Nancy - Corpi Guardati

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CORPI GUARDATI Cos’è il corpo nella pittura, per la pittura (e nelle arti plastiche in generale)? Il corpo è, esso stesso, l’origine della pittura. Il corpo consiste nel fatto che noi sappiamo presentare la nostra immagine. La nostra immagine, ovvero noi stessi: io sono presente al mondo solo tramite il mio corpo. I miei pensieri, i miei sentimenti non si esprimono o non si rivelano se non tramite il mio corpo. Io penso con la mia parola e parlo con la mia bocca. Io provo un’inquietudine e questa emozione stringe la mia gola o il mio stomaco. Io non esisto che secondo questa materialità, che non ha niente di “materiale” opposto alla supposta sostanza “spirituale” di un soggetto, ma che non è altro che l’esposizione, la presentazione, la manifestazione di ciò che io posso certamente comprendere come una “interiorità” o una “intimità”, ma che può essere tale solo perché essa può esporsi, offrirsi agli altri. E d’altronde, gli altri non sono solamente gli altri umani. Gli altri animali, nondimeno, se non pure i vegetali o i minerali, tutti insieme e tutti intorno a me, con i miei congeneri, sono ciò a cui il mio corpo si presenta e con cui può entrare in contatto. Il contatto, qui, non deve essere limitato al toccare. Esso designa tutte le forme di rapporto. Un corpo è una possibilità di rapporti. Tocca, guarda, sente – ma soprattutto si sa, esso stesso, toccato, guardato, sentito, ecc. Io sento il mondo e mi sento sentito da tutte le parti da tutti gli elementi del mondo. Il mio corpo non è dunque un involucro esterno sotto il quale io esisterei in modo indipendente. Esso non è affatto un involucro: è lo sviluppo di questo punto singolare che si designa come “qualcuno”. Senza questo sviluppo, il punto resterebbe limitato alla propria esistenza di punto, che è senza dimensione e (dunque) inesistente. In questo sviluppo, il punto si fa linea e volume, contorno, statura, andatura, figura. 1

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CORPI GUARDATI

Cos’è il corpo nella pittura, per la pittura (e nelle arti plastiche in generale)?

Il corpo è, esso stesso, l’origine della pittura. Il corpo consiste nel fatto che noi sappiamo presentare la nostra immagine. La nostra immagine, ovvero noi stessi: io sono presente al mondo solo tramite il mio corpo. I miei pensieri, i miei sentimenti non si esprimono o non si rivelano se non tramite il mio corpo. Io penso con la mia parola e parlo con la mia bocca. Io provo un’inquietudine e questa emozione stringe la mia gola o il mio stomaco. Io non esisto che secondo questa materialità, che non ha niente di “materiale” opposto alla supposta sostanza “spirituale” di un soggetto, ma che non è altro che l’esposizione, la presentazione, la manifestazione di ciò che io posso certamente comprendere come una “interiorità” o una “intimità”, ma che può essere tale solo perché essa può esporsi, offrirsi agli altri. E d’altronde, gli altri non sono solamente gli altri umani. Gli altri animali, nondimeno, se non pure i vegetali o i minerali, tutti insieme e tutti intorno a me, con i miei congeneri, sono ciò a cui il mio corpo si presenta e con cui può entrare in contatto.

Il contatto, qui, non deve essere limitato al toccare. Esso designa tutte le forme di rapporto. Un corpo è una possibilità di rapporti. Tocca, guarda, sente – ma soprattutto si sa, esso stesso, toccato, guardato, sentito, ecc. Io sento il mondo e mi sento sentito da tutte le parti da tutti gli elementi del mondo.

Il mio corpo non è dunque un involucro esterno sotto il quale io esisterei in modo indipendente. Esso non è affatto un involucro: è lo sviluppo di questo punto singolare che si designa come “qualcuno”. Senza questo sviluppo, il punto resterebbe limitato alla propria esistenza di punto, che è senza dimensione e (dunque) inesistente. In questo sviluppo, il punto si fa linea e volume, contorno, statura, andatura, figura.

[Roger de la Fresnaye, Alice au grand chapeau]

È esattamente questo che il corpo sa : esso si sa come linea, tratto, tracciato, sagoma, atteggiamento, tenuta e quindi modalità, maniera, tono, aspetto. Il corpo è aspectus nel doppio senso che il termine poteva assumere: l’atto di guardare o il fatto di essere guardato. Questi due sensi sono d’altronde legati nel nostro termine «aspetto»: [l’aspetto] che nomina il modo in cui qualcosa o qualcuno si presenta allo sguardo, e anche più precisamente a un tale o tal altro sguardo determinato (qualcuno si mostra o anche è guardato «sotto» tale o tal altro aspetto).

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Aspetto: come qualcosa si presenta – ciò che implica al tempo stesso essere visti dall’altro e come ci si propone alla vista dell’altro – un proporsi allo sguardo consapevole o inconsapevole, o piuttosto, bisognerebbe dire, un proporsi operato da me di ciò che l’altro avvista in me, su di me, questo senso del mio essere-esposto all’altro e d’essere visto, guardato, in una modalità che resta per me sempre estranea e che nello stesso tempo ritorna su di me e mi attira ad essa – o contro essa, attrazione o repulsione – ciò costituisce precisamente l’«inconscio»: il corpo è l’inconscio, ovvero il rapporto al mondo. Tutte le immagini provengono da lì, da quest’immagine che precede ogni immagine che è l’impossibile immagine di me. In altre parole, l’immagine di una forma – figura, statura, andatura – che per me resta sempre lettera morta.

Letteralmente ciò di cui solo la mia morte darà una somiglianza compiuta – divenendo allora somiglianza di ciò che presto non somiglia più a niente. Se l’imago è l’immagine del morto presso i Romani, effige sacra conservata sull’altare di famiglia, allora ogni immagine è innanzitutto immagine del proprio corpo morto, del corpo che precede se stesso e così come appare, così come si dà a vedere – non sapendo nulla, non vedendo nulla di ciò che esso dà a vedere, ma vedendo, esso medesimo, che è visto dagli altri e non vedendo nient’altro che questo, che è niente.

Lo specchio, il riflesso non è per niente un sostituto di questa figurazione o «messa in immagine» operata dagli altri sguardi, poiché lo specchio mi mostra soltanto come io mi mostro a me stesso, cioè non solo invertito nello spazio, ma in scarto rispetto a me e in ritorno presso di me, ciò che precisamente è la condizione impossibile del corpo. Lo specchio mostra come una sorta di scorticatura, di ritorno vivo e subito perso – più morto del morto: vetrificato nella sottile profondità inconsistente del riflesso.

[Pistoletto, Il disegno dello specchio, 1979]

L’immagine al contrario, [cioè l’immagine dello specchio] disegno, pittura, scultura, foto, mostra me stesso a me stesso così come io mi conosco, cioè così come io mi sento, così come un altro si sente in me visto, avvistato, guardato dall’altro. Da un altro uomo o da un altro essere. Gli animali dipinti sulle pareti delle grotte e tra i quali non si vedono nessuno o pochissimi uomini non sono altro che altri sguardi che l’uomo mentre dipingeva sentiva posati su di sé: nel medesimo tempo questo bisonte mi guarda, poiché anch’esso è, come me, un «io» che guarda, e mi vede bisonte poiché è in esso che io mi vedo essere visto.

L’immagine, la pulsione d’immagine degli uomini risponde a questo: noi siamo sempre in uno sguardo relazionale [en regard]. Questa espressione che significa «di fronte» o «viso contro viso» - tutte espressioni costruite sul viso e la visione – sta a indicare qui che siamo sempre nel doppio sguardo che da una parte è il «nostro», dall’altra parte è quello di chi ci guarda e al quale il nostro sguardo indirizza sia la sua messa a nudo, sia la sua intensità visiva. Io sono visto vedendo, voglio vedermi visto, voglio divenire vedente del mio essere-visto.

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L’immagine è la traccia di una vista che ogni volta avvista e visiona l’impossibile: l’inaccessibile «essere in relazione al mondo» [en regard] in cui il mondo mi vede guardare. È sempre lo sguardo che viene abbagliato da se stesso Lo sguardo che ritorna a sé dall’inaccessibile fuori in cui è andato a perdersi. Il mio sguardo ritorna a me come la mia visione di un altro che porta alla luce la vista da fuori sulla mia propria vista: come essa si apre, si spalanca, si abbaglia, si acceca.

[Picasso, Figura]

I corpi umani si vedono come «umani», nel senso in cui l’intendiamo - vale a dire nel senso della conformazione e dell'anatomia della specie animale homo sapiens sapiens, solo nelle culture in cui il corpo è considerato come tale. Come sappiamo vi sono delle culture intere in cui sono presenti altri modi per designare le immagini [del corpo]: altre funzioni o altre pulsioni del corpo, altre immagini, dunque, in cui i corpi sono innanzitutto forze, segni, pensieri, operazioni.

Ma nelle culture per le quali il corpo è ‘avvistato’ come corpo della specie, la rappresentazione di questa morfologia – viso, busto e ventre, membra – è immediatamente compromessa se non confusa con le esigenze di un’intenzione che è tutt’altra rispetto all’intenzione zoologica. La mimesis è attraversata dalla ricerca di qualcosa d’altro rispetto alla conformità di un quadro rappresentativo. Né i corpi dalla statuaria greca, né quelli della pittura cinese dell’epoca degli Han sono delle rappresentazioni: essi formano delle immagini generate da intenzioni ogni volta proprie di una cultura nella quale il corpo del vivente è avvistato – si sente avvistato, desidera essere avvistato – secondo tale o tal altro aspetto: esso è grazia – quella grazia, ogni volta differente, quella curva greca, quell’ondulazione cinese – o forza, tensione, desiderio, prestanza. Diventa il “modello” di quello di cui precisamente crediamo ne vorrebbe essere la “rappresentazione”.

Quando, ben più tardi, la civiltà sembrerà tornare verso la rappresentazione inventando la fotografia, che inizialmente si lascia pensare come riproduzione fedele dell’impressione luminosa – dunque visibile – , l’intenzione visiva dei fotografi è anche immediatamente anch’essa avvistamento dell’avvistamento attraverso il quale il corpo è afferrato, toccato, sentito, avvicinato; la ripresa fotografica accentua anche il rapporto di ciò che è offerto alla vista – la foto – con l’intenzione che l’ha prodotta, perché esibisce, in qualche modo, il clic dell’occhio, gesto istante dello scatto, attraverso il quale l’obiettivo si apre e si chiude. In questo scatto, se sono io il fotografo, il mio occhio si vede, si sente e persino si commuove del fatto stesso che è il mio sguardo che si raddoppia e si espone in quanto macchina, camera,

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scatola nera in cui si trova messo in visione lo sguardo dell’altro (il suo sguardo o la sottrazione se non addirittura l’assenza del suo sguardo).

[Patellani, Anna Magnani n° 88.3.3]

Quindi, il corpo in pittura è sempre rivolto su verso se stesso, verso se stesso. È sempre corpo che si avvista, che si cerca, che si desidera e si teme in quanto è quell’assolutamente inconoscibile, quell’invisibile nascosto non soltanto dietro una camera o pennelli e matite, ma ancora più nascosto dietro se stesso, inaccessibile nella profondità senza dimensione di cui il corpo è la messa in vista.

È per questo che il corpo in pittura è sempre pittura di un’intensità di sguardo: non solo l’intensità degli occhi che a volte si perdono all’infinito fuori della cornice dell’immagine, a volte vogliono venire a fissarsi dritti nei nostri che li guardano, ma anche l’intensità dell’intero corpo, in quanto si sa o si sente dandosi a vedere.

Può avere coscienza di sé senza viso o come viso che non vede nulla davanti a sé, ma tutto all’interno senza spessore della superficie dipinta sulla quale appare. Può sentirsi tensione o torsione, estensione, massa invadente o traccia fugace. Ogni volta è un gesto del corpo e del pittore che fa apparire l’immagine, cioè la presenza vera di quell’assente che si proietta verso se stesso ritornando a sé per offrirsi come spettacolo, gioco di tratti o di macchie, disposizione di ciò che è effettivamente incorporato nel corpo che dipinge: non si tratta affatto di un corpo figurato, non è affatto una piccola rappresentazione del corpo, poiché precisamente il corpo non si rappresenta a se stesso, ma presenta il fatto che si presenta al fuori. Come si volge al fuori, come esso è questo fuori di «me» che non ha «dentro» salvo a farlo venire nell’immagine, come, in che maniera, su che tono, con quale sfumatura, ecco la posta in gioco della pittura, dell’arte in generale.

Quando Fautrier dipinge My fair Lady - il cui titolo rinvia chiaramente alla commedia musicale ideata lo stesso anno e che riprende l’argomento del Pigmalione di Bernard Shaw – può darsi che egli incorpori, sia dei ricordi visuali della scena sia degli elementi della favola, la quale racconta come una donna viene trasformata, modellata con una precisa intenzione, ma ciò che forma in realtà l’opera è tutta un’altra scena e un altro modellamento: lo spessore di materie pesanti (bianco di Spagna, olio), i cui strati visibilmente applicati gli uni sugli altri coinvolgono la visione di un corpo che allo stesso tempo ondeggia in uno spazio cosmico, simile a una galassia, e si deposita in sedimenti che la propria densità offre al toccare; [materie pesanti] che si pressano contro i nostri occhi come un ventre modellato su uno sguardo molto vicino, proteso su questo corpo, uno sguardo che si vede nel modo in cui un

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ventre può vederlo posato su di sé, letteralmente posato su, fino a diventare la sua pelle. Da ciò deriva che il quadro «rappresenta» tanto un corpo di donna quanto un occhio, o meglio ancora, una pura impressione colorata.

[Fautrier, My fair Lady]

Si comprende perché c’è una storia della rappresentazione del corpo all’interno della storia dell’arte europea: nel movimento che nasce dall’epoca della rappresentazione o della figurazione e che va oltre tutte le posture di uno sguardo guidato dal ritiro degli schemi di questa figurazione – le scene religiose, mitologiche, leggendarie o storiche – il corpo non si aspetta più di essere visto come il corpo dell’eroe, del dio o del principe. Esso si cerca come corpo anteriore a queste figure, esso si raffigura più immediatamente come corpo di pittore, come fonte delle immagini. Già Rembrandt fa sentire questo passaggio attraverso la serie degli autoritratti: ha inizio un nuovo interesse per le trasformazioni di ciò che non può essere contenuto in nessuna figura. È con Goya che la figura giunge fino alla defigurazione. Ma nel XIX secolo, si potrebbe dire che il corpo si cerca sempre di più come sa di essere visto, avvistato, ricevuto o rifiutato da un mondo che non dispone più né di figure, né di schemi, ma che si preoccupa, al contrario, sulla fragilità dei corpi, della loro instabilità se non addirittura della loro cancellazione. Là dove aveva potuto esserci una sorta di trasfigurazione generale in corpi canonici di prestanza, di santità o di sensualità, si tratta ormai di ispezionare uno sguardo che innanzitutto si pensa a fior di pelle, esposto a una crudezza di visione che le forme canoniche non rivestono più.

Ciò non è «più realista» - come saremmo pronti a dire : è più intimamente immerso in un’inquietudine, in una curiosità e in una interrogazione. Chiediamo meno di vedere come ci si fa vedere, chiediamo piuttosto come sia possibile venire alla luce, diventare visibili, e grazie a chi e per chi e come. L’invisibile – che certo era sempre in gioco in questa visibilità di sé – buca allora la figura e viene in superficie; dimentica, deforma o dissemina non solamente la figura e il viso, ma l’atto del guardare e il vedere stessi.

[Annette Messager, Mes voeux, 1988]

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Ecco ciò che significa presentarsi, venire al mondo, esporsi, essere e fare segno d’una esistenza; ecco ciò che significa dare nascita alle immagini: lasciarle venire dal più lontano, dal più isolato al fondo dello sguardo che cerca se stesso, sapendosi guardato da un mondo intero provvisto di milioni di apparecchi da vista, di visioni, di video che scavano tutti – forse disperatamente – in questa profondità da cui l’intimità si eccede essa stessa fino ad aprire in essa la notte di un universo senza immagini. Più immagini del mondo, in effetti, più visioni del mondo, più configurazioni disponibili rispetto a ciò che vedere vuol dire, e, di conseguenza, rispetto a ciò che essere visto comporta.

Restano, tuttavia, ostinatamente dei corpi che della loro propria notte fanno apparire dei bagliori di passaggio, così come essi stessi si percepiscono, passanti incessanti offerti agli sguardi delle stelle e dei buchi neri, corpi in relazione/guardati dal cosmo.

[Cindy Sherman, United Film Still 54]

Jean-Luc Nancy

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