accolta con molto garbo; vengo invitata a sedermi e mi presento.

Fino a qualche minuto prima, quando ero seduta, non riuscivo a tenere ferme le braccia e le gambe ed ero in ansia come quando si va al primo appuntamento e la notte prima non si è chiuso occhio. Il tempo non passava mai ed ogni tic tac della lancetta dell’orologio fisso su quel muro mi suonava stridulo. Ora invece sono molto calma e rilassata, ed è tutto merito del suo viso dolce.

Lei mi sorride, mi dice qualche parola di conforto, e poi mi chiede di parlare. Mi dice che devo dirle tutto quello che penso, e che lei non mi interromperà. Resto per un attimo perplessa, ma sento che se continuerò a rimanere zitta mi farò prendere dal panico di nuovo e correrò fuori a gambe levate. Da dove comincio? Dall’inizio? Perfetto. Incomincerò dall’inizio della mia vita.

Sono nata in un piccolo ospedale di provincia e sin dal mio primo giorno di vita devo aver sentito che tutto il resto sarebbe stato un gran tumulto. Quando sono nata ho pianto, ma questo io non lo posso sapere, e non posso nemmeno chiederlo a mia madre. L’ostetrica che ha assistito alla mia nascita, e che io ho avuto modo di conoscere in seguito, mi ha raccontato come è andata. Dice che ho pianto sin dal primo istante in cui sono venuta al mondo e che non ho smesso di piangere per ben due giorni, creando un gran caos in maternità, tanto che mi hanno dovuto portare in una stanza da sola per evitare di svegliare tutti gli altri neonati come me.

Pina, così si chiama l’ostetrica, mi ha raccontato qualcosa anche di mia madre, o meglio, della donna che mi ha messo al mondo. È difficile spiegare ciò che provo nei suoi riguardi; non ci sono mai le parole giuste per descrivere questo tipo di sentimento. Ora che sono cresciuta, ora che mi sento più matura per comprendere la mia vita, ora che riesco anche a mettermi nei suoi panni, non ho più niente contro di lei.

Con il tempo ho saputo che mia madre, quando mi ha messo al mondo, aveva poco più di sedici anni; Pina mi ha raccontato che ha pianto anche lei durante tutto il parto, che chiedeva mie notizie, che non ha voluto vedermi nemmeno per un istante. Non so neanche come si chiamasse, ma immagino fosse bella e somigliasse a come sono io ora. I suoi genitori probabilmente non hanno voluto che tenesse il bambino, o meglio me, la sua bambina. Hanno

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deciso che lei quella bambina la mettesse ugualmente al mondo, forse perché quando ha scoperto di essere incinta era troppo tardi per abortire. E non potevano permettersi di crescere un’altra creatura, non avevano né la voglia e né il denaro per crescere la figlia della loro unica figlia.

Pina non mi ha saputo dire altro su di lei; ricorda che era bruna, che aveva i capelli lunghi e un viso molto dolce; non saprebbe dire nemmeno se mi somigliasse, o meglio se io somigliassi a lei quando era giovane.

Come lei saprà, grazie al diritto ad un parto segreto ed anonimo, io sono venuta al mondo senza conoscere mia madre, senza guardare negli occhi la donna che per nove mesi mi ha portato in grembo tenendomi con sé.

Per molto tempo mi sono chiesta cosa avesse spinto una futura mamma a lasciare la sua bambina al mondo senza minimamente curarsi di lei; ora che so come stanno le cose non la biasimo, e spero un giorno di poterla incontrare.

Crede davvero che la incontrerò prima o poi? Io lo spero, avrei tante cose da dirle. Ora dovrebbe avere quarant’anni e probabilmente avrà una vera famiglia, e non quella che

potevo darle io, anche se per me non sarebbe stata affatto male.Sin da bambina sapevo di non avere una mamma; all’inizio alla casa famiglia mi dicevano

che mia madre se n’era andata in cielo insieme al mio papà; dopo, quando ero più grande, i miei “nuovi genitori” hanno provato a spiegarmi in parole povere la verità. Io purtroppo non potevo ancora capire.

Ho fatto fin da subito una promessa a me stessa: io non l’avrei mai abbandonato mio figlio, chiunque lui fosse stato, qualunque faccia avesse avuto, qualunque fosse stata la reazione del mondo che mi circondava.

E poi c’è anche lui, il mio papà, proprio perché in teoria i figli si fanno in due. Raramente parlo del mio papà, di quello biologico intendo. Non ho mai utilizzato questa parola, e tuttora il mio nuovo padre lo chiamo Pa, che per gli altri significa papà, ma per me Paolo, che è il suo nome. E lui naturalmente lo sa, ma cerca di consolarsi al pensiero che forse io, in fondo in quel Pa ci includo anche un bel papà.

Del mio vero papà dice? Beh, di lui, del mio vero papà non so assolutamente niente; so solo che mia madre era una ragazza sola, so che non aveva nessuno al momento del parto, se non i suoi genitori che la aspettavano fuori. E’ stata Pina a tenerle la mano quando piangeva, quando io ero oramai fuori dalla stanza, fuori dalla sua vita per sempre. E me lo racconta continuamente; mi dice che secondo lei era davvero una ragazza disperata.

Mio padre doveva essere un tipo a cui non importava niente di mia madre e di me, o forse non sapeva nemmeno che io esistevo in quella pancia. Nel primo caso l’idea che ho di lui è quella di un vigliacco che non ha avuto il coraggio di prendersi le sue responsabilità; perché se lo avesse fatto a quest’ora magari potrei essere con loro in qualche posto a parlare e a ridere delle nostre avventure, non crede? Nel secondo caso non saprei cosa pensare, o forse penserei lo stesso che è un vigliacco e che non merita nemmeno di ricevere i miei pensieri.

Quando ho compiuto otto anni, alla porta della casa famiglia ha bussato una dolce famigliola. Mi piace raccontare questa storia come nelle favole: c’era una volta, Mimma e Pa, o meglio Domenica e Paolo, i miei futuri genitori. Sono venuti a prendermi una domenica di Marzo, e ricordo che quel giorno era davvero una calda giornata, di quelle che ti togli il cappotto e corri in mezzo ai prati, ha presente? Sono venuti a prendermi con la loro unica figlioletta, Miriam, che aveva dieci anni all’epoca.

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Ricordo che io ero davanti alla porta con le suore, ed aspettavo con ansia di vederli. Per una settimana, dal momento in cui mi avevano comunicato che sarei andata a vivere in una nuova e calda casa, non avevo fatto altro che pensare a loro. Avevo pensato a come sarebbero stati, avevo immaginato i loro visi, avevo immaginato le parole che mi avrebbero detto. Avevo subito pensato a Mimma, e non vedevo l’ora di poterla abbracciare.

Finalmente li vidi ed erano proprio come li avevo immaginati; Mimma era bionda ed aveva i capelli lunghi e mossi; Paolo invece era molto alto, magro e con i capelli brizzolati; Miriam era un po’ imbronciata, questo lo ricordo benissimo, e non ha riso per tutto il giorno. Però era vestita bene, pensai; e di lei quel giorno mi interessò solamente quello.

Trascorremmo un’ora nel giardinetto della casa in cui vivevo con le suore e con gli altri bambini, ci sedemmo su di una panchina ed incominciammo a chiacchierare. Mimma e Paolo mi fecero un po’ di domande, e dopo aver rotto il ghiaccio mi diedero un piccolo regalino di benvenuto: era un bracciale color oro, con un ciondolo sul quale erano incise le mie iniziali. Il ciondolo era a forma di cuore. Ricordo che Mimma mi disse una frase che non dimenticherò mai: “Ora tu sarai così per noi, incisa nel nostro cuore”. Non capii subito cosa volesse dire, d’altronde ero molto timida e le uniche parole che ero riuscita a dire fino a quel momento erano state “Si” e “grazie”.

Ecco lo sapevo, ora mi commuovo. Però non è tristezza, è solo una dolce nostalgia. Guardi, questo è il bracciale che mi hanno regalato. Non l’ho mai tolto dal polso e non potrei mai riuscire a separarmene. C’è il cuore e al centro guardi c’è una A, che è il mio nome, Agata, e una S, che è l’iniziale del cognome di Paolo. E’ stato il regalo più bello che potessero farmi, insieme ad una famiglia naturalmente. Grazie, ci voleva un bel fazzoletto, dimentico sempre di portarli. E’ una delle poche cose che non ho mai nella mia borsa.

Nemmeno quel giorno di tanti anni fa, quando arrivò il momento dei saluti alla mia cara casa famiglia, non riuscii a trattenere le lacrime; è vero stavo andando a vivere in una casa vera, con una famiglia vera, però la casa famiglia mi aveva cresciuta fino a quel momento ed era stata la mia vita per otto anni. Non potevo non dispiacermi. Abbracciai le suore e salutai i bambini a cui ero più affezionata. C’era una bambina, che era stata per tanti anni la mia compagna di giochi; si chiamava Chiara, ma non l’ho più vista da quel giorno. Ci scambiammo un bigliettino con dei disegni che conservo gelosamente nella mia scatola dei ricordi; è la scatola dei ricordi della mia vecchia vita, così come la chiamo. Conservo tutte le foto e i disegni che ho fatto durante quel periodo.

Entrai nella station wagon di Paolo e ci incamminammo verso la mia nuova casa. Il viaggio durò circa due ore credo, perché in macchina ascoltammo molta musica e Paolo e Mimma ogni tanto canticchiavano. Mi veniva anche da ridere ma cercavo di non darlo a vedere, perché accanto a me c’era Miriam che non smetteva di guardarmi e scrutarmi.

L’ingresso nella nuova casa fu davvero mozzafiato: io non avevo parole per descrivere quel momento, lo ricordo come fosse ieri. C’era un piccolo giardino prima di entrare in casa. E la casa era grande, era talmente grande per me che per vederla tutta ed imparare la piantina ci misi una settimana. Non avevo mai visto una camera così grande e non avevo mai dormito in un letto così comodo. Non avevo mai cenato abbondantemente la sera, e non avevo mai guardato la televisione dopo cena con un’altra bambina mia coetanea. Ricordo che quella sera, davanti alla tv, Miriam iniziò a parlarmi e a chiedermi cosa mi piaceva fare e quali giochi preferivo. Era bello, ho il ricordo di una sensazione di armonia.

La primavera trascorse davvero molto in fretta, e subito arrivò l’estate. L’estate a me non piaceva molto, perché quando ero alla casa famiglia faceva caldo non c’era un posto in cui si

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stava freschi. Bisognava sempre bagnarsi la faccia e i polsi e nonostante ciò si moriva di caldo. E non si poteva nemmeno correre all’aria aperta perché il sole era cocente. Insomma la odiavo. Invece per la prima volta quell’anno l’estate mi sembrava davvero bella, e non ero stata mai così bene. Avevo visto per la prima volta il mare, e avevo fatto il bagno. Erano le mie prime vere vacanze. Mi creda, è stata una sensazione davvero unica.

Così come avevo gioito in quell’estate continuai a gioire in quegli anni, che sono stati per me gli anni più belli in assoluto. Man mano che il tempo passava il mio rapporto con Miriam diventava sempre più amichevole, sempre più fraterno e confidenziale. Quando compii undici anni avevo già frequentavo la prima media e Miriam faceva la terza. Ci davamo sempre appuntamento per una certa ora nei corridoi; non potevamo stare troppo tempo senza vederci. Avevo finalmente una sorella e non più le amiche della casa famiglia; potevo dire a tutti che lei era solo mia sorella e nessuno doveva toccarmela. Ogni tanto anche lei ha dovuto difendermi, come io ho sempre fatto nei suoi riguardi. C’erano dei ragazzi più grandi che mi prendevano in giro perché ero più in carne delle mie coetanee. Dicevano che sembravo una balena, che avevo gli occhi a palla, che non mi avrebbe mai voluta nessuno. Insomma non mi avevano risparmiato in niente nel mio primo anno alle scuole medie. E io piangevo di nascosto nella mia camera, senza darlo a vedere a nessuno. Quando mi dissero che io ero solo una povera figlia di nessuno scoppiai in un pianto disperato e corsi da Miriam; lei mi difese, e mandò a quel paese tutti gli altri. Quello fu il giorno in cui capii che nel mondo c’era qualcuno a cui davvero importava della mia felicità.

Naturalmente gli anni passarono e io dimagrii. Al liceo ero, modestia a parte, una delle ragazze più belle della mia classe. Finalmente nessuno poteva più prendermi in giro; mi presi ben presto tutte le mie dovute rivincite, anche nei confronti dei ragazzi. Ero diventata molto alta, ero snella e praticavo molti sport, tra cui la pallavolo, che mi aveva permesso di conoscere nuova gente e stringere nuove amicizie. Miriam non era un tipo sportivo, anzi era piuttosto sedentaria e preferiva leggere o suonare il pianoforte. Avevo provato anche io ad imparare a suonare il pianoforte, ma dopo svariati tentativi falliti avevo desistito.

Con Mimma e Paolo dice? Beh con loro il rapporto all’inizio creava non poche situazioni imbarazzanti, per via dei comportamenti da tenere, per via delle cose che io dovevo sapere e per l’organizzazione della vita familiare. Dopo qualche tempo li adoravo; loro erano sempre cortesi con me. Certo mi rimproveravano come rimproveravamo Miriam se ne combinavo una delle mie, però ho sempre saputo apprezzare i loro sforzi e non ho mai sognato di non ringraziare per ogni cosa che facevano per me. Loro non erano stati obbligati ad adottarmi, perciò dovevo saper gratificarli in qualche modo. No, non è stato un continuo susseguirsi di prove. Io sapevo solamente di doverli rispettare, sia come genitori che come tutori.

La mia prima cotta dice? L’ho avuta a quattordici anni, per un ragazzo del Liceo che frequentavo. Prima d’allora non mi ero mai innamorata, anche se frequentemente mi invaghivo delle persone che incontravo per strada, o al supermercato, o al cinema. Ma quella fu la mia prima vera storia. Lui aveva quasi diciassette anni, mentre io avevo da poco compiuto i tanto attesi quattordici. Avevo festeggiato con i miei compagni di classe a casa; erano solo pochi mesi che frequentavo quella scuola, per cui Mimma pensò bene che per l’integrazione e la socializzazione era fondamentale dare una festa a casa. E quale occasione migliore di un compleanno? Quel ragazzo non era naturalmente invitato alla mia festa, ma me lo ritrovai dietro la porta, perché era venuto a portare le chiavi di casa a sua sorella che le aveva dimenticate. Sua sorella era una mia amica di classe. Ricordo che Mimma gli chiese di rimanere per la torta, e che lui lo fece. Che vergogna che provai! Assistette ai momenti delle

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foto, momenti in cui io ero imbarazzatissima, al taglio della torta, al brindisi. Insomma rimase in attesa della sorella per quasi metà festa. Io non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e vedevo che a volte anche lui mi fissava per qualche secondo. La festa terminò con l’apertura dei regali. I miei compagni di classe mi regalarono un orologio che ancora gelosamente custodisco, in ricordo di quella splendida serata.

Insomma per farla breve a quel ragazzo diedi il mio primo bacio, su di una panchina al chiaro di luna, con la sola luce di un lampione poco distante che ci illuminava, in un parco pieno di gente. Fui emozionatissima in quei momenti, e anche in tutti quelli successivi. Stemmo insieme quasi tre anni, ma finì, per vari motivi. Lui era geloso di me, io volevo un po’ più di libertà; lui voleva stare sempre con me, io volevo trascorrere del tempo anche con le mie amiche; lui non aveva avuto più voglia di studiare dopo la maturità, io invece mi iscrissi all’università e continuai il mio percorso. Così un po’ alla volta le nostre strade si separarono, e diventammo solo buoni amici.

Devo ammetterlo: è stato il mio primo vero amore e non dimenticherò neanche uno dei momenti trascorsi con cui, come non dimenticherò tutte le cose che ho imparato e che abbiamo imparato insieme.

Dopo di lui ci sono stati altri due ragazzi, ma si è trattato di storie di poca importanza. Ora la mia vita è con una persona che mi sta accanto da oramai due anni, una persona che conosce ogni minima parte di me. Questa persona è la parte migliore di me.

Si, Pina l’ho conosciuta solo in seguito. Come tutti i bambini e ragazzi adottati, era arrivato anche per me il tempo di voler sapere qualcosa in più sui miei veri genitori. Fino a quel momento, come ho detto prima, avevo saputo di avere due mamme, una in cielo e l’altra in terra. Quel giorno chiesi a Mimma e Pa di raccontarmi tutta la verità sulla mia vita e sulla mia vera famiglia, anche se la verità fosse stata cruda e dolorosa. Così loro si accomodarono sul divano, e io mi misi di fronte sulla poltrona. Cominciammo dall’inizio e dalla mia nascita; iniziai a sapere che mia madre non era morta, che mio padre non esisteva e che mi avevano entrambi abbandonato. Il racconto di quella parte della mia vita fu il più doloroso, perché appena scoprii di essere stata volutamente abbandonata scoppiai a piangere ininterrottamente per qualche ora. I miei genitori adottivi dovettero ricominciare a raccontarmi il resto dopo due giorni, dopo che capirono che mi ero un po’ calmata e potevo ricominciare ad ascoltare. Alla fine del loro racconto la prima cosa che volli sapere fu come rintracciare i miei veri genitori. Loro mi dissero che non avevano nessuna notizia e che non potevano aiutarmi, perché quando mi avevano presa con loro avevo già otto anni e vivevo in una casa famiglia. Avevo diciassette anni e mezzo e per qualche mese la mia vita fu a tratti più buia, e non sapevo quale strada prendere. Non sapevo se andare alla casa famiglia sarebbe stata una buona idea; non sapevo se avrebbe causato tanta sofferenza a me e alla mia famiglia.

Anche Mimma e Paolo in quel periodo sembravano davvero mortificati, perché io avevo cambiato il mio atteggiamento, ero sempre sulla difensiva, ero sempre nervosa e mi chiudevo spesso in camera; non facevo altro che sfogliare le pagine di alcune riviste, navigare nel webper sapere da che parte iniziare la ricerca di mia madre e mio padre.

Dopo qualche mese di disperate indagini ero sempre allo stesso punto. Sono stati Mimma e Paolo a decidere di fornirmi un nuovo punto di partenza, anche se a malincuore. Tuttora mi rendo conto di essermi comportata male nei loro riguardi, ma in quel periodo non capivo, non potevo capire.

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Pina era lo spiraglio di luce in quel buio in cui ero caduta. Mimma mi disse che Pina era sempre rimasta in contatto con le suore e sapeva tutto di me. Mi ha anche detto che per i miei compleanni faceva recapitare un regalino, anche se piccolo, per rincuorarmi. Ma questo io non lo sapevo, anzi prima dei miei diciassette anni non sapevo nemmeno che Pina esistesse. Mi disse che Pina chiamava anche a casa una volta al mese per avere mie notizie; però io non dovevo saperlo. Ecco perché Mimma e Paolo non me l’avevano detto prima.

Dovevo sembrare davvero molto triste per costringerli a chiamare Pina e raccontarle tutto. Così lei accettò di incontrarmi. Quando la vidi mi sembrò come afferrare una corda che porta dritto al passato; una corda tutta da tirare ha presente? Di quelle che quando le tiri ti fai anche male alle mani. Beh, fu proprio così. Mi feci un gran male.

Pina mi raccontò tutto quello che le ho già detto prima, mi descrisse mia madre e il suo volto in lacrime. E io per un momento, dopo tutti quei mesi di rabbia, mi sentii più tranquilla. Forse mia madre non avrebbe voluto lasciarmi davvero.

Io e Pina siamo ancora in contatto sa? Una o due volte al mese ci telefoniamo, e trascorriamo almeno un’ora a parlare di come vanno le nostre vite.

Difatti quando lei l’ha saputo l’ho sentita piangere al telefono. Mi ricordo che la chiamai quel pomeriggio e mentre parlavamo con aria pacata del più e del meno le dissi tutto d’un fiato la novità: Pina sono incinta.

Quasi mi viene ancora da ridere a pensare a quella telefonata; Pina proprio non se lo aspettava e singhiozzava di pianti dall’altra parte della cornetta. Io le continuavo a dire chenon doveva piangere ma ridere e lei diceva che quelle erano le famose lacrime di gioia.

Sa, anche io ho pianto di gioia quando ho fatto il test di gravidanza. Dopo la prima ecografia vidi un piccolo puntino nella mia pancia, vidi una nuova vita nella mia pancia.

Avere questo piccolo bambino dentro di me mi riempie di gioia. Ogni sera nel letto provo ad immaginare come poteva stare mia madre quando si rinchiudeva nella sua camera; cosa pensasse di me, di quella vita dentro la sua. Io tocco la mia pancia e dico una preghiera per il mio bambino; a volte gli parlo oppure gli racconto una favola. Gli racconto del suo papà, gli dico che presto sarà di nuovo a casa. E gli dico che presto saremo di nuovo tutti uniti e insieme una piccola famiglia.

Una cosa che ancora aspetto nella mia vita è proprio il mio matrimonio, o meglio il nostro matrimonio. No, non sono sposata, però so di non essere sola. Il mio fidanzato è all’estero per una missione. Lui è un grande eroe per noi due. Lo dico sempre a mio figlio quando andiamo a dormire. E lo dico sempre anche a Dario quando ci sentiamo per telefono, o al computer.

Sa, mi si stringe il cuore quando lo vedo dallo schermo del PC attraverso una webcam. Certe volte è proprio strana la vita. Sai che una persona che ti vuole stare vicino ce l’hai, sai che ti ama, la ami anche tu, ma non puoi starci assieme quando e come vuoi. E devi aspettare, aspettare e ancora aspettare. E soffri, perché vedi la tua metà che soffre lontano da te. Vorrei tanto che lui potesse vivere questi mesi di maternità con me, e non a migliaia di chilometri di distanza. Ha detto che manca solo un mese e poi sarà di ritorno a casa, per non partire più. E finalmente saremo una famiglia, una di quelle vere.

In un certo senso è come se vivessi la storia di mia madre. Io vivo ancora a casa con Mimma e Paolo. Miriam è andata via da qualche anno e studia fuori. Si è laureata e adesso sta facendo alcuni master. Io sono ancora a casa. Mi sono laureata da poco e subito dopo ho scoperto di essere incinta. Vivo ancora nella mia cameretta, nella stessa di quando ero una ragazzina. Solo che ora nell’armadio oltre ai poster e ai miei vestiti ci sono anche i piccoli

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regalini per il mio bambino. Ogni giorno compro un piccolo regalo per lui; lo faccio ormai da tre mesi, da quando ho scoperto di aspettarlo. Anche mia madre viveva a casa con i suoi genitori, dormiva nel suo letto di ragazzina; e lei lo era davvero una ragazzina. Era da sola perché il suo ragazzo non era al suo fianco. Nemmeno io ho il mio ragazzo al mio fianco che può sollevarmi da ogni mia preoccupazione, da ogni mia ansia per questa gravidanza. Però so che anche se lontano lui c’è per me, e tornerà presto.

Io non ho ancora un lavoro e per il momento non posso cercarlo. Dario mi ha promesso che prenderemo in affitto una casa per i primi tempi e che un po’ alla volta riusciremo a comprare una casa tutta nostra.

Meno male che ci sono Mimma e Pa, senza di loro non saprei come fare. Mimma è felicissima di diventare nonna; mi accompagna per i negozi e ha detto che vuole essere lei a regalarmi la culla. Deve essere la più bella che ci sia mi ha detto. Paolo non poteva crederci e a momenti piangeva. Per non parlare di Miriam! Appena l’ha saputo è corsa a salutarmi e hatrascorso il week end con me. È davvero tanto dolce Miriam. Hai fatto prima di me mi ha detto! Mi fai sentire vecchia ora! E a me veniva da ridere. Ho fatto prima di lei, è vero.

Ora non saprei più cosa dirle dottoressa, le ho parlato della mia vita ininterrottamente fino ad ora. In realtà ce ne sarebbero ancora di cose da dire; ci sarebbe da raccontare quanto ho sofferto in tutti questi anni. Però non ho più voglia di soffrire nemmeno per raccontarlo.

Non so nemmeno che ora è. Io parlavo, parlavo e ancora parlavo e non mi sono resa conto del tempo che passava.

Ho preso questo appuntamento perché avevo davvero tanta paura di non saper affrontare al meglio la mia nuova condizione. So per certo che questo figlio non l’avrei mai abbandonato. So per certo che non l’avrei mai privato del mio affetto. Però avevo lo stesso paura, avevo paura di non potergli assicurare un futuro senza un lavoro, e avevo paura che il mio fidanzato non lo accettasse. Fino a due settimane fa avevo anche paura che lui non volesse più sposarci al suo ritorno. Sa, mi ha fatto la dichiarazione via web, quando ha saputo che ero incinta.Crede che possa ancora cambiare idea?

Ho paura di rimanere sola a crescere mio figlio. Ma ho anche paura di non riuscire a trovare un lavoro; ho paura che con i nostri risparmi noi tre non riusciremo a vivere al meglio. Ho paura di perdere il mio bambino dottoressa. E ho paura di non regalargli il futuro che desidero per lui. Lo sento che si muove dentro di me ed è una gioia immensa. È come non essere mai soli in questi mesi, nemmeno per un momento della vita. E’ come vivere in simbiosi, in amore. E’ un amore che non finirà mai il nostro, lo sa?

Che fa si commuove dottoressa? La prego non lo faccia altrimenti piango anche io. Anzi, forse è meglio se adesso io vada via. Ha preso così tanti appunti che avrà da lavorare prima del prossimo incontro.

Continuo ad ascoltare ciò che la psicologa mi sta comunicando, quali sono i consigli che ha da darmi. Mi dice che fisserà un altro incontro per parlare ancora un po’; e dice che nel prossimo incontro non dovrò più raccontare, ma rifletteremo insieme. Ha un viso così angelico e rilassante. Mi fa stare bene sentire la sua voce bassa e pacata; ha i capelli scuri e mossi, un viso un tantino pallido, come il mio, gli occhi neri e un tocco di lucidalabbra. Non ha altro trucco, eppure è bella. Ha un non so che di familiare. Mi piace anche come scrive sui fogli, come tiene la penna con la mano. Noto che ha la fede alla mano. Come è giovane, penso, ed è già spostata. Avrà al massimo quarant’anni. Poi penso che anche io ho solo ventiquattro

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anni e fra un anno mi sposo. E tra l’altro anche mia madre avrebbe la stessa età! Che pensieri sciocchi che ho!

Mi scrive un bigliettino con il prossimo appuntamento; io la ringrazio stringendole la mano e sento che è molto fredda. Che strano, non è poi così freddo fuori. La saluto ancora una volta, prendo la borsa sulla sedia alla mia destra ed esco dallo studio, socchiudendo la porta alle mie spalle. Sento singhiozzare e tirare su con il naso. Fuori alla porta ci sono almeno cinque persone in attesa, sedute sulle sedie. Provo a sbirciare di nuovo dalla porta dentro lo studio e la vedo che si alza, con un fazzoletto in mano. Continuo a pensare che è davvero strano. Possibile che una psicologa che fa solamente il suo lavoro piange? Io le ho raccontato semplicemente la mia vita e lei si è immedesimata così tanto da commuoversi? Anche durante il mio racconto vedevo che aveva gli occhi lucidi, però non glie l’ho voluto dire, mi sembrava stupido farglielo notare.

Così chiudo la porta, accenno un sorriso ai pazienti in attesa e mi incammino per il corridoio. Ora che ho raccontato tutta la mia vita sono più sollevata; è come se mi fossi tolta un peso di dosso. È stata proprio un’ottima idea quella di Mimma; farmi venire da una psicologa e parlare senza sosta, ne avevo proprio bisogno. Con nessuno potevo aprirmi così sinceramente, senza correre il rischio di ferire. Lei non mi conosceva, non sapeva nulla di me, quindi non potevo ferirla. E poi era una psicologa, faceva il suo lavoro.

Ora voglio solo tornare a casa, ho tanta fame e il mio bambino avrà sicuramente voglia di dormire. Prendo il cellulare dalla borsa e chiamo Mimma. Ho appena finito, le dico, sto tornando. Le ripeto più volte di avere fame e lei mi continua a dire che fino a quando non sarò arrivata a casa non potrò gustare il mio piatto preferito. Ha cucinato il mio piatto preferito, che buono! Come cucina Mimma la parmigiana non la fa nessuno! Meno male che c’è lei. Chissà dov’è mia madre adesso. Ciao mamma, spero tu sia felice. Forse mi hai già incontrata ma io non ti ho riconosciuta. Sappi che ti ho perdonata, sappi che non ce l’ho con te. Forse sei più vicina di quanto io possa pensare. O forse sei solo dentro di me.

All’appuntamento successivo la dottoressa Bianchi si fece negare. Agata, ignara di tutto, continuò la terapia con un’altra psicologa. La dottoressa era sua madre. Le bastò sapere che era finalmente felice e sparì per sempre dalla sua vita.

Un ringraziamento speciale ai miei due unici lettori: la mia migliore amica

e mio padre, critico lettore.