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Quello che vorrei quindi è far ampliare la Zona a Traffico Limitato che, sebbe- ne ora protetta da varchi elettronici, è comunque poco ri- spettata; intensifica- re i controlli dei vi- gili per impedire la sosta selvaggia sulle strade del centro e soprattutto indire delle campagne di sensibilizzazione nelle scuole, in mo- do da far conoscere ad un maggior nu- mero di persone il vero valore di questa città . Federico M. Felici, IV A Classico Viterbo. Capoluogo di provincia della regione Lazio, sede di un centro storico medievale degno di nota, uno storico pa- lazzo papale e mol- tissime nonché im- portanti chiese, ma anche della trascura- tezza dei luoghi di interesse appena ci- tati e di molti altri. Viterbo è quella città in cui non si fa caso alla macchina che passa in mezzo alla folla del quartiere medievale di sabato sera; in cui le stesse macchine possono raggiungere qualsia- si punto del centro storico e parcheggia- re dove meglio cre- dono; in cui si igno- ra l'enorme patrimo- nio artistico e cultu- rale che la città pos- siede. Se solo si conosces- se anche solo la me- tà del valore di ciò che si ha, sicuramen- te la città verrebbe trattata con maggior rispetto dagli stessi cittadini. Il problema risiede nell'assenza di mezzi per diffondere la co- noscenza di tutto ciò: io, cittadino co- mune, non vengo informato né istruito sulla mia città, sulle sue origini e sulla sua importanza e quindi non sono por- tato a valorizzarla come merita. Le conseguenze so- no negative, e la gente non se ne ac- corge, o comunque finge di non farlo. L'INCURIA DEL CENTRO STORICO LICEO GINNASIO STATALE MARIANO BURATTI MARZO 2017 A N N O S C O L A S T I C O 2016-2017 N U M E R O 3

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Quello che vorrei quindi è far ampliare la Zona a Traffico Limitato che, sebbe-ne ora protetta da varchi elettronici, è comunque poco ri-spettata; intensifica-re i controlli dei vi-gili per impedire la sosta selvaggia sulle strade del centro e soprattutto indire delle campagne di sensibilizzazione nelle scuole, in mo-do da far conoscere ad un maggior nu-mero di persone il vero valore di questa città . Federico M. Felici, IV A Classico

Viterbo. Capoluogo di provincia della regione Lazio, sede di un centro storico medievale degno di nota, uno storico pa-lazzo papale e mol-tissime nonché im-portanti chiese, ma anche della trascura-tezza dei luoghi di interesse appena ci-tati e di molti altri. Viterbo è quella città in cui non si fa caso alla macchina che passa in mezzo alla folla del quartiere medievale di sabato sera; in cui le stesse macchine possono raggiungere qualsia-si punto del centro storico e parcheggia-re dove meglio cre-dono; in cui si igno-ra l'enorme patrimo-nio artistico e cultu-

rale che la città pos-siede. Se solo si conosces-se anche solo la me-tà del valore di ciò che si ha, sicuramen-te la città verrebbe trattata con maggior rispetto dagli stessi cittadini. Il problema risiede nell'assenza di mezzi per diffondere la co-noscenza di tutto ciò: io, cittadino co-mune, non vengo informato né istruito sulla mia città, sulle sue origini e sulla sua importanza e quindi non sono por-tato a valorizzarla come merita. Le conseguenze so-no negative, e la gente non se ne ac-corge, o comunque finge di non farlo.

L'INCURIA DEL CENTRO STORICO

L I C E O

G I N N A S I O

S T AT A L E

M A R I A N O

B U R AT T I

M A R Z O 2 0 1 7

A N N O S C O L A S T I C O 2016-2017

N U M E R O 3

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P A G I N A 2 Violenza di genere: Sono

veramente le donne il sesso debole?

Ci sono uomini che

credono che la don-

na sia un oggetto e

che pertanto posso-

no trattarla come

tale, a mio avviso chi

ragiona così, oltre a

non potersi definire

“uomo”, non può

neanche definirsi un

essere umano, per-

ché chiunque privi

un individuo della

sua libertà persona-

le, che sia un uomo o

una donna, in una

maniera o nell’altra,

evidentemente è

privo del valore dell’

humanitas!

La "Dichiarazione

sull'eliminazione del-

la violenza contro le

donne" del 1993

all'art.1, descrive la

violenza contro le

donne come:

« Qualsiasi atto di vio-

lenza per motivi di ge-

nere che provochi o

possa verosimilmente

provocare danno fisi-

co, sessuale o psicolo-

gico, comprese le mi-

nacce di violenza, la

coercizione o privazio-

ne arbitraria della li-

bertà personale, sia

nella vita pubblica che

privata. »

Ma le leggi sono suffi-

cienti a fermare questo

gravissimo fenomeno?

In questi ultimi anni pur-

troppo i casi di violenza

sulle donne sono au-

mentati, quindi oltre a

dover essere divulgate e

conosciute queste leggi

vanno condivise e fatte

proprie fino in fondo

affinché sortiscano gli

effetti desiderati!

Il 25 novembre è la gior-

nata mondiale contro la

violenza sulle donne.

Questa data fu scelta in

ricordo del brutale as-

sassinio nel 1960 delle

tre sorelle Mirabal con-

siderate esempio di

donne rivoluzionarie per

l'impegno con cui tenta-

rono di contrastare il

regime di Rafael Leoni-

das Trujillo (1930-1961),

il dittatore che tenne la

Repubblica Dominicana

nell'arretratezza e nel

caos per oltre 30 anni. Il

25 novembre 1960, in-

fatti, le sorelle Mirabal,

mentre si recavano a far

visita ai loro mariti in

prigione, furono blocca-

te sulla strada da agenti

del Servizio di informa-

zione militare. Condotte

in un luogo nascosto

nelle vicinanze, furono

torturate, massacrate a

colpi di bastone e stran-

golate, per poi essere

gettate in un precipizio,

a bordo della loro auto,

per simulare un inciden-

te. I primi Centri antivio-

lenza sono nati in Italia

solo alla fine degli anni

novanta ad opera di as-

sociazioni di donne pro-

venienti dal movimento

femminile. Ad oggi sono

vari i centri di supporto

psicologico per le donne

che hanno subito mal-

trattamenti, ma che

hanno avuto la forza di

sporgere denuncia e che

si sono così salvate da

un destino ancor più

terribile.

Nel 2006, l'ISTAT ha ese-

guito un'indagine per

via telefonica su tutto il

territorio nazionale, rac-

cogliendo i seguenti ri-

sultati:

Le donne tra i 16 e i 70

anni che dichiarano di

essere state vittime di

violenza, fisica o sessua-

le, almeno una volta

nella vita sono 6 milioni

e 743 000, cioè il 31,9%

della popolazione fem-

minile; considerando il

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P A G I N A 3 A N N O S C O L A S T I C O 2 0 1 6 - 2 0 1 7

Il 14,3% delle donne affer-

ma di essere stata oggetto

di violenze da parte del

partner: per la precisione, il

12% di violenza fisica e il

6,1% di violenza sessuale.

Del rimanente 24,7%

(violenze provenienti da

conoscenti o estranei) si

contano 9,8% di violenze

fisiche e 20,4% di violenza

sessuale. Per quanto riguar-

da gli stupri, il 2,4% delle

donne afferma di essere

stata violentata dal partner

e il 2,9% da altre persone.

Il 93% delle donne che

afferma di aver subito vio-

lenze dal coniuge ha dichia-

rato di non aver denunciato

i fatti all'Autorità; la percen-

tuale sale al 96% se l'autore

della violenza non è il part-

ner.

La violenza assistita e gli

effetti sui bambini

In un contesto di continue

violenze subentrano mecca-

nismi di sottomissione per

la sopravvivenza che sono

anche esempi deleteri per

un corretto sviluppo psicofi-

sico dei figli, infatti un mino-

re che è vissuto in un am-

biente in cui ha visto usare

violenza; potenzialmente da

grande userà violenza a sua

volta.

« I bambini sono vittime

perché sono lì e non ac-

cettano di dissociarsi dal

genitore preso di mira. Te-

stimoni di un conflitto che

non li riguarda, incassano

tutta l'ostilità destinata

all'altro genitore. [...]. Si

tratta di un trasferimento

dell'odio e della distruttivi-

tà. Di fronte alla denigrazio-

ne permanente di uno dei

genitori da parte dell'altro,

ai bambini non resta che la

possibilità di isolarsi. Perde-

ranno così ogni possibilità di

individuazione o di pensiero

autonomo » (Marie-France

Hirigoyen)

Ai testimoni di violenza vie-ne negato quel tipo di vita familiare che favorisce un sano sviluppo. Essi convivo-no con paura e ansia, mista a rabbia, imbarazzo e umi-liazione. Sono sempre in guardia, in attesa che il prossimo evento si verifichi. Non avendo possibilità di prevederne i tempi, non si sentono mai al sicuro, si preoccupano per se stessi, per la loro madre, e per i fratelli e sorelle. La rabbia è rivolta non solo verso l'abu-sante ma anche verso la madre, colpevole di non essere in grado di prevenire la violenza. Si sentono inuti-li, impotenti e spesso re-sponsabili degli scontri fra i genitori. Quasi sempre sono tenuti a mantenere il segre-to di famiglia. Si sentono isolati e vulnerabili, abban-donati fisicamente ed emo-tivamente, sono in cerca di attenzione, affetto e appro-vazione; il loro attaccamen-to ? è danneggiato e sono

incapaci di provare fiducia. Se esposti a fonti di stress molto intense, possono svi-luppare un disturbo da stress post traumatico. Spesso presentano disturbi del sonno, mancanza di concentrazione con scarso rendimento scolastico, mal di stomaco e/o mal di testa, enuresi, tristezza, depres-sione e rabbia. Possono ve-rificarsi ritardi di sviluppo, riduzione delle capacità co-gnitive e la sindrome da deficit di attenzione e ipe-rattività.

Ilario Pasculini, III A Classico

le sorelle

Mirabal

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dei suoi principali utilizzi è

quello funerario. Un nastro

particolarmente stretto strin-

ge dunque la maschera attor-

no al teschio della morte.

Quella di Sileno, ad esempio,

è un terribile memento mori.

Nella letteratura gotica e

grottesca è un topos ricorren-

te: emblematici in tal senso

sono racconti di Edgar Allan

Poe quali la Maschera della

Morte Rossa o Il barile di

Amontillado; in quest’ultimo

la trama di una macabra ven-

detta si dipana durante il car-

nevale veneziano.

Le maschere e la morte James Ensor ritrae la vanità,

l’ipocrisia e i vizi attraverso il

colorato mondo delle maschere

Eppure per millenni essa ha

avuto funzione divina e apo-

tropaica. Gli uomini primitivi

ritenevano che la sede dello

spirito fosse il volto e attra-

verso la maschera operavano

la propria trasfigurazione.

Nelle religioni antiche colui

che indossava la maschera

solo stupro, la percentuale è

del 4,8% (oltre un milione di

donne).

Si prenda una comune ma-

schera. Tutti ne abbiamo in

casa almeno una, veneziana

magari. La si prenda dunque

e la si guardi bene. Si potreb-

be ridurre ogni osservazione

ad un’unica considerazione:

non ha occhi. Ebbene, solo

due occhi lascia scoperti al

mondo. Rivela, celando il su-

perfluo, la reale essenza di

chi la indossa. E il superfluo

dell’uomo sono i tratti soma-

tici, le espressioni mutevoli,

le lacrime ed egualmente la

gioia. A questo punto il letto-

re, esaminando la maschera

che ha dinnanzi, potrebbe

obbiettare che la sua è farse-

sca, sorride, oppure che è un

Pierrot piangente. Ma quelle

non sono espressioni. Sono

sorrisi arcaici, ghigni sacri,

pianti coturnati. I Romani la

chiamavano “persona” forse

dal latino “per-sono”, perché

serviva ad amplificare la voce

dell’attore. Allo stesso modo

essa amplifica le realtà inte-

riori immutabili e imperiture.

Ma per comprendere ciò si

devono compiere alcuni passi

indietro, danzando.

La maschera è spesso asso-

ciata alla dissimulazione, a

sotterfugi e nefandezze. Lo

stesso termine “maschera”

derivante dal germanico

“maska” in latino medievale

assume il significato di

spettro, essere demoniaco e

strega. Da sempre poi uno

rituale perdeva la propria

identità per trasformarsi in

un tramite tra gli uomini e il

mondo soprannaturale. Alle

volte la maschera stessa era

epifania, cioè manifestazione

della divinità, come nei culti

dionisiaci.

Affascinante è dunque il dua-

lismo della maschera; la ten-

sione, la potenza che si prova

nell’indossarla è data da un

contrasto inesorabile di forze.

Una che spinge verso l’alto,

verso il cielo, verso le verità

ultime, e l’altra che àncora

alla nuda terra e fa sprofon-

dare al suo interno. È cava

da un lato, per accogliere e

proteggere l’incertezza uma-

na, ma è al contempo protesa

verso l’esterno, per imporsi

sul mondo.

Ma soprattutto la maschera è

ricerca, è verità. Grazie ad

essa si indaga il proprio io più

recondito e lo si esterna. La

maschera è protagonista del

romanzo novecentesco Dop-

pio sogno di Schnitzler. L’au-

tore, che incuteva rispetto e

timore allo stesso Freud, ana-

lizza con il tema della ma-

scherata l’ambiguità e l’infe-

deltà coniugale attraverso un

processo iniziatico che porta

all’acquisizione di consapevo-

lezze rinnovate.

“L'uomo è meno se stesso quando parla in prima perso-na. Dategli una maschera e vi dirà la verità” afferma a ra-gione Oscar Wilde. Consci di questo, adesso

prendete quella maschera

Su la maschera!

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vostra per anni, comprata chis-sà dove e appesa per decorare la stanza. Ponderate i suoi vo-lumi, i suoi colori, sentite al tatto la sua consistenza. Bacia-tela addirittura, ricongiungetevi al vostro io profondo. Ora indossatela. Siate voi stessi. Maria Elena Carlomagno, III C

Classico

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Datti all’ippica!

“Datti all’ippica” se non sai

fare altro, tanto è facile! Pren-

di una rivista di equitazione,

leggila attentamente: ora sì,

sai andare a cavallo e gli in-

gredienti per il successo non

sono più un segreto per te.

Hai visto manti lucidati, ani-

mali tranquilli, performance

perfette e stivali puliti. Sei

sicuro che funzioni davvero

cosi?

Come succede in molti conte-

sti, anche nell’equitazione ciò

che comunemente si conosce

è solo la punta dell’iceberg.

Dietro ad un risultato, positi-

vo o negativo che sia, non ci

sono solo tanto lavoro e tanto

tempo, ma soprattutto la sin-

tonia che si crea tra un cava-

liere e il suo cavallo. Infatti i

requisiti fondamentali per

praticare bene questo sport

sono la pazienza e l’umiltà.

Un bravo cavaliere è colui che

riesce a pensare per due, che

mette da parte il suo punto di

vista per calarsi nei panni

dell’animale. Solo con l’abilità

di capire cosa passi per la te-

sta di un cavallo si può stabili-

re un rapporto positivo con

lui, con l’esperienza si acquisi-

sce la capacità di spiegare i

suoi comportamenti e preve-

nire le sue reazioni. L’equita-

zione si può sintetizzare in un

dialogo: un continuo alternar-

si di domande e risposte poi-

ché ad ogni azione del cavalie-

re corrisponde una reazione,

più o meno tempestiva e cor-

retta, in base all’esperienza

acquisita, da parte del cavallo.

Per questo è importante esse-

re sicuri di compiere le varie

azioni nel modo corretto: non

si può dare la colpa all’anima-

le se non risponde bene ad

una richiesta formulata male.

Così potrebbe quasi sembrare facile, ma non si può sempli-cemente prendere un cavallo e impartire ordini: la pazienza di ascoltare ciò che l’animale ha da dirci è uno degli ele-menti principali per la forma-zione di un binomio. Il cavallo, nella sua natura silenziosa, invia continui messaggi attra-verso minime azioni che solo un cavaliere esperto è in gra-do di percepire e comprende-re. Questi importanti scambi di informazioni sono alla base dell’equitazione, insieme alla costanza, indispensabile per ottenere dei risultati, e alla tecnica, che dalla costanza deriva. Perciò la famosa frase citata

precedentemente deve esse-

re completata: “datti all’ippi-

ca, se hai coraggio”! Perché a

cavallo non si sta con una te-

sta, ma con due.

Ludovica Rosella, III A Classi-

co

Piero e Raimondo D’Inzeo, i fratelli invincibili dell’equitazione

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Il carnevale è una festa parti-colare. Si celebra in tutti i paesi di tradizioni cattolica. I festeggiamenti si svolgono molto spesso con delle para-te o delle sfilate di carri. L'e-lemento caratteristico di que-sta festa è l'uso delle masche-re: esempio più celebre è probabilmente il carnevale di Venezia, dove le stravaganti maschere caratterizzano que-sto periodo. La parola "carnevale" deriva dal latino "Carnem levare" (togliere la carne) , poiché indicava il banchetto che si teneva l'ulti-mo giorno di carnevale,

ovvero martedì grasso, prima del periodo di astinenza e digiuno della quaresima. I festeggiamenti maggiori av-vengono il giovedì grasso e il martedì grasso, ovvero l'ulti-mo giovedì e l'ultimo martedì prima della quaresima. Uno degli aspetti più caratte-ristici è sicuramente quello della cucina. A carnevale so-no molti i dolci che troviamo sulle tavole degli italiani. In ogni più remoto angolo del belpaese si nascondono mi-gliaia di delizie che non tutti conoscono. In questo articolo parleremo delle specialità

della Tuscia, zona sicuramen-te molto ricca in ambito culi-nario. A carnevale sono prin-cipalmente due i dolci che si possono trovare: le castagno-le, delle piccole palline di un impasto a base di farina, uova e zucchero, e le frappe, stri-sce di pasta dolce con zuc-chero, uova, limone e zucche-ro a velo. Un dolce che tutta-via in pochi conoscono ed è proprio tipico della Tuscia sono i frittelloni, volgarmente definiti fregnacce, che sono degli involtini arrotolati simili a delle crêpes, che si differen-ziano da quest'ultime per alcuni ingredienti. I frittelloni sono fatti con uova, farina, ovviamente acqua e un pizzi-co di pecorino, che aggiunge sapore al tutto. In conclusione, possiamo dire che nell'ambito culinario il periodo carnevalesco è ricco di soddisfazioni per gli amanti della tavola, che danno sfogo a tutti i loro peccati di gola in questo lasso di tempo prima della quaresima. Leonardo Santini, III A Classico

Carnevale a tavola