n. 26 La Bella Politica
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ANNO VII NUM.26S t o r i e d a l l e c i t t à d i f r o n t i e r a
ottobre‐novembre 2012
La Bella PoliticaLa Bella Politica
CASABLANCA N.26/ ottobre – novembre 2012/ SOMMARIO
Casablanca pagina 2
“A che serve vivere se non c’è
il coraggio di lottare?”
Giuseppe Fava
4 – Natya Migliori Giovannella la nostra candidata
6 – Graziella Proto Maria C. Lanzetta, “stai a casa e fai la mamma”
10 - Angelo Vassallo – la bella politica Simona Mazzeo
13 – Ilaria Ramoni Lombardia metafora della ‘ndrangheta
16 - Lazio, Regione Imperiale Fabio Nobile
18 – Francesca Chirico Chiesa, ‘ndrangheta…
21 – Sughereta e MUOS? Antonio Mazzeo
24 - Giovanna Regalbuto Mineo, una festa al c.a.r.a.
27 – Il gabbio Lampedusa Fulvio Vassallo Paleologo
30 – Gianni Lannes Democrazia derubata
32 – Franca Fortunato Giuseppina Pesce
35 – Rosita Rijtano Gocce che scavano il marmo
37 - Cynthia Rodriguez La Rivoluzione? – giornalisti in Messico
40 – Mara Bottini Bernaw Kefah
43 - Palermo in bicicletta Daniela Gambino
45 - Diario della Pioggia Gianni Allegra
46 –Gianni Lannes Il Grande Fratello
47 – Annalusi Rapicavoli Live to stay alive: la Sicilia che si sente
49 - Lettere
Casablanca – Direttore Graziella Proto – [email protected] Redazione tecnica: Nadia Furnari e Vincenza Scuderi Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org/casablanca
Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Riccardo Orioles
Editoriale – mensile
Alla ricerca della rotta smarrita Così parlò Pippo Fava
Casablanca pagina 3
Parole profetiche? Premonitrici?
Una verità, anche quando in modo
buonista sosteniamo che sì il voto
di tanta gente non è un voto libero.
È sotto ricatto: bisogno, miseria,
nuove forme di povertà. Tuttavia i
rivoli del ricatto elettorale
abbracciano anche un non bisogno,
ambizioni, affari, carriere.
Gli ideali sono in coma, l’ideologia
alla gogna. La maggior parte della
politica magna, magna…spende e
spande, organizza “feste eleganti
senza sesso”, oppure lunghe e
costose crociere regalate dagli
amici… La grande ammucchiata?
Colpa della legge elettorale. Le
porcate sui più deboli? In nome e
per conto dell’Europa. Gli aumenti
esagerati dei rappresentanti
istituzionali? Votati all’unanimità.
Opposizione? Piccolissima, manco
si avverte.
C’è dell’altro. Una cosa grave, il
cosiddetto “voto utile”. Ma sai -
provi a dire - gli ideali… ti si
risponde che sei una nostalgica,
impastata di ideologie. Vale a dire,
rischi il rogo come le streghe.
Dimenticando perfino che,
ideologia vuol dire concezione del
mondo, concezione della vita,
dottrina, scuola, pensiero, filosofia.
Insomma, un pacchetto di valori,
ideali, progetti e proposte per un
mondo più giusto. Più bello. Nulla.
L’unica strategia, l’unico ideale, è
vincere. A quale prezzo? Con
quale Progetto? Soprattutto, con
chi? Ovvio, con tutti coloro che
hanno contribuito a creare lo
sfacelo.
Si dice “essere moderni” e
parecchi ci credono. NOI NO!
***
“I mafiosi stanno in
Parlamento, i mafiosi a volte
sono ministri, i mafiosi a volte
sono banchieri. I mafiosi sono
quelli che in questo momento
stanno ai vertici della nazione”. Era la fine del 1983. Giuseppe
Fava così rispondeva a Enzo Biagi
che lo intervistava. Dopo una
settimana lo ammazzarono.
La regione Lazio e la regione
Lombardia (e prima ancora la
Sicilia), ci raccontano che la mafia
è dentro le istituzioni, eppure non
riusciamo a ribellarci. Ci si
accontenta di uno, pochi, che
finiscono in galera… che poi
escono e si ricandidano.
Il garantismo… Il terzo livello di
giudizio… Bisogna accertare i
fatti… E se capitasse a noi…Sì,
ma è un fenomeno trasversale.
Trasversale a che? A chi? Tutto
questo denaro rubato da tesorieri
di partiti, capigruppo, semplici
onorevoli deputati o senatori, era
della comunità, sarebbe servito
per il paese.
Chi sta pagando col sangue la
crisi? Monti con quali classi
sociali recupera? Su chi
risparmia?
Non vedo la giusta
indignazione. Non vedo le
monetine buttate in faccia
all’uscita dell’albergo. Non vedo
la rabbia. Non ci si incazza.
L’assurdo e l’impensabile si
fondono: Molti oppressi,
guardano a destra, forse
fidandosi, forse lasciandosi
comprare. Quelli che sanno tutto,
si inerpicano in ragionamenti del
tipo “Sono piccole cifre. Un
aereo F 35? I soldi rubati? Gli
sprechi? Non risolverebbero il
problema del paese”. Come si
risolve allora, prelevando dai
poveri ? Derubandoli e
defraudandoli in termini
economici e in termini di servizi?
Questa grande quantità di denaro
sottratta, di sicuro avrebbe
alleggerito i sacrifici, reso più
leggero il peso della crisi. Dato
servizi. Abbassato le tasse. Far
sopravvivere i piccoli
commercianti e i loro negozi. Far
respirare i piccoli comuni.
Insomma questa barca di denaro
a qualcosa sarebbe servita. Non
diciamo cazzate.
“Amico mio, chissà quante volte tu hai dato il voto a un uomo politico
corrotto, ignorante e stupido, solo perché una volta al potere ti poteva
garantire una raccomandazione, la promozione a un concorso,
l’assunzione di un tuo parente, una licenza edilizia di sgarro. Così
facendo tu e milioni di altri cittadini italiani avete riempito i parlamenti
e le assemblee regionali e comunali degli uomini peggiori, spiritualmente
più laidi, più disponibili alla truffa civile, più dannosi alla società. Di
tutto quello che accade oggi in questa nazione, la prima e maggiore
colpa è tua". (Giuseppe Fava 1983)
È donna della FIOM … noi la votiamo
Casablanca pagina 4
Giovannella,
la nostra candidata
Trasformiamo le risorse
in FUTURO Natya Migliori
Ogni donna è figlia, madre, moglie, professionista, sindacalista. Dentro di me sento l’intima
consapevolezza di essere ognuna di queste donne e di volerle rappresentare e contrapporre ad
una politica che, finora, non le ha affatto valorizzate. Cinquantatré anni, molto carina,
garbata, targata FIOM Giovannella - come la chiamano qui a Catania i suoi vecchi amici - ha
risposto all’emergenza elettorale della coalizione Fava con spirito di servizio. Ma anche
perché aveva già sposato il programma, le idee, le ambizioni. Una candidatura debole?
Attualmente presidente del Comitato Centrale della FIOM, è stata la prima donna in Sicilia a
rivestire la carica di segretaria regionale del sindacato dei metalmeccanici. Da venticinque è
sempre stata in strada assieme ai lavoratori, a combattere battaglie durissime quali per
esempio quella di Termini Imerese. Vi pare poco?
“Sono di corsa, vado a Catania
per una conferenza”.
Ha il tono trafelato di chi è
travolta dagli impegni, Giovanna
Marano, leader della FIOM
candidata alla presidenza della
Regione Sicilia da Idv, Sel, Verdi,
FdS e Altra Storia dopo il ritiro di
Claudio Fava a causa di un “vizio
di forma”: una residenza trasferita
troppo tardi in “madrepatria”.
Mentre c’è chi grida al complotto,
chi punta il dito contro
l’imperdonabile distrazione
dell’europarlamentare e chi
ironizza “non sa neanche dove sta
di casa”, suggerendogli di
comprare un navigatore, la
proposta per la candidatura
giunge inaspettata alla
sindacalista. Che non se la sente
di rifiutare.
“Dopo i primi momenti di
assoluto stupore - mi confessa -
tutto sommato è stato semplice
decidere. Come quando ti
chiamano da casa per dirti che c’è
un’emergenza. Dopo lo
sbigottimento iniziale, non puoi
fare a meno di correre in soccorso
e provare a risolvere il problema.
Mi ha spinto in altre parole lo
spirito di servizio, che sta alla
base dell’unica politica in cui
credo. E della sola che potrà
seriamente rimarginare la
spaccatura con la società”.
Classe 1959, Giovanna Marano,
attuale presidente del Comitato
Centrale della FIOM, è stata la
prima donna in Sicilia a rivestire
la carica di segretaria regionale
del sindacato dei metalmeccanici.
Una carriera di lotte in strada,
lontana dagli uffici, il più
possibile vicina agli operai.
“Sono una donna - si legge sul
suo profilo Facebook- che ha
vissuto e lavorato prima nella
sanità e poi sul fronte sindacale
dove per venticinque anni sono
stata al fianco dei lavoratori nelle
battaglie più dure, tra cui quella
durissima di Termini Imerese. Da
lavoratrice e da sindacalista ho
potuto toccare con mano come
questa regione abbia sperperato
denaro e non abbia mai saputo
affrontare il bisogno di una vita
migliore”.
È donna della FIOM … noi la votiamo
Casablanca pagina 5
Gli anni all’interno della sigla
CGIL/FIOM la portano però
oggi ad una scelta partitica
diversa rispetto alle colleghe
di sindacato Mariella
Maggio e Concetta Raia,
confluite nella lista PD di
Rosario Crocetta. Qualcuno
ha già gridato alla frattura.
È un rischio reale? “Tengo innanzitutto a
precisare che da tempo ho
abbracciato il progetto politico
di Fava.
Al di là di ciò, la CGIL è sempre
stata una forza sindacale, e non
politica, fortemente caratterizzata
dal pluralismo di idee. Guai se
non fosse più così. Io non sento
nessuna rivalità nei confronti
delle colleghe e non vedo nessuna
spaccatura. Si tratta solo di scelte
divergenti, dettate da un retroterra
e da esperienze differenti. Tutto
qui”.
L’attività sindacale l’ha
particolarmente impegnata sul
fronte della disoccupazione.
Qual è, secondo lei, la situazione
oggi in Sicilia? Quali le
soluzioni? “Stando al fianco degli operai di
Termini Imerese, soprattutto
nell’ultimo decennio, mi sono
resa conto che anni di malgoverno
hanno ridotto la Sicilia senza un
mercato, senza una seria politica
industriale e senza finanziamenti
che possano consentire la
sopravvivenza stessa delle
imprese.
Se negli anni Sessanta
l’industrializzazione nazionale è
partita proprio da noi, adesso ci
troviamo ad essere la prima
regione deindustrializzata.
Ma i paradossi siciliani non
finiscono qui - aggiunge -. Mentre
ben cinque raffinerie e due
metanodotti attraversano, infatti,
il nostro territorio, continuiamo a
pagare più cari delle altre regioni
d’Italia il gas e la benzina. Sono
io allora a farle una domanda:
perché?
In Sicilia manca la spinta,
mancano la volontà e la capacità
di dare impulso all’economia e
all’occupazione, anche attraverso
la promozione dell’industria”.
Al pari dell’Ilva di Taranto,
però, anche in Sicilia
industrializzazione è sinonimo
di cancro, leucemie e
malformazioni. Basti pensare al
“polo della morte” Augusta-
Priolo-Melilli. “Certo. In nome del ‘miracolo
industriale’ la Sicilia ha subìto
veri e propri scempi ambientali
che hanno inevitabilmente posto i
lavoratori di fronte al ricatto
salute o lavoro.
Io sono stata nominata solo da
pochi giorni e non ho ancora un
programma definito.
Ma parto dalla convinzione che
un governo che pensi al futuro di
questa regione debba pensare ad
un’utilizzazione responsabile
delle risorse e ad una produzione
ecosostenibile. La politica
seria non deve mai più
permettere scempi e
ricatti, ma trasformare le
risorse in futuro”.
In passato ha avuto
modo di scrivere che la
Sicilia può essere salvata
dalle donne. Ne è ancora
convinta? E cosa può
salvare le donne in Sicilia?
Quali le sue proposte
rispetto alla disoccupazione
femminile?
“Credo ancora moltissimo nel
ruolo che le donne possono avere
per creare una Sicilia nuova.
Ognuna di noi è figlia, madre,
moglie, professionista,
sindacalista. Dentro di me sento
l’intima consapevolezza di essere
ognuna di queste donne e di
volerle rappresentare e
contrapporre ad una politica che,
finora, non le ha affatto
valorizzate.
Le mie due figlie, Martina e
Roberta, vivono fuori perché qui
non sono riuscite a trovare valide
opportunità di lavoro. Ebbene,
sono convinta che un’ipotesi
politica che guardi veramente allo
sviluppo debba offrire alle donne
la possibilità di realizzarsi nella
loro terra. Il fenomeno delle
famiglie monoreddito in Sicilia,
d’altronde, costituisce per la
nostra economia una vera e
propria piaga. Come si può
pensare di risanarla continuando a
prescindere dall’occupazione
femminile?”.
Lei parla spesso di “politica
seria”. Ma che cos’è oggi, in
Sicilia, la politica seria? “È il tentativo coscienzioso e
cosciente di rappresentare ed
ascoltare tutte, ma proprio tutte, le
istanze di quanti vogliano
spendersi per il benessere
generale e la collettività”.
Una calabrese siciliana
Casablanca pagina 6
“Stai a casa e
fai la madre”
La bella politica
Graziella Proto
A Monasterace c’era il caos, poi venne eletta Maria
Lanzetta che si impegnò a dare una sterzata legalitaria.
Una donna, la novità, la legalità… tutti dimenticarono
che il comune, in passato, era stato sciolto per
infiltrazioni mafiose. Ma non durò a lungo. Nell’ultimo
anno Monasterace, in provincia di Reggio Calabria, è stato teatro di diversi attentati di
’ndrangheta, rivolti sopratutto verso la sindaca Lanzetta e la sua giunta. I Motivi? Solo
sospetti, dice la sindaca e tutti politici. Qualcuno bisbiglia, doveva lavorare solo la cosca
Ruga che secondo la DIA “aveva il controllo totale degli appalti delle opere pubbliche a
Monasterace, qualsiasi servizio, dovevano svolgerlo loro direttamente o imprese
riconducibili alla consorteria criminale”.
“Non sono un sindaco antimafia”
“Ho bisogno di sentirmi uguale a
chi vive a Genova, a Padova…
Sono calabrese ma sono
italiana… La Locride è povera e
soffre perché ci tolgono le scuole,
non ci sono investimenti…”.
Parla sottovoce, a volte abbassa
gli occhi. Le parole si susseguono
frettolosamente, come se temesse
di non riuscire a dire tutto.
Fragile? Timida? Decisa. Maria
Lanzetta è decisa a portare a
compimento il suo secondo
mandato di sindaca di Mona-
sterace. Nonostante tutto.
Visino pulito, minuta di corpo,
gracile. Esile ma, fortissima.
Occhi vispi, intelligenti, di quelli
per cui non c’è bisogno di parole.
Sorriso dolce, fare cortese.
Riservata, discreta, schiva, mo-
desta, Maria ha 57 anni, marito
insegnante, due figli laureandi.
Una solida famiglia di origine alle
spalle. Farmacista benestante non
ritira neppure l’indennità di
sindaca, preferisce illuminare le
strade, fare lavori di manu-
tenzione e tante altre piccole
LE MANI SULLA CITTÀ
Ruga Benito Vincenzo Antonio storico patriarca della cosca omonima, a Monasterace era il padrone del paese,
poi nel 1993 è stato condannato all’interno dell’operazione “Stilaro”. Dal carcere però ha continuato la sua
specializzazione cioè tenere in scacco la cittadina. Le mani sulla città per dirla con uno slogan, che significava
monopolio assoluto sugli appalti pubblici. Direttamente o, indirettamente da quando è in galera. Dalle varie
operazioni degli inquirenti, risulta determinante la complicità del responsabile dell’ufficio tecnico, Vito
Micelotta, che durante l’amministrazione di Maria Lanzetta per assicurare al Ruga la conclusione dei contratti
ha dovuto dare permessi e autorizzazioni all’insaputa della sindaca. Poverino! Anche Micelotta come Ruga,
già nel 1993 era finito dentro le inchieste giudiziarie, “Stilaro 1” e “Stilaro 2” ma era stato assolto. Con
l’operazione Village del 2010 prima va in galera e poi agli arresti domiciliari.
Una calabrese siciliana
Casablanca pagina 7
grandi cose che servono per il
paese da lei amministrato. In
questo periodo è più che mai
arrabbiata per ciò che succede in
altre regioni e in altri comuni. Lei
in fondo non ha mai pensato di
fare grandi opere. Lei pensa a
cose molto normali “… la
possibilità di scrivere nuove
regole per il territorio, piano
regolatore, progetto spiagge,
recupero del centro storico, opere
pubbliche. Senza grandi spese”.
Ha dato fastidio che non volesse
grandi spese o che volesse
riscrivere le regole? Il progetto
spiagge o il recupero del centro
storico? Certamente questa
piccola gracile donna ha fatto uno
“sgarro”. A chi? Perché la
minacciano? Perché le hanno
incendiato la farmacia, sparato
contro la sua macchina? Chi le fa
recapitare a casa biglietti con su
scritto “Resta a casa a fare la
madre”? Tanti interrogativi ai
quali lei non dà risposte, c’è
un’indagine in corso ripete.
SINDACHE CHE DANNO
FASTIDIO ALLA
’NDRANGHETA
Siamo nella Locride, dove miserie
umane, riti arcaici, ritorsioni, la
fanno da padrone. Dove è facile
sparare alla macchina della
sindaca, o appiccare fuoco alla
sua farmacia. O alla macchina di
una sua consigliera comunale di
fiducia. Eppure in questa parte
della Calabria, in questo momento
per certi versi si sta vivendo un
periodo splendido. Tanti piccoli
comuni sono amministrati da
donne e le giunte sono fatte da
giovani donne e giovani uomini.
Sindache impegnate, decise,
preparate. Coraggiose. Sindache
protette dalla scorta perché
probamente hanno pestato i piedi
a qualcuno. Loro le ostriche e lo
champagne non li mettono in
conto, non sono previsti. Le loro
sono cene familiari, con i parenti
o gli amici. Nelle loro abitazioni o
il ristorante sotto casa. La loro
vita è a rischio per pochi spiccioli,
perché di soldi queste sindache ne
vedono pochi o per nulla. Sprechi,
ostriche, cozze pelose, festini? Da
queste parti suonano come
bestemmie, come si suole dire
fanno uscire di testa. Sono per il
rigore e la legalità perciò hanno
dato fastidio alla ’ndrangheta (o
chi per essa), che ha reagito con
rabbia. Minacce, incendi,
messaggi.
Si sono arrese? Sono tornate alle
loro attività professionali? NO.
Hanno accettato la scorta,
mantengono l’incarico e vanno
avanti. A Locri in questi giorni
grazie alle sindache di
Monasterace, Rosarno,
Decollatura, Capo Rizzuto, si è
svolta la due giorni Anci -
Legalità e Sviluppo nel Sud - un
convegno con la partecipazione di
tanti sindaci venuti da fuori. Un
segnale forse, un modo per dire
che c’è attenzione verso questi
comuni?
***
Monasterace è un piccolo comune
di 3.000 abitanti. Fa parte della
Locride, una zona inserita tra
l’Aspromonte, lussureggiante e
incontaminato e la striscia di mare
Jonio, da dove arrivarono i Greci
che proprio qui, elessero
residenza. Ecco perché un
immenso parco archeologico
incastona questo comune che pare
sia stato costruito sui resti di un
castello medioevale. Cambiare
una lampadina in questa cittadina
è complicato, desiderare di
mettere i condizionatori nella
biblioteca per fare iniziative
culturali assurdo. “Siamo poveris-
simi, i lavori di manutenzione li
facciamo con la mia indennità e
mettere l’aria condizionata non è
stato possibile” - spiegò la
sindaca Maria Lanzetta in un
torrido pomeriggio di fine luglio.
Quel pomeriggio a Monasterace
l’afa impediva di respirare ed
appassionarsi alla mostra
fotografica su Peppino Impastato
che era stata organizzata assieme
ad alcune associazioni antimafia
siciliane e calabresi era molto
difficile. (v. scheda)
In una non molto datata relazione
del tribunale firmata Silvana
Grasso a proposito di
Monasterace i magistrati
parlano di una
“amministrazione in cui le
regole non esistono, il tutto ad
esclusivo vantaggio e favore
di amici, potenti e mafiosi:
nessuna vigilanza da parte
della Polizia Municipale
sull’uso del territorio, organo
che, in tre anni (2001-2003),
ha accertato solo sei
violazioni edilizie e nessuna
contravvenzione al Codice
della Strada, varianti al piano
regolatore, lottizzazioni e
permessi di costruire rilasciati
in violazione delle norme, con
falsi macroscopici e con
palesi intenti di favoritismo;
Una calabrese siciliana
Casablanca pagina 8
appalti di opere pubbliche
aggiudicati con il criterio ‘a
sorteggio’ (sic!) con ribassi d’asta
predeterminati dall’ufficio
tecnico; un ufficio tributi
praticamente inesistente senza
alcuna forma di prelievo dei
tributi che, praticamente, non
vengono pagati dai cittadini”.
Bingo!
“IL PONTE CHE
VORREMMO”
Maria - testarda - vorrebbe
scrivere le regole. Applicare la
democrazia. Ripristinare la
legalità a 360 gradi. Lodevole
certamente, non per tutti però.
Alle ultime elezioni che le hanno
confermato il suo secondo
mandato si è ritrovata contro tutti
gli ex sindaci che l’hanno
preceduta. Coincidenza? Paura?
Maria va avanti e le danno la
scorta. “Sotto scorta perché
l’anno scorso hanno devastato e
bruciato la mia farmacia e poi
quest’anno hanno sparato contro
la mia macchina e la serranda
della farmacia. Avevo dato le
dimissioni non per paura ma per
l’angoscia di aver perso la libertà
di operare, e che quindi non avrei
mai potuto operare in assenza di
libertà della scelta e con la paura
della scelta. C’è stata una grande
protesta della gente, una grande
vicinanza dello stato e mi è stata
proposta la scorta. L’unica
condizione affinché i miei figli mi
dessero la possibilità di poter
continuare a fare il sindaco. Ho
ripreso a lavorare per rispetto a
quei pezzi dello Stato che ogni
giorno fanno sacrifici per
mandare segnali positivi a questa
terra”.
Certamente ci sono indagini in
corso. Ma quale idea si è fatta la
sindaca sulle minacce? Ha pestato
i piedi a qualcuno? A chi?
“Non so nulla. So che se ne sta
occupando Reggio Calabria, gli
argomenti possono essere tanti.
Quando mi hanno distrutto la
farmacia ero stata rieletta quindi
l’ho letta come ‘vogliamo che tu
te ne vada’, quando è stato per la
macchina mi stavo occupando del
lavoro di un gruppo di donne”.
Il ventotto luglio 2012, piazza di
Monasterace: la piazza che ospita
l’iniziativa “Il ponte che
vorremmo” (v. scheda) è proprio
in riva al mare. Tante donne si
sono sbracciate e si danno da fare,
spostano le sedie, controllano il
palco… la sindaca più di tutte. Si
carica una pila di sedie e
le sistema intorno al
palco, saluta velocemente
gli ospiti che arrivano e
riprende.
Intanto altri sindaci
arrivano. Nel frattempo
altre ragazze sistemano
libri, tavoli e Maria, così
come aveva fatto prima
nella biblioteca comunale,
controlla tutto. Fa in modo che gli
ospiti si trovino a proprio agio. Fa
dichiarazioni ai giornalisti,
rilascia brevi interviste. La faccia
è molto affaticata. È stanca ma
non si tira mai indietro. “Questo è
un paese bellissimo sul mare”.
Un’area archeologica magnifica,
la più grande del Mediterraneo.
“Il paese ha bisogno di tanto, di
tutto, bisogna lavorare nel senso
del comune… si deve ristrutturare
tutto - ripete sempre - c’è tanto da
fare qui…”.
Ci sediamo in riva al mare. Acque
cristalline. Coste bellissime,
selvagge. Coste che costano, coste
che fanno gola a tanti, che
suscitano interesse… fanno
sognare grandi affari…
Ma le coste non si toccano. Ci
sono tratti in cui ci sono
costruzioni abusive ma risalgono
a periodi molto antecedenti e ci
vive povera gente e “prima di
qualsiasi iniziativa ci vuole
un’alternativa”.
E… l’attentato? “Solo questioni
politiche e si ferma”- non dice più
una parola. La faccia è sempre più
stanca.
Soddisfazioni? “Poche. Non
riesco a concretizzare quello che
vorrei, forse perché pretendo
molto. Da me e gli altri - spiega,
ed aggiunge - Io ero presidente
della pro loco, su di me si era
convogliata una bellissima stima e
soprattutto moltissime donne mi
chiedevano di impegnarmi in
politica per le amministrative. Per
una ventata di novità e
cambiamento radicale. Ci sono
stati l’uno e l’altro, i risultati non
sono apprezzabili, quelli sperati.
Io speravo di raggiungere livelli
migliori di vivibilità per questo
paese. Cose diverse. Forse ho
sognato molto, il comune è
povero, indebitato fino all’osso, e
ciò non ci permette di fare nulla.
Spreco una grande energia a
reperire i soldi… pochi soldi per
fare una discesa per i disabili o i
condizionatori in biblioteca…
Quelle donne forse ci sono ancora
però io le volevo più propulsive,
più presenti, più costruttive anche
di controllo sul nostro operato,
controllo propositivo come io e
altre donne avevamo fatto prima
con la pro loco: un fiore
all’occhiello per le
amministrazioni e il sindaco, che
non può fare altro che apprezzarti
quando organizzi serate e
manifestazioni coinvolgendo la
gente dal basso”.
Una calabrese siciliana
Casablanca pagina 9
UNA FAMIGLIA MODERNA
Madre laureata a Bologna e padre
a Modena nel 1950, che hanno
deciso di ritornare in Calabria, a
casa Lanzetta si respirava aria di
studio. Non c’era differenza fra
uomini e donne: “Non
femminismo ma rapporti paritari
naturali, normalmente”. Maria
frequenta il liceo classico a Locri,
incontra ottimi insegnanti e
scopre la passione per la politica.
“… poi i siciliani e la Sicilia, la
mia terra di elezione. Trovo la sua
storia di un interesse
straordinario… ho imparato dalla
vostra storia, e poi perché ho
seguito con passione assoluta le
grandi stragi di mafia in Sicilia, la
forte ribellione, il coraggio dei
magistrati. Ho sostenuto le
vittime di mafia al maxiprocesso
sottoscrivendo con duecentomila
lire. La mia formazione è nata con
quella ma anche con la storia dei
miei genitori di un’onestà
straordinaria.
Come si vive sotto scorta? “Io
amo il mare e non fare il bagno
mi costa parecchio. Oppure uscire
solo quando è necessario. Libertà
di fare, organizzare la famiglia e
il lavoro, gli interessi gli impegni,
le varie associazioni… è dura” -
conclude.
***
Le hanno assegnato il premio Joe
Petrosino e lei non è andata a
ritirarlo: “Avevo da lavorare”.
Maria Lanzetta è impegnatissima
nel suo piccolo comune della
Locride. Dove, una volta,
l’economia era affidata alle
donne. Raccoglievano gelsomino,
un’attività antica, pesante, portata
avanti con ostinazione perché
spesso l’unica entrata di una
famiglia. Forse ancora oggi
alcune lo fanno, ma è tutta
un’altra cosa.
Donne indipendenti dunque.
Pensanti. Determinate.
Operose e responsabili in questo
pezzo della Calabria.
L’operazione Village
Il Procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri non usò mezze misure sugli interventi giudiziari a
Monasterace con l’operazione VILLAGE: “Si tratta di un’indagine importante perché da anni non si
penetrava la situazione criminale esistente nel Comune di Monasterace” - spiegò.
In sostanza, secondo gli investigatori, le imprese riconducibili alla famiglia Ruga avevano il monopolio
degli appalti pubblici del comune di Monasterace. Venne inoltre fuori che tutto ciò era possibile grazie
all’amicizia e alla complicità del responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune Vito Micelotta. Il sistema
si poggiava sulla presenza di documenti falsi e sulla “somma d’urgenza” o il “silenzio assenso”,
meccanismo previsto dalla normativa amministrativa per velocizzare la pubblica amministrazione.
Certamente non per fregarla.
Con l’elezione di Maria il piccolo comune prova a resistere alle minacce della criminalità organizzata.
Ma qualcosa non quadrava. Infatti, remavano contro dall’interno. Quello che viene fuori dalle
intercettazioni telefoniche tra il primo cittadino e il dirigente comunale Vito Micelotta è uno scenario
inquietante. Grave. Delicato.
Nel 2010 con l’operazione Village per l’ennesima volta scattano gli arresti per il boss Benito Vincenzo
Antonio Ruga, già in carcere perché condannato nei processi “Stilaro 1” e “Stilaro 2” per associazione
mafiosa. Per l’imprenditore Aladino Grupillo e il responsabile dell’ufficio tecnico comunale Vito
Micelotta invece c’è l’interdizione dai pubblici uffici. Pare fossero specializzati a fornire documenti falsi
agli enti che erogavano finanziamenti pubblici.
Le ditte degli ’ndranghetisti erano riuscite ad accaparrarsi il subappalto anche dei lavori di
ristrutturazione di un ex ostello della gioventù diventato la caserma dei vigili del fuoco. Il tutto senza che
il Comune desse l’autorizzazione al sub appalto e senza che il sindaco Maria Carmela Lanzetta ne
sapesse nulla. Faceva tutto il tecnico comunale Micelotta.
In merito al funzionario comunale, il gip Grasso scrive: “L’indagato ha posto in essere una serie di
condotte classiche e incontestabili di abuso di ufficio e falso che costituiscono contributo fondamentale
all’esistenza, conservazione e rafforzamento dell’associazione mafiosa, posto che si è appurato che una
delle sue finalità accertate era proprio l’arricchimento mediante assunzione massiccia di appalti pubblici
locali. Attese le condotte descritte in atti e richiamate innanzi, non v’è dubbio, che i comportamenti del
pubblico ufficiale si caratterizzino proprio per la creazione dall’interno dell’Ente di appartenenza delle
condizioni perché la cosca, grazie all’assunzione per via diretta o indiretta degli appalti, possa continuare
ad operare e a trarre illeciti vantaggi secondo i propri fini in uno dei settori prediletti inibitole per legge a
seguito di condanna definitiva dell’effettivo titolare”.
Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo
Casablanca pagina 10
Angelo Vassallo la bella politica
Simona Mazzeo
“Qui a Pollica, se dobbiamo realizzare un progetto che deturpi
l’ambiente noi non lo realizziamo. Siamo Città Slow, cioè del buon vivere”. Angelo Vassallo,
sindaco di Pollica difendeva la sua terra quotidianamente. La tutela dell’ambiente per lui era
proprio un chiodo fisso. Il suo attaccamento al territorio, l’affetto per tutto ciò che lo
caratterizza era riuscito a trasmetterlo a tutti i cittadini che uniti da questo sentire comune,
facevano di tutto per preservarlo. Inoltre, durante i precedenti mandati era riuscito a
dimostrare alla sua comunità che la legalità paga e può rappresentare una strada per creare
un futuro . Ecco perché Pollica per Angelo era un posto da mettere al riparo dalle mire della
camorra. Pare che prima di essere ucciso il cinque settembre del 2010 ad un amico avesse
confidato: “Questi vogliono mangiarsi il Cilento”. Questi erano i clan. Riproponiamo una
delle sue ultime interviste.
“Il tema ambiente - esordisce - ha
avuto sempre importanza, fin dal
primo momento per questa
amministrazione. Noi stiamo
realizzando un progetto che viene
da lontano, dal 1995, un progetto
anche un po’ pazzo, perché
parlare di ambiente qualche anno
fa suonava un po’ strano. Puntare
sull’ambiente vuol dire andare a
fare uno studio di quelle che sono
le risorse ambientali del territorio
e cercare di valorizzarle
ragionando intorno ad un progetto
che punti sul territorio come
risorsa primaria da utilizzare e
potenziare, senza andare a
prevedere grosse espansioni.
Era un primo pomeriggio d’estate e lui arrivò puntuale all’appuntamento dinanzi
alla sua vineria. Un sorriso, un simpatico saluto in vernacolo cilentano e quindi
insieme ci dirigemmo al porto, il bellissimo porto di Acciaroli. Visti i diversi
riconoscimenti ambientali che il suo comune vantava, non potevamo che iniziare
parlando di ambiente, per poi continuare con sviluppo sostenibile, turismo, passione
per il territorio, ecc.
Angelo Vassallo partì con un fiume di parole sentite, convinte, decise. Più che
un’intervista fu un monologo. Interessante. Intrigante. Importante. Un sindaco, ma
prima di tutto un uomo, un padre, che dal Cilento lanciò grandi insegnamenti e
seminò speranze di crescita per quella terra che tanto amava e che governò con
tanta dedizione e passione.
Stimato e ammirato per i risultati di eccellenza ottenuti, le parole dell’ultima
intervista fatta ad Angelo meritano di essere rimembrate perché le sue idee abbiano
un seguito, perché dal suo operato altri amministratori prendano esempio.
Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo
Casablanca pagina 11
Abbiamo deciso di restare piccoli
perché più facilmente gestibili e
perché così si può puntare sulla
qualità e riuscire a regolare i
flussi turistici. Dopo 15 anni i
risultati sono arrivati. Noi in Italia
abbiamo il primato per le
Bandiere Blu. Oggi si è aggiunta
anche la bandiera blu per il porto
e sappiamo che sono pochi i porti
con tale riconoscimento”.
“L’ambiente - sottolinea - è un
grande attrattore, la risorsa mare è
fondamentale e conscia di ciò
quest’amministrazione ha pensato
che chi vive in un comune
rivierasco deve salvaguardare
questo bene e noi lo abbiamo fatto
con un’ottima depurazione,
servizi sulle spiagge, nuovi
stabilimenti, servizi forti,
anche perché abbiamo
capito che le abitudini dei
turisti sono cambiate.
Infatti, una volta si andava
in spiaggia di prima mattina
e si tornava nel pomeriggio,
oggi invece il turista va in
spiaggia la mattina e ci
rimane fino a sera tarda, e
questo evidenzia la
necessità stringente di andare a
prevedere sulle spiagge una serie
di servizi che poi hanno fatto la
differenza rispetto ad altre
località”.
NO CAMORRA MA
BANDIERE BLU ED
ENOGASTRONOMIA
“Abbiamo pensato di dare un look
a questo porto che era abbastanza
grezzo ed è stato un successo.
Così al turismo balneare si è
aggiunto il turismo diportistico,
che è quello che porta più soldi,
perché attira il turista che passa,
spende e se ne va. Le barche sono
migliorate molto, al punto che è
stato previsto un secondo lotto da
realizzare già a settembre e dove
si prevede addirittura l’attracco
dei megayacht, perché ce n’è stata
richiesta. Puntiamo molto sulla
qualità e si sta andando avanti in
tal senso. Quindi mare, diporto
sempre connesso al mare e poi
abbiamo puntato sul turismo
enogastronomico. Siamo patria
della dieta mediterranea, perché
qui Ancel Keys ha studiato, e
questo dato va utilizzato al
meglio. La dieta mediterranea e i
suoi prodotti biologici sono stati
valorizzati, specie nella parte
collinare del comune, con la
nascita di nuove strutture
turistiche come B@B, agriturismo
e aziende agricole, molto collegati
all’utilizzo dei prodotti tipici e
che vanno abbinati a passeggiate
nel verde. A ciò poi si è aggiunto
un percorso culturale con il
recupero del Castello di Pioppi,
l’apertura del Museo del mare,
l’acquisto del Castello Capanno di
Pollica del 1300 dove oggi si
tengono bellissime
manifestazioni. Quindi nascerà un
Centro Studi sulla Dieta
Mediterranea che ruoterà intorno
alla risorsa cibo così da
potenziare anche l’agricoltura.
Pollica ha tre presidi Slow Food -
alici di menaica, cacioricotta e
soppressata - e questa è un’altra
offerta enogastronomica”.
PORTO, MULINO AD ACQUA
E CAFFÈ LETTERARIO
“Abbiamo due castelli - il fiume
Vassallo straripa - poi è in fase
embrionale il recupero del
convento di Costantinopoli, le
chiese sono state tutte recuperate,
c’è un progetto per il recupero di
un mulino d’acqua e stiamo
creando un percorso di natura
storica molto legato alla
tradizione, un pacchetto fatto di
sentieri, per allungare la stagione
turistica anche all’autunno e alla
primavera, periodi consumati
soprattutto dai tedeschi”.
“Per quanto concerne lo sviluppo
sostenibile - sottolinea col tono il
sindaco - qui a Pollica, se
dobbiamo realizzare un progetto
che deturpi l’ambiente noi non lo
realizziamo, preferendo una
logica di crescita compatibile con
la preservazione
dell’ambiente. Adesso siamo
impegnati sull’energia
alternativa, abbiamo due
centrali fotovoltaiche e nel
giro di pochi anni dovremmo
arrivare all’azzeramento
della bolletta energetica e
addirittura rendere il comune
autonomo con una
produzione sul posto
dell’energia. Poi c’è il
progetto di costruire a Pioppi un
imbarcadero anziché un nuovo
porto, perché sì i porti producono
ricchezza per il turismo
diportistico, ma essi sono anche la
causa della forte erosione costiera
e quindi costruendo
un’importante infrastruttura come
un porto poi si intaccherebbe la
spiaggia che è una risorsa
indispensabile per agevolare la
balneazione. Nel bilanciamento
delle cose, abbiamo optato per
l’imbarcadero. Anche il piano
regolatore, moderno, approvato
da soli cinque anni, rispecchia
questo nostro trend, non
prevedendo la costruzione di
seconde case, né edilizia
esagerata, perché l’interesse
prevalente è quello per il turismo,
che è l’industria più importante,
Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo
Casablanca pagina 12
anche se sta intaccando alcune
nostre tradizioni come la pesca,
ed, infatti, oggi purtroppo i nostri
ragazzi non pescano più. Siamo
Città Slow, cioè del buon vivere,
l’unica città del Cilento che fa
parte di questa associazione
internazionale. Pollica è stata
premiata perché qui si vive bene,
per l’ospitalità e l’accoglienza che
sono alla base di tutto. Il Cilento
ha potenzialità forti e intorno
all’attrattore mare si deve fare un
progetto grosso, per cui il turista
che viene deve anche trovare i
giusti servizi. Per quanto
concerne il tema porto io penso
quello che ho detto sempre:
certamente un porto è una grande,
grandissima ricchezza. Il porto di
Acciaroli è gestito dal Comune di
Pollica e se non avessimo avuto
tali proventi, la stessa
amministrazione del porto
sarebbe stata molta difficoltosa.
Non ultimo con tali proventi,
siamo riusciti ad aprire un’attività
commerciale e di ritrovo in
collina. In particolare a Galdo,
paese di 100 anime, dove non c’è
nessuna attività commerciale, il
Comune ha costruito un “Caffè
letterario”, quindi un bar, un
emporio ed un ambulatorio.
Abbiamo affidato la gestione
gratuitamente ad una ragazza,
senza farle pagare nessuna tassa
comunale. Con tale gesto
abbiamo dato una grossa vitalità
al paese, composto
principalmente da persone
anziane”.
POLLICA COME CAPRI E
ISCHIA
“I risultati? Il migliore è l’aver
richiamato un turismo di qualità.
Esso ci
mette al
riparo
dalla
forte
contrazi
one
economi
ca,
perché è
il turista
ricco che in momenti di crisi
economica riesce a venire in zona
e ciò è stato possibile perché il
nostro progetto ha attirato
l’attenzione di gente facoltosa che
addirittura preferisce Pollica a
Capri ed Ischia. I risultati sono
stati raggiunti migliorando la
qualità della vita. Centri storici
vivibili, accoglienza dei cittadini,
servizi sulle spiagge e nel porto. A
ciò si è aggiunta la particolarità
che Pollica è aperta al mare da
qualsiasi punto, che si mangia
cibo sano e buono, e così forse si
spiega perché ad oggi abbiamo
400 domande di posti barca a
fronte di un’offerta di 100,
circostanza che consente una
cernita di qualità. L’attaccamento
al territorio è sostanziale, affetto
che è stato trasmesso a tutti i
cittadini ed è indispensabile
essere tutti uniti nel preservarlo al
fine di una crescita utile a tutti ”.
Ebbi l’impressione che volesse
dirmi molto altro, ma il tempo era
scaduto. Avrei dovuto
intervistarlo ancora su altri temi,
ma purtroppo non ho fatto in
tempo.
***
Sull’omicidio di Angelo Vassallo
ancora non ci sono certezze, pare
comunque che sia stato
commissionato dalla camorra.
L‘esagerata tutela dell’ambiente
da parte del sindaco,
probabilmente era vista dalla
camorra come un ostacolo al
controllo del porto e dunque al
commercio di droga.
Sull’omicidio di Angelo Vassallo ancora
non ci sono certezze, pare comunque che
sia stato commissionato dalla camorra.
L‘esagerata tutela dell’ambiente da parte
del sindaco, probabilmente era vista dalla
camorra come un ostacolo al controllo
del porto e dunque al commercio di
droga.
“Milano la vera capitale della ’ndrangheta”
Casablanca pagina 13
Lombardia metafora della ’ndrangheta?
Ilaria Ramoni Avvocato – Associazione Libera
La Lombardia secondo la DIA e la DDA, è la regione del Nord Italia che registra il
maggiore indice di penetrazione nel sistema economico legale dei sodalizi criminali della
’ndrangheta. Ci sono sì i mafiosi, ma ci sono anche soggetti completamente sconosciuti alla
giustizia: decine di imprenditori e professionisti scendono a patti con i clan, si finanziano con
capitali sporchi, ripuliscono il denaro, anche se qualcuno si ostina ancora a sostenere che è
tutta colpa del confino. La brutta politica e i pessimi politici hanno fatto il resto. I politici?
Fanno schifo pure ai mafiosi… piangono come vitelli… si dicono due mafiosi al telefono. Il
reato di “scambio elettorale politico-mafioso” dal 2010 è in forte aumento. La gente, gli
imprenditori, le vittime dei reati non denunciano. Per collusione? Per paura? Per interesse?
“… sono anni che sappiamo, e ora abbiamo anche tutte le prove e tutti gli indizi”. E pensare
che per noi del Sud Milano era un mito.
È da anni che all’indomani di una
grande operazione di Polizia, di
un arresto o di una condanna a
Milano e in Lombardia ci
risvegliamo con la consapevolez-
za che la criminalità organizzata è
così presente anche qui, vicino
alle nostre case.
Il problema è che dopo il solito
clamore del momento, ritorniamo
alla vita di tutti i giorni e così fino
al prossimo arresto, alla prossima
operazione. E nuovamente, invece
di indignarci, ci risvegliamo con
lo stupore di chi si è dimenticato
improvvisamente e nuovamente
di quella che è stata la storia della
nostra Regione e della nostra
città.
Sì, ci dimentichiamo.
Ci dimentichiamo che la mafia a
Milano e in Lombardia non è
quasi mai stata così “invisibile”,
come alcuni hanno mostrato di
ritenere per lungo tempo e come
ci è stato sempre raccontato.
Ci dimentichiamo che il polo
tecnologico, industriale, finanzia-
rio e imprenditoriale lombardo
attrae da decenni gli investimenti
di tutte le quattro maggiori
organizzazioni criminali italiane
che, proprio in Lombardia,
tendono ad agire secondo
particolari modelli collaborativi,
soprattutto tra ’ndrangheta e
camorra.
Ci dimentichiamo che già nel
maggio del 1963, in viale Regina
Giovanna, in uno scontro a fuoco
tra le cosche rivali della prima
guerra di mafia in corso in Sicilia,
viene ferito Angelo La Barbera,
tra i protagonisti del cosiddetto
“sacco di Palermo”, la pesante
speculazione edilizia che
stravolse il capoluogo siciliano.
Che nel 1970 a Milano si tiene un
importante incontro tra Giuseppe
Calderone, Tommaso Buscetta,
Gerlando Alberti, Totò Riina,
Gaetano Badalamenti e Salvatore
Greco. Che arriva qui a Milano
anche Luciano Leggio che, nel
1972, inaugura la stagione dei
sequestri di persona e che nel
1974 viene arrestato in pieno
centro a Milano, in via
Ripamonti.
Ci dimentichiamo di Turatello e
Vallanzasca e delle loro quanto
meno contiguità con diverse
organizzazioni criminali, del cd.
“Blitz di San Valentino” nella
notte del 14 febbraio del 1983
dove vengono scoperte
infiltrazioni mafiose nell’eco-
nomia e nella finanza lombarda,
dell’operazione “Duomo Con-
nection” nell’ambito della quale
sono messi a fuoco legami tra
politica locale e criminalità
mafiosa.
Ci dimentichiamo addirittura
dell’omicidio di Giorgio
Ambrosoli, avvocato liquidatore
della Banca Privata Italiana,
commissionato da Michele
“Milano la vera capitale della ’ndrangheta”
Casablanca pagina 14
Sindona, e di “Tangentopoli”.
Ci dimentichiamo che tra il 1992
e il 1993 in Lombardia vengono
effettuate numerose indagini,
“Wall Street”, “Nord-Sud” e
“Hoca Tuca”, solo per citarne
alcune, in cui vengono arrestate e
processate per mafia circa tremila
persone appartenenti, tra le altre,
alle cosche dei Papalia, Sergi,
Morabito, Flachi e Coco Trovato.
QUI LA MAFIA NON ESISTE
Certo, la Commissione Parla-
mentare Antimafia percepì l’entità
e la gravità del fenomeno,
dedicando ad esso largo spazio
nelle relazioni del 1989, 1990 e
1991 e svolgendo, sempre in
quegli anni, svariati sopralluoghi
a Milano. Nel corso della
legislatura 1992-1994 in seno alla
Commissione venne anche
costituito un gruppo di lavoro
incaricato di occuparsi proprio
delle attività delle organizzazioni
criminali nelle zone non
tradizionali, attività che si
concluse con un’ampia relazione
approvata all’unanimità.
Certo, a Milano nel novembre
1990 fu istituito dal Comune un
“Comitato di iniziativa e vigilanza
sulla correttezza degli atti
amministrativi e sui fenomeni di
infiltrazione di stampo mafioso”,
presieduto dal Prof. Carlo
Smuraglia, nelle cui relazioni
venne fornito un quadro molto
ampio della presenza delle
organizzazioni criminali a Milano
e degli effetti negativi e distorsivi
che ciò stava già producendo sul
buon andamento delle Istituzioni
e sulla stessa economia.
Ma tutto questo non è bastato in
una città che negava quasi
l’esistenza stessa delle mafie e
non è stato sufficiente per la
maggior parte delle Istituzioni
meneghine e lombarde che hanno
continuato, nella migliore delle
ipotesi, a nascondere la testa sotto
la sabbia.
Addirittura a Milano, nel maggio
2009, il Consiglio Comunale
approva a maggioranza la delibera
di revoca della “Commissione
d’inchiesta sugli interessi mafiosi
attivi nel territorio milanese”, a
poco più di due mesi dal voto
all’unanimità con il quale la
stessa era stata costituita.
I sindaci ci dicevano che la mafia
a Milano non esisteva, i Prefetti ci
dicono che la mafia non c’è o che,
sì, forse c’è ma è diversa che nel
resto del Paese e i Ministri,
contraddicendo la stessa DDA, ci
dicono che a Milano e in
Lombardia l’omertà non c’è.
A Milano e in Lombardia per
anni, nonostante le evidenze, è
stato vietato parlare di mafia.
Il risultato? Nel disinteresse
generale, nella sottovalutazione e,
ora lo possiamo proprio dire, nella
collusione, le mafie si sono
radicate ancora di più mentre le
vittime sono state lasciate sempre
più sole. Le vittime non
denunciano, i pochi che lo fanno
devono subire ritorsioni. Troppi
imprenditori sono convinti che
non sia sbagliato fare affari con la
mafia. I mafiosi non si intestano
più direttamente i patrimoni per
timore delle confische e trovano
soggetti compiacenti, spesso sono
addirittura i loro stessi avvocati a
intestarsi direttamente o tramite
società fittizie i patrimoni.
“La Lombardia per le sue
coordinate geografiche e per le
sue infrastrutture è crocevia dei
traffici e dei flussi finanziari
nazionali ed internazionali leciti o
illeciti. È un territorio ricco e
produttore di ricchezza,
necessariamente preso in
considerazione, da sempre, dalla
criminalità organizzata mafiosa. È
inoltre un territorio con grandi
opportunità di crescita economica,
come noto infatti ospiterà l’Expo
2015, con una previsione di
investimenti ingentissimi. Negli
anni ’90 decine di indagini,
centinaia di arresti e di
maxiprocessi hanno confermato la
presenza sul suo territorio delle
Mafie. Da ultimo si è visto
affermarsi lo strapotere della
’Ndrangheta”.
Così testualmente recita l’ultima
relazione della Direzione
nazionale antimafia e le recenti
operazioni “Infinito” e “Crimine”
del 13 luglio 2010 condotte dalla
DDA di Reggio Calabria e di
Milano, concluse con
l’esecuzione di oltre 300 arresti
(di cui circa 160 nel solo territorio
lombardo), nei confronti di
cosche operanti in Calabria,
Lombardia, Piemonte e Liguria,
rappresentano una ulteriore
conferma della “occupazione” da
parte della ’ndrangheta di gran
parte del territorio nazionale e del
giro di affari che ruota intorno
alla stessa attraverso una strategia
di espansione nel tessuto
economico e finanziario.
LA METAFORA DELLA
’NDRANGHETA E
DELL’OMERTÀ
Nella relazione dedicata
specificatamente al fenomeno
della ’ndrangheta e approvata
all’unanimità dalla Commissione
parlamentare antimafia presieduta
da Francesco Forgione, si afferma
testualmente che “Milano e la
Lombardia rappresentano la
metafora della ramificazione
molecolare della ’ndrangheta in
tutto il Nord”.
Nella relazione annuale del 2008
della Direzione Nazionale
Antimafia si legge che “La vera
capitale della ’ndrangheta è
Milano”. Nell’ultima relazione
della Direzione Investigativa
Antimafia si legge che “In
Lombardia, le proiezioni di cosa
“Milano la vera capitale della ’ndrangheta”
Casablanca pagina 15
nostra si sono orientate verso
l’accaparramento di attività
economiche e di appalti, anche
sfruttando un’area grigia di
concorso da parte di imprenditori
disponibili a comportamenti
collusivi (...). A Milano la
’ndrangheta, oltre alle attività
illecite tipiche delle strutture
criminali organizzate e
consolidate nel territorio (...)
porta avanti un’azione di
penetrazione nel tessuto socio-
economico, attraverso la
connivenza con settori inquinati
dell’imprenditoria”.
La Lombardia, inoltre, come
dimostrato dalle recenti relazioni
della DIA e della DDA, si
conferma, purtroppo, la regione
del Nord Italia che registra il
maggiore indice di penetrazione
nel sistema economico legale dei
sodalizi criminali della ’ndra-
ngheta. La ’ndrangheta milanese e
lombarda, è ormai composta sì da
mafiosi ma anche da altri soggetti
completamente sconosciuti alla
giustizia: decine di imprenditori e
professionisti scendono a patti
con i clan, si finanziano con
capitali sporchi, ripuliscono il
denaro profitto di traffici di droga,
si consegnano per la protezione
nelle mani dei clan, utilizzano la
manovalanza per il recupero
crediti con modalità violente e
tipicamente mafiose.
Ma non è tutto. Al 31.12.2011 la
Lombardia era al quarto posto
nazionale per numero beni
immobili confiscati e al terzo
posto per numero di aziende
confiscate.
A livello regionale, il maggior
numero di operazioni sospette
proviene da dipendenze di
intermediari localizzate nella
regione Lombardia. La relazione
annuale del 2011 del SAeT
afferma che i reati di corruzione e
concussione rilevati risultano
verificarsi in maggior numero
nelle regioni in cui maggiori sono
le opportunità criminali come,
nell’ordine, in Lombardia, in
Campania, in Sicilia, nel Lazio e
nella Puglia.
E come se non bastasse ci
troviamo anche davanti ad un
dato sconcertante: le
organizzazioni criminali in
Lombardia hanno importato an-
che l’omertà. “Il dato dell’omertà
spesso attribuito al sud risulta ed è
constatato anche al nord”, così il
Procuratore Aggiunto Ilda
Boccassini, Delegata alla
Direzione Distrettuale Antimafia
di Milano, in un accorato
intervento all’interno di un
seminario tenutosi all’Università
Statale di Milano e promosso da
Libera Milano.
La gente, gli imprenditori, le
vittime dei reati non denunciano
quello che hanno o che stanno
ancora subendo. Per collusione?
Per paura? Per interesse? Sta di
fatto che molti di loro, quasi tutti,
preferiscono prendersi una
imputazione per favoreggiamento
alla criminalità organizzata
piuttosto che denunciare e fare il
proprio dovere.
Già nel 2010 nel Distretto
giudiziario di Milano risultava un
forte incremento del numero dei
procedimenti penali iscritti per il
delitto di cui all’art. 416-ter c.p.
(scambio elettorale politico-
mafioso).
COMMERCIO DEI VOTI
ELETTORALI
I dati, a volerli leggere e
ascoltare, hanno sempre parlato
chiaro: le mafie erano già a pochi
passi dal Duomo, anche in quella
Milano “da bere” simbolo di
generosità, onestà e laboriosità.
Non stupiamoci, quindi, se siamo
arrivati al punto in cui sono
alcuni politici a chiedere aiuto e
appoggio alle mafie e non
viceversa, non stupiamoci se
“scopriamo” che alcuni politici si
sono materialmente comprati i
voti dalla ’ndrangheta.
Non se ne stupisca la politica e
non se ne stupiscano i cittadini.
Le Istituzioni devono
necessariamente ritrovare il
coraggio di affrontare questo
cancro in modo serio e onesto e al
di fuori da ogni ideologia perché
riconoscere che il mercato
milanese e lombardo è
“colonizzato” dalla criminalità
organizzata non vuol dire svilire e
snaturalizzare, come è stato detto,
“l’anima del nostro territorio” ma
vuol dire prendere coscienza
dell’esistenza di un grave
problema e provare insieme e con
tutte le forze a sconfiggerlo. Vuol
dire dare ancora più valore
all’anima dei tanti cittadini onesti
che quotidianamente non solo
cercano di fare una imprenditoria
sana e all’avanguardia ma cercano
anche di aiutare chi sta indietro,
chi è meno fortunato e chi è
ultimo.
La Politica deve ritrovare il
coraggio di assumersi le proprie
responsabilità senza continuare a
delegare alla Magistratura quel
compito di “pulizia” che prima
ancora che giudiziaria è una
“pulizia” etica, perché noi
cittadini prima ancora che per il
“giuridicamente rilevante” ci
indigniamo per ciò che è
“moralmente abbietto”.
E allora, parafrasando Pier Paolo
Pasolini, “ora è venuto il momen-
to di dire quello che sappiamo e
non solo di formulare domande su
noi stessi e sul nostro Paese. È ar-
rivato il momento di ammettere
che noi sappiamo, sono anni che
sappiamo, e ora abbiamo anche
tutte le prove e tutti gli indizi”.
Lazio: non siamo tutti uguali
Casablanca pagina 16
Lazio Regione Imperiale Fabio Nobile
Occupiamo! Che nella regione Lazio ci fosse tanto malaffare e corruzione, il gruppo della
federazione di sinistra lo ha denunciato parecchi mesi fa. La Polverini anziché preoccuparsi
ha querelato il capogruppo. Grazie a Batman - alle sue abbuffate di cibo e danaro - oggi è
alla luce del sole che alla regione i gruppi politici hanno potere e denaro. Inquinato,
contaminato e sporco, sia l’uno che l’altro. Il finanziamento ai gruppi approvato col metodo
del maxiemendamento, metodo col quale di fatto si impedisce all’opposizione di emendare e
di discutere in aula. Elezioni subito, grida l’opposizione. Occupiamo!
“Resteremo qui fin quando non ci
sarà la parole fine a questo
tormento e la parola fine è la data
delle elezioni” - dice Esterino
Montino del PD.
“… occupazione della Giunta
regionale per rideterminare la
legalità e richiedere l’indizione
delle elezioni regionali del Lazio
entro dicembre” - aggiunge il
capogruppo Sel Luigi Nieri. E
così la sede della giunta della
regione Lazio è stata occupata da
un gruppo di consiglieri regionali
dell’opposizione. Vogliamo la
stampa… fanno la richiesta, il
permesso è stato negato.
Da un mese la regione Lazio è
senza governo e la Polverini
adotta ogni cavillo per perdere
tempo, nel frattempo però,
continua a fare nomine. La
federazione della sinistra si
oppone alla logica del “sono tutti
uguali” e puntualizza.
Lo scandalo in sé è che il bilancio
complessivo della Regione, dentro
cui si innesta quello del Consiglio
Regionale, è stato approvato dalla
maggioranza di centro-destra col
voto di un unico maxi-
emendamento, sistema con cui
viene impedita all’opposizione la
possibilità di emendare e quindi
modificare il testo presentato in
aula. Impedendo di fatto ogni
possibilità di discussione
consiliare.
Il finanziamento ai gruppi è
avvenuto con modalità
assolutamente poco trasparenti e
ha favorito quelli dei partiti più
grandi in quanto direttamente
collegato al numero dei
consiglieri nel gruppo. Inoltre, il
finanziamento è legato ad una
dinamica connotata da una logica
clientelare su cui si fonda da
tempo il sistema politico locale e
della maggioranza di centrodestra.
Una maggioranza in balia dei
particolarismi e dell’esigenza dei
singoli consiglieri, la cui
debolezza si è determinata in
primo luogo con la presenza
dell’enorme quantità di eletti nella
lista Polverini, entrati in consiglio
al posto di quelli potenziali del
PDL romano escluso dalla
competizione. Lo scandalo nasce,
quindi, dentro tale fragilità della
maggioranza ed esplode nel
momento in cui la guerra interna
al PDL diviene conclamata.
Emergono così i fatti sconcertanti
dell’uso scandaloso delle risorse.
Emerge con evidenza la scarsa
trasparenza e quel deficit di norme
che impediscano a monte ogni
possibilità che tali fatti si
verifichino.
È proprio in tale quadro che va
respinta la logica del sono tutti
uguali. In primo luogo per
arginare lo spazio reazionario che
quest’affermazione lascia dietro di
sé, in secondo luogo per dovere di
verità.
È CERTO, NON SIAMO
TUTTI UGUALI
Sul ruolo della Federazione della
Sinistra alla regione Lazio,
bisogna sapere che:
1) Ha sempre votato contro il
bilancio.
2) Non è presente nell’Ufficio di
Presidenza del Consiglio
Regionale e quindi non ha mai
votato la distribuzione dei fondi.
3) Il suo bilancio è pubblicato sul
sito, e le sue risorse sono le meno
Lazio: non siamo tutti uguali
Casablanca pagina 17
alte tra i gruppi di due consiglieri
(circostanza piuttosto anomala) e
non ne è mai stato fatto un uso
improprio.
4) Il capogruppo è stato querelato
più di sei mesi fa dalla Polverini
perché denunciava il malaffare e
la corruzione in Regione e nel
PDL, ma sui giornali di allora,
come in quelli di oggi, non è
comparso praticamente nulla.
5) Una parte rilevante delle risorse
di quest’anno sono state spese per
la campagna per il referendum per
l’abolizione del vitalizio ai
consiglieri ed agli assessori, ben
prima dello scandalo.
6) Oltre la metà degli stipendi
complessivi dei consiglieri è stata
sempre versata nelle esangui casse
del partito, osservando rigoro-
samente il nostro regolamento.
7) È dall'inizio della consiliatura
che chiede leggi sulla trasparenza.
8) Sono state depositate decine di
proposte ed emendamenti in
bilancio contro gli sprechi.
9) Ha costretto la Regione a
costituirsi parte civile nei processi
contro la criminalità nel Lazio.
IL VERO OBIETTIVO
Lo scandalo ha avviato un’ondata
di moralizzazione delle istituzioni,
obiettivo nobile ed urgentissimo,
per il quale l’opposizione ha da
sempre contribuito come dimostra
la raccolta delle firme, consegnate
in Corte d’Appello, per indire il
referendum abrogativo dei
vitalizi. Tuttavia è sufficiente
grattare appena sotto le dichiarate
intenzioni proclamate dalla
stampa e dal governo per
accorgersi che sotto l’intento
morale si nasconde il celato
obiettivo di ristrutturare il sistema
politico in funzione della nuova
fase inaugurata dal Governo
Monti. L’intento di ridurre la
rappresentanza democratica nei
consigli regionali, diminuendo il
numero dei consiglieri, va
esattamente in questa direzione.
Così come un duro colpo è già
stato inferto nel consiglio
comunale e nei municipi del
Comune di Roma. Si tratta di una
vera e propria espulsione delle
minoranze, in quanto non
omologabili al coro.
Ancor più inaccettabile è il
decreto del Governo che insieme
alla bozza di disegno di legge del
Governo Monti porta dentro i
vincoli asfissianti del pareggio di
bilancio le finanze regionali. In
sostanza, ciò che si vuole attuare,
è il trasferimento delle politiche
imposte dalla Banca Centrale
Europea a tutti i livelli, senza
nessun margine d’intervento
locale. Così si giustifica anche
l’enorme risalto mediatico dato
alla vicenda. Insomma la
“fascistopoli” cominciata al
Comune di Roma e continuata in
Regione Lazio è diventata un
grimaldello per ristrutturare anche
a livello locale il sistema
istituzionale. Dopo il Lazio
l’inchiesta si sta allargando a
buona parte delle regioni e questo
è un fatto inconfutabile.
L’effetto ultimo comporterà
pertanto, accanto alla contrazione
della rappresentanza democratica
ed allo strozzamento economico
delle Regioni, un sostanziale
accentramento delle funzioni nello
Stato, in chiara antitesi al dettato
costituzionale e al decentramento
avviato con la Repubblica dopo il
fascismo.
Il “tutti sono uguali”, che scredita
complessivamente la politica, è il
mezzo più potente per rafforzare
questo processo.
Il lavoro dei comunisti continuerà
a testa alta anche nel Lazio dentro
la crisi con i lavoratori, per la
riduzione dei vitalizi, la drastica
riduzione degli stipendi per le
cariche istituzionali, ma al tempo
stesso il mantenimento dei numeri
della rappresentanza.
’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti?
Casablanca pagina 18
Chiesa, ’ndrangheta e un perdono che brucia Francesca Chirico
“C’è perdono per tutti, anche per i mafiosi” ha sottolineato con forza monsignor Morosini dal
pulpito della chiesa di Polsi qualche settimana addietro. Perdono? Per anni intanto la Madonna
della Montagna dalla sua postazione ha osservato imperturbabile le riunioni che sotto i suoi
occhi gli ’ndranghetisti svolgevano annualmente dentro la chiesa. Incontri per stabilire,
ratificare, decidere… anche omicidi. La Chiesa calabrese tutta negli anni aveva sempre
smentito e parlato di vecchie tradizioni folkloristiche o di frutti di sensazionalismo mediatico.
Ma nel 2009 è stata smentita da un filmato in cui si vede la ’ndrangheta riunita a cerchio sotto
la statua della madonna. Perdono? Meno male che nella stessa chiesa di Mons. Morosini e
compagni c’è un’altra chiesa fatta da esponenti che parlano ed agiscono con fermezza e
chiarezza nel respingere senza equivoci l’abbraccio mortale della ’ndrangheta.
REGGIO CALABRIA
Superato il ponte sul torrente
Bonamico, il profano appare
subito mescolato al sacro. Il bar-
ristorante, la macelleria, le
bancarelle di statuette di plastica e
tamburelli abbracciano tutta l’area
consacrata, incassata in fondo alla
valle dell’Aspromonte. Nel caso
del santuario della Madonna della
Montagna, però, il profano è
targato ’ndrangheta e trattiene in
ostaggio uno dei luoghi identitari
della Calabria, al centro di una
millenaria devozione popolare.
Messi in fila nelle carte
dell’inchiesta Crimine che nel
luglio 2010 fece scattare una
raffica di arresti tra Calabria e
Lombardia, i cognomi di chi
gestisce i chioschi attorno al luogo
sacro chiariscono subito, infatti,
come vanno le cose a Polsi,
contrada del comune di San Luca,
nel Reggino: a vendere panini e
caffè, durante i tradizionali
festeggiamenti dedicati ad inizio
settembre alla Madonna della
Montagna, ci sono i Pelle e ci
sono gli Strangio, e cioè i
rappresentanti delle due principali
cosche di San Luca. Mentre tra gli
avventori che ogni anno
bazzicano tavolini e aree di sosta,
si mescola tutta la geografia
criminale reggina, convenuta a
vedere, a farsi vedere, a ratificare
cariche e accordi sotto il
simulacro esterno della Madonna.
Una vecchia tradizione che nel
2009, però, non è sfuggita alle
telecamere delle forze dell’ordine:
il video che filma per la prima
volta la ’ndrangheta nel santuario,
riunita in cerchio sotto la statua
della madre di Cristo, fa il giro del
mondo, confermando la bontà
delle fonti giudiziarie e letterarie
che dagli anni Quaranta avevano
raccontato l’“assemblea” annuale
delle cosche, e spiazzando la
Chiesa calabrese che aveva
sempre parlato di vecchie
tradizioni folkloristiche o di frutti
di sensazionalismo mediatico.
Proprio dal pulpito del santuario
oltraggiato, nel cuore della
Locride delle vittime di
’ndrangheta senza giustizia, il 2
settembre 2012 il vescovo della
diocesi di Locri-Gerace,
monsignor Giuseppe Fiorini
Morosini ha sottolineato con
forza che “c’è perdono per tutti,
anche per i mafiosi”.
“Certamente il perdono - ha
rassicurato il presule - non viene
dato a buon mercato. Non sono le
tre Ave Maria che ci rimettono i
peccati. (…) Certamente prima di
alzare la mano e dire ti sono
perdonati i tuoi peccati, faremo e
diremo come Gesù: cambia vita,
convertiti. E solo quando avremo
la garanzia del cuore convertito,
diremo i peccati ti sono perdonati,
anche se poi devi saldare il conto
con la giustizia terrena, che è cosa
diversa dal perdono cristiano e
dalla riconciliazione con Dio”.
’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti?
Casablanca pagina 19
Precisazioni, distinguo che non
hanno evitato l’incendio della
polemica, coinvolgendo familiari
di vittime, studiosi e associazioni
antimafia e facendo registrare la
replica irritualmente piccata dello
stesso vescovo contro “certi
professionisti dell’antimafia”. Il
primo a dolersi per le parole del
presule - insofferente anche per la
cattiva reputazione del santuario -
è stato Mario Congiusta, padre di
Gianluca, commerciante
trentaduenne assassinato nel 2005
a Siderno “Questa ricorrenza è
preparata sempre con i soliti
ricordi: ’ndrangheta, il santuario
della mafia, i raduni. Come se
Polsi, e il santuario, fosse solo
trattabile in termini di mafia ‘sì’,
mafia ‘no’. Mi chiedo: - ha
ragionato Congiusta - il vescovo
Morosini, ovvero la Chiesa, ha
diritto di
perdonare
gli assassini
delle tante
vittime
innocenti di
mafia,
essendo
prerogativa
della Chiesa
solo
assolvere,
rimanendo
il diritto del
perdono
prerogativa
di chi il
torto lo ha subito, cioè le vittime?
(…) Gli aspetti che accomunano
la maggior parte dei familiari di
vittime innocenti, ne conosco
moltissimi, sono la mancanza di
odio e il grande dolore che
scandisce la quotidianità, con
l’unico e primario obiettivo di
avere giustizia, prima di tutto
attraverso l’espiazione della pena.
Da quello che ho potuto percepire
dalle parole dell’omelia,
l’espiazione della pena assume
secondaria importanza, non
gestendo la Chiesa la giustizia
terrena”. Al di là della querelle sul
perdono, insomma, le parole di
Morosini hanno acceso i riflettori
sulla complessità del rapporto tra
Chiesa e ’ndrangheta, tra giustizia
divina e umana, tra don e boss.
Nella loro costante ricerca di
consenso, le cosche calabresi sono
spesso davanti all’altare, a
trafugare simboli, riti e figure da
imbrattare nelle cerimonie di
affiliazione, a mescolarsi nelle
processioni, mettendosi in spalla
Santi e Madonne, ad organizzare
feste patronali. In questo scenario
per il procuratore di Palmi,
Giuseppe Creazzo, “il problema
vero del quale si deve parlare,
posto che la ’ndrangheta è e
rimarrà davanti all’altare, è cosa
fa l’altare dinanzi alla
’ndrangheta”. E le considerazioni
del magistrato, intervenuto il 10
settembre a Reggio Calabria al
dibattito sul tema organizzato da
Stopndrangheta.it e Sabbiarossa
edizioni, non sono state
rassicuranti: “Ancora oggi alcuni
sacerdoti in pubbliche interviste
minimizzano il fenomeno
mafioso. Ancora oggi, nei
processi contro le più agguerrite
cosche di ’ndrangheta, vengono
chiamati a testimoniare in difesa
di imputati alcuni sacerdoti, i
quali, come emerge dalle
deposizioni rese, non
testimoniano tanto su fatti
concreti a loro conoscenza, ma si
affannano a dare patenti di brave
persone, peraltro processualmente
inammissibili, ad imputati di
mafia. E a questi fenomeni, spiace
dirlo, purtroppo non fa eco nella
maggior parte dei casi una più
autorevole voce di Chiesa a
stigmatizzarli”. Pur mai nominato
da Creazzo, il riferimento
chiarissimo era a don Memè
Ascone, l’anziano sacerdote di
Rosarno che nel luglio scorso,
deponendo al processo All Inside
contro la cosca Pesce, aveva
garantito: “Francesco Pesce è un
mio amico, Domenico Varrà è un
gran gentiluomo e Franco Rao è
una brava persona”. I suoi amici
devono tutti
rispondere di
associazione a
delinquere di
stampo mafioso.
Ma don Memè
non ha dubbi: “In
questo processo ci
sono persone
detenute
ingiustamente”. Il
pm, durante la sua
deposizione, ha
abbandonato
l’aula. Don Memè
non è in Calabria
il solo prete finito
“in cronaca”. Ci sono sacerdoti
ammazzati come boss - nel 1966,
nell’ambito della faida di Ciminà,
viene ucciso don Antonio
Esposito che circolava con la
pistola sotto la tonaca, nel 1989
tocca all’economo di Polsi, don
Peppino Giovinazzo - e ci sono
sacerdoti entrati in Tribunale da
imputati, come don Giovanni
Stilo, accusato di associazione
mafiosa e poi assolto, e come don
Nuccio Cannizzaro, cerimoniere
’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti?
Casablanca pagina 20
del vescovo di Reggio, Vittorio
Modello, rinviato a giudizio nel
marzo 2012 per falsa
testimonianza aggravata dall’aver
favorito la ’ndrangheta. Nello
specifico, il boss di Croce
Valanidi Santo Crucitti.
Ma in Calabria ci sono pure altari
dai quali la ’ndrangheta è stata
cacciata in malo modo e con
parole definitive. “L’onore è un
bene indicibile che consiste nella
rettitudine e nella virtù
dell’animo, ma l’insipienza degli
uomini arriva spesso a fare
apparire come onore le cose più
inutili e talora gli stessi delitti”,
ragionava negli anni Settanta il
piemontese Giovanni Ferro,
arcivescovo di Reggio Calabria
che la storia dei valori capovolti
della ’ndrangheta l’aveva capita e
nel 1975, da presidente della
Conferenza episcopale calabra,
aveva deciso che toccava
attaccarla frontalmente e
ufficialmente. Scrivendo
L’episcopato calabro contro la
mafia, disonorante piaga della
società, il documento firmato
quell’anno dai vescovi della
regione, aveva scelto, non a caso,
il termine “disonorante”, per
sottolineare che l’onore, quello
vero, era tutta un’altra cosa. Il 2
agosto 1984, da dietro un altare
improvvisato nella piazza di
Lazzaro, frazione costiera di
Motta San Giovanni, il suo
vicario, don Italo Calabrò,
sull’onore dei mafiosi ci tornerà
con pugno fermo. Di fronte al
sequestro dell’undicenne
Vincenzino Diano il sacerdote ha
deciso di bandire prudenza e
comprensione. “I mafiosi si
ritengono uomini e, addirittura,
‘uomini d’onore’: se c’è qualcuno
che invece non è uomo è il
mafioso, e se c’è qualcuno che
non ha onore è il mafioso, i
mafiosi non sono uomini e i
mafiosi non hanno onore; questo
dobbiamo dirlo tranquillamente
con tutta la comprensione e la
pietà”. Don Italo è reggino, ha una
passione per gli ultimi e nella sua
parrocchia di San Giovanni di
Sambatello, regno del boss Mico
Tripodo, ha imparato giorno per
giorno cos’è la ’ndrangheta e,
soprattutto, che la cristiana pietà
per i peccatori non deve mai
generare silenzio. “Nel coraggio
del suo pastore la gente ritrova il
suo coraggio”, ama ripetere. E
allora don Italo parla chiaro. Ai
mafiosi ammazzati celebra i
funerali, ma trasformando ogni
omelia in un pesantissimo atto
d’accusa. Qualche volta se la
vedrà brutta. Nel rispetto del suo
esempio, non sarà il solo, in
Calabria. A don Giacomo
Panizza, che a Lamezia Terme ha
riempito la casa confiscata alla
cosca Torcasio di disabili ed
emarginati, gliel’hanno promessa
da un po’. E con regolarità glielo
ricordano con incendi, bombe, o
danneggiamenti. Quello che aveva
il compito di ammazzarlo fu
ammazzato prima di eseguirlo.
Don Giacomo vive sotto scorta.
Fiamme dolose, minacce e
intimidazioni anche per la
cooperativa “Valle del Marro”,
fondata da don Pino Demasi per
gestire i terreni confiscati alle
cosche nella Piana di Gioia Tauro.
Mentre a don Ennio Stamile, che
a Cetraro durante la messa si era
scagliato contro i responsabili di
una lunga serie di atti
delinquenziali, hanno recapitato
una testa di maiale con un pezzo
di stoffa in bocca, a mo’ di
bavaglio. Esempi, tra i molti
possibili, di una Chiesa calabrese
che sa anche respingere, con gesti
e parole inequivocabili,
l’abbraccio mortale con cui la
’ndrangheta vorrebbe infangarla.
Sughereta e MUOS?
Casablanca pagina 21
Sughereta e MUOS? eco-incompatibile
Antonio Mazzeo
Avevano deciso, lì avrebbero fatto il MUOS. Ma è un Sic (Sito Interesse Comunitario) Non
importa. Oggi, la foto è eloquente.“La collina sventrata, voragini ampie come i crateri di un
vulcano, il terreno lacerato dal transito dei mezzi pesanti, ruspe, betoniere, camion.
Recinzioni di filo spinato, tralicci di acciaio. Una selva di antenne, terrazzamenti, gli uni
sugli altri, per centinaia e centinaia di metri. In cima, tre piattaforme in cemento armato…
(denuncia Italia Nostra). La Marina militare statunitense non si è preoccupata nemmeno di
presentare una benché minima, seria, valutazione degli impatti… Ma si sa gli americani qui
da noi in Sicilia in particolare, possono fare quello che vogliono. Distruggere l’ambiente, fare
affari, fregarsene delle nostre regole… Non tener conto del certificato antimafia. Tutto ciò
che hanno fatto nella sughereta di Niscemi è contro legge, ma il governatore Lombardo ha
autorizzato! Le leggi? L’impatto ambientale? Il rischio per le persone, le piante, gli animali?
Chi se ne f...
Come una favola di altri tempi.
Un don Chisciotte di provincia
che con il fedele scudiero si lancia
contro il gigante che imperversa
nei boschi millenari, l’Eco-
MUOStro di Niscemi, lo
chiamano. Una lotta impari, ma
alla fine il cavaliere innamorato di
principessa Natura disarciona
l’essere repellente. Poi lo
impacchetta, lo sigilla e lo
rispedisce al mittente. Al di là
dell’Atlantico, in Virginia, Stati
Uniti d’America.
Nella realtà tutto è accaduto in
poche ore. A Caltagirone, la sera
del 5 ottobre, il consiglio
comunale vota un ordine del
giorno contro l’installazione
all’interno della riserva naturale
“Sughereta” di Niscemi del
terminale terrestre del Muos, il
nuovo sistema di telecomu-
nicazioni satellitari della marina
militare Usa. Per il giorno
successivo, sabato 6, il
coordinamento dei comitati
siciliani No Muos ha convocato la
prima manifestazione nazionale
per chiedere la revoca delle
autorizzazioni ai lavori e lo
smantellamento delle antenne
esistenti a Niscemi da oltre
vent’anni. Sarà un chiassoso
serpentone di due chilometri dalle
mille bandiere e striscioni
colorati. Nessuno ancora
immagina il successo straordina-
rio di quell’evento. E nemmeno
che nelle stesse ore i cantieri del
Muos sono stati raggiunti dai
carabinieri e dagli agenti di
polizia chiamati ad eseguire
l’ordine di sequestro preventivo e
l’apposizione dei sigilli ai
manufatti per violazione delle
leggi di tutela ambientale.
ARRIVANO I NOSTRI
A emettere il provvedimento, il
primo nella storia ai danni di
un’arma strategica delle forze
armate statunitensi in territorio
italiano, il Gip presso il Tribunale
di Caltagirone, Salvatore Acqui-
lino, su richiesta del procuratore
Paolo Giordano. “Attraverso
consulenze tecniche e documenti
sono state accertate violazioni
delle prescrizioni riguardanti il
decreto istitutivo dell’area
protetta e il relativo
regolamento”, ha spiegato il
dottor Giordano. La Procura ha
anche emesso cinque avvisi di
garanzia - ancora top secret i
nomi - contestando la violazione
dell’art. 181 del testo unico sui
beni culturali del gennaio 2004
che sanziona “chiunque, senza la
prescritta autorizzazione o in
Sughereta e MUOS?
Casablanca pagina 22
difformità di essa, esegue lavori
di qualsiasi genere su beni
paesaggistici”. Le indagini erano
state avviate nel luglio del 2011 a
seguito di un esposto del Comune
di Niscemi e si sono avvalse delle
perizie e delle testimonianze di
tecnici e ambientalisti.
Dal punto di vista formale,
l’installazione del terminale Muos
(3 antenne paraboliche di 18,4
metri di diametro e 2 torri radio di
149 metri d’altezza) era stata
autorizzata, l’1 giugno 2011,
dall’Assessorato Territorio ed
Ambiente della Regione
siciliana, in palese violazione
delle norme di attuazione
previste dal Piano territoriale
paesistico della Provincia di
Caltanissetta per la riserva di
Niscemi, approvato dalla
stessa Regione nel maggio
2008. Il Piano aveva inserito
l’area naturalistica all’interno
del cosiddetto “livello di
tutela 3”, limitando gli interventi
alla mera conservazione del
patrimonio naturale esistente, alla
“rinaturalizzazione” e alla
“sostituzione delle specie vegetali
alloctone con specie autoctone” ai
fini del potenziamento della
biodiversità e della salvaguardia
idrogeologica. Il Piano territoriale
vietava invece espressamente la
“realizzazione di infrastrutture e
reti, tralicci, antenne per
telecomunicazioni, impianti per la
produzione di energia, nuove
costruzioni e l’apertura di strade e
piste”. Proprio quanto autorizzato
dalla Regione dopo la repentina
conversione pro-Muos del
governatore Raffaele Lombardo.
La riserva naturale “Sughereta” è
un Sito di Interesse Comunitario
di Natura 2000 (SIC) ed è il
residuo di una vasta area boschiva
(sugheri e lecci) che copre le
ultime propaggini collinari dei
monti Iblei, degradanti verso la
costa della piana di Gela.
Comprende un’area complessiva
di quasi 3.000 ettari, di cui 1.179
in zona A (riserva propriamente
detta) e il resto in zona B
(preriserva). Dichiarata area
naturale protetta con il Decreto
Assessoriale n. 475 del 25 luglio
1997, è stata affidata in gestione
all’Azienda Regionale Foreste
Demaniali.
L’ ARROGANZA
STATUNITENSE
La riserva di Niscemi costituisce
un biotopo di notevole interesse
naturalistico e scientifico, ed è
stata designata per la presenza di
quattro habitat, di cui uno
prioritario. Ricca e di ampia
distribuzione la flora esistente
nell’area interessata dal nuovo
programma militare. Si tratta di
circa 200-250 specie diverse, il
40% delle quali esclusive del
bacino del Mediterraneo, con
alcune già sottoposte a tutela
internazionale (orchidacee,
liliacee, iridacee e cistacee).
L’area si trova lungo le linee di
migrazione dell’ornitofauna ed
ospita ben 122 specie diverse di
uccelli, 8 delle quali tutelate da
direttive e convenzioni
internazionali, 3 classificate come
“vulnerabili” e 2 “minacciate”.
Delle 11 specie di anfibi e 27 di
rettili che vivono in Sicilia, sono
presenti nel SIC di Niscemi,
rispettivamente, 4 e 14 specie.
Nella riserva s’incontrano infine
16 specie di mammiferi, 5 delle
quali a rischio di estinzione.
Uno straordinario patrimonio di
flora e fauna che non è stato preso
in considerazione né dai
progettisti dell’impianto Usa né
dai funzionari della Regione
siciliana, che pure erano in
possesso di uno studio sui
possibili impatti del Muos
sull’habitat a firma di tre
professionisti siciliani, Donato La
Mela Veca, Tommaso La Mantia e
Salvatore Pasta. La
relazione, acquisita dal
Comune di Niscemi il 10
ottobre 2009, documentava
in particolare
l’“inadeguatezza” e la
“scarsa attendibilità” della
valutazione d’incidenza
ambientale presentata dalla
Marina militare statunitense.
“Manca una benché minima
valutazione degli impatti
che l’infrastruttura avrà
sulla fauna in fase d’esercizio e le
considerazioni sugli impatti su
flora e vegetazione in fase di
cantiere sono a dir poco scorrette
e inconsistenti”, scrivono gli
esperti. “Relativamente allo
studio della vegetazione, sono
stati del tutto trascurati gli
elementi di maggiore pregio.
Eppure nell’area destinata ai
lavori resta appurata la presenza
di lembi sensibili di habitat
d’interesse comunitario e
prioritario e la potenziale
presenza di specie tutelate dalle
normative vigenti a livello
nazionale ed internazionale”.
Sughereta e MUOS?
Casablanca pagina 23
LA COLLINA SVENTRATA Le opere eseguite dalle imprese
aggiudicatrici hanno però avuto
effetti ancora più devastanti di
quanto era possibile prevedere in
fase progettuale. “L’area in cui è
in corso l’installazione del Muos
si presenta come un paesaggio da
incubo”, scrive Italia Nostra nel
dossier Paesaggi sensibili 2012,
dove la “Sughereta” di Niscemi
compare tra le 10 aree protette
nazionali in serissimo pericolo di
sopravvivenza. “La collina
sventrata, voragini ampie come i
crateri di un vulcano, il terreno
lacerato dal transito dei mezzi
pesanti, ruspe, betoniere,
camion”, denuncia Italia Nostra.
“Recinzioni di filo spinato,
tralicci di acciaio. Una selva di
antenne, terrazzamenti, gli uni
sugli altri, per centinaia e
centinaia di metri. In cima, tre
piattaforme in cemento armato…
Una storia che viene da lontano,
dove insipienza e superficialità
hanno permesso di infierire
ancora sulla Sicilia e il suo
corredo di basi americane, dove lo
Stato Italiano cede sovranità di
pezzi di territorio, addirittura in
aree protette. Dove le leggi di
tutela ambientale non hanno più
efficacia e non si rispetta il
principio di precauzione che il
danno alla salute dei cittadini può
provocare con la presenza di
potentissimi radar, con onde
nocive che nessuno potrà
misurare quando
l’impianto sarà terminato”.
“Sughereta e Muos
rappresentano un binomio
eco-incompatibile”,
commenta lapidario il
professore Salvatore
Zafarana, presidente del
Centro di Educazione e
formazione Ambientale di
Niscemi. “In passato si era
riusciti a ridare continuità
alle aree boschive
mediante la rinaturalizzazione
delle aree degradate,
l’acquisizione al demanio di
terreni privati e di 150 ettari di
bosco gravato da servitù militare.
In direzione opposta va,
purtroppo, la costruzione del
famigerato nuovo sistema satel-
litare. È stato stroncato un
processo di successione ecologica
positivo che aveva portato alla
colonizzazione dei suoli sabbiosi
e steppici con specie cespugliose
di gariga mediterranea. La
superficie destinata ad accogliere
il Muos, unita a quella occupata
dalle 41 antenne di
telecomunicazioni Usa erette a
partire dagli anni ’90, hanno
vanificato ogni possibilità di
collegamento delle aree boschive
più meridionali con quelle più a
nord e con il residuo bosco ad est.
Ad essere compromessi sono dei
lotti già degradati come quelli di
Mortelluzzo e Valle Porco di
limitate estensioni, ma di
indiscusso pregio naturalistico e
paesaggistico”.
UNA GRANDE
MANIFESTAZIONE
Zafarana lamenta infine che gli
interventi autorizzati dalla
Regione erano “assolutamente
stridenti” con gli strumenti di
tutela della riserva. “Durante i
lavori del Muos si è assistito a
ingenti movimenti di terra e ad
enormi colate di cemento.
All’occhio esperto non sfugge che
l’entità delle trasformazioni in
atto travalica quanto
espressamente previsto dal
progetto originario, denotando
una gravissima manomissione
dell’ambiente con l’aggravante di
esplicarsi a danno di un’area
protetta di interesse
internazionale”. Adesso però i
rilievi degli ambientalisti sugli
scempi causati dal nuovo sistema
militare, inascoltati o disattesi in
sede politica-amministrativa,
approdano negli uffici di una
procura.
“Il sequestro preventivo attuato
dai magistrati di Caltagirone è il
primo grande risultato, che non
deve fare cantare vittoria, ma che
invece deve servire a dare ancora
più forza a tutte le azioni che
d’ora in poi seguiranno, e che non
si fermeranno fino a quando non
saremo sicuri che il Muos non si
farà”, dichiara l’avvocata Paola
Ottaviano, esponente No Muos di
Modica. “La grande
manifestazione del 6 ottobre a
Niscemi ha dimostrato che anche
in Sicilia è possibile mettere in
atto delle lotte che partono dal
basso, in difesa del territorio,
dell’ambiente, della salute, contro
l’imposizione folle di strumenti di
morte. La nascita dei comitati
rappresenta la volontà di tanta
gente a non piegarsi alla
rassegnazione, davanti a fatti che
riguardano tutti noi e il
futuro. Futuro di cui la
classe politica attuale,
gretta e corrotta, non ha
alcuna considerazione e
cura”.
La fiaba sull’incontro-
scontro tra gli ultimi
eredi dei cavalieri
erranti e il mostro-
strumento delle future
guerre planetarie è
appena all’inizio.
Giornata mondiale del rifugiato…
Casablanca pagina 24
Mineo
Una festa al c.a.r.a. Diversamente uguali
Giovanna Regalbuto
C.A.R.A. di Mineo: circa 2.000 persone che provengono dalle più disparate parti del Mondo,
Africa del Nord e del Sud, Pakistan, Iran, Iraq, Afghanistan, Costa d’Avorio, etc… Diverse
fra loro, vivono insieme, una condizione assolutamente surreale: Apolidi, tutti “sospesi”,
come in un limbo. Per un giorno si ritrovano protagonisti di una bellissima festa all’interno
del centro insieme mediatori culturali, volontari che parlano l’arabo, l’inglese e il francese,
volontari, avvocati e psicologi, musicisti, canti, balli, teatro. La tragedia dell’immigrazione
riproposta in forma teatrale dagli stessi protagonisti con attrezzature di fortuna è uno schiaffo
morale, una violenta riproposizione della crudeltà del mondo occidentale. Vista sul palco è
un pugno allo stomaco. Nella quotidianità? Vabbè non sono uguali a noi, che se ne stiano
nella loro terra.(!!!???)
La vicenda del C.A.R.A. di
MINEO si ascrive assolutamente
nel registro folle delle questioni
cruciali e centrali della nostra
contemporaneità risolte con un
colpo di spugna!
Certo è anche vero che nel periodo
della rivoluzione araba, ci siamo
ritrovati Maroni ad assumere la
carica di Ministro degli Interni e la
legge Bossi-Fini a regolare e a
trattare l’umanità come se fosse
carne da macello!
Senza troppi preamboli, l’im-
migrazione araba e non solo ha
prodotto in Italia delle politiche di
“contrasto” al fenomeno interpre-
tate nel “migliore dei modi” da chi
è riferimento di un partito politico
che è stato promotore della
disinfestazione dei treni del Nord,
dell’attacco alla cultura araba e
alla sua tradizione religiosa, degli
appostamenti nei villaggi rom, e
così via, veicolando e
propagandando un messaggio
culturale e mediatico della
diversità etnica quale
contaminazione virale di mal
costumi, di violenza e di pericolo
urbano.
Per cui, dato il contesto politico e
culturale di chi gestiva il processo,
sembra del tutto consequenziale la
scelta di limitare il dramma sociale
all’interno di un “non-luogo” sito
nel calatino, a ridosso di una
super-strada, super-attrezzato in
termini di sistemi di sicurezza: il
villaggio degli americani!
Dove? In Sicilia. Non a caso,
ovviamente.
In quei giorni drammatici in cui
morivano centinaia di persone, in
Italia si discuteva di affari!
Nonostante le beghe personali, il
Ministro Maroni e il Presidente
Berlusconi, sono riusciti a sedersi
comodamente con buona pace
degli italiani e dei siciliani,
distratti dalla crisi economica e
dall’allarme sociale, e a
concludere l’affare dell’anno se
non della legislatura, con una tra le
più grandi imprese costruttrici
d’Italia (peraltro anche esecutrice
dell’autostrada siciliana Catania-
Siracusa), la Pizzarotti S.p.A , che
si trovava con un significativo
patrimonio immobiliare sfitto.
A far desistere dalla scelta il
Governo Berlusconi non sono
bastate le mobilitazioni da parte
dei sindaci del Calatino, primo fra
tutti il Prof. Franco Pignataro e
l’amministrazione di Caltagirone
con l’Assessore alle politiche
sociali la Dott.ssa Cristina Navarra
né le mobilitazioni delle reti
associative civiche che da anni
lavorano con gli immigrati e per i
diritti umani e l’integrazione
sociale.
E così molto rapidamente e
convulsamente migliaia di
immigrati vengono “deportati” e
distribuiti in diversi centri in Italia
- o scusate nel meridione -, ma il
Giornata mondiale del rifugiato…
Casablanca pagina 25
numero più significativo viene
trasferito nel Villaggio a 5 stelle: il
C.A.R.A. di Mineo!
UNO SCHIAFFO MORALE
In occasione della manifestazione
del rifugiato promossa ormai da
diversi anni dall’associazione
ASTRA di Caltagirone,
associazione da sempre impegnata
nel campo dell’integrazione
sociale con presidente Gemma
Marino, si pensa ad organizzare
oltre alla tradizionale tavola
rotonda un laboratorio teatrale
proposto dall’associazione Magma
idee in movimento.
Il teatro, sì. Il teatro sociale viene
scelto come strumento, linguaggio
non semplicemente per
comunicare agli altri ma anche e
soprattutto come occasione per
liberarsi di una sofferenza repressa
di drammi mai
espressi. Il teatro
come ponte di
comunicabilità tra
diversi, noi e loro, il
teatro come lingua
universale che supera
ogni differenza etnica,
linguistica, culturale
che consente di
esprimere quanto più
efficacemente il
manifesto dell’evento,
della manifestazione
pubblica:
“DIVERSAMENTE UGUALI!”
Alla tavola rotonda in Piazza
Municipio segue lo spettacolo dei
ragazzi che mettono in atto una
rappresentazione del loro esodo e
poi approdo nella terra della
speranza: Lampedusa.
L’odissea descritta e inscenata sul
palco con materiali, scenografie e
sceneggiatura di fortuna è frutto di
un laboratorio di tre giorni aperto a
chiunque ha voglia di partecipare.
Le cooperative sociali e le
associazioni del terzo settore: S.G.
Bosco, S. Giuseppe, S. Antonio,
Ancora & Timone, ASTRA e
Magma idee in movimento sono
coinvolte in prima persona.
A contribuire ad un’esperienza
unica due ragazze: Lara Pedilarco,
arteterapeuta e Nati Piacentini,
musicista argentina.
La scommessa dell’iniziativa è
legata all’attenzione al processo e
non al risultato finale!
I ragazzi durante le ore
laboratoriali piangono, cantano,
parlano delle loro esperienze e il
teatro, la finzione si confonde e si
identifica con la realtà, le loro
storie di vita diventano la
rappresentazione della nostra vile
civiltà!
Uno schiaffo morale, una violenta
riproposizione della crudeltà del
mondo occidentale colpisce
quanti, come me, partecipano al
laboratorio.
Ma i ragazzi continuano a darci
lezioni, lezioni di civiltà, lezioni di
amore per la propria terra, lezioni
di tenacia e di rivoluzione!
È così che lo spettacolo si
conclude con una pianta che viene
radicata al centro della Piazza di
Caltagirone.
In un’aiuola: un messaggio di pace
ma anche di primavera, quella
primavera araba che in quei giorni
si stava affermando in un paese
sconvolto dalla violenza, dal
sopruso e dalla dittatura!
Allo spettacolo segue la festa: gli
operatori sono invitati a salire sul
palco dai loro ragazzi e a ballare
con loro. È curioso vedere come
Silvia venga trascinata dal gruppo
di “attori” e si diverta a ballare con
loro con naturalezza, con
semplicità come se fosse nel
chiuso del suo istituto.
Tutto questo in Piazza e su un
palco dove a guardare sono i
passanti, quanti “stazionano”
usualmente nell’agorà cittadina e
coloro che partecipano all’inizia-
tiva.
È QUI LA FESTA?
L’indomani è il 19 giugno 2011, la
“Giornata Mondiale del Rifu-
giato”, quale migliore occa-sione
per provare ad avere accesso
nonostante e dopo i vari tentativi,
richieste di autoriz-zazione,
domande da parte delle
associazioni del terzo
settore, al C.A.R.A.
di Mineo?
Appuntamento alle
16:30 all’ingresso del
noto C.A.R.A. o
Villaggio degli Aranci
di Mineo.
Andiamo in tanti, ci
ritroviamo lì:
l’associazione
ASTRA, Magma idee
in movimento e
l’Assessore alle
Politiche Sociali del
Comune di Caltagirone, comune la
cui amministrazione si è sempre
opposta alla “soluzione” del
Ministro Maroni di utilizzare il
Villaggio come un albergo a 5
stelle dove “confinare” la
“questione immigrati”.
Dopo circa un’ora, durante la
quale sono stati osservati tutti i
passaggi burocratici scrupo-
losamente eseguiti con controlli
incrociati delle richieste di
autorizzazione da parte della
questura e delle liste compilate
Giornata mondiale del rifugiato…
Casablanca pagina 26
dalle associazioni, passaporti, carte
di identità, e così via, siamo
dentro. La compagnia è ben
assortita: mediatori culturali,
volontari che parlano l’arabo,
l’inglese e il francese, volontari
avvocati e psicologi, musicisti,
casse, amplificatori e strumenti.
Siamo pronti per dare il via alla
festa del rifugiato, lì dove si
raccoglie una città intera di
persone, circa 2.000, che
provengono dalle più disparate
parti del Mondo: Africa del Nord,
Africa del Sud, Pakistan, Iran,
Iraq, Afghanistan, Costa d’Avorio,
etc. etc…
L’impatto è sconvolgente: migliaia
di ragazzi e ragazze costretti in un
luogo completamente anonimo e
assai lontano dalle loro tradizioni e
dalle loro culture. Lì tutto è uguale
a se stesso, viali, case,
piantumazione, quanti lo vivono
hanno ben poco in comune se non
la condizione assolutamente
surreale, di essere “sospesi”, come
in un limbo…“apolidi”.
Ci raccontano di non
avere più notizie dello
stato delle loro
procedure avviate in
altre parti d’Italia per
ottenere il Diritto di
Soggiorno, che
nessuno è in grado di
rispondere alle loro
domande, che il tempo
passa, lentamente, e
moltissimi di loro non
sono più riusciti a
mettersi in contatto
con i propri cari.
Mentre J., della Costa di Avorio, ci
dice che hanno a disposizione solo
una scheda telefonica per
chiamare, per cui essendo così
tanti, devono aspettare diversi
giorni perché arrivi il proprio
turno, C. , senegalese con una
bimba in braccio, ci racconta della
difficoltà delle donne che vivono
all’interno del Villaggio; molte di
loro, ci dice, sono incinte e ci fa
intendere che la risicata
disponibilità economica destinata
ad ognuno di loro (1,50 euro circa)
induce alcune ad arrotondare. Si
ferma con noi anche F., anche lei
africana, e ascolta senza dire nulla
ma il suo corpo è abbastanza
eloquente: è piena di lividi.
Indossano indumenti usati,
ricordano quelli delle raccolte per i
terremotati, ci continuano a
chiedere delle schede telefoniche. I
bambini che non dovrebbero
essere destinati a centri di questo
tipo così come le donne,
cominciano a venirci incontro:
quale sicurezza può essere
garantita a queste donne, peraltro
in numero così ridotto rispetto agli
uomini, che diventano oggetto di
attenzione da parte dei tanti che
vivono in assoluta cattività?
Veniamo avvicinati dal
responsabile della sicurezza, un
romano, che ci ricorda di non
utilizzare nessuna telecamera o
registratore…
Dopo che comunichiamo loro il
motivo della nostra visita ed
incursione, traducendolo in ben tre
lingue diverse, la Dott.ssa Cristina
Navarra racconta loro l’impegno
profuso dalle istituzioni calatine
perché la presenza nel nostro
territorio non fosse relegata al solo
Villaggio ma fosse considerata
piuttosto la loro condizione
umana, fosse tenuto in
considerazione il valore della
multiculturalità secondo cui
l’integrazione poteva e doveva
avvenire all’interno dei territori e
dei Comuni del Comprensorio
Calatino, restituendo loro la
dignità e il diritto di vivere una
vita “normale”, di poter lavorare,
di poter trascorrere il tempo libero
oltre e al di fuori quel “bunker”.
E subito dopo musica, solo
musica, canto… i ragazzi si
avvicinano e cominciano a ballare,
ognuno per gruppi secondo le loro
tradizioni e i loro costumi… da lì a
poco passiamo il microfono e sono
loro adesso a condurre la serata, a
cantare le loro canzoni, a sentirsi a
casa… assieme a tanti altri e altri
ancora.
Si fa tardi ed è ora di andare, il
momento più difficile… non
vogliono, ci chiedono se
torneremo, quando, e come se già
sapessero che quella era stata una
giornata irripetibile, ci chiedono di
fare delle foto, tante foto… E così
sollecitati anche dal servizio di
sicurezza andiamo via,
lasciandoci alle nostre
spalle donne, uomini,
bambini, sì anche
bambini, con la
promessa che saremo
ritornati presto…
È passato più di un anno
e tutti noi portiamo quel
ricordo e la grande
amarezza di non essere
potuti ritornare a
trovarli. Solo adesso ci
siamo resi conto di come
sia eccezionale quella esperienza
che con ostinazione, grinta e
caparbietà avevamo voluto fino a
mettere in imbarazzo chi doveva
autorizzare la nostra entrata, quel
giorno proprio per la “Giornata
Mondiale del Rifugiato” e non ha
avuto il coraggio di dire NO!
…nuove forme di detenzione
Casablanca pagina 27
Il gabbio di Lampedusa Nuovi profili della
detenzione amministrativa
degli immigrati irregolari in
Italia
Fulvio Vassallo Paleologo
Definiti “ospiti” una volta arrivati
sulle nostre coste, gli immigrati
clandestini per subito vengono
rinchiusi. Galere? No, centri.
Ovvero luoghi in cui le regole di
detenzione amministrativa cambiano frettolosamente grazie “all’emergenza”.
Nei centri, le “persone” arrivate illegalmente in Italia, dovrebbero essere identificate e trattate
da esseri umani. Invece, sono abbandonati alla disperazione, o sedati con l’uso massiccio di
psicofarmaci. Nel 2011 decine i casi di autolesionismo e diversi tentativi di suicidio nel centro
di prima accoglienza e soccorso di Lampedusa, nell’ex caserma Barone di Pantelleria, ed altre
strutture di accoglienza allestite per l’emergenza Nord-Africa. La responsabilità per gli
incidenti e le disfunzioni? Ricadeva solo sugli immigrati e poi le indagini - almeno in passato -
si arenavano o venivano archiviate.
Il “gabbio”, di Lampedusa, un centro nel centro, nel quale non si effettuano convalide e non
entrano difensori ed organizzazioni umanitarie al di fuori di quelle convenzionate con il
Ministero dell’Interno.
Detenute sotto tutti i punti di
vista, ma definite dalle autorità
amministrative e dagli enti gestori
come “ospiti”, in realtà gli
immigrati giunti irregolarmente
nel territorio italiano possono
essere rinchiusi in strutture con
diverse denominazioni, e con
diverse modalità di limitazione
della libertà personale. Anche a
seconda della nazionalità, che
incide sulle probabilità di
rimpatrio, in base agli accordi
bilaterali ed alle differenti prassi
applicative degli accordi di
riammissione.
Il CPSA (Centro di primo
soccorso ed accoglienza) di
Contrada Imbriacola a
Lampedusa, dopo la breve
parentesi come CIE nel febbraio
del 2009, conclusasi con una
rivolta e con un incendio che lo
distruggeva parzialmente, era
stato ristrutturato e di nuovo
riattivato, dal febbraio del 2011,
come centro di prima accoglienza
e soccorso (CPSA), ma con una
parte utilizzata, di fatto, come
centro chiuso - il cosiddetto
gabbio. Un vero e proprio centro
di trattenimento mai qualificato
ufficialmente come CIE, nel quale
dunque non si effettuavano
convalide e non entravano
difensori ed organizzazioni
umanitarie al di fuori di quelle
convenzionate con il Ministero
dell’Interno.
E lo stesso periodico mutamento
di destinazione, e di natura
giuridica, si è verificato per il
centro ubicato a Lampedusa nella
vecchia base Loran, una struttura
utilizzata nel 2011 per il
trattenimento prolungato, dunque
illegale, di minori non
accompagnati, ma qualificata nel
sito del Ministero dell’Interno
come centro di identificazione ed
espulsione, una struttura che ha
continuato a funzionare dopo che
…nuove forme di detenzione
Casablanca pagina 28
nel 2009 era intervenuta persino la
magistratura, per bloccarne
l’ampliamento in vista della
creazione di un grande centro di
detenzione, alla vigilia di gravi
abusi edilizi. Nel corso del 2011 il
centro dell’ex base Loran è stato
così utilizzato per il trattenimento
prolungato di decine di minori
non accompagnati, in una
situazione di fatiscenza delle
strutture e di evidente degrado
derivante dalla promiscuità e
dall’abbandono. Una situazione
che anche il procuratore antimafia
Teresi, in una sua visita a
Lampedusa ai primi di settembre
del 2011, ha potuto rilevare
direttamente, dichiarando che “in
un paese civile la base Loran
dovrebbe essere chiusa”, una
situazione che prima ancora che
dalla Procura antimafia, avrebbe
dovuto sollecitare un intervento
dei NAS della Guardia di Finanza.
IL GABBIO E LA
DISPERAZIONE
Per chiudere quel centro già
nel corso dell’emergenza
Nord-Africa del 2011 sarebbe
bastato rilevare la cronica
carenza d’acqua e il sistema
fognario non a norma, come
non risultavano conformi alla
legge le procedure adottate nei
confronti dei minori non
accompagnati, la cui presenza
non veniva segnalata per
tempo né agli assistenti sociali né
al Tribunale dei minori, come
prescritto dalla legge. Fatti
inoppugnabili, sui quali in tanti
hanno preferito tacere, anche se
non sarebbe stato difficile
ricostruire una documentazione
completa, che nessuno, sia a
Lampedusa, che ad Agrigento ed a
Roma ha voluto raccogliere. Fatti
sui quali, nonostante un articolato
esposto depositato in diverse
procure italiane dall’onorevole
Zampa e da altri parlamentari, la
magistratura non ha saputo fare
luce, rincorrendo invece
improbabili scafisti, anche
minorenni, scelti sulla base delle
testimonianze di qualche migrante
rimesso subito dopo in libertà o
rimpatriato.
Nel corso degli anni le prassi
amministrative in materia di
trattenimento e di respingimento,
sono andate ben oltre le previsioni
di legge. Nell’impossibilità di
adottare i decreti del questore di
respingimento e di trattenimento,
secondo quanto previsto dagli
articoli 10 e 14 del T.U. n. 286 del
1998, si è preferito “isolare” le
persone straniere, giunte o
rintracciate in condizioni di
irregolarità, in strutture chiuse
informali, non classificate come
CIE, dove venivano detenute a
tempo indeterminato. Così si sono
aperti temporaneamente e poi
chiusi i centri di prima
accoglienza di Porto Empedocle
(Agrigento),
di Licata (Agrigento), di Pozzallo
(Ragusa) e di Porto Palo
(Siracusa). Si sono concentrate
centinaia di persone in zone di
confinamento temporaneo,
limitandone, di fatto, la libertà
personale oltre i limiti (48+48
ore) previsti dalla legge e dalla
Costituzione (art. 13), solo per
effetto di misure di polizia, che
non hanno assunto neppure la
forma del provvedimento scritto e
motivato, come sarebbe richiesto
dalle normative comunitarie
(Regolamento Frontiere Schengen
n. 562 del 2006). Gli immigrati ai
quali non si è riconosciuto
neppure il diritto alla
comprensione linguistica ed alla
notifica tempestiva dei
provvedimenti di respingimento e
di trattenimento, sono stati
abbandonati alla disperazione, o
sedati con l’uso massiccio di
psicofarmaci, con decine di casi di
autolesionismo e diversi tentativi
di suicidio, come si era verificato
già nel 2011.
Tutto questo si è verificato non
solo nel centro di prima
accoglienza e soccorso di
Lampedusa e nell’ex caserma
Barone di Pantelleria, ma in molte
delle strutture di accoglienza
allestite per l’emergenza nord
africa e rimaste per mesi senza
uno statuto giuridico preciso (si
pensi ai CIET, centri di
identificazione ed espulsione
temporanei, a Kinisia,Trapani, a
Santa Maria Capua
Vetere ed a Palazzo San
Gervasio, Potenza).
TUTTO IN REGOLA!
In nessun caso mai, un
ente gestore o un prefetto
sono stati ritenuti
responsabili di quanto
successo alle persone
trattenute nei centri. Come in casi
precedenti che pure avevano
avuto tragiche conseguenze, la
responsabilità degli incidenti e
delle disfunzioni ricadeva
inizialmente solo sugli immigrati
e poi le indagini si arenavano o
venivano archiviate.
Anche dopo la rilevante
diminuzione degli sbarchi nelle
regioni meridionali italiane, con
un calo del novanta per cento nel
2012 rispetto all’anno precedente,
le prassi applicate sono rimaste
…nuove forme di detenzione
Casablanca pagina 29
ancorate ad un utilizzo
incontrollato della discrezionalità
amministrativa, in una materia
come la libertà personale, soggetta
al presidio dell’art. 13 della
Costituzione, che impone la
doppia riserva di legge e di
giurisdizione, per l’adozione di
misure come il trattenimento
amministrativo. La situazione nei
centri di identificazione e di
espulsione è diventata sempre più
incandescente, dopo la legge 129
del 2011 con il prolungamento a
18 mesi della detenzione
amministrativa e l’abbattimento
sostanziale di tutte le garanzie di
difesa, a partire dalle difficoltà
frapposte all’ingresso di legali di
fiducia, e alla utilizzazione dei
mediatori linguistici.
Malgrado fosse finita la fase degli
arrivi di massa si sono utilizzati i
centri di prima accoglienza come
centri di detenzione, nel tentativo
di respingere in pochi giorni i
migranti grazie ai riconoscimenti
sommari (solo in base alla
attribuzione della nazionalità) da
parte delle autorità consolari. Ed
ancora nel corso del 2012 si
registrano fughe e rivolte ovunque,
da Gradisca di Isonzo (Gorizia) a
Caltanissetta-Pian del Lago ed a
Trapani-Milo, mentre non si sa
nulla di quello che avviene nei
numerosi centri di transito
utilizzati in Sicilia, in
Calabria ed in
Puglia per i
respingimenti
sommari dei
cittadini
tunisini ed
egiziani, in base
a riconoscimenti
consolari
semplificati dopo
gli ultimi
aggiustamenti degli
accordi bilaterali
firmati dall’ex
ministro dell’interno
Maroni (quello con la Tunisia
firmato il 5 aprile 2011 è ancora in
vigore, nonostante il cambio di
governo e le mutate condizioni
politiche nei due paesi).
Di fronte alle prassi attuali ed alla
violazione reiterata di consolidati
principi costituzionali, e di
regolamenti o direttive
comunitarie che dovrebbero avere
un rango gerarchico superiore, è
urgente una profonda revisione
legislativa.
Bisogna abrogare l’attuale
normativa sui respingimenti, a
partire dall’art. 10 del T.U. n. 286
del 1998, e riformularla con
specifiche previsioni di legge e
garanzie effettive di difesa in
favore delle persone che ne siano
destinatarie. Vanno ridotti i casi di
rimpatrio con accompagnamento
forzato (Bossi-Fini del 2002), che
richiedono misure di trattenimento
amministrativo e procedure di
convalida che non risultano
applicabili nella generalità dei
casi, con violazioni sempre più
evidenti dell’art. 13 della
Costituzione italiana. Bisogna
quindi ripristinare il sistema delle
espulsioni basato generalmente
sulla intimazione a lasciare
il territorio dello stato,
come
era
previsto dalla legge 40 del 1998
(Turco-Napolitano) e come è
richiesto adesso dalla Direttiva
Comunitaria 2008/115/CE sui
rimpatri. E va assolutamente
spezzato il circuito carcere-CIE,
come prevedeva la circolare
interministeriale Amato-Mastella
del 30 luglio 2007, che
richiamava l’esigenza di effettuare
le identificazioni durante il
periodo di detenzione in carcere, e
dunque con una stretta
collaborazione tra
l’amministrazione della giustizia e
gli uffici di questura.
La prospettiva di lungo periodo,
che presuppone l’apertura di vie
legali di ingresso e la
regolarizzazione permanente su
base individuale di chi maturi nel
tempo requisiti come un lavoro e
la disponibilità di un alloggio, non
può che essere quella della
chiusura dei CIE, e della
utilizzazione della detenzione
amministrativa solo per quei casi
individuali di espulsione di
persone che costituiscono una
grave minaccia per l’ordine
pubblico e la sicurezza dei
cittadini. Ma sempre nel rispetto
dei diritti fondamentali della
persona umana,
dettati dalla
Costituzione e
dalla Carta dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
Europea, oltre
che dalla
Convenzione
europea a
salvaguardia
dei diritti
dell’Uomo.
Europa: baluardo da abbattere?
Casablanca pagina 30
La storia sembra non insegnarci nulla. Un
secolo fa furono concepiti i piani disumani
di sottomissione dell’Europa da parte del
sistema industriale…
Democrazia
sequestrata
Sotto dittatura i popoli europei Gianni Lannes
Euro sì? Euro no. Europa dei popoli? Europa delle banche? Tante discussioni, tavole rotonde,
studi, sondaggi. Paesi perplessi, indignados che si ribellano. Chi agisce, chi sta a guardare. Ma
qual’è il vero progetto sull’Europa? Chi orchestra? Chi dirige il sistema di dominio? Il Trattato
di Lisbona e il Trattato di Velsen hanno sospeso le Costituzioni dei paesi europei? Sovranità
economica e popolare, indipendenza, hanno ancora significato? Ammesso che negli ultimi
tempi ne abbiano avuto.
No pasaran, No pasarán, Ils ne
passeront pas, They shall not pass.
Non passeranno. L’Europa dei
popoli è vittima di un’aggressione
finanziaria senza eguali nella
storia della modernità, il cui scopo
dichiarato è la conquista a
qualunque prezzo umano. Il
popolo spagnolo, prima di
chiunque altro (compreso il
dormiente italiano) - come nel
1936 - ha ben compreso il destino
fatale che ci attende se
non ci sarà una
reazione risolutiva. È
in gioco la democrazia,
la qualità della vita ed
il futuro di milioni di
esseri umani. Così c’è
stata guerriglia. Duri
scontri il 25 settembre a Madrid
tra i manifestanti del movimento
degli indignati e la polizia, che ha
fatto diverse cariche e utilizzato
proiettili di gomma per disperdere
i giovani nei pressi del Congresso
dei deputati. Migliaia di persone
si sono riunite davanti al
Parlamento al grido di
"dimissioni", per denunciare una
democrazia “sequestrata” e
“schiava dei mercati finanziari”.
Anche la Grecia si sta svegliando
dal letargo.
***
Ovviamente non basta una
protesta spontanea: il sistema di
dominio che tenta di imporre il
nuovo ordine mondiale
orchestrato dalla Commissione
Trilateral e dal Club Bilderberg
nonché dal filantropo eugenetico
Bill Gates, è ben organizzato. Gli
oligarchi del terzo millennio
prima di usare le maniere forti
hanno annichilito le garanzie
legali nel vecchio continente.
Come? Adottando il 13 dicembre
2007 il Trattato di Lisbona che ha
sospeso le Costituzioni dei Paesi
aderenti all’Unione europea. E
precedentemente, due mesi prima
(18 ottobre 2007) aderendo al
Trattato di Velsen che ha dato
carta bianca, ossia licenza di
uccidere (“legalmente”) chiunque
ostacoli questo processo di
dominio - la polizia militare
che va sotto il nome di
Eurogendfor, controllata
dalla Nato. Infine il Fiscal
Compact: addio alla
sovranità economica. Così,
grazie alla compiacenza di
interi parlamenti nazionali e dei
soliti padrini l’indipendenza è
stata azzerata.
La storia sembra non insegnarci
nulla. Un secolo fa furono
concepiti i piani disumani di
Europa: baluardo da abbattere?
Casablanca pagina 31
sottomissione dell’Europa da
parte del sistema industriale. Due
guerre mondiali avviate per
spietati interessi economici hanno
mietuto circa 100 milioni di
vittime nel tentativo di dominare
il nostro continente.
È finita la guerra fredda ed è
cominciata la Terza guerra
mondiale. Purtroppo, nostro
malgrado, siamo in guerra, sotto il
tallone militare nordamericano,
vale a dire il braccio armato che
esegue gli ordini del complesso
industriale Usa, spronato
dall’insaziabile cupidigia
dell’industria chimica,
farmaceutica e nucleare.
Su la testa: non facciamoci
raggirare e soffocare anche da
guru ammaestrati e profeti urlanti.
Non possiamo essere indifferenti
mentre cercano di sottometterci
definitivamente. Il loro scopo
platealmente dichiarato è la
subordinazione commerciale e
politica di intere nazioni. Si
potrebbe partire con una paralisi
dei consumi e proseguire con uno
sciopero ad oltranza, senza
interruzioni per obbligare i
parlamenti nazionali a dimettersi
in blocco.
L’Europa è un baluardo da
abbattere e soggiogare per
controllare l’intero mondo. Non ci
sarà mai più un’Europa che
annichilisce la sua gente per
generazioni, rendendola schiava
degli interessi e finanziari delle
multinazionali. Mai più. Ma spetta
a noi combattere, ora. La libertà
va ri-conquistata.
***
Giuseppe Dossetti, un padre
italiano della Patria ha scolpito
parole dal vivo della sua
esperienza: “Quando i poteri
pubblici violano le libertà
fondamentali e i diritti garantiti
dalla Costituzione, la resistenza
all’oppressione è un diritto e un
dovere del cittadino”. E
Mohandas K. Gandhi ha
dimostrato con la non violenza:
“Sono le azioni che contano. I
nostri pensieri per quanto buoni
possano essere sono perle false
fintanto che non vengono
trasformati in azioni. Sii il
cambiamento che vuoi vedere
avvenire nel mondo”.
Su la testa: non facciamoci raggirare e soffocare
anche da guru ammaestrati e profeti urlanti. Non
possiamo essere indifferenti mentre cercano di
sottometterci definitivamente. Il loro scopo
platealmente dichiarato è la subordinazione
commerciale e politica di intere nazioni.
Giuseppina… vai avanti, cambierà
Casablanca pagina 32
Giuseppina la
postina dei clan
Ad oggi ha fatto sequestrare
224 milioni di euro
Franca Fortunato
Giuseppina Pesce dell’omonimo clan, è l’unica collaboratrice viva. Altre donne che avevano
deciso di collaborare con la giustizia contro la ’ndrangheta hanno avuto diverso, crudele,
destino. Quelli con gli inquirenti saranno colloqui tormentati perché la figlia maggiore i
primi tempi non riesce a condividere le sue scelte, le dichiarazioni di Giuseppina comunque
apriranno le porte della galera anche per sua madre e sua sorella. Il vecchio capobastone
storico, Giuseppe Pesce, si sarà rivoltato nella tomba. La nipote, Giuseppina, diventata
collaboratrice di giustizia. Cose di un altro mondo!
Giuseppina Pesce, è figlia di
Salvatore, detto “u babbu” uomo
di punta della cosca omonima
insieme al fratello Antonino. È
accusata di essere la “postina del
clan e di portare gli ordini del
padre, in carcere, agli altri
associati. Per questo reato è stata
arrestata il 28 novembre 2010
insieme ad altri quaranta affiliati
alla cosca (operazione
“All’Inside”). Cresciuta a “pane e
’ndrangheta”, Giuseppina conosce
tutti gli affari e i segreti della
famiglia, immaginare quindi il
futuro dei suoi figli, non è
difficile, in carcere ha modo di
riflettere… e decidere.
Giuseppina, nata e cresciuta a
Rosarno, al momento dell’arresto
ha 34 anni, due figlie di 16 e 6
anni e un figlio di 9. Suo marito,
Rocco Palaia, è in carcere per
associazione mafiosa. Anche suo
padre è in carcere e così il fratello
Francesco. La madre, Angela
Ferrero, e la sorella Marina
entreranno in carcere dopo le sue
rivelazioni. Che famiglia! Tutti in
carcere. E i suoi figli? Sono
destinati a fare la stessa fine? È a
questo che Giuseppina pensa.
Che la sua era una famiglia
mafiosa, l’aveva capito già all’età
di dieci anni. A tredici, finita la
scuola Media, il suo desiderio era
di iscriversi al Magistrale di
Palmi, ma il padre glielo impedì.
“No, tu non andrai da nessuna
parte, tu resterai chiusa in casa” -
le gridò. E così fu. “Non andavo
più neanche a lezioni di piano,
stavo solo in casa” - raccontò agli
inquirenti. Era solo
un’adolescente, ma cominciò a
pensare che sposarsi era l’unico
modo per uscire da quella
prigione.
A quattordici anni, appena
adolescente, fece la “fuitina” con
l’uomo che amava, Rocco Palaia,
anche lui appartenente a una
cosca.
Non andò come lei sperava o
sognava. Con quest’uomo
conoscerà la violenza sul suo
corpo e non troverà né nella
madre né nelle donne della
“famiglia” un sostegno alla sua
ribellione. E come poteva trovarlo
in donne succubi, subalterne e
complici dei loro uomini, che
hanno fatto coincidere la famiglia
di sangue con la famiglia di
’ndrangheta? Dopo la nascita
della prima figlia, Angela, il
marito divenne sempre più
violento e aggressivo. Ad ogni sua
ribellione, lui la picchiava.
Avrebbe voluto lasciarlo, ma la
morale della famiglia di
’ndrangheta non consente il
divorzio. “No, non me lo
permettevano, i miei… lui… Tutti
mi dicevano “dài, dagli un’altra
Giuseppina… vai avanti, cambierà
Casablanca pagina 33
NON VOGLIAMO PM FEMMINA
Quando inizia il processo, i maschi Pesce gridano contro la pm:
“Vogliamo di Palma, ma quella no”. Volevano un maschio per una
questione di rispetto, perché il “nemico”, se è in gamba, lo puoi pure
rispettare. Ma una femmina no, quella è un’altra storia.
Che sfortuna, per i Pesce! Anche il collegio giudicante è fatto di donne:
presidente Concettina Epifanio, a latere Maria Laura Ciollaro e Antonella
Crea. E come se non bastasse, alla guida dell’amministrazione comunale
di Rosarno c’è una donna, Elisabetta Tripodi, che sfida la cosca,
costituendosi parte civile al processo e mandando via da un immobile la
madre e il fratello del boss Rocco Pesce. Dal carcere costui manda una
lettera minatoria alla sindaca e per questo viene processato e condannato.
possibilità che adesso cambierà.
Pensa ai tuoi bambini. Non è
giusto negare il padre ai tuoi figli.
Vai avanti, cambierà” .
IL CARCERE, IL SUICIDIO,
LA PAURA
In carcere tenta due volte il
suicidio non perché non sopporta
la reclusione, ma per il distacco
dai bambini. Dopo alcuni mesi,
Giuseppina decide di collaborare
e chiede che i suoi figli la
raggiungano in località protetta.
Inizia per lei una nuova vita, pur
sapendo di aver decretato la sua
condanna a morte.
“L’onta di ritrovarsi in casa
qualcuno che passa dalla parte
degli sbirri va lavata col sangue
per mano di un congiunto”. Le
sue orecchie l’hanno sentito dire a
proposito di sua cugina Rosa
Ferraro, testimone di giustizia.
Nessuna donna di ’ndrangheta,
pienamente coinvolta negli affari
della famiglia, aveva osato sfidare
le persone a lei vicine. Giuseppina
è la prima. E ne ha cose da
raccontare ai magistrati!! È lei
che ammette l’esistenza della
potente cosca dei Pesce; riferisce
circa le vendette relative alla
successione al vertice della cosca;
descrive l’ascesa al potere del
pericoloso cugino Francesco
Pesce; indica dettagliatamente le
attività economiche riconducibili
alla cosca mafiosa. Manda in
galera la madre e la sorella.
Non solo, dalle sue dichiarazioni
scaturisce l’operazione
“All’Inside 2” con arresti,
confische di beni, scoperta di armi
e bunker. Al tribunale di Palmi,
tutt’ora, è in corso il processo.
Giuseppina è la testimone chiave.
Testimoni sono anche sua cugina
Rosa Ferraro e l’ex cognata Ilaria
La Torre, che il fratello cercò di
rapire e fare sparire, dopo essere
stato abbandonato. Anche Maria
Concetta Cacciola, amica
d’infanzia di Giuseppina, uccisa
con l’acido muriatico dalla
famiglia, aveva testimoniato
contro i Pesce.
IL DIFFICILE RAPPORTO
CON LA FIGLIA
La vicenda di Giuseppina,
collaboratrice di giustizia, che
dopo qualche mese interrompe la
collaborazione per poi
riprenderla, ci parla, innanzitutto,
della relazione di una madre con
sua figlia, Angela, di cui cerca
l’approvazione. Quando questa,
con la sorella e il fratello,
raggiunge la madre in località
protetta, lasciando a Rosarno i
parenti, gli amici e la scuola, le si
rivolta contro, per uno
sradicamento che lei non ha
scelto. “Continuava a rinfacciarmi
che ho scelto per lei, che io l’ho
portata via dalla nostra terra, che
io ho deciso. La scelta di
collaborare l’aveva accettata, era
il discorso del distacco che non
accettava, l’allontanamento”.
Di questo approfittano i parenti
paterni, in particolare la zia
Angela, che fa avere alla ragazza
il suo cellulare e comincia a
telefonarle. Vuole che lei induca
sua madre a interrompere la
collaborazione e a ritrattare tutto.
“ Sapeva che io senza mia figlia
non sarei andata da nessuna
parte”. A un certo punto cede alle
pressioni della figlia e interrompe
la collaborazione. “Quando io le
dissi che sarei tornata indietro,
che le avrei restituito la vita che
aveva prima o almeno ci avrei
provato, diciamo che era contenta
da una parte, però dall’altra gli
avevo anche detto che
probabilmente io per un periodo
non ci sarei stata. Cominciò a
diventare depressa”.
I parenti promettono a
Giuseppina il perdono e le
assicurano ogni aiuto. “Vedi - le
ripeteva la figlia - vedi, adesso
sta a te. Adesso sei tu. basta che
dici sì e torniamo a casa”. “La
mia scelta - di interrompere la
collaborazione - è stata basata
solo su mia figlia. Non ho avuto
altre motivazioni, cioè io volevo
la felicità dei miei figli e se
quello era quello che loro
volevano, anche se i miei
progetti per loro erano altri,
andava bene così”.
Quando i parenti vengono a
sapere della sua decisione,
vogliono che tutti lo sappiano. La
raggiungono nella località protetta
e le fanno firmare una lettera, che
sarà mandata a un giornale locale,
in cui Giuseppina scrive di aver
interrotto la collaborazione, di
Giuseppina… vai avanti, cambierà
Casablanca pagina 34
essere stata costretta dai
magistrati a collaborare e di aver
detto solo cose false. Come
ultimo atto non deve firmare il
verbale dell’interrogatorio.
Giuseppina ha paura per i suoi
figli. Davanti al magistrato si
avvale della facoltà di non
rispondere e interrompe, così, la
sua collaborazione. Era l’11 aprile
2011.
Tutto finito? Niente affatto.
Giuseppina non vuole tornare in
Calabria. Ha paura che la
uccidano o la facciano sparire. In
attesa di essere mandata ai
domiciliari a Vibo Marina, dove i
suoceri le hanno trovato una casa,
resta ancora con le due figlie in
località protetta. Il bambino viene
mandato giù col nonno.
L’EVASIONE, IL DISONORE
E LE MINACCE
Succede allora qualcosa che rende
definitiva la sua scelta di tornare a
collaborare. Angela, rimasta con
lei, continua a lamentarsi e prega
la madre di mandarla per qualche
giorno da una sua amica a Lucca.
Per farla contenta, decide di
accompagnarla con la macchina.
Al ritorno viene arrestata per
“evasione”, in quanto era ancora
sotto protezione. In
quell’occasione diventa pubblica
la sua relazione extraconiugale.
Nella macchina c’era l’uomo con
cui conviveva da tempo. Adesso
Giuseppina sa di essere
doppiamente in pericolo. “Chi
tradisce e chi disonora la famiglia
deve essere punito con la vita. È
una legge”. Legge che lei conosce
per aver sentito dal marito la
storia di Annunziata Pesce, cugina
di suo padre, che, nel 1981, fu
assassinata dai fratelli e fatta
sparire per una relazione
extraconiugale con un carabiniere.
Il marito dal carcere è furioso. Si
sente offeso nel suo “onore” di
uomo e di marito, prima che di
’ndranghetista. La minaccia e le
ricorda la fine di Maria Concetta
Cacciola che ha “disonorato” la
famiglia, come collaboratrice e
come adultera. “Ma questo non è
il tuo caso”; le scrive in tono
minaccioso, chiedendole di
lasciare alla sua educazione il
figlio maschio. Giuseppina,
allora, capisce che non può e non
deve tornare indietro. Riprende la
collaborazione.
E la figlia? Un giorno capirà -
dice a se stessa - e l’approverà.
Tocca a lei salvare se stessa e i
suoi figli da un destino che non
accetta più. “Ho espresso la mia
volontà di iniziare questo
percorso, spinta dall’amore di
madre e dal desiderio di poter
avere anch’io una vita migliore,
lontana dall’ambiente in cui
siamo nati e cresciuti.
Ero e sono convinta che sia la
scelta giusta” - scrive in una
lettera alla pm Alessandra Cerreti.
Col ritorno alla collaborazione,
tornano i ricatti, le minacce, le
pressioni sulla figlia maggiore,
da parte della zia. Il nonno
picchia il maschio. Giuseppina
lo viene a sapere dalla figlia
stessa, decisa, ormai, a seguire la
madre. “Mamma io voglio stare
con te, non voglio vivere con gli
altri, tu sei la mia mamma e
senza di te non sono niente,
qualsiasi scelta farai io ti
seguirò”. Da allora Giuseppina
vive insieme ai suoi figli. Sa che
non torneranno mai più a
Rosarno. Lei ha trovato il
coraggio di dare un taglio radicale
alla sua vita, senza rinnegare il
suo passato. Ha sempre
riconosciuto le sue responsabilità
all’interno della cosca, ma il suo
desiderio di libertà e la sua
consapevolezza di donna sono
stati più forti dei legami di
sangue. Ha voluto sottrarre le
figlie e il figlio maschio a un
mondo, quello della ’ndrangheta,
destinato a crollare per mano
delle donne.
Il processo denominato
“All’Inside 2” sta andando avanti
al tribunale di Palmi. Giuseppina
continua a svelare i segreti di una
famiglia di ’ndrangheta, resa
potente anche dalla collusione di
politici, magistrati e uomini delle
forze dell’ordine, di cui lei sta
continuando a fare i nomi.
Il Clan Pesce I PESCE sono una delle più
potenti cosche della
’ndrangheta della piana di
Rosarno, in provincia di Reggio
Calabria. Contano su un
esercito di affiliati inquadrati in
30 “locali” e in una miriade di
’ndrine, con interessi che si
estendono da Reggio Calabria a
Milano. Il clan, insieme ai
Piromalli, ai Mancuso e ai
Molè, gestisce tutti i traffici
dell’area di Gioia Tauro, dal
porto alla droga, dalle estorsioni
al controllo dei mercati agricoli.
Al nord sono attivi a Milano,
specialmente nel quartiere di
Quarto Oggiaro. All’estero,
insieme ai Bellocco hanno
collegamenti con la criminalità
austriaca, greca, libanese,
tedesca e francese. Sono i
fondatori dei Basilischi, la
quinta mafia nata a Potenza.
La palomba deve volare
Casablanca pagina 35
Gocce che scavano
il marmo Precario e Minacciato
Rosita Rijtano
Il numero dei cronisti minacciati in Campania aumenta e scalza la Calabria. Aggressioni,
minacce, insulti, di tutto. La libertà d’informazione? Ha vita molto difficile, anche se c’è chi
sostiene che i giornalisti possano dire ciò che vogliono. Non la pensano così Tina Palomba,
Giovanni Taranto ed altri che hanno vissuto sulla loro pelle lo scontro con i delinquenti
raccontati sulle pagine dei loro giornali. Comunque, prudenza sì, passi indietro no. Oppure
ostinazione, ironia e documentazione, così come fa da Radio Siani Amalia de Simone per
rispondere alle intimidazioni. Ciliegina: pare che la maggior parte dei minacciati siano
giornalisti precari. Nomi sconosciuti, volti anonimi, non vale la pena di preoccuparsi nel
manifestare solidarietà.
“La palomba deve volare” - si
dicevano nelle intercettazioni i
due camorristi. Una specie di
slogan, ma... mai un raid così
eclatante: due taniche di benzina
incendiate sotto casa con
l’obiettivo di farle saltare in aria
la macchina. Troppo anche per
una coraggiosa cronista di strada.
Guardando la
sua auto
avvolta dalle
fiamme, Tina
Palomba ha
avuto paura.
Da dieci anni
scrive di nera
e giudiziaria
per il
quotidiano
“Cronache di Caserta”. Ha subìto
di tutto. Aggressioni in redazione,
insulti nelle aule giudiziarie,
persino l’ironia dei boss: “La
palomba deve volare”.
“È un incubo terribile che mi
tormenta ogni notte”, confessa.
Dal 22 giugno scorso la sua
attività si è drasticamente ridotta.
Prima scriveva quattro articoli al
giorno. Ora al massimo due. “A
me dispiace molto, ma per
tutelarmi l’azienda ha chiesto di
rallentare il ritmo. C’è chi
sostiene che i giornalisti possano
dire ciò che vogliono. Niente di
più falso. La libertà
d’espressione è
un’utopia”.
Tina non è la sola a
pensarla così. È
l’alba dell’11
ottobre 2011, i
parenti del boss
Salvatore Belviso
invadono le stanze
di Metropolis,
quotidiano d’assalto della
provincia di Napoli. La richiesta:
“Non stampate quel giornale”.
“Siamo nelle loro mani”, spiega il
direttore della radio/tv Giovanni
Taranto. “Sanno dove abitiamo,
dove lavorano i nostri coniugi e
vanno a scuola i nostri figli”, dice.
La sua filosofia? Prudenza sì,
passi indietro no. “Se c’è una
notizia si segue, senza fare sconti
né al colletto bianco né al
camorrista. La nostra non è una
scelta di eroismo. Non
indossiamo la calzamaglia.
Cerchiamo solo di fare il nostro
mestiere al meglio. E ciò non
dovrebbe comportare gravi rischi
in un paese civile”.
PRECARI E MINACCIATI
In Italia sono 925 i giornalisti
minacciati dal 2006 a oggi. I nomi
spesso sconosciuti. I volti
anonimi. A rivelarlo è il rapporto
2011/2012 di Ossigeno per
l’informazione, osservatorio sui
cronisti vittime di violenze e gravi
abusi. “Sono gocce che scavano il
marmo”, ripete da anni il
fondatore, Alberto Spampinato,
che denuncia una piaga sotto gli
occhi di tutti. Ma di cui nessuno
La palomba deve volare
Casablanca pagina 36
parla: “L’Italia è l’unico paese
europeo in cui l’informazione è
parzialmente libera. Lo dicono le
maggiori istituzioni internazionali
e lo dimostrano i nostri dati”. Non
solo. “Ciò che conosciamo è solo
la punta dell’iceberg. Gran parte
dei giornalisti minacciati non ha
la forza di denunciare. Come le
vittime d’usura e stupri, si
vergognano della violenza
subita”.
Secondo le stime di Ossigeno
sono oltre diecimila le vittime
dirette o indirette di intimidazioni
su un totale di 110.000 iscritti
all’Ordine, per lo più precari.
Cifre da capogiro che crescono
vertiginosamente: da 78 a 95 casi
in un anno con la Campania che
scalza dal primato la Calabria
raggiungendo quota 22. “Nella
nostra regione - commenta il
presidente dell’Ordine dei
giornalisti campani Ottavio
Lucarelli - ci sono pesanti
condizionamenti da parte della
malavita organizzata. Alcuni
colleghi sono sottoposti a forme
di tutela. Ma le minacce non
hanno impedito ai cronisti di
raccontare i fatti in un territorio
ad alta densità criminale”.
A Radio Siani, presidio di legalità
nel cuore di Ercolano, Amalia de
Simone ha un modo particolare di
affrontare le intimidazioni.
Ostinazione, ironia e docu-
mentazione: sono le parole
chiave. “Se vuoi che ti dica che
ho paura tanto da non poter
dormire la notte, lo faccio”,
scherza. “Ma in realtà credo che
in Italia il problema non siano le
minacce. È il precariato la vera
pistola puntata alle spalle del
cronista”.
.
SOS per i giornalisti messicani
Casablanca pagina 37
la Rivoluzione?
Difficile non è con twitter
Cynthia Rodriguez
La libertà di informazione in tutto il mondo è scomoda e vive momenti scoraggianti. In
Messico, dove i narcotrafficanti dominano, i giornalisti e tutti coloro che operano
nell’informazione sono in pericolo. Lo Stato o si gira dall’altra parte o interviene duramente su
coloro che dallo Stato attendono protezione e giustizia. Così, l’autocensura dei media per
proteggersi, va di pari passo alla censura del governo che aggredisce, perseguita, attacca. Per
“perturbazione dell’ordine pubblico”. Un’assurda complicità?
In Messico essere giornalista nei
tempi della così detta “guerra
contro il narcotraffico” significa
vivere in pericolo di morte, stare
tutto il tempo con la paura di
essere minacciato, sia da un
delinquente, sia da un funzionario.
Alcune settimane fa, l’Organiz-
zazione Articolo 19, che difende
in tutto il mondo la libertà di
stampa, ha dichiarato che in
Messico la violenza contro i
giornalisti non proviene soltanto
dai cartelli della droga, c’è anche
lo Stato, divenuto complice della
violenza nei confronti dei mass
media in tutto il Paese. Così,
l’autocensura dei media come
autoprotezione va di pari passo
alla censura del governo.
Insomma, lo Stato, invece di
proteggere i giornalisti, chiude gli
occhi, oppure toglie le risorse per
ridurli al silenzio. Le cifre sono
terrificanti.
Nel 2011 ci sono state 172
aggressioni che avevano a che
vedere con l’esercizio della libertà
di stampa. Sono stati assassinati
nove giornalisti, due lavoratori dei
media, due comunicatori sperduti.
Otto aggressioni con armi da
fuoco o esplosivi contro alcune
sedi di giornali.
Dal nord al sud, le aggressioni
stanno crescendo con rapidità su
tutto il territorio nazionale, e il
governo, invece di offrire e dare
protezione, aggredisce, perseguita,
criminalizza e attacca. Gli stessi
funzionari che, in teoria,
dovrebbero investigare e
impartire giustizia, quasi
sempre sono coloro che
cominciano le azioni
contro giornalisti,
fotografi e cameraman,
dicendo, per esempio,
che sono gli stessi
giornalisti che lavorano
con la criminalità organizzata.
Oppure, sostenendo che sono stati
ammazzati per problemi
passionali.
LA STRAGE DI VERACRUZ
Recentemente l’organizzazione
Journalist sanz Frontieres ha
informato che in Messico, in un
decennio, sono stati ammazzati 83
giornalisti.
A maggio di quest’anno, in un
solo mese, nello stato di Veracruz
hanno ucciso cinque giornalisti, e
l’anno scorso sono stati uccisi:
Luis Emanuel Ruiz Carrillo, Noel
Lòpez Olguìn, Pablo Aurelio
Ruelas, Miguel Angel Lòpez
Velasco.
Sempre a Veracruz, la Procura
dello Stato, ha arrestato due
blogger accusati di “terrorismo e
sabotaggio”, pare volessero
“alterare l’ordine” attraverso
Twitter, il social network.
Il pretesto giusto per il
governatore Javier Duarte che ha
presentato un’iniziativa di legge
per riformare il Codice Penale e
creare il reato di “perturbazione
SOS per i giornalisti messicani
Casablanca pagina 38
dell’ordine pubblico”, che
permetterebbe di perseguitare
qualsiasi persona che faccia delle
affermazioni che il governo
consideri non convenienti. O che,
secondo il potere, metta in
pericolo la pace sociale.
La “Fiscalìa Especial para la
Atenciòn de Delitos Cometidos
contra la Libertad de Expresiòn”,
un ufficio governativo fatto
apposta per seguire i casi dei
giornalisti uccisi o minacciati, in
sei anni di esistenza ha avuto due
nomi diversi, quattro direttori
diversi e ha utilizzato solo il
quattro per centro del suo budget
previsto per poter prevenire il
pericolo verso i giornalisti che
denunciano delle minacce. Ad
oggi, ha rinviato a giudizio
soltanto ventisette operatori
dell’informazione con una sola
sentenza di condanna. Per alcuni
analisti questi sono i
sintomi non solo
dell’incompetenza ma
anche della complicità
dello Stato.
Insomma, un governo
inefficiente e aggressivo
i cui responsabili sono
l’esercito, la marina. Ogni polizia
municipale, statale e federale.
Loro sono indicati come i
colpevoli di sei su dieci abusi
contro i rappresentanti dei mass
media.
Invece, le aggressioni da parte di
soggetti che appartengono alla
criminalità organizzata rap-
presentano il 13,37 per cento.
Anche se la delinquenza organiz-
zata si attribuisce una di ogni sette
delle aggressioni nel Paese.
Un paradosso perverso!
In Messico la stampa subisce più
aggressioni da chi rappresenta il
potere dello Stato che dagli stessi
criminali, che dovrebbero essere
contrastati da chi il potere
gestisce. Il governo risulta,
quindi, un attore assente, oppure
un complice oltre che violento.
Difficile da capire e da accettare
però è così. I funzionari pubblici
in Messico sono, secondo questo
report, la principale fonte di
pericolo per i giornalisti, perché in
più della metà delle aggressioni
registrate sono coinvolti fun-
zionari della pubblica am-
ministrazione o delle forze di
sicurezza. Davanti a questa
violenza, i giornalisti cercano di
proteggersi togliendo la firma o
semplicemente conservando il
silenzio in tutto ciò che riguarda
la criminalità.
Tortura, morte e messaggi scritti
sugli striscioni dove si può
leggere: “Questo mi è accaduto
per dare informazione e scrivere
ciò che non si deve. Curate bene i
vostri testi prima di scrivere la
notizia”.
In Messico la stampa subisce più
aggressioni da chi rappresenta il
potere dello Stato che dagli stessi
criminali, che dovrebbero essere
contrastati da chi il potere gestisce.
SOS per i giornalisti messicani
Casablanca pagina 39
Giornalisti messicani uccisi quest’anno
DATA NOME TESTATA
6 gennaio Raúl Régulo Garza Quirino Collaboratore del settimanale
ULTIMA PALABRA a Cadereyta,
Nuevo Leòn. Ucciso dentro la sua
macchina.
28 aprile Regina Martínez Pérez Corrispondente del settimanale
PROCESO a Veracruz. Uccisa
dentro il suo appartamento.
3 maggio Gabriel Huge, Guillermo Luna
e Esteban Rodríguez
Fotografi dei giornali NOTIVER,
VERACRUZNEWS e DIARIO
AZ. Sono stati ritrovati morti con
segnali di torture in un fiume nella
città di Veracruz.
13 maggio René Orta Salgado Era giornalista di EL SOL DE
CUERNAVACA. Fu ritrovato
morto dentro la sua macchina
nello stato di Morelos.
18 maggio Marco Antonio Ávila García Lavorava per i giornali EL
REGIONAL DE SONORA e
DIARIO SONORA DE LA
TARDE. Fu rapito un giorno
prima di essere stato trovato
morto a Ciudad Obregòn, Sonora.
14 giugno Víctor Báez Era corrispondente del giornale
MILENIO, fu rapito e ucciso
nella città di Xalapa, Veracruz.
Cynthia Rodrìguez è una giornalista messicana che da sei anni vive in Italia. Fa la corrispondente per il
settimanale PROCESO, e alcuni giornali, fra cui EL UNIVERSAL ed EXCELSIOR.
Lancia sassi perché sogna la Libertà
Casablanca pagina 40
Kefah Lancia sassi perché
sogna la Libertà
Mara Bottini Bernaw
C’è stato un periodo in cui di apartheid si parlava. Ne abbiamo parlato. E per quei ragazzi
che lanciavano pietre contro i carri armati si provava tanta solidarietà. Forse anche tenerezza.
Rispondevano ad un esercito armato fino ai denti lanciandogli contro sassi. Nessuno più ne
parla, ma loro sono ancora lì, sventolano bandiere e lanciano pietre contro gli israeliani che
passano dal chekpoint. Oppure, attraverso Internet, denunciano lo stato di prigionia in cui
sono costretti a vivere, nei campi profughi. Kefan è uno di loro. Vive nel campo di Jenin. È
disperato perché senza lavoro e libertà. Vorrebbe morire.
Si chiama Kefah Esam. Ha 22
anni. È disperato.
Niente di strano, siamo in
Palestina. Qui i giovani devono
solo scegliere se morire sotto i
colpi di un drone israeliano, come
a Gaza; falcidiati da un mitra
israeliano, come in West Bank o
Cisgiordania, oppure vivere senza
lavoro e libertà, come in tutti i
Territori Occupati. Comunque, si
difendono. Loro, sono guerrieri.
Provano a reagire. Lanciando
sassi, sventolando bandiere. (Che
terroristi!). Radicati sul territorio,
stanno lì a presidiarlo da altre
invasioni. Oppure comunicando
su Internet. Tessendo contatti con
il mondo, denunciando lo stato di
prigionia in cui la violenza
dell’apartheid sionista li (de)tiene.
La loro ribellione.
Kefah vive e muore d’inedia nel
campo profughi di Jenin. La
famiglia è di Jaffa. Ma la città dei
suoi avi ora è diventata terra
d’Israele e Kefah non l’aveva mai
vista: ci è andato in visita il mese
scorso, giusto per dieci ore, il
tempo accordato dalle forze di
occupazione.
UN POPOLO SENZA STATO
Sono profughi. Si sa.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni
Unite per il Soccorso e
l’Occupazione (UNRWA) “I
rifugiati palestinesi sono persone
il cui normale luogo di residenza
era la Palestina tra il giugno 1946
e il maggio 1948, che hanno perso
tanto le loro abitazioni quanto i
loro mezzi di sussistenza come
risultato della Guerra arabo-
israeliana del 1948”. Quello di
profugo palestinese è uno status
ereditario e così dai 700 degli
anni Cinquanta oggi sono oltre 5
milioni (fonte ONU).
I discendenti - come Kefah - degli
scacciati del 1948 prima e del
1967 dopo, sono sparsi nei 59
campi del Middle East.
Naturalmente uno dei nodi
fondamentali dei negoziati di pace
è sul diritto al ritorno dei
profughi. Che Israele nega
decisamente.
A 26 km da Nablus, il campo di
Jenin è tristemente famoso per un
altro eccidio, quello
che le forze di occupazione
d’Israele compirono in undici
giorni - dal due al diciannove
aprile - nel 2002. La fonte
israeliana parlò di 100, massimo
150 morti, per l’autorità
Lancia sassi perché sogna la Libertà
Casablanca pagina 41
palestinese si è trattato di oltre
500 cadaveri seppelliti in fosse
comuni.
Ancora oggi a distanza di tanti
anni Jenin Camp è un simbolo di
coraggio e resistenza.
“In quale altro modo possiamo
spiegare la resistenza di questo
piccolo campo profughi, lungo e
largo meno di un chilometro
quadrato, andata avanti per giorni
nonostante l’assalto di centinaia
di carri armati, elicotteri Apache,
e migliaia di assassini addestrati
che chiamano soldati?”. Si legge
su arabcomint.com.
Fondato nel 1953 come tendopoli
per ospitare migliaia di profughi
scacciati dalle varie aree della
Palestina invasa da Israele, il
Camp testimonia tenacia e
abnegazione. Il ricordo di questo
intervento militare senza
precedenti è ancora vivo, ma,
nessuna commissione d’inchiesta
nazionale o internazionale è stata
mai autorizzata per quella
tragedia.
Una sciagura raccontata e
ricostruita nel film Jenin Jenin di
Mohammed Bakri.
(http://www.youtube.com/watch?
v=ZE2-KfY25Xw).
Un film che appassiona, stringe il
cuore. Fa sentire impotenti. Non è
frutto di fantasia, è accaduto
realmente.
Dov’era il resto del mondo?
Dove eravamo tutti?
ORGOGLIO PALESTINESE
“Qui - spiega Kefah - tutti sono
orgogliosi di far parte del Campo,
è la sola terra che ci sia rimasta -
spiega - ma io sono stanco di
vivere senza libertà. Sono così
stanco che vorrei togliermi la vita.
Non vedo futuro e odio questa
condizione (costrizione, ndr)”.
La dignità di Kefah è immensa.
Parla del suo possibile suicidio
senza scomporsi: la morte è
talmente normale qui a Jenin
Camp che influenza la vita. E la
compromette. Tanto che a 22 anni
uno vuole uccidersi. Parlo con lui,
gli ricordo il motto palestinese
“Resist to exist”, “Resistere per
esistere”, gli dico che quella di
lottare per non morire è una dura
eredità del suo popolo ma è anche
la forza della sua gente e di questa
nazione senza Stato.
Ancora oggi la Palestina non è
riconosciuta dall’ONU e la
richiesta di riconoscimento,
reiterata quest’anno nel palazzo
delle Nazioni Unite dal Presidente
Abu Mazen, subisce -
invariabilmente - il veto di USA e
Israele.
“Dopo quello che ho vissuto, che
senso posso dare alla mia vita?” si
è chiesto qualcuno.
Ecco, il senso della sua vita Kefah
non riesce a trovarlo. Non si
capacita di non avere una vita
normale. Non pretende niente di
più di quello che hanno i suoi
coetanei nel vicino Israele.
Scuola, fognature, cibo, lavoro,
libertà di movimento. Sul suo
profilo di Facebook si sfoga con
tanto di firma. Kefah è un
nickname, presentarsi per nome e
cognome è troppo rischioso,
tuttavia sulla sua pagina fb ha
scritto: “Terrorist?! I’m a
terrorist?! How a terrorist and I
live in my country?! Terrorist?!
You are a terrorist! Eat me and I
live in my country!!!! Kefah”
(Terrorista? Io sono terrorista?
Come posso essere terrorista se
vivo nella mia Terra? Terrorista!
Tu sei terrorista! Mi mangi e io
vivo nella mia terra).
Paolo Pellegrin – classe 1964 – è un fotografo della Magnum. I suoi scatti in giro per il mondo
rappresentano una realtà mai cristallizzata. I suoi sono sguardi immobili e insieme dinamici. Fermi ed
espressivi, imponenti, silenziosi e assolutamente umani. Portfolio Palestine, è una raccolta fotografica
che da Gaza a Betlemme, dalle rive del Mar Morto fino a Gerusalemme, ritrae con espressività e
rispetto la condizione palestinese. Sono per lo più foto in bianco e nero: dell’aeroporto Yesser Arafat di
Gaza raso al suolo, del muro che corre lungo i confini israelo-palestinesi in West Bank, di un settler
israeliano armato, di bambini che giocano tra le rovine. Poi c’è questa immagine a colori: Two
Palestinian girls bathing in Ein Gedi, along the shores of the Dead Sea, 2009, courtesy © Paolo
Pellegrin/Magnum Photo/ Galerie Italienne Paris, dove ritrae la solitudine di un popolo in conflitto pur
raccontando un istante di contentezza. Il bagno delle due ragazze è liberatorio, struggente nel tramonto:
un attimo assoluto e intimo. Emoziona. Del resto, dall’Iran al Libano, dalla Cambogia al Kosovo fino
al Giappone o all’Indonesia devastati dallo Tsunami, Pellegrin testimonia le guerre, le calamità e la vita
con un’intensità straordinaria. Lavora per il Newsweek magazine, vive tra Roma e New York, ha vinto
numerosi premi, come il World Press Photo, e pubblicato una decina di libri.
Lancia sassi perché sogna la Libertà
Casablanca pagina 42
È chiaro, cerca un aiuto. Un aiuto
che io non posso dargli. Non
posso fargli la lettera d’invito per
venire in Italia: mio marito è di
Gaza, abbiamo da pensare alla
sua famiglia, ai tanti nostri
amici gazawi che come Kefah
sognano di lasciare la guerra.
Sembra crudele ma non c’è
alternativa. Ho parlato di Kefah,
potrei scrivere di Ahmed,
Naveed (lui è del Kashmir:
anche lì la situazione è
drammatica), Mohammed,
Usaym, Bassam, Amir, Omar.
Tutti chiedono aiuto, vorrei
aiutare tutti e non ho i fondi e le
energie. Soprattutto manca il
denaro. Magari chi legge ha
voglia di conoscere Kefah sul
social network
(https://www.facebook.com/kefah
.esam) e magari aiutarlo a crearsi
un futuro. Con un contributo
economico, o con una lettera
d’invito (indispensabile per la
richiesta di visto italiano). O
semplicemente, come me, con la
vicinanza virtuale. E non stupirti,
caro lettore, se a metà
conversazione Kefah ti saluterà
con uno sbarazzino see you: c’è
un chekpoint alle porte della città
di Jenin e Kefah, con i suoi
amici, si prepara a lanciare sassi
contro i tank israeliani.
Non stupirti. Lui sogna di
costruirsi un’esistenza diversa
fuori dalle sbarre del campo
profughi ma nel suo sangue, nel
DNA c’è e rimane la volontà,
l’imperativo, di resistere agli
oppressori d’Israele. Resistere è
tutto ciò che può fare, opporre
resistenza è il suo destino. Quella
resistenza che permette a lui e al
suo sfortunato popolo di
sopravvivere, nonostante tutto.
Salam alikom a tutti.
Una bella idea… giriamo in bicicletta!
Casablanca pagina 43
Come è delizioso
andar …
bicicletta Sindaco facciamo un giro in bicicletta?
Daniela Gambino
Il traffico di Palermo da molti palermitani e soprattutto dai forestieri è considerato una vera
e propria piaga. Tanto che Leoluca Orlando lo inserisce fra i punti programmatici della
campagna elettorale: incentivazione dell'uso delle piste ciclabili. Per adesso il neoeletto è alle
prese con mille urgenze, ma i promotori delle piste e gli amanti della bici attendono e nel
frattempo lo invitano ad una bellissima passeggiata in bicicletta. Sembrerebbe un argomento
ameno, ma per chi vive a Palermo non è così. Ecco perché nasce salvaiciclisti.it, un
movimento popolare che chiede città a misura di bici.
Il primo a dirlo è stato Benigni,
c’è quella battuta dell’avvocato
“zio” nel film Johnny Stecchino
ormai diventata un must “… È
nella terza di queste piaghe
che veramente diffama la
Sicilia e in patticolare
Palemmo agli occhi del
mondo... ehh... lei ha già
capito, è inutile che io glielo
dica... mi veggogno a dillo... è
il traffico! Troppe macchine! È
un traffico tentacolare,
vorticoso, che ci impedisce di
vivere e ci fa nemici famigghia
contro famigghia, troppe
macchine!”. Sappiamo qual è
la vera piaga, ma il trraffico,
detto così, con più erre, dove
lo metti? Un mio amico,
nordico, notò una sera che il
traffico di Palermo è sì,
rabbioso, invadente,
sconclusionato, però tutti
vanno piano, altrimenti non si
spiega come mai la maggior parte
della gente sopravviva a un
pomeriggio di ingorgo al centro,
riportandosi per intero a casa,
sebbene l’uso del casco, certe
volte, sia un optional. Ogni
tanto mi capita di incrociare,
nell’ordine, una carrozzella
di uno gnuri (così lo
chiamavano, anticamente, il
conducente, lo gnuri), un
ragazzino che cavalca un
Pony (ne ho visto sfilare
uno, al Borgo vecchio), un
altro ragazzetto in bici,
impegnato ad attraversare
una via intera a tutta velocità
su una sola ruota, 'mpinnari,
come dicono qui. Questo,
diciamolo, non è facile da
vedere al centro di Milano, o
di qualsiasi altra città, più
ordinata urbanisticamente,
italiana.
Ogni due per tre lo sento
dire: Palermo non è una città
Questo mio amore per la bicicletta
è una necessità lontana: ci andavo
a scuola, denunciava e soddisfaceva
il mio desiderio di indipendenza.
Una bella idea… giriamo in bicicletta!
Casablanca pagina 44
normale, lo status che deve
conseguire, più di ogni altra, è
appunto quello della normalità,
bisogna solo mettersi d’accordo
su quali siano i parametri di
questa supposta normalità. Che
sarebbe: niente pony, niente
impinnate, tutti col casco, niente
risalita spedita sui marciapiedi per
guadagnare qualche metro. Niente
battuta di Benigni. Certe volte una
si sente autorizzata a chiedersi
cosa spinga tanto i palermitani a
ridimensionare e rileggere il
codice della strada a loro uso e
consumo. C’è una spiegazione al
lavoro nero, all’arte di arrangiarsi,
ma alla rilettura del codice
stradale no. Spregio del pericolo?
Bisogno di andare velocemente
ovunque? (Al lavoro? Ma se c’è
un tasso di disoccupazione
altissimo?).
La verità è che i palermitani
amano l’auto, in maniera evidente
e spudorata, ci ho messo anni a
spiegare ad amici nordici che
l’idea di “facciamo una
passeggiata” palermitana è
mettiamoci in auto e
contempliamo a passo d’uomo il
lungomare di Mondello. Le
passeggiate si fanno coi passi, uno
dietro l’altro, o al massimo in
bicicletta, cioè usando il tuo
corpo, le tue gambe (o le
mani come abbiamo visto
fare a Zanardi in handbike)
per muoverti.
Questo mio amore per la
bicicletta è una necessità
lontana: ci andavo a scuola,
denunciava e soddisfaceva
il mio desiderio di
indipendenza. Lo so, perché
l’ho fatto. In bici puoi andare
ovunque, mantenendoti in
forma e senza inquinare. L’unica
cosa è che un ciclista tiene conto
del traffico, ma il traffico,
confessiamolo, non tiene conto
del ciclista (i pedalatori sono in
pericolo ovunque, per questo
nasce salvaiciclisti.it, un
movimento popolare che chiede
città a misura di bici). Adesso non
più, complice il prezzo della
benzina e le bici elettriche, ma
fino a qualche anno fa la tua
lentezza era presa quasi come
un’offesa. Palermo è perfetta per
essere percorsa in bicicletta, il
sole ti bacia per sei mesi all’anno.
Non ci sono salite, eccetto per
Monte Pellegrino, troppo
impegnative. Da qualche parte si
snodano piste ciclabili, invase da
auto e motorini, che finiscono nel
nulla, ogni tanto, senza preavviso,
che nessuno mantiene, che
basterebbe allungare, ripristinare,
considerare come piccole arterie
capaci di alleggerire il mostro
“traffico” che tiene in ostaggio
Palermo. Per questo, a un certo
punto, io l’ho chiesto persino al
Sindaco, il neoeletto Leoluca
Orlando (uno dei punti
programmatici della sua
campagna elettorale recita:
incentivazione dell’uso delle piste
ciclabili), per adesso alle prese
con mille urgenze, Gesip
in
testa. Questo l’invito: “Diego
Cammarata ignorò l’invito ma lei,
Leoluca Orlando! Ci viene con la
sua family a fare un giro in bici
con me per la città? Un
bell’itinerario turistico
monumentale, come fossimo
turisti che la vedono per la prima
volta, o un giro in centro,
proviamo a immaginarci i
palermitani che vogliono
rinunciare alla macchina, o le
mamme coi bimbi sul seggiolino
della ruota di dietro, o i precari,
gli ecologisti, gli studenti (di sede
e fuori sede), o semplicemente i
palermitani, con la bici, che
vogliono uscire e pedalare con
tutto questo sole o correre al
lavoro. Quando scenderà dal
sellino avrà le idee chiare come
non mai sulle piste ciclabili, sulla
circolazione del traffico, sulla
sicurezza stradale. Sarà
meraviglioso, sarà divertente.
Faremo risuonare il campanello
per tutti i vicoli! Lei queste cose
le sa fare. Poi le offro un caffè o
una granita per rinfrescarsi.
Oppure preferisce una brioche col
gelato?”. La missiva è stata
recapitata, vi terrò informati dei
risultati.
Diario della Pioggia di Gianni Allegra ©
Casablanca pagina 45
Il grande fratello … Gianni Lannes
Casablanca pagina 46
Il Grande Fratello
Di Gianni Lannes
Dalla Prefazione dell’editore (Draco Edizioni)
Io non sono nessuno, e continuerò ad esserlo, mi basta essere un
uomo. Figuriamoci poi come editore che rilievo posso avere,
paragonato a chi oggi, in Italia e nel mondo, domina il mercato
dell’informazione. Mi chiedo quindi perché devo essere io a
pubblicare questo libro di Gianni Lannes. Gianni è un bravo
giornalista, ha fatto inchieste importanti, ha rischiato, e rischia, la
vita, solo per aver tentato di affermare la verità su alcune cose che
gridano vendetta al cospetto di Dio. Perché nessuno in Italia si è
preso la briga di pubblicarlo? Le scuse addotte possono essere tante, ma le vere motivazioni sono sotto gli
occhi di tutti, in ogni momento. Questo mondo sta andando a rotoli, in primo luogo per colpa di ciascuno;
c’è troppo poco amore per la vita, per il pianeta e per il bene comune, ed è questa condizione limitata della
coscienza umana che rende possibile il fatto che ristrette oligarchie di esseri spietati, nel nome del proprio
interesse, spadroneggino sui popoli della Terra, imponendo condizioni inumane ad un mondo che potrebbe
essere un paradiso terrestre. Basterebbe fare della solidarietà il motore non dello sviluppo, mito tragico dei
nostri giorni, ma della vita, per trasformare il pianeta in pochi anni. Eppure dobbiamo sopportare che la
maggior parte delle ricchezze mondiali siano impiegate, direttamente o indirettamente, per distruggere la
vita, e per ‘portare la democrazia’ in paesi che, evidentemente, non devono per nulla avere il diritto di
autodeterminarsi.
Questi stormi di cavallette che dominano il mondo di sicuro non si preoccupano di che cosa sta succedendo
al pianeta più di quanto possa aver mangiato oggi un bambino che muore di fame. E venendo al nostro
contesto nazionale, che cosa cambia? Tragicamente niente, i governi che si susseguono si preoccupano solo
di partecipare al grande banchetto internazionale, per terminare il loro pasto ferale spolpando le ricchezze del
nostro meraviglioso paese. Direi che la cronaca di questi ultimi anni è stata particolarmente prodiga per chi
avesse mai voluto rendersi conto di come funzionano veramente le cose in Italia. Il problema è che ancora
troppi credono a quella che ormai possiamo definire la ridicola propaganda di regime, fatta di cretinate
televisive e di informazione falsa. I gruppi di potere che si esprimono anche attorno ai partiti sono al di là
delle etichette, stringono accordi, si dividono fette della nostra vita, calpestano la nostra dignità individuale e
la dignità di un popolo. E ormai quasi nulla sfugge al loro dominio, è per questo motivo che pubblico io il
libro di Gianni Lannes, Il Grande Fratello, perché rientro in quel quasi.
Ripeto, io non sono nessuno, e non voglio erigermi a pilastro morale, ma rivendico l’ordinarietà della dignità
umana, quella dignità di tutti quegli uomini semplici che hanno creduto e combattuto per un mondo
migliore, senza mai piegare la testa di fronte all’iniquità e alla prevaricazione. Difficilmente vedrete Gianni
in televisione, l’editore non ha i mezzi per pagare alle cricche dominanti quei bei passaggi televisivi che ti
fanno vendere tante copie in libreria. E non lo vedrete in quei bei salotti televisivi, composti e morigerati,
perché egli racconta delle semplici e scomode verità, che portano a galla la vera natura di questo edulcorato,
ed assassino, sistema, che mentre passa al telegiornale le immagini del piccolo di foca nato in cattività, fa
affondare nei nostri mari vecchie carrette sgangherate, cariche di scorie radioattive. C’è solo un modo per
uscire dalla situazione di degrado che stiamo pericolosamente vivendo: alziamoci in piedi, riprendiamoci la
nostra dignità, riprendiamoci la nostra bella nazione, riprendiamoci il pianeta, dalle mani grondanti di sangue
di chi si vende come paladino della pace e dello sviluppo e intanto schiaccia il pulsante che farà sganciare
una bomba su un villaggio in Afghanistan.
Se lo possono permettere perché ci stanno facendo il lavaggio del cervello, ma non ci deve essere più posto
per la menzogna; dai ragazzi, liberiamoci del Grande Fratello, insieme si può fare.
… è stata una bella musica siciliana
Casablanca pagina 47
Live to stay alive la Sicilia che si sente
Annalusi Rapicavoli
Sicilia: un applauso a tutti coloro che credono in questa terra tanto bella quanto difficile,
tanto affascinante quanto misteriosa nelle sue dinamiche di sviluppo e mancato sviluppo. Un
applauso a coloro che investono nella cultura, nelle arti, che si spendono per supportare i
corpi e gli spiriti di chi vuole sporcarsi le mani lealmente e far brillare questa terra di una
luce calda e accogliente che non sia solo quella del cocente sole di agosto.
L’estate è finita. Anche se ci sono
ancora giornate che dimostrano il
contrario. Tanta gente ancora
bivacca o fa i bagni a mare così
come faceva ad agosto, quando il
cuore dell’estate che pulsa, che
viaggia, che vibra, ha fatto vibrare
la Sicilia all’insegna della buona
musica.
La bella Trinacria dotata non di
due, ma di ben tre gambe
energiche e pronte a danzare e
saltellare per tutta la notte è stata
impegnata nella messa a punto di
tre grandi festival musicali ai
quali hanno preso parte gruppi
nazionali ed internazionali così da
ottenere un risultato soddisfacente
per ogni padiglione auricolare,
per ogni amante della musica,
dell’allegria, dell’atmosfera del
“festival”; ognuno con il suo
palco, le sue luci brillanti e
colorate, con le sue teste mobili
che seguono ogni volteggio, con i
suoi vj pronti a selezionare
immagini in accordo con il groove
di musicisti e dj che con la loro
arte animano il tutto!
A Palermo si è svolto lo storico
Ypsigrock di Castelbuono, giunto
alla sua XVI edizione, che ogni
anno garantisce uno spettacolo
musicale di altissima qualità nella
suggestiva location del Castello
dei Ventimiglia costruito sul colle
di S. Pietro d’Ypsigro, da cui
acquisisce il nome il festival. La
filosofia del festival è quella della
continua innovazione, della non
ripetitività, della sorpresa, della
ricerca. Vige per ciò la regola
detta la “ypsi once”, ossia nessun
artista potrà mai suonare due
volte ad ypsi con lo stesso
progetto.
A Noto per la seconda volta la
bianca val di Noto, città
patrimonio dell’UNESCO, si
rimbocca le sue barocche maniche
per ospitare il NOT.FEST
EDIZIONEZEROUNO, promet-
tente
festival
nato
dalla
volontà
del
direttore artistico dei Mercati
Generali di Catania e dal suo staff
operativo. Per quattro giorni i
Mercati Generali si spostano più a
sud con armi e bagagli per dare
vita a quel palcoscenico che verrà
calcato fino ad ogni alba dagli
artisti e dai ritmi più disparati.
Esplode Shantel & Bucovina Club
Orkestar con un coinvolgente
show in cui corde di chitarre, fiati
altisonanti e batteria scalpitante
diffondono la giocosa e
irresistibile musica balcanica; si
procede con la grinta di Fujia &
Miyagi che mettono in scena il
loro sound pensabile entro
sfumature indie-pop con accenti
funky-garage rubati
dall’underground newyorchese.
Altro astro del festival è Sòley
che, con la sua voce da sirena
ammaliante e le sue dita che
scorrono sui tasti della tastiera
come scarpette da punta ai piedi
di una prima ballerina, lascia il
pubblico a bocca aperta sotto
l’effetto dei suoi tenui e profondi
toni che si innalzano tra le luci del
… è stata una bella musica siciliana
Casablanca pagina 48
palco diventando un vero e
proprio rito di magia, una magia
che ti culla e ti avvolge.
Non manca lo spettacolo vero e
proprio quello fatto di costumi,
paillettes e lustrini, di drappi
svolazzanti, coreografie e coristi.
È Jessie Evans che caparbia e
audace calca il luminosissimo
palco del Not.Fest dando vita ad
una musica dai toni così vitali ed
esaltanti da cui nessuno può
essere esonerato, anche perché è
lei stessa a scendere in mezzo al
pubblico in visibilio così
felicemente costretto a farle da
corpo di ballo.
Ogni serata si conclude con live
set e dj set griffati Nikodemus,
Benji Boko, Daddy g, Apparat e
Miss Kittin che dall’alto della
consolle scatenano le masse loro
antistanti nella veste di veri e
propri leader della notte!
A Ragusa nella cava di Scicli
invece grande successo del Sicily
Music Village, un vero e proprio
villaggio munito di aree per
campeggiare così da poter
risiedere in loco e avere la
possibilità di godere della
“foltissima” line up messa a punto
per il festival. Musica nei piedi,
tra le mani e nelle orecchie H:24
tra dj set, live set e i veri e proprio
concerti live. Il Sicily ha scelto
una cava proprio perché si
preparava a fare rumore con la
presenza di Alborosie,
Dirtyphonics, Barrington Levy,
Aphrodite.
Le coste della bella Trinacria
hanno dunque offerto oltre che un
meraviglioso scenario
naturalistico, oltre alle sue
bianche o nere spiagge, oltre alle
sue alture verdi e refrigeranti
nelle quali fare lunghe
passeggiate rigeneranti, oltre alle
sue città ricche di cultura,
folclore, storia e vita, hanno
offerto anche un ricchissimo
scenario musicale conferendo
estrema importanza ai concerti
live, a quei live che permettono di
restare “alive”, che danno la
possibilità dell’interazione, della
comunicazione,
dell’improvvisazione. Quei live
che ci sarà un motivo se si
chiamano “live”, che portano in
scena l’amore e la passione di chi
la musica la crea, di chi lo
spettacolo lo inventa volta per
volta con il rinnovato intento di
“dare e darsi” al pubblico, di
rilasciare insieme alle note
qualcosa di sé, di far scoppiare
alte e basse frequenze che urlano
che la musica è vita e che in ogni
cosa risuona il ritmo della vita!!!
Niente in contrario per i djset che
ci fanno ballare e ancheggiare
fino allo sfinimento, che ci
immettono in un turbinio di
vibrazioni cangianti e salti
sorprendenti nell’attesa del
mixaggio più entusiasmante e
meglio eseguito, e per favore
niente cavalloni, così come il
gergo indica un cattivo passaggio
da un pezzo all’altro, quelli li
preferiamo al mare!!
Morale della favola, le colonne
sonore sono le colonne portanti di
ogni trama, e quelle tessute dalla
Sicilia per rendere piacevole
questa calda estate sono state tutte
una colonna sonora da applauso.
…Lettere
Casablanca pagina 49
Lettere
LETTERA APERTA ALLA COMPAGNA CAMUSSO
Cara compagna, ho appreso, nel corso di una riunione alla CGIL, che saresti presto venuta,
domenica 14 ottobre all’Hotel Excelsior.
Soltanto per un momento ho collegato l’evento alla drammatica crisi del lavoro che domina le nostre comunità
ed alla necessità di preparare la manifestazione del 20, premessa, forse, di uno sciopero generale. Un’azione di
lotta molte volte promessa, deliberata, minacciata e sempre rinviata in ossequio alla politica di unità nazionale
che, Monti duce, il PD persegue ed impone.
Una grave ingenuità la mia. Si tratta soltanto di una manifestazione elettorale di sostegno alla Segretaria
Generale della CGIL Sicilia ed al suo candidato presidente Rosario Crocetta; ammetterai che si tratta di una
scelta pesante, alcuni dicono sconcertante. Certo, nel tempo non sono mancate iniziative simili. Basterà
ricordare, alle ultime amministrative, il tonfo della segretaria di Agrigento e, prima ancora, di Italo Tripi. Non
sappiamo se analoga sorte colpirà Mariella Maggio. Il problema vero è che è in atto da anni, in forma pubblica
o sotterranea, la tendenza a trasformare la CGIL in un comitato elettorale del PD e che questa tendenza è tanto
più grande quanto minore è l’insediamento sociale delle due organizzazioni. Ricordiamo l’esito infelice di
Faraone a Palermo nonostante il visibile appoggio della SLC. Un caso di familismo sindacale che articola la più
vasta categoria del familismo amorale.
Ora il problema è questo: posto che la CGIL ha dichiarato l’incompatibilità tra cariche sindacali e mandato
elettorale, e conseguentemente l’indisponibilità delle strutture nella competizione, cosa deve intendersi per
struttura? La/il Segretaria/o è una struttura.
È naturalmente del tutto legittimo che la compagna Camusso si batta per le sue idee ma è del tutto inopportuno
che entri così pesantemente in campo. Il problema è ulteriormente complicato dalla natura della coalizione che
viene a sostenere e che è in assoluta continuità con la devastante esperienza Lombardo e dalla manifesta
volontà, al di là della concorrenza elettorale, di ricongiungersi, nel governo, delle due frazioni in cui si sono
divisi i lombardiani: Crocetta e Miccichè.
E che di unità, sotto l'egida della Confindustria Sicilia, si tratti è mostrato dal reciproco riferimento alla
manifestazione interclassista, di unità sicilianista, del 1° marzo, unica originale iniziativa del sindacato
siciliano.
Che l’esperienza Lombardo sia stata disastrosa ci è stato detto chiaramente dalla Corte dei Conti, dalla UE, da
tutti. È facile, è ragionevole, chiunque lo capisce, ma è una semplicità che è difficile da fare. Così è stato per il
PD siciliano che, dopo lacerazioni interne, ha minacciato, a dimissioni di Lombardo già annunziate, una
mozione di sfiducia ma non ha avuto il coraggio di presentarla. Come diceva don Abbondio, non c’è nulla da
fare: se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare:
È stato difficile trovare nella CGIL siciliana qualcuno che abbia dato un giudizio positivo su Lombardo.
Mariella Maggio ha sempre dosato i suoi commenti, spesso analiticamente acuti, ma non ha mai mosso un
muscolo per interrompere quell’esperienza. Solo tu, in un’intervista alla “Sicilia”, quando già incombeva sul
Presidente l’inchiesta Iblis, hai dato una valutazione moderatamente ottimista: Avevamo sorvolato pensando
“viene dal continente, non sa di che cosa parla, cu sapi chi ci ’ncucchiaru”.
Ora comunque, se Crocetta ti sta bene, bene!
Ognuno porta su di sé la croce delle proprie responsabilità.
Ma se non possiamo convenire su questo giudizio, almeno possiamo condividere valutazioni, diciamo, di natura
estetica: Crocetta è impresentabile.
Nelle sue lunghe dichiarazioni alla stampa, nelle decine e decine di pagine a pagamento sui quotidiani e
settimanali, il suo è un linguaggio violento verso gli avversari, o, più semplicemente, verso quelli che non
condividono il suo percorso.
A questi spettano o gli appellativi di checche isteriche o di terroristi (Renato Curcio sarebbe l’unico più a
sinistra di lui).
Naturalmente, verso le donne, il tono è più leggero. Così Giovanna Marano è soltanto “scema” e comunque si
…Lettere
Casablanca pagina 50
può sanare la gaffe inviandole un cesto di rose. Il peggiore maschilismo siculo. Ci saremmo aspettati da te, da
Mariella Maggio, un sia pur timido distinguo. Ad una prestigiosa dirigente sindacale, così come ad ogni
compagna/o è dovuta quella solidarietà che costituisce il filo che dovrebbe unirci nella CGIL. Al di là del
vincolo associativo avrebbe dovuto muoverti quella forte solidarietà di genere che pure, con forza, e più volte,
hai evocato anche in occasione dello SNOQ.
Per questo non verrò ad ascoltarti. Raccoglierò firme per i referendum 8x18 che tu così irragionevolmente
osteggi.
Con immenso rammarico
Un vecchio compagno della CGIL
Gabriele Centineo
UNA TORTA ROSSO FIOM
Lettera di Antonio Di Luca pubblicata su fb il giorno del suo compleanno e della vittoria Fiom
19 ottobre 2012
Oggi non è solo il compleanno di un semplice operaio da oltre quattro anni in cassa integrazione forzata che
festeggia mestamente con la moglie e i suoi tre figli, dove l’ultimo, Marco di appena quattro anni ha voluto
fortemente fare una torta insieme alla mamma di colore rosso FIOM - giuro che sono state le sue parole - ma è
la giornata in cui una nuova sentenza della Corte di Appello di Roma ha condannato nuovamente la Fiat. Dopo
le sentenza di settembre 2011, di giugno 2012 e agosto 2012 a Pomigliano dunque Marchionne non è passato.
Non è passata la sua strategia di cancellare, insieme ai diritti, il rispetto delle leggi, la dignità del lavoro.
Con la forza della ragione, dell’etica e del cuore, la FIOM ha vinto.
La lotta di resistenza della FIOM credo abbia pochi precedenti nella storia del movimento operaio italiano. Ora,
questa lotta vissuta per lunghi mesi nell’isolamento più assoluto, è diventata un simbolo di resistenza per tutti.
Un simbolo di libertà che ora più che mai deve interrogare l’intero paese. Anche quel mondo della cultura che
non si era accorto che attraverso un accordo farsa, piani fatti e disfatti con disinvoltura dal management, non
solo si voleva affermare un sistema di relazioni industriali autoritario, ma in realtà s’intendeva mutare i caratteri
culturali, democratici, civili e sociali dell’intera comunità nazionale.
Ecco perché questa sentenza avviata da 19 coraggiosi operai, tra cui chi vi scrive, riguarda tutti, e spero faccia
riflettere ancora una volta tutte quelle forze democratiche, che le discriminazioni sono la forma più odiosa che
possa esistere in un paese che ama definirsi civile ed europeo.
Un grazie a tutti per gli auguri e per l’affetto. Vorrei abbracciarvi una/o ad una/o e portare con me in fabbrica a
testa alta tutte le compagne e i compagni ancora esclusi, compresi quelli che non hanno avuto la forza di
combattere, oppure chi, nella paura, viveva in solitudine il suo dramma.
Tutti in fabbrica entro Natale, per regalarci finalmente dopo anni di tristi festività un ri-scatto di dignità e forza
contro chi ci vuole in contrapposizione, deboli e ricattabili.
LETTERA APERTA A SUSANNA CAMUSSO
pubblicata su facebook da Pietro Milazzo il giorno Venerdì 12 ottobre 2012 alle ore 12.58
Cara Susanna,
sono PIETRO MILAZZO, un dirigente della CGIL siciliana e coordinatore regionale dell’area LAVORO e
SOCIETÀ, l’area che, come Tu sai perfettamente, governa assieme alla sensibilità maggioritaria che Tu
rappresenti, la CGIL nazionale.
Ti scrivo questa lettera, usando una forma inusuale, come questa nota su un social network, perché voglio
ESTERNARTI PUBBLICAMENTE e PERSONALMENTE, senza limitarmi al mugugno nelle stanze della
CGIL o a documenti per linee interne, il mio DISAGIO ed il mio DISSENSO per la Tua scelta di scendere in
campo personalmente, partecipando a iniziative elettorali, a Palermo e Catania, in sostegno alla candidatura
della nostra ex segretaria regionale Mariella Maggio, presente nel listino ed in una delle liste del candidato
…Lettere
Casablanca pagina 51
presidente Crocetta.
Ovviamente nessuno contesta il Tuo diritto di cittadina e di elettrice di sostenere chi vuoi, ma reputo che ci
siano alcune questioni di opportunità e di metodo che devono essere assolutamente prese in considerazione e
che non sono state sufficientemente considerate.
L’art. 2 dello Statuto della CGIL, quello che regola ed elenca i principi fondamentali, recita: “La Cgil è un
sindacato di natura programmatica ed è un’organizzazione unitaria e democratica che considera la propria unità
e la democrazia come propri caratteri fondanti. La stessa autonomia della CGIL, anch’essa valore primario,
trova il suo fondamento nella capacità di elaborazione programmatica in primo luogo nei confronti dei datori di
lavoro, delle istituzioni e dei PARTITI e nel carattere unitario e democratico delle sue regole di vita interna”.
Dunque i valori primari per la CGIL sono l’autonomia, anche da istituzioni e partiti (o coalizioni di partiti),
l’unità, la democrazia regolata dalle regole interne.
Il nostro compito primario, come dirigenti della CGIL che rispettano la nostra carta costituzionale, lo Statuto, è
di operare per l’unità e l’autonomia, in tutela della natura e della storia della nostra organizzazione, ma non
solo.
La CGIL è un’organizzazione sociale, un corpo sociale complesso, il più grande d’Italia, nel quale convivono
sensibilità ed opzioni politiche diversissime, ma tutte ispirate alla lunga, travagliata, frastagliata, storia del
movimento dei lavoratori e delle forze politiche che ad essa si sono ispirati o che da esso sono scaturite. La Cgil
rimane l’unico laboratorio politico
UNITARIO presente in Italia dove continuano a convivere con un difficile, complesso ma utile dibattito interno
tutte le sensibilità principali presenti sul terreno della sinistra politica. Tutto ciò rappresenta un valore aggiunto
fondamentale che è decisivo per tutti tutelare.
Tu sai, perfettamente, Susanna che in Sicilia l’area progressista, le cui componenti sono presenti in CGIL, sono
divise e concorrenti... come le CANDIDATURE, in contemporanea, di GIOVANNA MARANO, ex segretaria
regionale della FIOM CGIL SICILIA e di MARIELLA MAGGIO, ex segretaria generale CGIL SICILIA,
attestano in modo eclatante.
Credo, compagna SUSANNA, che Tu, in un contesto così DELICATO e DIFFICILE, nel Tuo ruolo di
SEGRETARIA GENERALE nazionale, quindi non una dirigente qualunque, ma di titolare del massimo grado
di rappresentanza politica della nostra organizzazione, AVRESTI DOVUTO ASTENERTI da scendere in
campo, legittimando una candidatura, rispetto ad un’altra. TU DEVI ESSERE e RESTARE la MASSIMA
GARANTE di questa UNITÀ, nella diversità e nel pluralismo delle idee e delle tesi politiche e partitiche, tanto
più che ci stiamo avviando, sotto la spinta delle ignobili e vergognose conferme del grado di corruzione e di
marciume che è presente a tutti i livelli, ad una nuova fase di transizione che vedrà nelle prossime elezioni
politiche nazionali, un momento importantissimo. La CGIL che si avvia ad entrare con la sua Conferenza di
programma, dopo le elezioni politiche, nella sua fase precongressuale deve essere in grado d’orientarsi e di
orientare il mondo che rappresenta, in modo preciso e rigoroso, in questa fase delicatissima.
Lo statuto ci indica una strada ed un compito precipuo: quello di elaborazione programmatica e confronto
autonomo, terzo, con i soggetti datoriali, istituzionali e partitici. La nostra azione si svolge su quel livello non
su quello dello schierarsi e scendere direttamente in campo. Questo è il compito che la fase ci impone, e ciò
deve valere per TUTTE/I ed a tutti i livelli.
Con rispetto per il Tuo ruolo ed il Tuo lavoro, ma anche con la fermezza di un militante che difende con
accanimento il ruolo del nostro sindacato, la nostra casa comune.
Casablanca n. 26 – La Bella Politica