n. 26 La Bella Politica

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ANNO VII NUM.26 Storie dalle città di frontiera ottobre‐novembre 2012 La Bella Politica La Bella Politica

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n. 26 del periodico Casablanca

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ANNO VII NUM.26S t o r i e d a l l e c i t t à d i f r o n t i e r a

ottobre‐novembre 2012

La Bella PoliticaLa Bella Politica

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CASABLANCA N.26/ ottobre – novembre 2012/ SOMMARIO

Casablanca pagina 2

“A che serve vivere se non c’è

il coraggio di lottare?”

Giuseppe Fava

4 – Natya Migliori Giovannella la nostra candidata

6 – Graziella Proto Maria C. Lanzetta, “stai a casa e fai la mamma”

10 - Angelo Vassallo – la bella politica Simona Mazzeo

13 – Ilaria Ramoni Lombardia metafora della ‘ndrangheta

16 - Lazio, Regione Imperiale Fabio Nobile

18 – Francesca Chirico Chiesa, ‘ndrangheta…

21 – Sughereta e MUOS? Antonio Mazzeo

24 - Giovanna Regalbuto Mineo, una festa al c.a.r.a.

27 – Il gabbio Lampedusa Fulvio Vassallo Paleologo

30 – Gianni Lannes Democrazia derubata

32 – Franca Fortunato Giuseppina Pesce

35 – Rosita Rijtano Gocce che scavano il marmo

37 - Cynthia Rodriguez La Rivoluzione? – giornalisti in Messico

40 – Mara Bottini Bernaw Kefah

43 - Palermo in bicicletta Daniela Gambino

45 - Diario della Pioggia Gianni Allegra

46 –Gianni Lannes Il Grande Fratello

47 – Annalusi Rapicavoli Live to stay alive: la Sicilia che si sente

49 - Lettere

Casablanca – Direttore Graziella Proto – [email protected] Redazione tecnica: Nadia Furnari e Vincenza Scuderi Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org/casablanca

Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Riccardo Orioles

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Editoriale – mensile

Alla ricerca della rotta smarrita Così parlò Pippo Fava

Casablanca pagina 3

Parole profetiche? Premonitrici?

Una verità, anche quando in modo

buonista sosteniamo che sì il voto

di tanta gente non è un voto libero.

È sotto ricatto: bisogno, miseria,

nuove forme di povertà. Tuttavia i

rivoli del ricatto elettorale

abbracciano anche un non bisogno,

ambizioni, affari, carriere.

Gli ideali sono in coma, l’ideologia

alla gogna. La maggior parte della

politica magna, magna…spende e

spande, organizza “feste eleganti

senza sesso”, oppure lunghe e

costose crociere regalate dagli

amici… La grande ammucchiata?

Colpa della legge elettorale. Le

porcate sui più deboli? In nome e

per conto dell’Europa. Gli aumenti

esagerati dei rappresentanti

istituzionali? Votati all’unanimità.

Opposizione? Piccolissima, manco

si avverte.

C’è dell’altro. Una cosa grave, il

cosiddetto “voto utile”. Ma sai -

provi a dire - gli ideali… ti si

risponde che sei una nostalgica,

impastata di ideologie. Vale a dire,

rischi il rogo come le streghe.

Dimenticando perfino che,

ideologia vuol dire concezione del

mondo, concezione della vita,

dottrina, scuola, pensiero, filosofia.

Insomma, un pacchetto di valori,

ideali, progetti e proposte per un

mondo più giusto. Più bello. Nulla.

L’unica strategia, l’unico ideale, è

vincere. A quale prezzo? Con

quale Progetto? Soprattutto, con

chi? Ovvio, con tutti coloro che

hanno contribuito a creare lo

sfacelo.

Si dice “essere moderni” e

parecchi ci credono. NOI NO!

***

“I mafiosi stanno in

Parlamento, i mafiosi a volte

sono ministri, i mafiosi a volte

sono banchieri. I mafiosi sono

quelli che in questo momento

stanno ai vertici della nazione”. Era la fine del 1983. Giuseppe

Fava così rispondeva a Enzo Biagi

che lo intervistava. Dopo una

settimana lo ammazzarono.

La regione Lazio e la regione

Lombardia (e prima ancora la

Sicilia), ci raccontano che la mafia

è dentro le istituzioni, eppure non

riusciamo a ribellarci. Ci si

accontenta di uno, pochi, che

finiscono in galera… che poi

escono e si ricandidano.

Il garantismo… Il terzo livello di

giudizio… Bisogna accertare i

fatti… E se capitasse a noi…Sì,

ma è un fenomeno trasversale.

Trasversale a che? A chi? Tutto

questo denaro rubato da tesorieri

di partiti, capigruppo, semplici

onorevoli deputati o senatori, era

della comunità, sarebbe servito

per il paese.

Chi sta pagando col sangue la

crisi? Monti con quali classi

sociali recupera? Su chi

risparmia?

Non vedo la giusta

indignazione. Non vedo le

monetine buttate in faccia

all’uscita dell’albergo. Non vedo

la rabbia. Non ci si incazza.

L’assurdo e l’impensabile si

fondono: Molti oppressi,

guardano a destra, forse

fidandosi, forse lasciandosi

comprare. Quelli che sanno tutto,

si inerpicano in ragionamenti del

tipo “Sono piccole cifre. Un

aereo F 35? I soldi rubati? Gli

sprechi? Non risolverebbero il

problema del paese”. Come si

risolve allora, prelevando dai

poveri ? Derubandoli e

defraudandoli in termini

economici e in termini di servizi?

Questa grande quantità di denaro

sottratta, di sicuro avrebbe

alleggerito i sacrifici, reso più

leggero il peso della crisi. Dato

servizi. Abbassato le tasse. Far

sopravvivere i piccoli

commercianti e i loro negozi. Far

respirare i piccoli comuni.

Insomma questa barca di denaro

a qualcosa sarebbe servita. Non

diciamo cazzate.

“Amico mio, chissà quante volte tu hai dato il voto a un uomo politico

corrotto, ignorante e stupido, solo perché una volta al potere ti poteva

garantire una raccomandazione, la promozione a un concorso,

l’assunzione di un tuo parente, una licenza edilizia di sgarro. Così

facendo tu e milioni di altri cittadini italiani avete riempito i parlamenti

e le assemblee regionali e comunali degli uomini peggiori, spiritualmente

più laidi, più disponibili alla truffa civile, più dannosi alla società. Di

tutto quello che accade oggi in questa nazione, la prima e maggiore

colpa è tua". (Giuseppe Fava 1983)

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È donna della FIOM … noi la votiamo

Casablanca pagina 4

Giovannella,

la nostra candidata

Trasformiamo le risorse

in FUTURO Natya Migliori

Ogni donna è figlia, madre, moglie, professionista, sindacalista. Dentro di me sento l’intima

consapevolezza di essere ognuna di queste donne e di volerle rappresentare e contrapporre ad

una politica che, finora, non le ha affatto valorizzate. Cinquantatré anni, molto carina,

garbata, targata FIOM Giovannella - come la chiamano qui a Catania i suoi vecchi amici - ha

risposto all’emergenza elettorale della coalizione Fava con spirito di servizio. Ma anche

perché aveva già sposato il programma, le idee, le ambizioni. Una candidatura debole?

Attualmente presidente del Comitato Centrale della FIOM, è stata la prima donna in Sicilia a

rivestire la carica di segretaria regionale del sindacato dei metalmeccanici. Da venticinque è

sempre stata in strada assieme ai lavoratori, a combattere battaglie durissime quali per

esempio quella di Termini Imerese. Vi pare poco?

“Sono di corsa, vado a Catania

per una conferenza”.

Ha il tono trafelato di chi è

travolta dagli impegni, Giovanna

Marano, leader della FIOM

candidata alla presidenza della

Regione Sicilia da Idv, Sel, Verdi,

FdS e Altra Storia dopo il ritiro di

Claudio Fava a causa di un “vizio

di forma”: una residenza trasferita

troppo tardi in “madrepatria”.

Mentre c’è chi grida al complotto,

chi punta il dito contro

l’imperdonabile distrazione

dell’europarlamentare e chi

ironizza “non sa neanche dove sta

di casa”, suggerendogli di

comprare un navigatore, la

proposta per la candidatura

giunge inaspettata alla

sindacalista. Che non se la sente

di rifiutare.

“Dopo i primi momenti di

assoluto stupore - mi confessa -

tutto sommato è stato semplice

decidere. Come quando ti

chiamano da casa per dirti che c’è

un’emergenza. Dopo lo

sbigottimento iniziale, non puoi

fare a meno di correre in soccorso

e provare a risolvere il problema.

Mi ha spinto in altre parole lo

spirito di servizio, che sta alla

base dell’unica politica in cui

credo. E della sola che potrà

seriamente rimarginare la

spaccatura con la società”.

Classe 1959, Giovanna Marano,

attuale presidente del Comitato

Centrale della FIOM, è stata la

prima donna in Sicilia a rivestire

la carica di segretaria regionale

del sindacato dei metalmeccanici.

Una carriera di lotte in strada,

lontana dagli uffici, il più

possibile vicina agli operai.

“Sono una donna - si legge sul

suo profilo Facebook- che ha

vissuto e lavorato prima nella

sanità e poi sul fronte sindacale

dove per venticinque anni sono

stata al fianco dei lavoratori nelle

battaglie più dure, tra cui quella

durissima di Termini Imerese. Da

lavoratrice e da sindacalista ho

potuto toccare con mano come

questa regione abbia sperperato

denaro e non abbia mai saputo

affrontare il bisogno di una vita

migliore”.

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È donna della FIOM … noi la votiamo

Casablanca pagina 5

Gli anni all’interno della sigla

CGIL/FIOM la portano però

oggi ad una scelta partitica

diversa rispetto alle colleghe

di sindacato Mariella

Maggio e Concetta Raia,

confluite nella lista PD di

Rosario Crocetta. Qualcuno

ha già gridato alla frattura.

È un rischio reale? “Tengo innanzitutto a

precisare che da tempo ho

abbracciato il progetto politico

di Fava.

Al di là di ciò, la CGIL è sempre

stata una forza sindacale, e non

politica, fortemente caratterizzata

dal pluralismo di idee. Guai se

non fosse più così. Io non sento

nessuna rivalità nei confronti

delle colleghe e non vedo nessuna

spaccatura. Si tratta solo di scelte

divergenti, dettate da un retroterra

e da esperienze differenti. Tutto

qui”.

L’attività sindacale l’ha

particolarmente impegnata sul

fronte della disoccupazione.

Qual è, secondo lei, la situazione

oggi in Sicilia? Quali le

soluzioni? “Stando al fianco degli operai di

Termini Imerese, soprattutto

nell’ultimo decennio, mi sono

resa conto che anni di malgoverno

hanno ridotto la Sicilia senza un

mercato, senza una seria politica

industriale e senza finanziamenti

che possano consentire la

sopravvivenza stessa delle

imprese.

Se negli anni Sessanta

l’industrializzazione nazionale è

partita proprio da noi, adesso ci

troviamo ad essere la prima

regione deindustrializzata.

Ma i paradossi siciliani non

finiscono qui - aggiunge -. Mentre

ben cinque raffinerie e due

metanodotti attraversano, infatti,

il nostro territorio, continuiamo a

pagare più cari delle altre regioni

d’Italia il gas e la benzina. Sono

io allora a farle una domanda:

perché?

In Sicilia manca la spinta,

mancano la volontà e la capacità

di dare impulso all’economia e

all’occupazione, anche attraverso

la promozione dell’industria”.

Al pari dell’Ilva di Taranto,

però, anche in Sicilia

industrializzazione è sinonimo

di cancro, leucemie e

malformazioni. Basti pensare al

“polo della morte” Augusta-

Priolo-Melilli. “Certo. In nome del ‘miracolo

industriale’ la Sicilia ha subìto

veri e propri scempi ambientali

che hanno inevitabilmente posto i

lavoratori di fronte al ricatto

salute o lavoro.

Io sono stata nominata solo da

pochi giorni e non ho ancora un

programma definito.

Ma parto dalla convinzione che

un governo che pensi al futuro di

questa regione debba pensare ad

un’utilizzazione responsabile

delle risorse e ad una produzione

ecosostenibile. La politica

seria non deve mai più

permettere scempi e

ricatti, ma trasformare le

risorse in futuro”.

In passato ha avuto

modo di scrivere che la

Sicilia può essere salvata

dalle donne. Ne è ancora

convinta? E cosa può

salvare le donne in Sicilia?

Quali le sue proposte

rispetto alla disoccupazione

femminile?

“Credo ancora moltissimo nel

ruolo che le donne possono avere

per creare una Sicilia nuova.

Ognuna di noi è figlia, madre,

moglie, professionista,

sindacalista. Dentro di me sento

l’intima consapevolezza di essere

ognuna di queste donne e di

volerle rappresentare e

contrapporre ad una politica che,

finora, non le ha affatto

valorizzate.

Le mie due figlie, Martina e

Roberta, vivono fuori perché qui

non sono riuscite a trovare valide

opportunità di lavoro. Ebbene,

sono convinta che un’ipotesi

politica che guardi veramente allo

sviluppo debba offrire alle donne

la possibilità di realizzarsi nella

loro terra. Il fenomeno delle

famiglie monoreddito in Sicilia,

d’altronde, costituisce per la

nostra economia una vera e

propria piaga. Come si può

pensare di risanarla continuando a

prescindere dall’occupazione

femminile?”.

Lei parla spesso di “politica

seria”. Ma che cos’è oggi, in

Sicilia, la politica seria? “È il tentativo coscienzioso e

cosciente di rappresentare ed

ascoltare tutte, ma proprio tutte, le

istanze di quanti vogliano

spendersi per il benessere

generale e la collettività”.

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Una calabrese siciliana

Casablanca pagina 6

“Stai a casa e

fai la madre”

La bella politica

Graziella Proto

A Monasterace c’era il caos, poi venne eletta Maria

Lanzetta che si impegnò a dare una sterzata legalitaria.

Una donna, la novità, la legalità… tutti dimenticarono

che il comune, in passato, era stato sciolto per

infiltrazioni mafiose. Ma non durò a lungo. Nell’ultimo

anno Monasterace, in provincia di Reggio Calabria, è stato teatro di diversi attentati di

’ndrangheta, rivolti sopratutto verso la sindaca Lanzetta e la sua giunta. I Motivi? Solo

sospetti, dice la sindaca e tutti politici. Qualcuno bisbiglia, doveva lavorare solo la cosca

Ruga che secondo la DIA “aveva il controllo totale degli appalti delle opere pubbliche a

Monasterace, qualsiasi servizio, dovevano svolgerlo loro direttamente o imprese

riconducibili alla consorteria criminale”.

“Non sono un sindaco antimafia”

“Ho bisogno di sentirmi uguale a

chi vive a Genova, a Padova…

Sono calabrese ma sono

italiana… La Locride è povera e

soffre perché ci tolgono le scuole,

non ci sono investimenti…”.

Parla sottovoce, a volte abbassa

gli occhi. Le parole si susseguono

frettolosamente, come se temesse

di non riuscire a dire tutto.

Fragile? Timida? Decisa. Maria

Lanzetta è decisa a portare a

compimento il suo secondo

mandato di sindaca di Mona-

sterace. Nonostante tutto.

Visino pulito, minuta di corpo,

gracile. Esile ma, fortissima.

Occhi vispi, intelligenti, di quelli

per cui non c’è bisogno di parole.

Sorriso dolce, fare cortese.

Riservata, discreta, schiva, mo-

desta, Maria ha 57 anni, marito

insegnante, due figli laureandi.

Una solida famiglia di origine alle

spalle. Farmacista benestante non

ritira neppure l’indennità di

sindaca, preferisce illuminare le

strade, fare lavori di manu-

tenzione e tante altre piccole

LE MANI SULLA CITTÀ

Ruga Benito Vincenzo Antonio storico patriarca della cosca omonima, a Monasterace era il padrone del paese,

poi nel 1993 è stato condannato all’interno dell’operazione “Stilaro”. Dal carcere però ha continuato la sua

specializzazione cioè tenere in scacco la cittadina. Le mani sulla città per dirla con uno slogan, che significava

monopolio assoluto sugli appalti pubblici. Direttamente o, indirettamente da quando è in galera. Dalle varie

operazioni degli inquirenti, risulta determinante la complicità del responsabile dell’ufficio tecnico, Vito

Micelotta, che durante l’amministrazione di Maria Lanzetta per assicurare al Ruga la conclusione dei contratti

ha dovuto dare permessi e autorizzazioni all’insaputa della sindaca. Poverino! Anche Micelotta come Ruga,

già nel 1993 era finito dentro le inchieste giudiziarie, “Stilaro 1” e “Stilaro 2” ma era stato assolto. Con

l’operazione Village del 2010 prima va in galera e poi agli arresti domiciliari.

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Una calabrese siciliana

Casablanca pagina 7

grandi cose che servono per il

paese da lei amministrato. In

questo periodo è più che mai

arrabbiata per ciò che succede in

altre regioni e in altri comuni. Lei

in fondo non ha mai pensato di

fare grandi opere. Lei pensa a

cose molto normali “… la

possibilità di scrivere nuove

regole per il territorio, piano

regolatore, progetto spiagge,

recupero del centro storico, opere

pubbliche. Senza grandi spese”.

Ha dato fastidio che non volesse

grandi spese o che volesse

riscrivere le regole? Il progetto

spiagge o il recupero del centro

storico? Certamente questa

piccola gracile donna ha fatto uno

“sgarro”. A chi? Perché la

minacciano? Perché le hanno

incendiato la farmacia, sparato

contro la sua macchina? Chi le fa

recapitare a casa biglietti con su

scritto “Resta a casa a fare la

madre”? Tanti interrogativi ai

quali lei non dà risposte, c’è

un’indagine in corso ripete.

SINDACHE CHE DANNO

FASTIDIO ALLA

’NDRANGHETA

Siamo nella Locride, dove miserie

umane, riti arcaici, ritorsioni, la

fanno da padrone. Dove è facile

sparare alla macchina della

sindaca, o appiccare fuoco alla

sua farmacia. O alla macchina di

una sua consigliera comunale di

fiducia. Eppure in questa parte

della Calabria, in questo momento

per certi versi si sta vivendo un

periodo splendido. Tanti piccoli

comuni sono amministrati da

donne e le giunte sono fatte da

giovani donne e giovani uomini.

Sindache impegnate, decise,

preparate. Coraggiose. Sindache

protette dalla scorta perché

probamente hanno pestato i piedi

a qualcuno. Loro le ostriche e lo

champagne non li mettono in

conto, non sono previsti. Le loro

sono cene familiari, con i parenti

o gli amici. Nelle loro abitazioni o

il ristorante sotto casa. La loro

vita è a rischio per pochi spiccioli,

perché di soldi queste sindache ne

vedono pochi o per nulla. Sprechi,

ostriche, cozze pelose, festini? Da

queste parti suonano come

bestemmie, come si suole dire

fanno uscire di testa. Sono per il

rigore e la legalità perciò hanno

dato fastidio alla ’ndrangheta (o

chi per essa), che ha reagito con

rabbia. Minacce, incendi,

messaggi.

Si sono arrese? Sono tornate alle

loro attività professionali? NO.

Hanno accettato la scorta,

mantengono l’incarico e vanno

avanti. A Locri in questi giorni

grazie alle sindache di

Monasterace, Rosarno,

Decollatura, Capo Rizzuto, si è

svolta la due giorni Anci -

Legalità e Sviluppo nel Sud - un

convegno con la partecipazione di

tanti sindaci venuti da fuori. Un

segnale forse, un modo per dire

che c’è attenzione verso questi

comuni?

***

Monasterace è un piccolo comune

di 3.000 abitanti. Fa parte della

Locride, una zona inserita tra

l’Aspromonte, lussureggiante e

incontaminato e la striscia di mare

Jonio, da dove arrivarono i Greci

che proprio qui, elessero

residenza. Ecco perché un

immenso parco archeologico

incastona questo comune che pare

sia stato costruito sui resti di un

castello medioevale. Cambiare

una lampadina in questa cittadina

è complicato, desiderare di

mettere i condizionatori nella

biblioteca per fare iniziative

culturali assurdo. “Siamo poveris-

simi, i lavori di manutenzione li

facciamo con la mia indennità e

mettere l’aria condizionata non è

stato possibile” - spiegò la

sindaca Maria Lanzetta in un

torrido pomeriggio di fine luglio.

Quel pomeriggio a Monasterace

l’afa impediva di respirare ed

appassionarsi alla mostra

fotografica su Peppino Impastato

che era stata organizzata assieme

ad alcune associazioni antimafia

siciliane e calabresi era molto

difficile. (v. scheda)

In una non molto datata relazione

del tribunale firmata Silvana

Grasso a proposito di

Monasterace i magistrati

parlano di una

“amministrazione in cui le

regole non esistono, il tutto ad

esclusivo vantaggio e favore

di amici, potenti e mafiosi:

nessuna vigilanza da parte

della Polizia Municipale

sull’uso del territorio, organo

che, in tre anni (2001-2003),

ha accertato solo sei

violazioni edilizie e nessuna

contravvenzione al Codice

della Strada, varianti al piano

regolatore, lottizzazioni e

permessi di costruire rilasciati

in violazione delle norme, con

falsi macroscopici e con

palesi intenti di favoritismo;

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Una calabrese siciliana

Casablanca pagina 8

appalti di opere pubbliche

aggiudicati con il criterio ‘a

sorteggio’ (sic!) con ribassi d’asta

predeterminati dall’ufficio

tecnico; un ufficio tributi

praticamente inesistente senza

alcuna forma di prelievo dei

tributi che, praticamente, non

vengono pagati dai cittadini”.

Bingo!

“IL PONTE CHE

VORREMMO”

Maria - testarda - vorrebbe

scrivere le regole. Applicare la

democrazia. Ripristinare la

legalità a 360 gradi. Lodevole

certamente, non per tutti però.

Alle ultime elezioni che le hanno

confermato il suo secondo

mandato si è ritrovata contro tutti

gli ex sindaci che l’hanno

preceduta. Coincidenza? Paura?

Maria va avanti e le danno la

scorta. “Sotto scorta perché

l’anno scorso hanno devastato e

bruciato la mia farmacia e poi

quest’anno hanno sparato contro

la mia macchina e la serranda

della farmacia. Avevo dato le

dimissioni non per paura ma per

l’angoscia di aver perso la libertà

di operare, e che quindi non avrei

mai potuto operare in assenza di

libertà della scelta e con la paura

della scelta. C’è stata una grande

protesta della gente, una grande

vicinanza dello stato e mi è stata

proposta la scorta. L’unica

condizione affinché i miei figli mi

dessero la possibilità di poter

continuare a fare il sindaco. Ho

ripreso a lavorare per rispetto a

quei pezzi dello Stato che ogni

giorno fanno sacrifici per

mandare segnali positivi a questa

terra”.

Certamente ci sono indagini in

corso. Ma quale idea si è fatta la

sindaca sulle minacce? Ha pestato

i piedi a qualcuno? A chi?

“Non so nulla. So che se ne sta

occupando Reggio Calabria, gli

argomenti possono essere tanti.

Quando mi hanno distrutto la

farmacia ero stata rieletta quindi

l’ho letta come ‘vogliamo che tu

te ne vada’, quando è stato per la

macchina mi stavo occupando del

lavoro di un gruppo di donne”.

Il ventotto luglio 2012, piazza di

Monasterace: la piazza che ospita

l’iniziativa “Il ponte che

vorremmo” (v. scheda) è proprio

in riva al mare. Tante donne si

sono sbracciate e si danno da fare,

spostano le sedie, controllano il

palco… la sindaca più di tutte. Si

carica una pila di sedie e

le sistema intorno al

palco, saluta velocemente

gli ospiti che arrivano e

riprende.

Intanto altri sindaci

arrivano. Nel frattempo

altre ragazze sistemano

libri, tavoli e Maria, così

come aveva fatto prima

nella biblioteca comunale,

controlla tutto. Fa in modo che gli

ospiti si trovino a proprio agio. Fa

dichiarazioni ai giornalisti,

rilascia brevi interviste. La faccia

è molto affaticata. È stanca ma

non si tira mai indietro. “Questo è

un paese bellissimo sul mare”.

Un’area archeologica magnifica,

la più grande del Mediterraneo.

“Il paese ha bisogno di tanto, di

tutto, bisogna lavorare nel senso

del comune… si deve ristrutturare

tutto - ripete sempre - c’è tanto da

fare qui…”.

Ci sediamo in riva al mare. Acque

cristalline. Coste bellissime,

selvagge. Coste che costano, coste

che fanno gola a tanti, che

suscitano interesse… fanno

sognare grandi affari…

Ma le coste non si toccano. Ci

sono tratti in cui ci sono

costruzioni abusive ma risalgono

a periodi molto antecedenti e ci

vive povera gente e “prima di

qualsiasi iniziativa ci vuole

un’alternativa”.

E… l’attentato? “Solo questioni

politiche e si ferma”- non dice più

una parola. La faccia è sempre più

stanca.

Soddisfazioni? “Poche. Non

riesco a concretizzare quello che

vorrei, forse perché pretendo

molto. Da me e gli altri - spiega,

ed aggiunge - Io ero presidente

della pro loco, su di me si era

convogliata una bellissima stima e

soprattutto moltissime donne mi

chiedevano di impegnarmi in

politica per le amministrative. Per

una ventata di novità e

cambiamento radicale. Ci sono

stati l’uno e l’altro, i risultati non

sono apprezzabili, quelli sperati.

Io speravo di raggiungere livelli

migliori di vivibilità per questo

paese. Cose diverse. Forse ho

sognato molto, il comune è

povero, indebitato fino all’osso, e

ciò non ci permette di fare nulla.

Spreco una grande energia a

reperire i soldi… pochi soldi per

fare una discesa per i disabili o i

condizionatori in biblioteca…

Quelle donne forse ci sono ancora

però io le volevo più propulsive,

più presenti, più costruttive anche

di controllo sul nostro operato,

controllo propositivo come io e

altre donne avevamo fatto prima

con la pro loco: un fiore

all’occhiello per le

amministrazioni e il sindaco, che

non può fare altro che apprezzarti

quando organizzi serate e

manifestazioni coinvolgendo la

gente dal basso”.

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Una calabrese siciliana

Casablanca pagina 9

UNA FAMIGLIA MODERNA

Madre laureata a Bologna e padre

a Modena nel 1950, che hanno

deciso di ritornare in Calabria, a

casa Lanzetta si respirava aria di

studio. Non c’era differenza fra

uomini e donne: “Non

femminismo ma rapporti paritari

naturali, normalmente”. Maria

frequenta il liceo classico a Locri,

incontra ottimi insegnanti e

scopre la passione per la politica.

“… poi i siciliani e la Sicilia, la

mia terra di elezione. Trovo la sua

storia di un interesse

straordinario… ho imparato dalla

vostra storia, e poi perché ho

seguito con passione assoluta le

grandi stragi di mafia in Sicilia, la

forte ribellione, il coraggio dei

magistrati. Ho sostenuto le

vittime di mafia al maxiprocesso

sottoscrivendo con duecentomila

lire. La mia formazione è nata con

quella ma anche con la storia dei

miei genitori di un’onestà

straordinaria.

Come si vive sotto scorta? “Io

amo il mare e non fare il bagno

mi costa parecchio. Oppure uscire

solo quando è necessario. Libertà

di fare, organizzare la famiglia e

il lavoro, gli interessi gli impegni,

le varie associazioni… è dura” -

conclude.

***

Le hanno assegnato il premio Joe

Petrosino e lei non è andata a

ritirarlo: “Avevo da lavorare”.

Maria Lanzetta è impegnatissima

nel suo piccolo comune della

Locride. Dove, una volta,

l’economia era affidata alle

donne. Raccoglievano gelsomino,

un’attività antica, pesante, portata

avanti con ostinazione perché

spesso l’unica entrata di una

famiglia. Forse ancora oggi

alcune lo fanno, ma è tutta

un’altra cosa.

Donne indipendenti dunque.

Pensanti. Determinate.

Operose e responsabili in questo

pezzo della Calabria.

L’operazione Village

Il Procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri non usò mezze misure sugli interventi giudiziari a

Monasterace con l’operazione VILLAGE: “Si tratta di un’indagine importante perché da anni non si

penetrava la situazione criminale esistente nel Comune di Monasterace” - spiegò.

In sostanza, secondo gli investigatori, le imprese riconducibili alla famiglia Ruga avevano il monopolio

degli appalti pubblici del comune di Monasterace. Venne inoltre fuori che tutto ciò era possibile grazie

all’amicizia e alla complicità del responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune Vito Micelotta. Il sistema

si poggiava sulla presenza di documenti falsi e sulla “somma d’urgenza” o il “silenzio assenso”,

meccanismo previsto dalla normativa amministrativa per velocizzare la pubblica amministrazione.

Certamente non per fregarla.

Con l’elezione di Maria il piccolo comune prova a resistere alle minacce della criminalità organizzata.

Ma qualcosa non quadrava. Infatti, remavano contro dall’interno. Quello che viene fuori dalle

intercettazioni telefoniche tra il primo cittadino e il dirigente comunale Vito Micelotta è uno scenario

inquietante. Grave. Delicato.

Nel 2010 con l’operazione Village per l’ennesima volta scattano gli arresti per il boss Benito Vincenzo

Antonio Ruga, già in carcere perché condannato nei processi “Stilaro 1” e “Stilaro 2” per associazione

mafiosa. Per l’imprenditore Aladino Grupillo e il responsabile dell’ufficio tecnico comunale Vito

Micelotta invece c’è l’interdizione dai pubblici uffici. Pare fossero specializzati a fornire documenti falsi

agli enti che erogavano finanziamenti pubblici.

Le ditte degli ’ndranghetisti erano riuscite ad accaparrarsi il subappalto anche dei lavori di

ristrutturazione di un ex ostello della gioventù diventato la caserma dei vigili del fuoco. Il tutto senza che

il Comune desse l’autorizzazione al sub appalto e senza che il sindaco Maria Carmela Lanzetta ne

sapesse nulla. Faceva tutto il tecnico comunale Micelotta.

In merito al funzionario comunale, il gip Grasso scrive: “L’indagato ha posto in essere una serie di

condotte classiche e incontestabili di abuso di ufficio e falso che costituiscono contributo fondamentale

all’esistenza, conservazione e rafforzamento dell’associazione mafiosa, posto che si è appurato che una

delle sue finalità accertate era proprio l’arricchimento mediante assunzione massiccia di appalti pubblici

locali. Attese le condotte descritte in atti e richiamate innanzi, non v’è dubbio, che i comportamenti del

pubblico ufficiale si caratterizzino proprio per la creazione dall’interno dell’Ente di appartenenza delle

condizioni perché la cosca, grazie all’assunzione per via diretta o indiretta degli appalti, possa continuare

ad operare e a trarre illeciti vantaggi secondo i propri fini in uno dei settori prediletti inibitole per legge a

seguito di condanna definitiva dell’effettivo titolare”.

Page 10: n. 26 La Bella Politica

Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo

Casablanca pagina 10

Angelo Vassallo la bella politica

Simona Mazzeo

“Qui a Pollica, se dobbiamo realizzare un progetto che deturpi

l’ambiente noi non lo realizziamo. Siamo Città Slow, cioè del buon vivere”. Angelo Vassallo,

sindaco di Pollica difendeva la sua terra quotidianamente. La tutela dell’ambiente per lui era

proprio un chiodo fisso. Il suo attaccamento al territorio, l’affetto per tutto ciò che lo

caratterizza era riuscito a trasmetterlo a tutti i cittadini che uniti da questo sentire comune,

facevano di tutto per preservarlo. Inoltre, durante i precedenti mandati era riuscito a

dimostrare alla sua comunità che la legalità paga e può rappresentare una strada per creare

un futuro . Ecco perché Pollica per Angelo era un posto da mettere al riparo dalle mire della

camorra. Pare che prima di essere ucciso il cinque settembre del 2010 ad un amico avesse

confidato: “Questi vogliono mangiarsi il Cilento”. Questi erano i clan. Riproponiamo una

delle sue ultime interviste.

“Il tema ambiente - esordisce - ha

avuto sempre importanza, fin dal

primo momento per questa

amministrazione. Noi stiamo

realizzando un progetto che viene

da lontano, dal 1995, un progetto

anche un po’ pazzo, perché

parlare di ambiente qualche anno

fa suonava un po’ strano. Puntare

sull’ambiente vuol dire andare a

fare uno studio di quelle che sono

le risorse ambientali del territorio

e cercare di valorizzarle

ragionando intorno ad un progetto

che punti sul territorio come

risorsa primaria da utilizzare e

potenziare, senza andare a

prevedere grosse espansioni.

Era un primo pomeriggio d’estate e lui arrivò puntuale all’appuntamento dinanzi

alla sua vineria. Un sorriso, un simpatico saluto in vernacolo cilentano e quindi

insieme ci dirigemmo al porto, il bellissimo porto di Acciaroli. Visti i diversi

riconoscimenti ambientali che il suo comune vantava, non potevamo che iniziare

parlando di ambiente, per poi continuare con sviluppo sostenibile, turismo, passione

per il territorio, ecc.

Angelo Vassallo partì con un fiume di parole sentite, convinte, decise. Più che

un’intervista fu un monologo. Interessante. Intrigante. Importante. Un sindaco, ma

prima di tutto un uomo, un padre, che dal Cilento lanciò grandi insegnamenti e

seminò speranze di crescita per quella terra che tanto amava e che governò con

tanta dedizione e passione.

Stimato e ammirato per i risultati di eccellenza ottenuti, le parole dell’ultima

intervista fatta ad Angelo meritano di essere rimembrate perché le sue idee abbiano

un seguito, perché dal suo operato altri amministratori prendano esempio.

Page 11: n. 26 La Bella Politica

Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo

Casablanca pagina 11

Abbiamo deciso di restare piccoli

perché più facilmente gestibili e

perché così si può puntare sulla

qualità e riuscire a regolare i

flussi turistici. Dopo 15 anni i

risultati sono arrivati. Noi in Italia

abbiamo il primato per le

Bandiere Blu. Oggi si è aggiunta

anche la bandiera blu per il porto

e sappiamo che sono pochi i porti

con tale riconoscimento”.

“L’ambiente - sottolinea - è un

grande attrattore, la risorsa mare è

fondamentale e conscia di ciò

quest’amministrazione ha pensato

che chi vive in un comune

rivierasco deve salvaguardare

questo bene e noi lo abbiamo fatto

con un’ottima depurazione,

servizi sulle spiagge, nuovi

stabilimenti, servizi forti,

anche perché abbiamo

capito che le abitudini dei

turisti sono cambiate.

Infatti, una volta si andava

in spiaggia di prima mattina

e si tornava nel pomeriggio,

oggi invece il turista va in

spiaggia la mattina e ci

rimane fino a sera tarda, e

questo evidenzia la

necessità stringente di andare a

prevedere sulle spiagge una serie

di servizi che poi hanno fatto la

differenza rispetto ad altre

località”.

NO CAMORRA MA

BANDIERE BLU ED

ENOGASTRONOMIA

“Abbiamo pensato di dare un look

a questo porto che era abbastanza

grezzo ed è stato un successo.

Così al turismo balneare si è

aggiunto il turismo diportistico,

che è quello che porta più soldi,

perché attira il turista che passa,

spende e se ne va. Le barche sono

migliorate molto, al punto che è

stato previsto un secondo lotto da

realizzare già a settembre e dove

si prevede addirittura l’attracco

dei megayacht, perché ce n’è stata

richiesta. Puntiamo molto sulla

qualità e si sta andando avanti in

tal senso. Quindi mare, diporto

sempre connesso al mare e poi

abbiamo puntato sul turismo

enogastronomico. Siamo patria

della dieta mediterranea, perché

qui Ancel Keys ha studiato, e

questo dato va utilizzato al

meglio. La dieta mediterranea e i

suoi prodotti biologici sono stati

valorizzati, specie nella parte

collinare del comune, con la

nascita di nuove strutture

turistiche come B@B, agriturismo

e aziende agricole, molto collegati

all’utilizzo dei prodotti tipici e

che vanno abbinati a passeggiate

nel verde. A ciò poi si è aggiunto

un percorso culturale con il

recupero del Castello di Pioppi,

l’apertura del Museo del mare,

l’acquisto del Castello Capanno di

Pollica del 1300 dove oggi si

tengono bellissime

manifestazioni. Quindi nascerà un

Centro Studi sulla Dieta

Mediterranea che ruoterà intorno

alla risorsa cibo così da

potenziare anche l’agricoltura.

Pollica ha tre presidi Slow Food -

alici di menaica, cacioricotta e

soppressata - e questa è un’altra

offerta enogastronomica”.

PORTO, MULINO AD ACQUA

E CAFFÈ LETTERARIO

“Abbiamo due castelli - il fiume

Vassallo straripa - poi è in fase

embrionale il recupero del

convento di Costantinopoli, le

chiese sono state tutte recuperate,

c’è un progetto per il recupero di

un mulino d’acqua e stiamo

creando un percorso di natura

storica molto legato alla

tradizione, un pacchetto fatto di

sentieri, per allungare la stagione

turistica anche all’autunno e alla

primavera, periodi consumati

soprattutto dai tedeschi”.

“Per quanto concerne lo sviluppo

sostenibile - sottolinea col tono il

sindaco - qui a Pollica, se

dobbiamo realizzare un progetto

che deturpi l’ambiente noi non lo

realizziamo, preferendo una

logica di crescita compatibile con

la preservazione

dell’ambiente. Adesso siamo

impegnati sull’energia

alternativa, abbiamo due

centrali fotovoltaiche e nel

giro di pochi anni dovremmo

arrivare all’azzeramento

della bolletta energetica e

addirittura rendere il comune

autonomo con una

produzione sul posto

dell’energia. Poi c’è il

progetto di costruire a Pioppi un

imbarcadero anziché un nuovo

porto, perché sì i porti producono

ricchezza per il turismo

diportistico, ma essi sono anche la

causa della forte erosione costiera

e quindi costruendo

un’importante infrastruttura come

un porto poi si intaccherebbe la

spiaggia che è una risorsa

indispensabile per agevolare la

balneazione. Nel bilanciamento

delle cose, abbiamo optato per

l’imbarcadero. Anche il piano

regolatore, moderno, approvato

da soli cinque anni, rispecchia

questo nostro trend, non

prevedendo la costruzione di

seconde case, né edilizia

esagerata, perché l’interesse

prevalente è quello per il turismo,

che è l’industria più importante,

Page 12: n. 26 La Bella Politica

Il Sindaco Pescatore: Angelo Vassallo

Casablanca pagina 12

anche se sta intaccando alcune

nostre tradizioni come la pesca,

ed, infatti, oggi purtroppo i nostri

ragazzi non pescano più. Siamo

Città Slow, cioè del buon vivere,

l’unica città del Cilento che fa

parte di questa associazione

internazionale. Pollica è stata

premiata perché qui si vive bene,

per l’ospitalità e l’accoglienza che

sono alla base di tutto. Il Cilento

ha potenzialità forti e intorno

all’attrattore mare si deve fare un

progetto grosso, per cui il turista

che viene deve anche trovare i

giusti servizi. Per quanto

concerne il tema porto io penso

quello che ho detto sempre:

certamente un porto è una grande,

grandissima ricchezza. Il porto di

Acciaroli è gestito dal Comune di

Pollica e se non avessimo avuto

tali proventi, la stessa

amministrazione del porto

sarebbe stata molta difficoltosa.

Non ultimo con tali proventi,

siamo riusciti ad aprire un’attività

commerciale e di ritrovo in

collina. In particolare a Galdo,

paese di 100 anime, dove non c’è

nessuna attività commerciale, il

Comune ha costruito un “Caffè

letterario”, quindi un bar, un

emporio ed un ambulatorio.

Abbiamo affidato la gestione

gratuitamente ad una ragazza,

senza farle pagare nessuna tassa

comunale. Con tale gesto

abbiamo dato una grossa vitalità

al paese, composto

principalmente da persone

anziane”.

POLLICA COME CAPRI E

ISCHIA

“I risultati? Il migliore è l’aver

richiamato un turismo di qualità.

Esso ci

mette al

riparo

dalla

forte

contrazi

one

economi

ca,

perché è

il turista

ricco che in momenti di crisi

economica riesce a venire in zona

e ciò è stato possibile perché il

nostro progetto ha attirato

l’attenzione di gente facoltosa che

addirittura preferisce Pollica a

Capri ed Ischia. I risultati sono

stati raggiunti migliorando la

qualità della vita. Centri storici

vivibili, accoglienza dei cittadini,

servizi sulle spiagge e nel porto. A

ciò si è aggiunta la particolarità

che Pollica è aperta al mare da

qualsiasi punto, che si mangia

cibo sano e buono, e così forse si

spiega perché ad oggi abbiamo

400 domande di posti barca a

fronte di un’offerta di 100,

circostanza che consente una

cernita di qualità. L’attaccamento

al territorio è sostanziale, affetto

che è stato trasmesso a tutti i

cittadini ed è indispensabile

essere tutti uniti nel preservarlo al

fine di una crescita utile a tutti ”.

Ebbi l’impressione che volesse

dirmi molto altro, ma il tempo era

scaduto. Avrei dovuto

intervistarlo ancora su altri temi,

ma purtroppo non ho fatto in

tempo.

***

Sull’omicidio di Angelo Vassallo

ancora non ci sono certezze, pare

comunque che sia stato

commissionato dalla camorra.

L‘esagerata tutela dell’ambiente

da parte del sindaco,

probabilmente era vista dalla

camorra come un ostacolo al

controllo del porto e dunque al

commercio di droga.

Sull’omicidio di Angelo Vassallo ancora

non ci sono certezze, pare comunque che

sia stato commissionato dalla camorra.

L‘esagerata tutela dell’ambiente da parte

del sindaco, probabilmente era vista dalla

camorra come un ostacolo al controllo

del porto e dunque al commercio di

droga.

Page 13: n. 26 La Bella Politica

“Milano la vera capitale della ’ndrangheta”

Casablanca pagina 13

Lombardia metafora della ’ndrangheta?

Ilaria Ramoni Avvocato – Associazione Libera

La Lombardia secondo la DIA e la DDA, è la regione del Nord Italia che registra il

maggiore indice di penetrazione nel sistema economico legale dei sodalizi criminali della

’ndrangheta. Ci sono sì i mafiosi, ma ci sono anche soggetti completamente sconosciuti alla

giustizia: decine di imprenditori e professionisti scendono a patti con i clan, si finanziano con

capitali sporchi, ripuliscono il denaro, anche se qualcuno si ostina ancora a sostenere che è

tutta colpa del confino. La brutta politica e i pessimi politici hanno fatto il resto. I politici?

Fanno schifo pure ai mafiosi… piangono come vitelli… si dicono due mafiosi al telefono. Il

reato di “scambio elettorale politico-mafioso” dal 2010 è in forte aumento. La gente, gli

imprenditori, le vittime dei reati non denunciano. Per collusione? Per paura? Per interesse?

“… sono anni che sappiamo, e ora abbiamo anche tutte le prove e tutti gli indizi”. E pensare

che per noi del Sud Milano era un mito.

È da anni che all’indomani di una

grande operazione di Polizia, di

un arresto o di una condanna a

Milano e in Lombardia ci

risvegliamo con la consapevolez-

za che la criminalità organizzata è

così presente anche qui, vicino

alle nostre case.

Il problema è che dopo il solito

clamore del momento, ritorniamo

alla vita di tutti i giorni e così fino

al prossimo arresto, alla prossima

operazione. E nuovamente, invece

di indignarci, ci risvegliamo con

lo stupore di chi si è dimenticato

improvvisamente e nuovamente

di quella che è stata la storia della

nostra Regione e della nostra

città.

Sì, ci dimentichiamo.

Ci dimentichiamo che la mafia a

Milano e in Lombardia non è

quasi mai stata così “invisibile”,

come alcuni hanno mostrato di

ritenere per lungo tempo e come

ci è stato sempre raccontato.

Ci dimentichiamo che il polo

tecnologico, industriale, finanzia-

rio e imprenditoriale lombardo

attrae da decenni gli investimenti

di tutte le quattro maggiori

organizzazioni criminali italiane

che, proprio in Lombardia,

tendono ad agire secondo

particolari modelli collaborativi,

soprattutto tra ’ndrangheta e

camorra.

Ci dimentichiamo che già nel

maggio del 1963, in viale Regina

Giovanna, in uno scontro a fuoco

tra le cosche rivali della prima

guerra di mafia in corso in Sicilia,

viene ferito Angelo La Barbera,

tra i protagonisti del cosiddetto

“sacco di Palermo”, la pesante

speculazione edilizia che

stravolse il capoluogo siciliano.

Che nel 1970 a Milano si tiene un

importante incontro tra Giuseppe

Calderone, Tommaso Buscetta,

Gerlando Alberti, Totò Riina,

Gaetano Badalamenti e Salvatore

Greco. Che arriva qui a Milano

anche Luciano Leggio che, nel

1972, inaugura la stagione dei

sequestri di persona e che nel

1974 viene arrestato in pieno

centro a Milano, in via

Ripamonti.

Ci dimentichiamo di Turatello e

Vallanzasca e delle loro quanto

meno contiguità con diverse

organizzazioni criminali, del cd.

“Blitz di San Valentino” nella

notte del 14 febbraio del 1983

dove vengono scoperte

infiltrazioni mafiose nell’eco-

nomia e nella finanza lombarda,

dell’operazione “Duomo Con-

nection” nell’ambito della quale

sono messi a fuoco legami tra

politica locale e criminalità

mafiosa.

Ci dimentichiamo addirittura

dell’omicidio di Giorgio

Ambrosoli, avvocato liquidatore

della Banca Privata Italiana,

commissionato da Michele

Page 14: n. 26 La Bella Politica

“Milano la vera capitale della ’ndrangheta”

Casablanca pagina 14

Sindona, e di “Tangentopoli”.

Ci dimentichiamo che tra il 1992

e il 1993 in Lombardia vengono

effettuate numerose indagini,

“Wall Street”, “Nord-Sud” e

“Hoca Tuca”, solo per citarne

alcune, in cui vengono arrestate e

processate per mafia circa tremila

persone appartenenti, tra le altre,

alle cosche dei Papalia, Sergi,

Morabito, Flachi e Coco Trovato.

QUI LA MAFIA NON ESISTE

Certo, la Commissione Parla-

mentare Antimafia percepì l’entità

e la gravità del fenomeno,

dedicando ad esso largo spazio

nelle relazioni del 1989, 1990 e

1991 e svolgendo, sempre in

quegli anni, svariati sopralluoghi

a Milano. Nel corso della

legislatura 1992-1994 in seno alla

Commissione venne anche

costituito un gruppo di lavoro

incaricato di occuparsi proprio

delle attività delle organizzazioni

criminali nelle zone non

tradizionali, attività che si

concluse con un’ampia relazione

approvata all’unanimità.

Certo, a Milano nel novembre

1990 fu istituito dal Comune un

“Comitato di iniziativa e vigilanza

sulla correttezza degli atti

amministrativi e sui fenomeni di

infiltrazione di stampo mafioso”,

presieduto dal Prof. Carlo

Smuraglia, nelle cui relazioni

venne fornito un quadro molto

ampio della presenza delle

organizzazioni criminali a Milano

e degli effetti negativi e distorsivi

che ciò stava già producendo sul

buon andamento delle Istituzioni

e sulla stessa economia.

Ma tutto questo non è bastato in

una città che negava quasi

l’esistenza stessa delle mafie e

non è stato sufficiente per la

maggior parte delle Istituzioni

meneghine e lombarde che hanno

continuato, nella migliore delle

ipotesi, a nascondere la testa sotto

la sabbia.

Addirittura a Milano, nel maggio

2009, il Consiglio Comunale

approva a maggioranza la delibera

di revoca della “Commissione

d’inchiesta sugli interessi mafiosi

attivi nel territorio milanese”, a

poco più di due mesi dal voto

all’unanimità con il quale la

stessa era stata costituita.

I sindaci ci dicevano che la mafia

a Milano non esisteva, i Prefetti ci

dicono che la mafia non c’è o che,

sì, forse c’è ma è diversa che nel

resto del Paese e i Ministri,

contraddicendo la stessa DDA, ci

dicono che a Milano e in

Lombardia l’omertà non c’è.

A Milano e in Lombardia per

anni, nonostante le evidenze, è

stato vietato parlare di mafia.

Il risultato? Nel disinteresse

generale, nella sottovalutazione e,

ora lo possiamo proprio dire, nella

collusione, le mafie si sono

radicate ancora di più mentre le

vittime sono state lasciate sempre

più sole. Le vittime non

denunciano, i pochi che lo fanno

devono subire ritorsioni. Troppi

imprenditori sono convinti che

non sia sbagliato fare affari con la

mafia. I mafiosi non si intestano

più direttamente i patrimoni per

timore delle confische e trovano

soggetti compiacenti, spesso sono

addirittura i loro stessi avvocati a

intestarsi direttamente o tramite

società fittizie i patrimoni.

“La Lombardia per le sue

coordinate geografiche e per le

sue infrastrutture è crocevia dei

traffici e dei flussi finanziari

nazionali ed internazionali leciti o

illeciti. È un territorio ricco e

produttore di ricchezza,

necessariamente preso in

considerazione, da sempre, dalla

criminalità organizzata mafiosa. È

inoltre un territorio con grandi

opportunità di crescita economica,

come noto infatti ospiterà l’Expo

2015, con una previsione di

investimenti ingentissimi. Negli

anni ’90 decine di indagini,

centinaia di arresti e di

maxiprocessi hanno confermato la

presenza sul suo territorio delle

Mafie. Da ultimo si è visto

affermarsi lo strapotere della

’Ndrangheta”.

Così testualmente recita l’ultima

relazione della Direzione

nazionale antimafia e le recenti

operazioni “Infinito” e “Crimine”

del 13 luglio 2010 condotte dalla

DDA di Reggio Calabria e di

Milano, concluse con

l’esecuzione di oltre 300 arresti

(di cui circa 160 nel solo territorio

lombardo), nei confronti di

cosche operanti in Calabria,

Lombardia, Piemonte e Liguria,

rappresentano una ulteriore

conferma della “occupazione” da

parte della ’ndrangheta di gran

parte del territorio nazionale e del

giro di affari che ruota intorno

alla stessa attraverso una strategia

di espansione nel tessuto

economico e finanziario.

LA METAFORA DELLA

’NDRANGHETA E

DELL’OMERTÀ

Nella relazione dedicata

specificatamente al fenomeno

della ’ndrangheta e approvata

all’unanimità dalla Commissione

parlamentare antimafia presieduta

da Francesco Forgione, si afferma

testualmente che “Milano e la

Lombardia rappresentano la

metafora della ramificazione

molecolare della ’ndrangheta in

tutto il Nord”.

Nella relazione annuale del 2008

della Direzione Nazionale

Antimafia si legge che “La vera

capitale della ’ndrangheta è

Milano”. Nell’ultima relazione

della Direzione Investigativa

Antimafia si legge che “In

Lombardia, le proiezioni di cosa

Page 15: n. 26 La Bella Politica

“Milano la vera capitale della ’ndrangheta”

Casablanca pagina 15

nostra si sono orientate verso

l’accaparramento di attività

economiche e di appalti, anche

sfruttando un’area grigia di

concorso da parte di imprenditori

disponibili a comportamenti

collusivi (...). A Milano la

’ndrangheta, oltre alle attività

illecite tipiche delle strutture

criminali organizzate e

consolidate nel territorio (...)

porta avanti un’azione di

penetrazione nel tessuto socio-

economico, attraverso la

connivenza con settori inquinati

dell’imprenditoria”.

La Lombardia, inoltre, come

dimostrato dalle recenti relazioni

della DIA e della DDA, si

conferma, purtroppo, la regione

del Nord Italia che registra il

maggiore indice di penetrazione

nel sistema economico legale dei

sodalizi criminali della ’ndra-

ngheta. La ’ndrangheta milanese e

lombarda, è ormai composta sì da

mafiosi ma anche da altri soggetti

completamente sconosciuti alla

giustizia: decine di imprenditori e

professionisti scendono a patti

con i clan, si finanziano con

capitali sporchi, ripuliscono il

denaro profitto di traffici di droga,

si consegnano per la protezione

nelle mani dei clan, utilizzano la

manovalanza per il recupero

crediti con modalità violente e

tipicamente mafiose.

Ma non è tutto. Al 31.12.2011 la

Lombardia era al quarto posto

nazionale per numero beni

immobili confiscati e al terzo

posto per numero di aziende

confiscate.

A livello regionale, il maggior

numero di operazioni sospette

proviene da dipendenze di

intermediari localizzate nella

regione Lombardia. La relazione

annuale del 2011 del SAeT

afferma che i reati di corruzione e

concussione rilevati risultano

verificarsi in maggior numero

nelle regioni in cui maggiori sono

le opportunità criminali come,

nell’ordine, in Lombardia, in

Campania, in Sicilia, nel Lazio e

nella Puglia.

E come se non bastasse ci

troviamo anche davanti ad un

dato sconcertante: le

organizzazioni criminali in

Lombardia hanno importato an-

che l’omertà. “Il dato dell’omertà

spesso attribuito al sud risulta ed è

constatato anche al nord”, così il

Procuratore Aggiunto Ilda

Boccassini, Delegata alla

Direzione Distrettuale Antimafia

di Milano, in un accorato

intervento all’interno di un

seminario tenutosi all’Università

Statale di Milano e promosso da

Libera Milano.

La gente, gli imprenditori, le

vittime dei reati non denunciano

quello che hanno o che stanno

ancora subendo. Per collusione?

Per paura? Per interesse? Sta di

fatto che molti di loro, quasi tutti,

preferiscono prendersi una

imputazione per favoreggiamento

alla criminalità organizzata

piuttosto che denunciare e fare il

proprio dovere.

Già nel 2010 nel Distretto

giudiziario di Milano risultava un

forte incremento del numero dei

procedimenti penali iscritti per il

delitto di cui all’art. 416-ter c.p.

(scambio elettorale politico-

mafioso).

COMMERCIO DEI VOTI

ELETTORALI

I dati, a volerli leggere e

ascoltare, hanno sempre parlato

chiaro: le mafie erano già a pochi

passi dal Duomo, anche in quella

Milano “da bere” simbolo di

generosità, onestà e laboriosità.

Non stupiamoci, quindi, se siamo

arrivati al punto in cui sono

alcuni politici a chiedere aiuto e

appoggio alle mafie e non

viceversa, non stupiamoci se

“scopriamo” che alcuni politici si

sono materialmente comprati i

voti dalla ’ndrangheta.

Non se ne stupisca la politica e

non se ne stupiscano i cittadini.

Le Istituzioni devono

necessariamente ritrovare il

coraggio di affrontare questo

cancro in modo serio e onesto e al

di fuori da ogni ideologia perché

riconoscere che il mercato

milanese e lombardo è

“colonizzato” dalla criminalità

organizzata non vuol dire svilire e

snaturalizzare, come è stato detto,

“l’anima del nostro territorio” ma

vuol dire prendere coscienza

dell’esistenza di un grave

problema e provare insieme e con

tutte le forze a sconfiggerlo. Vuol

dire dare ancora più valore

all’anima dei tanti cittadini onesti

che quotidianamente non solo

cercano di fare una imprenditoria

sana e all’avanguardia ma cercano

anche di aiutare chi sta indietro,

chi è meno fortunato e chi è

ultimo.

La Politica deve ritrovare il

coraggio di assumersi le proprie

responsabilità senza continuare a

delegare alla Magistratura quel

compito di “pulizia” che prima

ancora che giudiziaria è una

“pulizia” etica, perché noi

cittadini prima ancora che per il

“giuridicamente rilevante” ci

indigniamo per ciò che è

“moralmente abbietto”.

E allora, parafrasando Pier Paolo

Pasolini, “ora è venuto il momen-

to di dire quello che sappiamo e

non solo di formulare domande su

noi stessi e sul nostro Paese. È ar-

rivato il momento di ammettere

che noi sappiamo, sono anni che

sappiamo, e ora abbiamo anche

tutte le prove e tutti gli indizi”.

Page 16: n. 26 La Bella Politica

Lazio: non siamo tutti uguali

Casablanca pagina 16

Lazio Regione Imperiale Fabio Nobile

Occupiamo! Che nella regione Lazio ci fosse tanto malaffare e corruzione, il gruppo della

federazione di sinistra lo ha denunciato parecchi mesi fa. La Polverini anziché preoccuparsi

ha querelato il capogruppo. Grazie a Batman - alle sue abbuffate di cibo e danaro - oggi è

alla luce del sole che alla regione i gruppi politici hanno potere e denaro. Inquinato,

contaminato e sporco, sia l’uno che l’altro. Il finanziamento ai gruppi approvato col metodo

del maxiemendamento, metodo col quale di fatto si impedisce all’opposizione di emendare e

di discutere in aula. Elezioni subito, grida l’opposizione. Occupiamo!

“Resteremo qui fin quando non ci

sarà la parole fine a questo

tormento e la parola fine è la data

delle elezioni” - dice Esterino

Montino del PD.

“… occupazione della Giunta

regionale per rideterminare la

legalità e richiedere l’indizione

delle elezioni regionali del Lazio

entro dicembre” - aggiunge il

capogruppo Sel Luigi Nieri. E

così la sede della giunta della

regione Lazio è stata occupata da

un gruppo di consiglieri regionali

dell’opposizione. Vogliamo la

stampa… fanno la richiesta, il

permesso è stato negato.

Da un mese la regione Lazio è

senza governo e la Polverini

adotta ogni cavillo per perdere

tempo, nel frattempo però,

continua a fare nomine. La

federazione della sinistra si

oppone alla logica del “sono tutti

uguali” e puntualizza.

Lo scandalo in sé è che il bilancio

complessivo della Regione, dentro

cui si innesta quello del Consiglio

Regionale, è stato approvato dalla

maggioranza di centro-destra col

voto di un unico maxi-

emendamento, sistema con cui

viene impedita all’opposizione la

possibilità di emendare e quindi

modificare il testo presentato in

aula. Impedendo di fatto ogni

possibilità di discussione

consiliare.

Il finanziamento ai gruppi è

avvenuto con modalità

assolutamente poco trasparenti e

ha favorito quelli dei partiti più

grandi in quanto direttamente

collegato al numero dei

consiglieri nel gruppo. Inoltre, il

finanziamento è legato ad una

dinamica connotata da una logica

clientelare su cui si fonda da

tempo il sistema politico locale e

della maggioranza di centrodestra.

Una maggioranza in balia dei

particolarismi e dell’esigenza dei

singoli consiglieri, la cui

debolezza si è determinata in

primo luogo con la presenza

dell’enorme quantità di eletti nella

lista Polverini, entrati in consiglio

al posto di quelli potenziali del

PDL romano escluso dalla

competizione. Lo scandalo nasce,

quindi, dentro tale fragilità della

maggioranza ed esplode nel

momento in cui la guerra interna

al PDL diviene conclamata.

Emergono così i fatti sconcertanti

dell’uso scandaloso delle risorse.

Emerge con evidenza la scarsa

trasparenza e quel deficit di norme

che impediscano a monte ogni

possibilità che tali fatti si

verifichino.

È proprio in tale quadro che va

respinta la logica del sono tutti

uguali. In primo luogo per

arginare lo spazio reazionario che

quest’affermazione lascia dietro di

sé, in secondo luogo per dovere di

verità.

È CERTO, NON SIAMO

TUTTI UGUALI

Sul ruolo della Federazione della

Sinistra alla regione Lazio,

bisogna sapere che:

1) Ha sempre votato contro il

bilancio.

2) Non è presente nell’Ufficio di

Presidenza del Consiglio

Regionale e quindi non ha mai

votato la distribuzione dei fondi.

3) Il suo bilancio è pubblicato sul

sito, e le sue risorse sono le meno

Page 17: n. 26 La Bella Politica

Lazio: non siamo tutti uguali

Casablanca pagina 17

alte tra i gruppi di due consiglieri

(circostanza piuttosto anomala) e

non ne è mai stato fatto un uso

improprio.

4) Il capogruppo è stato querelato

più di sei mesi fa dalla Polverini

perché denunciava il malaffare e

la corruzione in Regione e nel

PDL, ma sui giornali di allora,

come in quelli di oggi, non è

comparso praticamente nulla.

5) Una parte rilevante delle risorse

di quest’anno sono state spese per

la campagna per il referendum per

l’abolizione del vitalizio ai

consiglieri ed agli assessori, ben

prima dello scandalo.

6) Oltre la metà degli stipendi

complessivi dei consiglieri è stata

sempre versata nelle esangui casse

del partito, osservando rigoro-

samente il nostro regolamento.

7) È dall'inizio della consiliatura

che chiede leggi sulla trasparenza.

8) Sono state depositate decine di

proposte ed emendamenti in

bilancio contro gli sprechi.

9) Ha costretto la Regione a

costituirsi parte civile nei processi

contro la criminalità nel Lazio.

IL VERO OBIETTIVO

Lo scandalo ha avviato un’ondata

di moralizzazione delle istituzioni,

obiettivo nobile ed urgentissimo,

per il quale l’opposizione ha da

sempre contribuito come dimostra

la raccolta delle firme, consegnate

in Corte d’Appello, per indire il

referendum abrogativo dei

vitalizi. Tuttavia è sufficiente

grattare appena sotto le dichiarate

intenzioni proclamate dalla

stampa e dal governo per

accorgersi che sotto l’intento

morale si nasconde il celato

obiettivo di ristrutturare il sistema

politico in funzione della nuova

fase inaugurata dal Governo

Monti. L’intento di ridurre la

rappresentanza democratica nei

consigli regionali, diminuendo il

numero dei consiglieri, va

esattamente in questa direzione.

Così come un duro colpo è già

stato inferto nel consiglio

comunale e nei municipi del

Comune di Roma. Si tratta di una

vera e propria espulsione delle

minoranze, in quanto non

omologabili al coro.

Ancor più inaccettabile è il

decreto del Governo che insieme

alla bozza di disegno di legge del

Governo Monti porta dentro i

vincoli asfissianti del pareggio di

bilancio le finanze regionali. In

sostanza, ciò che si vuole attuare,

è il trasferimento delle politiche

imposte dalla Banca Centrale

Europea a tutti i livelli, senza

nessun margine d’intervento

locale. Così si giustifica anche

l’enorme risalto mediatico dato

alla vicenda. Insomma la

“fascistopoli” cominciata al

Comune di Roma e continuata in

Regione Lazio è diventata un

grimaldello per ristrutturare anche

a livello locale il sistema

istituzionale. Dopo il Lazio

l’inchiesta si sta allargando a

buona parte delle regioni e questo

è un fatto inconfutabile.

L’effetto ultimo comporterà

pertanto, accanto alla contrazione

della rappresentanza democratica

ed allo strozzamento economico

delle Regioni, un sostanziale

accentramento delle funzioni nello

Stato, in chiara antitesi al dettato

costituzionale e al decentramento

avviato con la Repubblica dopo il

fascismo.

Il “tutti sono uguali”, che scredita

complessivamente la politica, è il

mezzo più potente per rafforzare

questo processo.

Il lavoro dei comunisti continuerà

a testa alta anche nel Lazio dentro

la crisi con i lavoratori, per la

riduzione dei vitalizi, la drastica

riduzione degli stipendi per le

cariche istituzionali, ma al tempo

stesso il mantenimento dei numeri

della rappresentanza.

Page 18: n. 26 La Bella Politica

’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti?

Casablanca pagina 18

Chiesa, ’ndrangheta e un perdono che brucia Francesca Chirico

“C’è perdono per tutti, anche per i mafiosi” ha sottolineato con forza monsignor Morosini dal

pulpito della chiesa di Polsi qualche settimana addietro. Perdono? Per anni intanto la Madonna

della Montagna dalla sua postazione ha osservato imperturbabile le riunioni che sotto i suoi

occhi gli ’ndranghetisti svolgevano annualmente dentro la chiesa. Incontri per stabilire,

ratificare, decidere… anche omicidi. La Chiesa calabrese tutta negli anni aveva sempre

smentito e parlato di vecchie tradizioni folkloristiche o di frutti di sensazionalismo mediatico.

Ma nel 2009 è stata smentita da un filmato in cui si vede la ’ndrangheta riunita a cerchio sotto

la statua della madonna. Perdono? Meno male che nella stessa chiesa di Mons. Morosini e

compagni c’è un’altra chiesa fatta da esponenti che parlano ed agiscono con fermezza e

chiarezza nel respingere senza equivoci l’abbraccio mortale della ’ndrangheta.

REGGIO CALABRIA

Superato il ponte sul torrente

Bonamico, il profano appare

subito mescolato al sacro. Il bar-

ristorante, la macelleria, le

bancarelle di statuette di plastica e

tamburelli abbracciano tutta l’area

consacrata, incassata in fondo alla

valle dell’Aspromonte. Nel caso

del santuario della Madonna della

Montagna, però, il profano è

targato ’ndrangheta e trattiene in

ostaggio uno dei luoghi identitari

della Calabria, al centro di una

millenaria devozione popolare.

Messi in fila nelle carte

dell’inchiesta Crimine che nel

luglio 2010 fece scattare una

raffica di arresti tra Calabria e

Lombardia, i cognomi di chi

gestisce i chioschi attorno al luogo

sacro chiariscono subito, infatti,

come vanno le cose a Polsi,

contrada del comune di San Luca,

nel Reggino: a vendere panini e

caffè, durante i tradizionali

festeggiamenti dedicati ad inizio

settembre alla Madonna della

Montagna, ci sono i Pelle e ci

sono gli Strangio, e cioè i

rappresentanti delle due principali

cosche di San Luca. Mentre tra gli

avventori che ogni anno

bazzicano tavolini e aree di sosta,

si mescola tutta la geografia

criminale reggina, convenuta a

vedere, a farsi vedere, a ratificare

cariche e accordi sotto il

simulacro esterno della Madonna.

Una vecchia tradizione che nel

2009, però, non è sfuggita alle

telecamere delle forze dell’ordine:

il video che filma per la prima

volta la ’ndrangheta nel santuario,

riunita in cerchio sotto la statua

della madre di Cristo, fa il giro del

mondo, confermando la bontà

delle fonti giudiziarie e letterarie

che dagli anni Quaranta avevano

raccontato l’“assemblea” annuale

delle cosche, e spiazzando la

Chiesa calabrese che aveva

sempre parlato di vecchie

tradizioni folkloristiche o di frutti

di sensazionalismo mediatico.

Proprio dal pulpito del santuario

oltraggiato, nel cuore della

Locride delle vittime di

’ndrangheta senza giustizia, il 2

settembre 2012 il vescovo della

diocesi di Locri-Gerace,

monsignor Giuseppe Fiorini

Morosini ha sottolineato con

forza che “c’è perdono per tutti,

anche per i mafiosi”.

“Certamente il perdono - ha

rassicurato il presule - non viene

dato a buon mercato. Non sono le

tre Ave Maria che ci rimettono i

peccati. (…) Certamente prima di

alzare la mano e dire ti sono

perdonati i tuoi peccati, faremo e

diremo come Gesù: cambia vita,

convertiti. E solo quando avremo

la garanzia del cuore convertito,

diremo i peccati ti sono perdonati,

anche se poi devi saldare il conto

con la giustizia terrena, che è cosa

diversa dal perdono cristiano e

dalla riconciliazione con Dio”.

Page 19: n. 26 La Bella Politica

’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti?

Casablanca pagina 19

Precisazioni, distinguo che non

hanno evitato l’incendio della

polemica, coinvolgendo familiari

di vittime, studiosi e associazioni

antimafia e facendo registrare la

replica irritualmente piccata dello

stesso vescovo contro “certi

professionisti dell’antimafia”. Il

primo a dolersi per le parole del

presule - insofferente anche per la

cattiva reputazione del santuario -

è stato Mario Congiusta, padre di

Gianluca, commerciante

trentaduenne assassinato nel 2005

a Siderno “Questa ricorrenza è

preparata sempre con i soliti

ricordi: ’ndrangheta, il santuario

della mafia, i raduni. Come se

Polsi, e il santuario, fosse solo

trattabile in termini di mafia ‘sì’,

mafia ‘no’. Mi chiedo: - ha

ragionato Congiusta - il vescovo

Morosini, ovvero la Chiesa, ha

diritto di

perdonare

gli assassini

delle tante

vittime

innocenti di

mafia,

essendo

prerogativa

della Chiesa

solo

assolvere,

rimanendo

il diritto del

perdono

prerogativa

di chi il

torto lo ha subito, cioè le vittime?

(…) Gli aspetti che accomunano

la maggior parte dei familiari di

vittime innocenti, ne conosco

moltissimi, sono la mancanza di

odio e il grande dolore che

scandisce la quotidianità, con

l’unico e primario obiettivo di

avere giustizia, prima di tutto

attraverso l’espiazione della pena.

Da quello che ho potuto percepire

dalle parole dell’omelia,

l’espiazione della pena assume

secondaria importanza, non

gestendo la Chiesa la giustizia

terrena”. Al di là della querelle sul

perdono, insomma, le parole di

Morosini hanno acceso i riflettori

sulla complessità del rapporto tra

Chiesa e ’ndrangheta, tra giustizia

divina e umana, tra don e boss.

Nella loro costante ricerca di

consenso, le cosche calabresi sono

spesso davanti all’altare, a

trafugare simboli, riti e figure da

imbrattare nelle cerimonie di

affiliazione, a mescolarsi nelle

processioni, mettendosi in spalla

Santi e Madonne, ad organizzare

feste patronali. In questo scenario

per il procuratore di Palmi,

Giuseppe Creazzo, “il problema

vero del quale si deve parlare,

posto che la ’ndrangheta è e

rimarrà davanti all’altare, è cosa

fa l’altare dinanzi alla

’ndrangheta”. E le considerazioni

del magistrato, intervenuto il 10

settembre a Reggio Calabria al

dibattito sul tema organizzato da

Stopndrangheta.it e Sabbiarossa

edizioni, non sono state

rassicuranti: “Ancora oggi alcuni

sacerdoti in pubbliche interviste

minimizzano il fenomeno

mafioso. Ancora oggi, nei

processi contro le più agguerrite

cosche di ’ndrangheta, vengono

chiamati a testimoniare in difesa

di imputati alcuni sacerdoti, i

quali, come emerge dalle

deposizioni rese, non

testimoniano tanto su fatti

concreti a loro conoscenza, ma si

affannano a dare patenti di brave

persone, peraltro processualmente

inammissibili, ad imputati di

mafia. E a questi fenomeni, spiace

dirlo, purtroppo non fa eco nella

maggior parte dei casi una più

autorevole voce di Chiesa a

stigmatizzarli”. Pur mai nominato

da Creazzo, il riferimento

chiarissimo era a don Memè

Ascone, l’anziano sacerdote di

Rosarno che nel luglio scorso,

deponendo al processo All Inside

contro la cosca Pesce, aveva

garantito: “Francesco Pesce è un

mio amico, Domenico Varrà è un

gran gentiluomo e Franco Rao è

una brava persona”. I suoi amici

devono tutti

rispondere di

associazione a

delinquere di

stampo mafioso.

Ma don Memè

non ha dubbi: “In

questo processo ci

sono persone

detenute

ingiustamente”. Il

pm, durante la sua

deposizione, ha

abbandonato

l’aula. Don Memè

non è in Calabria

il solo prete finito

“in cronaca”. Ci sono sacerdoti

ammazzati come boss - nel 1966,

nell’ambito della faida di Ciminà,

viene ucciso don Antonio

Esposito che circolava con la

pistola sotto la tonaca, nel 1989

tocca all’economo di Polsi, don

Peppino Giovinazzo - e ci sono

sacerdoti entrati in Tribunale da

imputati, come don Giovanni

Stilo, accusato di associazione

mafiosa e poi assolto, e come don

Nuccio Cannizzaro, cerimoniere

Page 20: n. 26 La Bella Politica

’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti?

Casablanca pagina 20

del vescovo di Reggio, Vittorio

Modello, rinviato a giudizio nel

marzo 2012 per falsa

testimonianza aggravata dall’aver

favorito la ’ndrangheta. Nello

specifico, il boss di Croce

Valanidi Santo Crucitti.

Ma in Calabria ci sono pure altari

dai quali la ’ndrangheta è stata

cacciata in malo modo e con

parole definitive. “L’onore è un

bene indicibile che consiste nella

rettitudine e nella virtù

dell’animo, ma l’insipienza degli

uomini arriva spesso a fare

apparire come onore le cose più

inutili e talora gli stessi delitti”,

ragionava negli anni Settanta il

piemontese Giovanni Ferro,

arcivescovo di Reggio Calabria

che la storia dei valori capovolti

della ’ndrangheta l’aveva capita e

nel 1975, da presidente della

Conferenza episcopale calabra,

aveva deciso che toccava

attaccarla frontalmente e

ufficialmente. Scrivendo

L’episcopato calabro contro la

mafia, disonorante piaga della

società, il documento firmato

quell’anno dai vescovi della

regione, aveva scelto, non a caso,

il termine “disonorante”, per

sottolineare che l’onore, quello

vero, era tutta un’altra cosa. Il 2

agosto 1984, da dietro un altare

improvvisato nella piazza di

Lazzaro, frazione costiera di

Motta San Giovanni, il suo

vicario, don Italo Calabrò,

sull’onore dei mafiosi ci tornerà

con pugno fermo. Di fronte al

sequestro dell’undicenne

Vincenzino Diano il sacerdote ha

deciso di bandire prudenza e

comprensione. “I mafiosi si

ritengono uomini e, addirittura,

‘uomini d’onore’: se c’è qualcuno

che invece non è uomo è il

mafioso, e se c’è qualcuno che

non ha onore è il mafioso, i

mafiosi non sono uomini e i

mafiosi non hanno onore; questo

dobbiamo dirlo tranquillamente

con tutta la comprensione e la

pietà”. Don Italo è reggino, ha una

passione per gli ultimi e nella sua

parrocchia di San Giovanni di

Sambatello, regno del boss Mico

Tripodo, ha imparato giorno per

giorno cos’è la ’ndrangheta e,

soprattutto, che la cristiana pietà

per i peccatori non deve mai

generare silenzio. “Nel coraggio

del suo pastore la gente ritrova il

suo coraggio”, ama ripetere. E

allora don Italo parla chiaro. Ai

mafiosi ammazzati celebra i

funerali, ma trasformando ogni

omelia in un pesantissimo atto

d’accusa. Qualche volta se la

vedrà brutta. Nel rispetto del suo

esempio, non sarà il solo, in

Calabria. A don Giacomo

Panizza, che a Lamezia Terme ha

riempito la casa confiscata alla

cosca Torcasio di disabili ed

emarginati, gliel’hanno promessa

da un po’. E con regolarità glielo

ricordano con incendi, bombe, o

danneggiamenti. Quello che aveva

il compito di ammazzarlo fu

ammazzato prima di eseguirlo.

Don Giacomo vive sotto scorta.

Fiamme dolose, minacce e

intimidazioni anche per la

cooperativa “Valle del Marro”,

fondata da don Pino Demasi per

gestire i terreni confiscati alle

cosche nella Piana di Gioia Tauro.

Mentre a don Ennio Stamile, che

a Cetraro durante la messa si era

scagliato contro i responsabili di

una lunga serie di atti

delinquenziali, hanno recapitato

una testa di maiale con un pezzo

di stoffa in bocca, a mo’ di

bavaglio. Esempi, tra i molti

possibili, di una Chiesa calabrese

che sa anche respingere, con gesti

e parole inequivocabili,

l’abbraccio mortale con cui la

’ndrangheta vorrebbe infangarla.

Page 21: n. 26 La Bella Politica

Sughereta e MUOS?

Casablanca pagina 21

Sughereta e MUOS? eco-incompatibile

Antonio Mazzeo

Avevano deciso, lì avrebbero fatto il MUOS. Ma è un Sic (Sito Interesse Comunitario) Non

importa. Oggi, la foto è eloquente.“La collina sventrata, voragini ampie come i crateri di un

vulcano, il terreno lacerato dal transito dei mezzi pesanti, ruspe, betoniere, camion.

Recinzioni di filo spinato, tralicci di acciaio. Una selva di antenne, terrazzamenti, gli uni

sugli altri, per centinaia e centinaia di metri. In cima, tre piattaforme in cemento armato…

(denuncia Italia Nostra). La Marina militare statunitense non si è preoccupata nemmeno di

presentare una benché minima, seria, valutazione degli impatti… Ma si sa gli americani qui

da noi in Sicilia in particolare, possono fare quello che vogliono. Distruggere l’ambiente, fare

affari, fregarsene delle nostre regole… Non tener conto del certificato antimafia. Tutto ciò

che hanno fatto nella sughereta di Niscemi è contro legge, ma il governatore Lombardo ha

autorizzato! Le leggi? L’impatto ambientale? Il rischio per le persone, le piante, gli animali?

Chi se ne f...

Come una favola di altri tempi.

Un don Chisciotte di provincia

che con il fedele scudiero si lancia

contro il gigante che imperversa

nei boschi millenari, l’Eco-

MUOStro di Niscemi, lo

chiamano. Una lotta impari, ma

alla fine il cavaliere innamorato di

principessa Natura disarciona

l’essere repellente. Poi lo

impacchetta, lo sigilla e lo

rispedisce al mittente. Al di là

dell’Atlantico, in Virginia, Stati

Uniti d’America.

Nella realtà tutto è accaduto in

poche ore. A Caltagirone, la sera

del 5 ottobre, il consiglio

comunale vota un ordine del

giorno contro l’installazione

all’interno della riserva naturale

“Sughereta” di Niscemi del

terminale terrestre del Muos, il

nuovo sistema di telecomu-

nicazioni satellitari della marina

militare Usa. Per il giorno

successivo, sabato 6, il

coordinamento dei comitati

siciliani No Muos ha convocato la

prima manifestazione nazionale

per chiedere la revoca delle

autorizzazioni ai lavori e lo

smantellamento delle antenne

esistenti a Niscemi da oltre

vent’anni. Sarà un chiassoso

serpentone di due chilometri dalle

mille bandiere e striscioni

colorati. Nessuno ancora

immagina il successo straordina-

rio di quell’evento. E nemmeno

che nelle stesse ore i cantieri del

Muos sono stati raggiunti dai

carabinieri e dagli agenti di

polizia chiamati ad eseguire

l’ordine di sequestro preventivo e

l’apposizione dei sigilli ai

manufatti per violazione delle

leggi di tutela ambientale.

ARRIVANO I NOSTRI

A emettere il provvedimento, il

primo nella storia ai danni di

un’arma strategica delle forze

armate statunitensi in territorio

italiano, il Gip presso il Tribunale

di Caltagirone, Salvatore Acqui-

lino, su richiesta del procuratore

Paolo Giordano. “Attraverso

consulenze tecniche e documenti

sono state accertate violazioni

delle prescrizioni riguardanti il

decreto istitutivo dell’area

protetta e il relativo

regolamento”, ha spiegato il

dottor Giordano. La Procura ha

anche emesso cinque avvisi di

garanzia - ancora top secret i

nomi - contestando la violazione

dell’art. 181 del testo unico sui

beni culturali del gennaio 2004

che sanziona “chiunque, senza la

prescritta autorizzazione o in

Page 22: n. 26 La Bella Politica

Sughereta e MUOS?

Casablanca pagina 22

difformità di essa, esegue lavori

di qualsiasi genere su beni

paesaggistici”. Le indagini erano

state avviate nel luglio del 2011 a

seguito di un esposto del Comune

di Niscemi e si sono avvalse delle

perizie e delle testimonianze di

tecnici e ambientalisti.

Dal punto di vista formale,

l’installazione del terminale Muos

(3 antenne paraboliche di 18,4

metri di diametro e 2 torri radio di

149 metri d’altezza) era stata

autorizzata, l’1 giugno 2011,

dall’Assessorato Territorio ed

Ambiente della Regione

siciliana, in palese violazione

delle norme di attuazione

previste dal Piano territoriale

paesistico della Provincia di

Caltanissetta per la riserva di

Niscemi, approvato dalla

stessa Regione nel maggio

2008. Il Piano aveva inserito

l’area naturalistica all’interno

del cosiddetto “livello di

tutela 3”, limitando gli interventi

alla mera conservazione del

patrimonio naturale esistente, alla

“rinaturalizzazione” e alla

“sostituzione delle specie vegetali

alloctone con specie autoctone” ai

fini del potenziamento della

biodiversità e della salvaguardia

idrogeologica. Il Piano territoriale

vietava invece espressamente la

“realizzazione di infrastrutture e

reti, tralicci, antenne per

telecomunicazioni, impianti per la

produzione di energia, nuove

costruzioni e l’apertura di strade e

piste”. Proprio quanto autorizzato

dalla Regione dopo la repentina

conversione pro-Muos del

governatore Raffaele Lombardo.

La riserva naturale “Sughereta” è

un Sito di Interesse Comunitario

di Natura 2000 (SIC) ed è il

residuo di una vasta area boschiva

(sugheri e lecci) che copre le

ultime propaggini collinari dei

monti Iblei, degradanti verso la

costa della piana di Gela.

Comprende un’area complessiva

di quasi 3.000 ettari, di cui 1.179

in zona A (riserva propriamente

detta) e il resto in zona B

(preriserva). Dichiarata area

naturale protetta con il Decreto

Assessoriale n. 475 del 25 luglio

1997, è stata affidata in gestione

all’Azienda Regionale Foreste

Demaniali.

L’ ARROGANZA

STATUNITENSE

La riserva di Niscemi costituisce

un biotopo di notevole interesse

naturalistico e scientifico, ed è

stata designata per la presenza di

quattro habitat, di cui uno

prioritario. Ricca e di ampia

distribuzione la flora esistente

nell’area interessata dal nuovo

programma militare. Si tratta di

circa 200-250 specie diverse, il

40% delle quali esclusive del

bacino del Mediterraneo, con

alcune già sottoposte a tutela

internazionale (orchidacee,

liliacee, iridacee e cistacee).

L’area si trova lungo le linee di

migrazione dell’ornitofauna ed

ospita ben 122 specie diverse di

uccelli, 8 delle quali tutelate da

direttive e convenzioni

internazionali, 3 classificate come

“vulnerabili” e 2 “minacciate”.

Delle 11 specie di anfibi e 27 di

rettili che vivono in Sicilia, sono

presenti nel SIC di Niscemi,

rispettivamente, 4 e 14 specie.

Nella riserva s’incontrano infine

16 specie di mammiferi, 5 delle

quali a rischio di estinzione.

Uno straordinario patrimonio di

flora e fauna che non è stato preso

in considerazione né dai

progettisti dell’impianto Usa né

dai funzionari della Regione

siciliana, che pure erano in

possesso di uno studio sui

possibili impatti del Muos

sull’habitat a firma di tre

professionisti siciliani, Donato La

Mela Veca, Tommaso La Mantia e

Salvatore Pasta. La

relazione, acquisita dal

Comune di Niscemi il 10

ottobre 2009, documentava

in particolare

l’“inadeguatezza” e la

“scarsa attendibilità” della

valutazione d’incidenza

ambientale presentata dalla

Marina militare statunitense.

“Manca una benché minima

valutazione degli impatti

che l’infrastruttura avrà

sulla fauna in fase d’esercizio e le

considerazioni sugli impatti su

flora e vegetazione in fase di

cantiere sono a dir poco scorrette

e inconsistenti”, scrivono gli

esperti. “Relativamente allo

studio della vegetazione, sono

stati del tutto trascurati gli

elementi di maggiore pregio.

Eppure nell’area destinata ai

lavori resta appurata la presenza

di lembi sensibili di habitat

d’interesse comunitario e

prioritario e la potenziale

presenza di specie tutelate dalle

normative vigenti a livello

nazionale ed internazionale”.

Page 23: n. 26 La Bella Politica

Sughereta e MUOS?

Casablanca pagina 23

LA COLLINA SVENTRATA Le opere eseguite dalle imprese

aggiudicatrici hanno però avuto

effetti ancora più devastanti di

quanto era possibile prevedere in

fase progettuale. “L’area in cui è

in corso l’installazione del Muos

si presenta come un paesaggio da

incubo”, scrive Italia Nostra nel

dossier Paesaggi sensibili 2012,

dove la “Sughereta” di Niscemi

compare tra le 10 aree protette

nazionali in serissimo pericolo di

sopravvivenza. “La collina

sventrata, voragini ampie come i

crateri di un vulcano, il terreno

lacerato dal transito dei mezzi

pesanti, ruspe, betoniere,

camion”, denuncia Italia Nostra.

“Recinzioni di filo spinato,

tralicci di acciaio. Una selva di

antenne, terrazzamenti, gli uni

sugli altri, per centinaia e

centinaia di metri. In cima, tre

piattaforme in cemento armato…

Una storia che viene da lontano,

dove insipienza e superficialità

hanno permesso di infierire

ancora sulla Sicilia e il suo

corredo di basi americane, dove lo

Stato Italiano cede sovranità di

pezzi di territorio, addirittura in

aree protette. Dove le leggi di

tutela ambientale non hanno più

efficacia e non si rispetta il

principio di precauzione che il

danno alla salute dei cittadini può

provocare con la presenza di

potentissimi radar, con onde

nocive che nessuno potrà

misurare quando

l’impianto sarà terminato”.

“Sughereta e Muos

rappresentano un binomio

eco-incompatibile”,

commenta lapidario il

professore Salvatore

Zafarana, presidente del

Centro di Educazione e

formazione Ambientale di

Niscemi. “In passato si era

riusciti a ridare continuità

alle aree boschive

mediante la rinaturalizzazione

delle aree degradate,

l’acquisizione al demanio di

terreni privati e di 150 ettari di

bosco gravato da servitù militare.

In direzione opposta va,

purtroppo, la costruzione del

famigerato nuovo sistema satel-

litare. È stato stroncato un

processo di successione ecologica

positivo che aveva portato alla

colonizzazione dei suoli sabbiosi

e steppici con specie cespugliose

di gariga mediterranea. La

superficie destinata ad accogliere

il Muos, unita a quella occupata

dalle 41 antenne di

telecomunicazioni Usa erette a

partire dagli anni ’90, hanno

vanificato ogni possibilità di

collegamento delle aree boschive

più meridionali con quelle più a

nord e con il residuo bosco ad est.

Ad essere compromessi sono dei

lotti già degradati come quelli di

Mortelluzzo e Valle Porco di

limitate estensioni, ma di

indiscusso pregio naturalistico e

paesaggistico”.

UNA GRANDE

MANIFESTAZIONE

Zafarana lamenta infine che gli

interventi autorizzati dalla

Regione erano “assolutamente

stridenti” con gli strumenti di

tutela della riserva. “Durante i

lavori del Muos si è assistito a

ingenti movimenti di terra e ad

enormi colate di cemento.

All’occhio esperto non sfugge che

l’entità delle trasformazioni in

atto travalica quanto

espressamente previsto dal

progetto originario, denotando

una gravissima manomissione

dell’ambiente con l’aggravante di

esplicarsi a danno di un’area

protetta di interesse

internazionale”. Adesso però i

rilievi degli ambientalisti sugli

scempi causati dal nuovo sistema

militare, inascoltati o disattesi in

sede politica-amministrativa,

approdano negli uffici di una

procura.

“Il sequestro preventivo attuato

dai magistrati di Caltagirone è il

primo grande risultato, che non

deve fare cantare vittoria, ma che

invece deve servire a dare ancora

più forza a tutte le azioni che

d’ora in poi seguiranno, e che non

si fermeranno fino a quando non

saremo sicuri che il Muos non si

farà”, dichiara l’avvocata Paola

Ottaviano, esponente No Muos di

Modica. “La grande

manifestazione del 6 ottobre a

Niscemi ha dimostrato che anche

in Sicilia è possibile mettere in

atto delle lotte che partono dal

basso, in difesa del territorio,

dell’ambiente, della salute, contro

l’imposizione folle di strumenti di

morte. La nascita dei comitati

rappresenta la volontà di tanta

gente a non piegarsi alla

rassegnazione, davanti a fatti che

riguardano tutti noi e il

futuro. Futuro di cui la

classe politica attuale,

gretta e corrotta, non ha

alcuna considerazione e

cura”.

La fiaba sull’incontro-

scontro tra gli ultimi

eredi dei cavalieri

erranti e il mostro-

strumento delle future

guerre planetarie è

appena all’inizio.

Page 24: n. 26 La Bella Politica

Giornata mondiale del rifugiato…

Casablanca pagina 24

Mineo

Una festa al c.a.r.a. Diversamente uguali

Giovanna Regalbuto

C.A.R.A. di Mineo: circa 2.000 persone che provengono dalle più disparate parti del Mondo,

Africa del Nord e del Sud, Pakistan, Iran, Iraq, Afghanistan, Costa d’Avorio, etc… Diverse

fra loro, vivono insieme, una condizione assolutamente surreale: Apolidi, tutti “sospesi”,

come in un limbo. Per un giorno si ritrovano protagonisti di una bellissima festa all’interno

del centro insieme mediatori culturali, volontari che parlano l’arabo, l’inglese e il francese,

volontari, avvocati e psicologi, musicisti, canti, balli, teatro. La tragedia dell’immigrazione

riproposta in forma teatrale dagli stessi protagonisti con attrezzature di fortuna è uno schiaffo

morale, una violenta riproposizione della crudeltà del mondo occidentale. Vista sul palco è

un pugno allo stomaco. Nella quotidianità? Vabbè non sono uguali a noi, che se ne stiano

nella loro terra.(!!!???)

La vicenda del C.A.R.A. di

MINEO si ascrive assolutamente

nel registro folle delle questioni

cruciali e centrali della nostra

contemporaneità risolte con un

colpo di spugna!

Certo è anche vero che nel periodo

della rivoluzione araba, ci siamo

ritrovati Maroni ad assumere la

carica di Ministro degli Interni e la

legge Bossi-Fini a regolare e a

trattare l’umanità come se fosse

carne da macello!

Senza troppi preamboli, l’im-

migrazione araba e non solo ha

prodotto in Italia delle politiche di

“contrasto” al fenomeno interpre-

tate nel “migliore dei modi” da chi

è riferimento di un partito politico

che è stato promotore della

disinfestazione dei treni del Nord,

dell’attacco alla cultura araba e

alla sua tradizione religiosa, degli

appostamenti nei villaggi rom, e

così via, veicolando e

propagandando un messaggio

culturale e mediatico della

diversità etnica quale

contaminazione virale di mal

costumi, di violenza e di pericolo

urbano.

Per cui, dato il contesto politico e

culturale di chi gestiva il processo,

sembra del tutto consequenziale la

scelta di limitare il dramma sociale

all’interno di un “non-luogo” sito

nel calatino, a ridosso di una

super-strada, super-attrezzato in

termini di sistemi di sicurezza: il

villaggio degli americani!

Dove? In Sicilia. Non a caso,

ovviamente.

In quei giorni drammatici in cui

morivano centinaia di persone, in

Italia si discuteva di affari!

Nonostante le beghe personali, il

Ministro Maroni e il Presidente

Berlusconi, sono riusciti a sedersi

comodamente con buona pace

degli italiani e dei siciliani,

distratti dalla crisi economica e

dall’allarme sociale, e a

concludere l’affare dell’anno se

non della legislatura, con una tra le

più grandi imprese costruttrici

d’Italia (peraltro anche esecutrice

dell’autostrada siciliana Catania-

Siracusa), la Pizzarotti S.p.A , che

si trovava con un significativo

patrimonio immobiliare sfitto.

A far desistere dalla scelta il

Governo Berlusconi non sono

bastate le mobilitazioni da parte

dei sindaci del Calatino, primo fra

tutti il Prof. Franco Pignataro e

l’amministrazione di Caltagirone

con l’Assessore alle politiche

sociali la Dott.ssa Cristina Navarra

né le mobilitazioni delle reti

associative civiche che da anni

lavorano con gli immigrati e per i

diritti umani e l’integrazione

sociale.

E così molto rapidamente e

convulsamente migliaia di

immigrati vengono “deportati” e

distribuiti in diversi centri in Italia

- o scusate nel meridione -, ma il

Page 25: n. 26 La Bella Politica

Giornata mondiale del rifugiato…

Casablanca pagina 25

numero più significativo viene

trasferito nel Villaggio a 5 stelle: il

C.A.R.A. di Mineo!

UNO SCHIAFFO MORALE

In occasione della manifestazione

del rifugiato promossa ormai da

diversi anni dall’associazione

ASTRA di Caltagirone,

associazione da sempre impegnata

nel campo dell’integrazione

sociale con presidente Gemma

Marino, si pensa ad organizzare

oltre alla tradizionale tavola

rotonda un laboratorio teatrale

proposto dall’associazione Magma

idee in movimento.

Il teatro, sì. Il teatro sociale viene

scelto come strumento, linguaggio

non semplicemente per

comunicare agli altri ma anche e

soprattutto come occasione per

liberarsi di una sofferenza repressa

di drammi mai

espressi. Il teatro

come ponte di

comunicabilità tra

diversi, noi e loro, il

teatro come lingua

universale che supera

ogni differenza etnica,

linguistica, culturale

che consente di

esprimere quanto più

efficacemente il

manifesto dell’evento,

della manifestazione

pubblica:

“DIVERSAMENTE UGUALI!”

Alla tavola rotonda in Piazza

Municipio segue lo spettacolo dei

ragazzi che mettono in atto una

rappresentazione del loro esodo e

poi approdo nella terra della

speranza: Lampedusa.

L’odissea descritta e inscenata sul

palco con materiali, scenografie e

sceneggiatura di fortuna è frutto di

un laboratorio di tre giorni aperto a

chiunque ha voglia di partecipare.

Le cooperative sociali e le

associazioni del terzo settore: S.G.

Bosco, S. Giuseppe, S. Antonio,

Ancora & Timone, ASTRA e

Magma idee in movimento sono

coinvolte in prima persona.

A contribuire ad un’esperienza

unica due ragazze: Lara Pedilarco,

arteterapeuta e Nati Piacentini,

musicista argentina.

La scommessa dell’iniziativa è

legata all’attenzione al processo e

non al risultato finale!

I ragazzi durante le ore

laboratoriali piangono, cantano,

parlano delle loro esperienze e il

teatro, la finzione si confonde e si

identifica con la realtà, le loro

storie di vita diventano la

rappresentazione della nostra vile

civiltà!

Uno schiaffo morale, una violenta

riproposizione della crudeltà del

mondo occidentale colpisce

quanti, come me, partecipano al

laboratorio.

Ma i ragazzi continuano a darci

lezioni, lezioni di civiltà, lezioni di

amore per la propria terra, lezioni

di tenacia e di rivoluzione!

È così che lo spettacolo si

conclude con una pianta che viene

radicata al centro della Piazza di

Caltagirone.

In un’aiuola: un messaggio di pace

ma anche di primavera, quella

primavera araba che in quei giorni

si stava affermando in un paese

sconvolto dalla violenza, dal

sopruso e dalla dittatura!

Allo spettacolo segue la festa: gli

operatori sono invitati a salire sul

palco dai loro ragazzi e a ballare

con loro. È curioso vedere come

Silvia venga trascinata dal gruppo

di “attori” e si diverta a ballare con

loro con naturalezza, con

semplicità come se fosse nel

chiuso del suo istituto.

Tutto questo in Piazza e su un

palco dove a guardare sono i

passanti, quanti “stazionano”

usualmente nell’agorà cittadina e

coloro che partecipano all’inizia-

tiva.

È QUI LA FESTA?

L’indomani è il 19 giugno 2011, la

“Giornata Mondiale del Rifu-

giato”, quale migliore occa-sione

per provare ad avere accesso

nonostante e dopo i vari tentativi,

richieste di autoriz-zazione,

domande da parte delle

associazioni del terzo

settore, al C.A.R.A.

di Mineo?

Appuntamento alle

16:30 all’ingresso del

noto C.A.R.A. o

Villaggio degli Aranci

di Mineo.

Andiamo in tanti, ci

ritroviamo lì:

l’associazione

ASTRA, Magma idee

in movimento e

l’Assessore alle

Politiche Sociali del

Comune di Caltagirone, comune la

cui amministrazione si è sempre

opposta alla “soluzione” del

Ministro Maroni di utilizzare il

Villaggio come un albergo a 5

stelle dove “confinare” la

“questione immigrati”.

Dopo circa un’ora, durante la

quale sono stati osservati tutti i

passaggi burocratici scrupo-

losamente eseguiti con controlli

incrociati delle richieste di

autorizzazione da parte della

questura e delle liste compilate

Page 26: n. 26 La Bella Politica

Giornata mondiale del rifugiato…

Casablanca pagina 26

dalle associazioni, passaporti, carte

di identità, e così via, siamo

dentro. La compagnia è ben

assortita: mediatori culturali,

volontari che parlano l’arabo,

l’inglese e il francese, volontari

avvocati e psicologi, musicisti,

casse, amplificatori e strumenti.

Siamo pronti per dare il via alla

festa del rifugiato, lì dove si

raccoglie una città intera di

persone, circa 2.000, che

provengono dalle più disparate

parti del Mondo: Africa del Nord,

Africa del Sud, Pakistan, Iran,

Iraq, Afghanistan, Costa d’Avorio,

etc. etc…

L’impatto è sconvolgente: migliaia

di ragazzi e ragazze costretti in un

luogo completamente anonimo e

assai lontano dalle loro tradizioni e

dalle loro culture. Lì tutto è uguale

a se stesso, viali, case,

piantumazione, quanti lo vivono

hanno ben poco in comune se non

la condizione assolutamente

surreale, di essere “sospesi”, come

in un limbo…“apolidi”.

Ci raccontano di non

avere più notizie dello

stato delle loro

procedure avviate in

altre parti d’Italia per

ottenere il Diritto di

Soggiorno, che

nessuno è in grado di

rispondere alle loro

domande, che il tempo

passa, lentamente, e

moltissimi di loro non

sono più riusciti a

mettersi in contatto

con i propri cari.

Mentre J., della Costa di Avorio, ci

dice che hanno a disposizione solo

una scheda telefonica per

chiamare, per cui essendo così

tanti, devono aspettare diversi

giorni perché arrivi il proprio

turno, C. , senegalese con una

bimba in braccio, ci racconta della

difficoltà delle donne che vivono

all’interno del Villaggio; molte di

loro, ci dice, sono incinte e ci fa

intendere che la risicata

disponibilità economica destinata

ad ognuno di loro (1,50 euro circa)

induce alcune ad arrotondare. Si

ferma con noi anche F., anche lei

africana, e ascolta senza dire nulla

ma il suo corpo è abbastanza

eloquente: è piena di lividi.

Indossano indumenti usati,

ricordano quelli delle raccolte per i

terremotati, ci continuano a

chiedere delle schede telefoniche. I

bambini che non dovrebbero

essere destinati a centri di questo

tipo così come le donne,

cominciano a venirci incontro:

quale sicurezza può essere

garantita a queste donne, peraltro

in numero così ridotto rispetto agli

uomini, che diventano oggetto di

attenzione da parte dei tanti che

vivono in assoluta cattività?

Veniamo avvicinati dal

responsabile della sicurezza, un

romano, che ci ricorda di non

utilizzare nessuna telecamera o

registratore…

Dopo che comunichiamo loro il

motivo della nostra visita ed

incursione, traducendolo in ben tre

lingue diverse, la Dott.ssa Cristina

Navarra racconta loro l’impegno

profuso dalle istituzioni calatine

perché la presenza nel nostro

territorio non fosse relegata al solo

Villaggio ma fosse considerata

piuttosto la loro condizione

umana, fosse tenuto in

considerazione il valore della

multiculturalità secondo cui

l’integrazione poteva e doveva

avvenire all’interno dei territori e

dei Comuni del Comprensorio

Calatino, restituendo loro la

dignità e il diritto di vivere una

vita “normale”, di poter lavorare,

di poter trascorrere il tempo libero

oltre e al di fuori quel “bunker”.

E subito dopo musica, solo

musica, canto… i ragazzi si

avvicinano e cominciano a ballare,

ognuno per gruppi secondo le loro

tradizioni e i loro costumi… da lì a

poco passiamo il microfono e sono

loro adesso a condurre la serata, a

cantare le loro canzoni, a sentirsi a

casa… assieme a tanti altri e altri

ancora.

Si fa tardi ed è ora di andare, il

momento più difficile… non

vogliono, ci chiedono se

torneremo, quando, e come se già

sapessero che quella era stata una

giornata irripetibile, ci chiedono di

fare delle foto, tante foto… E così

sollecitati anche dal servizio di

sicurezza andiamo via,

lasciandoci alle nostre

spalle donne, uomini,

bambini, sì anche

bambini, con la

promessa che saremo

ritornati presto…

È passato più di un anno

e tutti noi portiamo quel

ricordo e la grande

amarezza di non essere

potuti ritornare a

trovarli. Solo adesso ci

siamo resi conto di come

sia eccezionale quella esperienza

che con ostinazione, grinta e

caparbietà avevamo voluto fino a

mettere in imbarazzo chi doveva

autorizzare la nostra entrata, quel

giorno proprio per la “Giornata

Mondiale del Rifugiato” e non ha

avuto il coraggio di dire NO!

Page 27: n. 26 La Bella Politica

…nuove forme di detenzione

Casablanca pagina 27

Il gabbio di Lampedusa Nuovi profili della

detenzione amministrativa

degli immigrati irregolari in

Italia

Fulvio Vassallo Paleologo

Definiti “ospiti” una volta arrivati

sulle nostre coste, gli immigrati

clandestini per subito vengono

rinchiusi. Galere? No, centri.

Ovvero luoghi in cui le regole di

detenzione amministrativa cambiano frettolosamente grazie “all’emergenza”.

Nei centri, le “persone” arrivate illegalmente in Italia, dovrebbero essere identificate e trattate

da esseri umani. Invece, sono abbandonati alla disperazione, o sedati con l’uso massiccio di

psicofarmaci. Nel 2011 decine i casi di autolesionismo e diversi tentativi di suicidio nel centro

di prima accoglienza e soccorso di Lampedusa, nell’ex caserma Barone di Pantelleria, ed altre

strutture di accoglienza allestite per l’emergenza Nord-Africa. La responsabilità per gli

incidenti e le disfunzioni? Ricadeva solo sugli immigrati e poi le indagini - almeno in passato -

si arenavano o venivano archiviate.

Il “gabbio”, di Lampedusa, un centro nel centro, nel quale non si effettuano convalide e non

entrano difensori ed organizzazioni umanitarie al di fuori di quelle convenzionate con il

Ministero dell’Interno.

Detenute sotto tutti i punti di

vista, ma definite dalle autorità

amministrative e dagli enti gestori

come “ospiti”, in realtà gli

immigrati giunti irregolarmente

nel territorio italiano possono

essere rinchiusi in strutture con

diverse denominazioni, e con

diverse modalità di limitazione

della libertà personale. Anche a

seconda della nazionalità, che

incide sulle probabilità di

rimpatrio, in base agli accordi

bilaterali ed alle differenti prassi

applicative degli accordi di

riammissione.

Il CPSA (Centro di primo

soccorso ed accoglienza) di

Contrada Imbriacola a

Lampedusa, dopo la breve

parentesi come CIE nel febbraio

del 2009, conclusasi con una

rivolta e con un incendio che lo

distruggeva parzialmente, era

stato ristrutturato e di nuovo

riattivato, dal febbraio del 2011,

come centro di prima accoglienza

e soccorso (CPSA), ma con una

parte utilizzata, di fatto, come

centro chiuso - il cosiddetto

gabbio. Un vero e proprio centro

di trattenimento mai qualificato

ufficialmente come CIE, nel quale

dunque non si effettuavano

convalide e non entravano

difensori ed organizzazioni

umanitarie al di fuori di quelle

convenzionate con il Ministero

dell’Interno.

E lo stesso periodico mutamento

di destinazione, e di natura

giuridica, si è verificato per il

centro ubicato a Lampedusa nella

vecchia base Loran, una struttura

utilizzata nel 2011 per il

trattenimento prolungato, dunque

illegale, di minori non

accompagnati, ma qualificata nel

sito del Ministero dell’Interno

come centro di identificazione ed

espulsione, una struttura che ha

continuato a funzionare dopo che

Page 28: n. 26 La Bella Politica

…nuove forme di detenzione

Casablanca pagina 28

nel 2009 era intervenuta persino la

magistratura, per bloccarne

l’ampliamento in vista della

creazione di un grande centro di

detenzione, alla vigilia di gravi

abusi edilizi. Nel corso del 2011 il

centro dell’ex base Loran è stato

così utilizzato per il trattenimento

prolungato di decine di minori

non accompagnati, in una

situazione di fatiscenza delle

strutture e di evidente degrado

derivante dalla promiscuità e

dall’abbandono. Una situazione

che anche il procuratore antimafia

Teresi, in una sua visita a

Lampedusa ai primi di settembre

del 2011, ha potuto rilevare

direttamente, dichiarando che “in

un paese civile la base Loran

dovrebbe essere chiusa”, una

situazione che prima ancora che

dalla Procura antimafia, avrebbe

dovuto sollecitare un intervento

dei NAS della Guardia di Finanza.

IL GABBIO E LA

DISPERAZIONE

Per chiudere quel centro già

nel corso dell’emergenza

Nord-Africa del 2011 sarebbe

bastato rilevare la cronica

carenza d’acqua e il sistema

fognario non a norma, come

non risultavano conformi alla

legge le procedure adottate nei

confronti dei minori non

accompagnati, la cui presenza

non veniva segnalata per

tempo né agli assistenti sociali né

al Tribunale dei minori, come

prescritto dalla legge. Fatti

inoppugnabili, sui quali in tanti

hanno preferito tacere, anche se

non sarebbe stato difficile

ricostruire una documentazione

completa, che nessuno, sia a

Lampedusa, che ad Agrigento ed a

Roma ha voluto raccogliere. Fatti

sui quali, nonostante un articolato

esposto depositato in diverse

procure italiane dall’onorevole

Zampa e da altri parlamentari, la

magistratura non ha saputo fare

luce, rincorrendo invece

improbabili scafisti, anche

minorenni, scelti sulla base delle

testimonianze di qualche migrante

rimesso subito dopo in libertà o

rimpatriato.

Nel corso degli anni le prassi

amministrative in materia di

trattenimento e di respingimento,

sono andate ben oltre le previsioni

di legge. Nell’impossibilità di

adottare i decreti del questore di

respingimento e di trattenimento,

secondo quanto previsto dagli

articoli 10 e 14 del T.U. n. 286 del

1998, si è preferito “isolare” le

persone straniere, giunte o

rintracciate in condizioni di

irregolarità, in strutture chiuse

informali, non classificate come

CIE, dove venivano detenute a

tempo indeterminato. Così si sono

aperti temporaneamente e poi

chiusi i centri di prima

accoglienza di Porto Empedocle

(Agrigento),

di Licata (Agrigento), di Pozzallo

(Ragusa) e di Porto Palo

(Siracusa). Si sono concentrate

centinaia di persone in zone di

confinamento temporaneo,

limitandone, di fatto, la libertà

personale oltre i limiti (48+48

ore) previsti dalla legge e dalla

Costituzione (art. 13), solo per

effetto di misure di polizia, che

non hanno assunto neppure la

forma del provvedimento scritto e

motivato, come sarebbe richiesto

dalle normative comunitarie

(Regolamento Frontiere Schengen

n. 562 del 2006). Gli immigrati ai

quali non si è riconosciuto

neppure il diritto alla

comprensione linguistica ed alla

notifica tempestiva dei

provvedimenti di respingimento e

di trattenimento, sono stati

abbandonati alla disperazione, o

sedati con l’uso massiccio di

psicofarmaci, con decine di casi di

autolesionismo e diversi tentativi

di suicidio, come si era verificato

già nel 2011.

Tutto questo si è verificato non

solo nel centro di prima

accoglienza e soccorso di

Lampedusa e nell’ex caserma

Barone di Pantelleria, ma in molte

delle strutture di accoglienza

allestite per l’emergenza nord

africa e rimaste per mesi senza

uno statuto giuridico preciso (si

pensi ai CIET, centri di

identificazione ed espulsione

temporanei, a Kinisia,Trapani, a

Santa Maria Capua

Vetere ed a Palazzo San

Gervasio, Potenza).

TUTTO IN REGOLA!

In nessun caso mai, un

ente gestore o un prefetto

sono stati ritenuti

responsabili di quanto

successo alle persone

trattenute nei centri. Come in casi

precedenti che pure avevano

avuto tragiche conseguenze, la

responsabilità degli incidenti e

delle disfunzioni ricadeva

inizialmente solo sugli immigrati

e poi le indagini si arenavano o

venivano archiviate.

Anche dopo la rilevante

diminuzione degli sbarchi nelle

regioni meridionali italiane, con

un calo del novanta per cento nel

2012 rispetto all’anno precedente,

le prassi applicate sono rimaste

Page 29: n. 26 La Bella Politica

…nuove forme di detenzione

Casablanca pagina 29

ancorate ad un utilizzo

incontrollato della discrezionalità

amministrativa, in una materia

come la libertà personale, soggetta

al presidio dell’art. 13 della

Costituzione, che impone la

doppia riserva di legge e di

giurisdizione, per l’adozione di

misure come il trattenimento

amministrativo. La situazione nei

centri di identificazione e di

espulsione è diventata sempre più

incandescente, dopo la legge 129

del 2011 con il prolungamento a

18 mesi della detenzione

amministrativa e l’abbattimento

sostanziale di tutte le garanzie di

difesa, a partire dalle difficoltà

frapposte all’ingresso di legali di

fiducia, e alla utilizzazione dei

mediatori linguistici.

Malgrado fosse finita la fase degli

arrivi di massa si sono utilizzati i

centri di prima accoglienza come

centri di detenzione, nel tentativo

di respingere in pochi giorni i

migranti grazie ai riconoscimenti

sommari (solo in base alla

attribuzione della nazionalità) da

parte delle autorità consolari. Ed

ancora nel corso del 2012 si

registrano fughe e rivolte ovunque,

da Gradisca di Isonzo (Gorizia) a

Caltanissetta-Pian del Lago ed a

Trapani-Milo, mentre non si sa

nulla di quello che avviene nei

numerosi centri di transito

utilizzati in Sicilia, in

Calabria ed in

Puglia per i

respingimenti

sommari dei

cittadini

tunisini ed

egiziani, in base

a riconoscimenti

consolari

semplificati dopo

gli ultimi

aggiustamenti degli

accordi bilaterali

firmati dall’ex

ministro dell’interno

Maroni (quello con la Tunisia

firmato il 5 aprile 2011 è ancora in

vigore, nonostante il cambio di

governo e le mutate condizioni

politiche nei due paesi).

Di fronte alle prassi attuali ed alla

violazione reiterata di consolidati

principi costituzionali, e di

regolamenti o direttive

comunitarie che dovrebbero avere

un rango gerarchico superiore, è

urgente una profonda revisione

legislativa.

Bisogna abrogare l’attuale

normativa sui respingimenti, a

partire dall’art. 10 del T.U. n. 286

del 1998, e riformularla con

specifiche previsioni di legge e

garanzie effettive di difesa in

favore delle persone che ne siano

destinatarie. Vanno ridotti i casi di

rimpatrio con accompagnamento

forzato (Bossi-Fini del 2002), che

richiedono misure di trattenimento

amministrativo e procedure di

convalida che non risultano

applicabili nella generalità dei

casi, con violazioni sempre più

evidenti dell’art. 13 della

Costituzione italiana. Bisogna

quindi ripristinare il sistema delle

espulsioni basato generalmente

sulla intimazione a lasciare

il territorio dello stato,

come

era

previsto dalla legge 40 del 1998

(Turco-Napolitano) e come è

richiesto adesso dalla Direttiva

Comunitaria 2008/115/CE sui

rimpatri. E va assolutamente

spezzato il circuito carcere-CIE,

come prevedeva la circolare

interministeriale Amato-Mastella

del 30 luglio 2007, che

richiamava l’esigenza di effettuare

le identificazioni durante il

periodo di detenzione in carcere, e

dunque con una stretta

collaborazione tra

l’amministrazione della giustizia e

gli uffici di questura.

La prospettiva di lungo periodo,

che presuppone l’apertura di vie

legali di ingresso e la

regolarizzazione permanente su

base individuale di chi maturi nel

tempo requisiti come un lavoro e

la disponibilità di un alloggio, non

può che essere quella della

chiusura dei CIE, e della

utilizzazione della detenzione

amministrativa solo per quei casi

individuali di espulsione di

persone che costituiscono una

grave minaccia per l’ordine

pubblico e la sicurezza dei

cittadini. Ma sempre nel rispetto

dei diritti fondamentali della

persona umana,

dettati dalla

Costituzione e

dalla Carta dei

diritti

fondamentali

dell’Unione

Europea, oltre

che dalla

Convenzione

europea a

salvaguardia

dei diritti

dell’Uomo.

Page 30: n. 26 La Bella Politica

Europa: baluardo da abbattere?

Casablanca pagina 30

La storia sembra non insegnarci nulla. Un

secolo fa furono concepiti i piani disumani

di sottomissione dell’Europa da parte del

sistema industriale…

Democrazia

sequestrata

Sotto dittatura i popoli europei Gianni Lannes

Euro sì? Euro no. Europa dei popoli? Europa delle banche? Tante discussioni, tavole rotonde,

studi, sondaggi. Paesi perplessi, indignados che si ribellano. Chi agisce, chi sta a guardare. Ma

qual’è il vero progetto sull’Europa? Chi orchestra? Chi dirige il sistema di dominio? Il Trattato

di Lisbona e il Trattato di Velsen hanno sospeso le Costituzioni dei paesi europei? Sovranità

economica e popolare, indipendenza, hanno ancora significato? Ammesso che negli ultimi

tempi ne abbiano avuto.

No pasaran, No pasarán, Ils ne

passeront pas, They shall not pass.

Non passeranno. L’Europa dei

popoli è vittima di un’aggressione

finanziaria senza eguali nella

storia della modernità, il cui scopo

dichiarato è la conquista a

qualunque prezzo umano. Il

popolo spagnolo, prima di

chiunque altro (compreso il

dormiente italiano) - come nel

1936 - ha ben compreso il destino

fatale che ci attende se

non ci sarà una

reazione risolutiva. È

in gioco la democrazia,

la qualità della vita ed

il futuro di milioni di

esseri umani. Così c’è

stata guerriglia. Duri

scontri il 25 settembre a Madrid

tra i manifestanti del movimento

degli indignati e la polizia, che ha

fatto diverse cariche e utilizzato

proiettili di gomma per disperdere

i giovani nei pressi del Congresso

dei deputati. Migliaia di persone

si sono riunite davanti al

Parlamento al grido di

"dimissioni", per denunciare una

democrazia “sequestrata” e

“schiava dei mercati finanziari”.

Anche la Grecia si sta svegliando

dal letargo.

***

Ovviamente non basta una

protesta spontanea: il sistema di

dominio che tenta di imporre il

nuovo ordine mondiale

orchestrato dalla Commissione

Trilateral e dal Club Bilderberg

nonché dal filantropo eugenetico

Bill Gates, è ben organizzato. Gli

oligarchi del terzo millennio

prima di usare le maniere forti

hanno annichilito le garanzie

legali nel vecchio continente.

Come? Adottando il 13 dicembre

2007 il Trattato di Lisbona che ha

sospeso le Costituzioni dei Paesi

aderenti all’Unione europea. E

precedentemente, due mesi prima

(18 ottobre 2007) aderendo al

Trattato di Velsen che ha dato

carta bianca, ossia licenza di

uccidere (“legalmente”) chiunque

ostacoli questo processo di

dominio - la polizia militare

che va sotto il nome di

Eurogendfor, controllata

dalla Nato. Infine il Fiscal

Compact: addio alla

sovranità economica. Così,

grazie alla compiacenza di

interi parlamenti nazionali e dei

soliti padrini l’indipendenza è

stata azzerata.

La storia sembra non insegnarci

nulla. Un secolo fa furono

concepiti i piani disumani di

Page 31: n. 26 La Bella Politica

Europa: baluardo da abbattere?

Casablanca pagina 31

sottomissione dell’Europa da

parte del sistema industriale. Due

guerre mondiali avviate per

spietati interessi economici hanno

mietuto circa 100 milioni di

vittime nel tentativo di dominare

il nostro continente.

È finita la guerra fredda ed è

cominciata la Terza guerra

mondiale. Purtroppo, nostro

malgrado, siamo in guerra, sotto il

tallone militare nordamericano,

vale a dire il braccio armato che

esegue gli ordini del complesso

industriale Usa, spronato

dall’insaziabile cupidigia

dell’industria chimica,

farmaceutica e nucleare.

Su la testa: non facciamoci

raggirare e soffocare anche da

guru ammaestrati e profeti urlanti.

Non possiamo essere indifferenti

mentre cercano di sottometterci

definitivamente. Il loro scopo

platealmente dichiarato è la

subordinazione commerciale e

politica di intere nazioni. Si

potrebbe partire con una paralisi

dei consumi e proseguire con uno

sciopero ad oltranza, senza

interruzioni per obbligare i

parlamenti nazionali a dimettersi

in blocco.

L’Europa è un baluardo da

abbattere e soggiogare per

controllare l’intero mondo. Non ci

sarà mai più un’Europa che

annichilisce la sua gente per

generazioni, rendendola schiava

degli interessi e finanziari delle

multinazionali. Mai più. Ma spetta

a noi combattere, ora. La libertà

va ri-conquistata.

***

Giuseppe Dossetti, un padre

italiano della Patria ha scolpito

parole dal vivo della sua

esperienza: “Quando i poteri

pubblici violano le libertà

fondamentali e i diritti garantiti

dalla Costituzione, la resistenza

all’oppressione è un diritto e un

dovere del cittadino”. E

Mohandas K. Gandhi ha

dimostrato con la non violenza:

“Sono le azioni che contano. I

nostri pensieri per quanto buoni

possano essere sono perle false

fintanto che non vengono

trasformati in azioni. Sii il

cambiamento che vuoi vedere

avvenire nel mondo”.

Su la testa: non facciamoci raggirare e soffocare

anche da guru ammaestrati e profeti urlanti. Non

possiamo essere indifferenti mentre cercano di

sottometterci definitivamente. Il loro scopo

platealmente dichiarato è la subordinazione

commerciale e politica di intere nazioni.

Page 32: n. 26 La Bella Politica

Giuseppina… vai avanti, cambierà

Casablanca pagina 32

Giuseppina la

postina dei clan

Ad oggi ha fatto sequestrare

224 milioni di euro

Franca Fortunato

Giuseppina Pesce dell’omonimo clan, è l’unica collaboratrice viva. Altre donne che avevano

deciso di collaborare con la giustizia contro la ’ndrangheta hanno avuto diverso, crudele,

destino. Quelli con gli inquirenti saranno colloqui tormentati perché la figlia maggiore i

primi tempi non riesce a condividere le sue scelte, le dichiarazioni di Giuseppina comunque

apriranno le porte della galera anche per sua madre e sua sorella. Il vecchio capobastone

storico, Giuseppe Pesce, si sarà rivoltato nella tomba. La nipote, Giuseppina, diventata

collaboratrice di giustizia. Cose di un altro mondo!

Giuseppina Pesce, è figlia di

Salvatore, detto “u babbu” uomo

di punta della cosca omonima

insieme al fratello Antonino. È

accusata di essere la “postina del

clan e di portare gli ordini del

padre, in carcere, agli altri

associati. Per questo reato è stata

arrestata il 28 novembre 2010

insieme ad altri quaranta affiliati

alla cosca (operazione

“All’Inside”). Cresciuta a “pane e

’ndrangheta”, Giuseppina conosce

tutti gli affari e i segreti della

famiglia, immaginare quindi il

futuro dei suoi figli, non è

difficile, in carcere ha modo di

riflettere… e decidere.

Giuseppina, nata e cresciuta a

Rosarno, al momento dell’arresto

ha 34 anni, due figlie di 16 e 6

anni e un figlio di 9. Suo marito,

Rocco Palaia, è in carcere per

associazione mafiosa. Anche suo

padre è in carcere e così il fratello

Francesco. La madre, Angela

Ferrero, e la sorella Marina

entreranno in carcere dopo le sue

rivelazioni. Che famiglia! Tutti in

carcere. E i suoi figli? Sono

destinati a fare la stessa fine? È a

questo che Giuseppina pensa.

Che la sua era una famiglia

mafiosa, l’aveva capito già all’età

di dieci anni. A tredici, finita la

scuola Media, il suo desiderio era

di iscriversi al Magistrale di

Palmi, ma il padre glielo impedì.

“No, tu non andrai da nessuna

parte, tu resterai chiusa in casa” -

le gridò. E così fu. “Non andavo

più neanche a lezioni di piano,

stavo solo in casa” - raccontò agli

inquirenti. Era solo

un’adolescente, ma cominciò a

pensare che sposarsi era l’unico

modo per uscire da quella

prigione.

A quattordici anni, appena

adolescente, fece la “fuitina” con

l’uomo che amava, Rocco Palaia,

anche lui appartenente a una

cosca.

Non andò come lei sperava o

sognava. Con quest’uomo

conoscerà la violenza sul suo

corpo e non troverà né nella

madre né nelle donne della

“famiglia” un sostegno alla sua

ribellione. E come poteva trovarlo

in donne succubi, subalterne e

complici dei loro uomini, che

hanno fatto coincidere la famiglia

di sangue con la famiglia di

’ndrangheta? Dopo la nascita

della prima figlia, Angela, il

marito divenne sempre più

violento e aggressivo. Ad ogni sua

ribellione, lui la picchiava.

Avrebbe voluto lasciarlo, ma la

morale della famiglia di

’ndrangheta non consente il

divorzio. “No, non me lo

permettevano, i miei… lui… Tutti

mi dicevano “dài, dagli un’altra

Page 33: n. 26 La Bella Politica

Giuseppina… vai avanti, cambierà

Casablanca pagina 33

NON VOGLIAMO PM FEMMINA

Quando inizia il processo, i maschi Pesce gridano contro la pm:

“Vogliamo di Palma, ma quella no”. Volevano un maschio per una

questione di rispetto, perché il “nemico”, se è in gamba, lo puoi pure

rispettare. Ma una femmina no, quella è un’altra storia.

Che sfortuna, per i Pesce! Anche il collegio giudicante è fatto di donne:

presidente Concettina Epifanio, a latere Maria Laura Ciollaro e Antonella

Crea. E come se non bastasse, alla guida dell’amministrazione comunale

di Rosarno c’è una donna, Elisabetta Tripodi, che sfida la cosca,

costituendosi parte civile al processo e mandando via da un immobile la

madre e il fratello del boss Rocco Pesce. Dal carcere costui manda una

lettera minatoria alla sindaca e per questo viene processato e condannato.

possibilità che adesso cambierà.

Pensa ai tuoi bambini. Non è

giusto negare il padre ai tuoi figli.

Vai avanti, cambierà” .

IL CARCERE, IL SUICIDIO,

LA PAURA

In carcere tenta due volte il

suicidio non perché non sopporta

la reclusione, ma per il distacco

dai bambini. Dopo alcuni mesi,

Giuseppina decide di collaborare

e chiede che i suoi figli la

raggiungano in località protetta.

Inizia per lei una nuova vita, pur

sapendo di aver decretato la sua

condanna a morte.

“L’onta di ritrovarsi in casa

qualcuno che passa dalla parte

degli sbirri va lavata col sangue

per mano di un congiunto”. Le

sue orecchie l’hanno sentito dire a

proposito di sua cugina Rosa

Ferraro, testimone di giustizia.

Nessuna donna di ’ndrangheta,

pienamente coinvolta negli affari

della famiglia, aveva osato sfidare

le persone a lei vicine. Giuseppina

è la prima. E ne ha cose da

raccontare ai magistrati!! È lei

che ammette l’esistenza della

potente cosca dei Pesce; riferisce

circa le vendette relative alla

successione al vertice della cosca;

descrive l’ascesa al potere del

pericoloso cugino Francesco

Pesce; indica dettagliatamente le

attività economiche riconducibili

alla cosca mafiosa. Manda in

galera la madre e la sorella.

Non solo, dalle sue dichiarazioni

scaturisce l’operazione

“All’Inside 2” con arresti,

confische di beni, scoperta di armi

e bunker. Al tribunale di Palmi,

tutt’ora, è in corso il processo.

Giuseppina è la testimone chiave.

Testimoni sono anche sua cugina

Rosa Ferraro e l’ex cognata Ilaria

La Torre, che il fratello cercò di

rapire e fare sparire, dopo essere

stato abbandonato. Anche Maria

Concetta Cacciola, amica

d’infanzia di Giuseppina, uccisa

con l’acido muriatico dalla

famiglia, aveva testimoniato

contro i Pesce.

IL DIFFICILE RAPPORTO

CON LA FIGLIA

La vicenda di Giuseppina,

collaboratrice di giustizia, che

dopo qualche mese interrompe la

collaborazione per poi

riprenderla, ci parla, innanzitutto,

della relazione di una madre con

sua figlia, Angela, di cui cerca

l’approvazione. Quando questa,

con la sorella e il fratello,

raggiunge la madre in località

protetta, lasciando a Rosarno i

parenti, gli amici e la scuola, le si

rivolta contro, per uno

sradicamento che lei non ha

scelto. “Continuava a rinfacciarmi

che ho scelto per lei, che io l’ho

portata via dalla nostra terra, che

io ho deciso. La scelta di

collaborare l’aveva accettata, era

il discorso del distacco che non

accettava, l’allontanamento”.

Di questo approfittano i parenti

paterni, in particolare la zia

Angela, che fa avere alla ragazza

il suo cellulare e comincia a

telefonarle. Vuole che lei induca

sua madre a interrompere la

collaborazione e a ritrattare tutto.

“ Sapeva che io senza mia figlia

non sarei andata da nessuna

parte”. A un certo punto cede alle

pressioni della figlia e interrompe

la collaborazione. “Quando io le

dissi che sarei tornata indietro,

che le avrei restituito la vita che

aveva prima o almeno ci avrei

provato, diciamo che era contenta

da una parte, però dall’altra gli

avevo anche detto che

probabilmente io per un periodo

non ci sarei stata. Cominciò a

diventare depressa”.

I parenti promettono a

Giuseppina il perdono e le

assicurano ogni aiuto. “Vedi - le

ripeteva la figlia - vedi, adesso

sta a te. Adesso sei tu. basta che

dici sì e torniamo a casa”. “La

mia scelta - di interrompere la

collaborazione - è stata basata

solo su mia figlia. Non ho avuto

altre motivazioni, cioè io volevo

la felicità dei miei figli e se

quello era quello che loro

volevano, anche se i miei

progetti per loro erano altri,

andava bene così”.

Quando i parenti vengono a

sapere della sua decisione,

vogliono che tutti lo sappiano. La

raggiungono nella località protetta

e le fanno firmare una lettera, che

sarà mandata a un giornale locale,

in cui Giuseppina scrive di aver

interrotto la collaborazione, di

Page 34: n. 26 La Bella Politica

Giuseppina… vai avanti, cambierà

Casablanca pagina 34

essere stata costretta dai

magistrati a collaborare e di aver

detto solo cose false. Come

ultimo atto non deve firmare il

verbale dell’interrogatorio.

Giuseppina ha paura per i suoi

figli. Davanti al magistrato si

avvale della facoltà di non

rispondere e interrompe, così, la

sua collaborazione. Era l’11 aprile

2011.

Tutto finito? Niente affatto.

Giuseppina non vuole tornare in

Calabria. Ha paura che la

uccidano o la facciano sparire. In

attesa di essere mandata ai

domiciliari a Vibo Marina, dove i

suoceri le hanno trovato una casa,

resta ancora con le due figlie in

località protetta. Il bambino viene

mandato giù col nonno.

L’EVASIONE, IL DISONORE

E LE MINACCE

Succede allora qualcosa che rende

definitiva la sua scelta di tornare a

collaborare. Angela, rimasta con

lei, continua a lamentarsi e prega

la madre di mandarla per qualche

giorno da una sua amica a Lucca.

Per farla contenta, decide di

accompagnarla con la macchina.

Al ritorno viene arrestata per

“evasione”, in quanto era ancora

sotto protezione. In

quell’occasione diventa pubblica

la sua relazione extraconiugale.

Nella macchina c’era l’uomo con

cui conviveva da tempo. Adesso

Giuseppina sa di essere

doppiamente in pericolo. “Chi

tradisce e chi disonora la famiglia

deve essere punito con la vita. È

una legge”. Legge che lei conosce

per aver sentito dal marito la

storia di Annunziata Pesce, cugina

di suo padre, che, nel 1981, fu

assassinata dai fratelli e fatta

sparire per una relazione

extraconiugale con un carabiniere.

Il marito dal carcere è furioso. Si

sente offeso nel suo “onore” di

uomo e di marito, prima che di

’ndranghetista. La minaccia e le

ricorda la fine di Maria Concetta

Cacciola che ha “disonorato” la

famiglia, come collaboratrice e

come adultera. “Ma questo non è

il tuo caso”; le scrive in tono

minaccioso, chiedendole di

lasciare alla sua educazione il

figlio maschio. Giuseppina,

allora, capisce che non può e non

deve tornare indietro. Riprende la

collaborazione.

E la figlia? Un giorno capirà -

dice a se stessa - e l’approverà.

Tocca a lei salvare se stessa e i

suoi figli da un destino che non

accetta più. “Ho espresso la mia

volontà di iniziare questo

percorso, spinta dall’amore di

madre e dal desiderio di poter

avere anch’io una vita migliore,

lontana dall’ambiente in cui

siamo nati e cresciuti.

Ero e sono convinta che sia la

scelta giusta” - scrive in una

lettera alla pm Alessandra Cerreti.

Col ritorno alla collaborazione,

tornano i ricatti, le minacce, le

pressioni sulla figlia maggiore,

da parte della zia. Il nonno

picchia il maschio. Giuseppina

lo viene a sapere dalla figlia

stessa, decisa, ormai, a seguire la

madre. “Mamma io voglio stare

con te, non voglio vivere con gli

altri, tu sei la mia mamma e

senza di te non sono niente,

qualsiasi scelta farai io ti

seguirò”. Da allora Giuseppina

vive insieme ai suoi figli. Sa che

non torneranno mai più a

Rosarno. Lei ha trovato il

coraggio di dare un taglio radicale

alla sua vita, senza rinnegare il

suo passato. Ha sempre

riconosciuto le sue responsabilità

all’interno della cosca, ma il suo

desiderio di libertà e la sua

consapevolezza di donna sono

stati più forti dei legami di

sangue. Ha voluto sottrarre le

figlie e il figlio maschio a un

mondo, quello della ’ndrangheta,

destinato a crollare per mano

delle donne.

Il processo denominato

“All’Inside 2” sta andando avanti

al tribunale di Palmi. Giuseppina

continua a svelare i segreti di una

famiglia di ’ndrangheta, resa

potente anche dalla collusione di

politici, magistrati e uomini delle

forze dell’ordine, di cui lei sta

continuando a fare i nomi.

Il Clan Pesce I PESCE sono una delle più

potenti cosche della

’ndrangheta della piana di

Rosarno, in provincia di Reggio

Calabria. Contano su un

esercito di affiliati inquadrati in

30 “locali” e in una miriade di

’ndrine, con interessi che si

estendono da Reggio Calabria a

Milano. Il clan, insieme ai

Piromalli, ai Mancuso e ai

Molè, gestisce tutti i traffici

dell’area di Gioia Tauro, dal

porto alla droga, dalle estorsioni

al controllo dei mercati agricoli.

Al nord sono attivi a Milano,

specialmente nel quartiere di

Quarto Oggiaro. All’estero,

insieme ai Bellocco hanno

collegamenti con la criminalità

austriaca, greca, libanese,

tedesca e francese. Sono i

fondatori dei Basilischi, la

quinta mafia nata a Potenza.

Page 35: n. 26 La Bella Politica

La palomba deve volare

Casablanca pagina 35

Gocce che scavano

il marmo Precario e Minacciato

Rosita Rijtano

Il numero dei cronisti minacciati in Campania aumenta e scalza la Calabria. Aggressioni,

minacce, insulti, di tutto. La libertà d’informazione? Ha vita molto difficile, anche se c’è chi

sostiene che i giornalisti possano dire ciò che vogliono. Non la pensano così Tina Palomba,

Giovanni Taranto ed altri che hanno vissuto sulla loro pelle lo scontro con i delinquenti

raccontati sulle pagine dei loro giornali. Comunque, prudenza sì, passi indietro no. Oppure

ostinazione, ironia e documentazione, così come fa da Radio Siani Amalia de Simone per

rispondere alle intimidazioni. Ciliegina: pare che la maggior parte dei minacciati siano

giornalisti precari. Nomi sconosciuti, volti anonimi, non vale la pena di preoccuparsi nel

manifestare solidarietà.

“La palomba deve volare” - si

dicevano nelle intercettazioni i

due camorristi. Una specie di

slogan, ma... mai un raid così

eclatante: due taniche di benzina

incendiate sotto casa con

l’obiettivo di farle saltare in aria

la macchina. Troppo anche per

una coraggiosa cronista di strada.

Guardando la

sua auto

avvolta dalle

fiamme, Tina

Palomba ha

avuto paura.

Da dieci anni

scrive di nera

e giudiziaria

per il

quotidiano

“Cronache di Caserta”. Ha subìto

di tutto. Aggressioni in redazione,

insulti nelle aule giudiziarie,

persino l’ironia dei boss: “La

palomba deve volare”.

“È un incubo terribile che mi

tormenta ogni notte”, confessa.

Dal 22 giugno scorso la sua

attività si è drasticamente ridotta.

Prima scriveva quattro articoli al

giorno. Ora al massimo due. “A

me dispiace molto, ma per

tutelarmi l’azienda ha chiesto di

rallentare il ritmo. C’è chi

sostiene che i giornalisti possano

dire ciò che vogliono. Niente di

più falso. La libertà

d’espressione è

un’utopia”.

Tina non è la sola a

pensarla così. È

l’alba dell’11

ottobre 2011, i

parenti del boss

Salvatore Belviso

invadono le stanze

di Metropolis,

quotidiano d’assalto della

provincia di Napoli. La richiesta:

“Non stampate quel giornale”.

“Siamo nelle loro mani”, spiega il

direttore della radio/tv Giovanni

Taranto. “Sanno dove abitiamo,

dove lavorano i nostri coniugi e

vanno a scuola i nostri figli”, dice.

La sua filosofia? Prudenza sì,

passi indietro no. “Se c’è una

notizia si segue, senza fare sconti

né al colletto bianco né al

camorrista. La nostra non è una

scelta di eroismo. Non

indossiamo la calzamaglia.

Cerchiamo solo di fare il nostro

mestiere al meglio. E ciò non

dovrebbe comportare gravi rischi

in un paese civile”.

PRECARI E MINACCIATI

In Italia sono 925 i giornalisti

minacciati dal 2006 a oggi. I nomi

spesso sconosciuti. I volti

anonimi. A rivelarlo è il rapporto

2011/2012 di Ossigeno per

l’informazione, osservatorio sui

cronisti vittime di violenze e gravi

abusi. “Sono gocce che scavano il

marmo”, ripete da anni il

fondatore, Alberto Spampinato,

che denuncia una piaga sotto gli

occhi di tutti. Ma di cui nessuno

Page 36: n. 26 La Bella Politica

La palomba deve volare

Casablanca pagina 36

parla: “L’Italia è l’unico paese

europeo in cui l’informazione è

parzialmente libera. Lo dicono le

maggiori istituzioni internazionali

e lo dimostrano i nostri dati”. Non

solo. “Ciò che conosciamo è solo

la punta dell’iceberg. Gran parte

dei giornalisti minacciati non ha

la forza di denunciare. Come le

vittime d’usura e stupri, si

vergognano della violenza

subita”.

Secondo le stime di Ossigeno

sono oltre diecimila le vittime

dirette o indirette di intimidazioni

su un totale di 110.000 iscritti

all’Ordine, per lo più precari.

Cifre da capogiro che crescono

vertiginosamente: da 78 a 95 casi

in un anno con la Campania che

scalza dal primato la Calabria

raggiungendo quota 22. “Nella

nostra regione - commenta il

presidente dell’Ordine dei

giornalisti campani Ottavio

Lucarelli - ci sono pesanti

condizionamenti da parte della

malavita organizzata. Alcuni

colleghi sono sottoposti a forme

di tutela. Ma le minacce non

hanno impedito ai cronisti di

raccontare i fatti in un territorio

ad alta densità criminale”.

A Radio Siani, presidio di legalità

nel cuore di Ercolano, Amalia de

Simone ha un modo particolare di

affrontare le intimidazioni.

Ostinazione, ironia e docu-

mentazione: sono le parole

chiave. “Se vuoi che ti dica che

ho paura tanto da non poter

dormire la notte, lo faccio”,

scherza. “Ma in realtà credo che

in Italia il problema non siano le

minacce. È il precariato la vera

pistola puntata alle spalle del

cronista”.

.

Page 37: n. 26 La Bella Politica

SOS per i giornalisti messicani

Casablanca pagina 37

la Rivoluzione?

Difficile non è con twitter

Cynthia Rodriguez

La libertà di informazione in tutto il mondo è scomoda e vive momenti scoraggianti. In

Messico, dove i narcotrafficanti dominano, i giornalisti e tutti coloro che operano

nell’informazione sono in pericolo. Lo Stato o si gira dall’altra parte o interviene duramente su

coloro che dallo Stato attendono protezione e giustizia. Così, l’autocensura dei media per

proteggersi, va di pari passo alla censura del governo che aggredisce, perseguita, attacca. Per

“perturbazione dell’ordine pubblico”. Un’assurda complicità?

In Messico essere giornalista nei

tempi della così detta “guerra

contro il narcotraffico” significa

vivere in pericolo di morte, stare

tutto il tempo con la paura di

essere minacciato, sia da un

delinquente, sia da un funzionario.

Alcune settimane fa, l’Organiz-

zazione Articolo 19, che difende

in tutto il mondo la libertà di

stampa, ha dichiarato che in

Messico la violenza contro i

giornalisti non proviene soltanto

dai cartelli della droga, c’è anche

lo Stato, divenuto complice della

violenza nei confronti dei mass

media in tutto il Paese. Così,

l’autocensura dei media come

autoprotezione va di pari passo

alla censura del governo.

Insomma, lo Stato, invece di

proteggere i giornalisti, chiude gli

occhi, oppure toglie le risorse per

ridurli al silenzio. Le cifre sono

terrificanti.

Nel 2011 ci sono state 172

aggressioni che avevano a che

vedere con l’esercizio della libertà

di stampa. Sono stati assassinati

nove giornalisti, due lavoratori dei

media, due comunicatori sperduti.

Otto aggressioni con armi da

fuoco o esplosivi contro alcune

sedi di giornali.

Dal nord al sud, le aggressioni

stanno crescendo con rapidità su

tutto il territorio nazionale, e il

governo, invece di offrire e dare

protezione, aggredisce, perseguita,

criminalizza e attacca. Gli stessi

funzionari che, in teoria,

dovrebbero investigare e

impartire giustizia, quasi

sempre sono coloro che

cominciano le azioni

contro giornalisti,

fotografi e cameraman,

dicendo, per esempio,

che sono gli stessi

giornalisti che lavorano

con la criminalità organizzata.

Oppure, sostenendo che sono stati

ammazzati per problemi

passionali.

LA STRAGE DI VERACRUZ

Recentemente l’organizzazione

Journalist sanz Frontieres ha

informato che in Messico, in un

decennio, sono stati ammazzati 83

giornalisti.

A maggio di quest’anno, in un

solo mese, nello stato di Veracruz

hanno ucciso cinque giornalisti, e

l’anno scorso sono stati uccisi:

Luis Emanuel Ruiz Carrillo, Noel

Lòpez Olguìn, Pablo Aurelio

Ruelas, Miguel Angel Lòpez

Velasco.

Sempre a Veracruz, la Procura

dello Stato, ha arrestato due

blogger accusati di “terrorismo e

sabotaggio”, pare volessero

“alterare l’ordine” attraverso

Twitter, il social network.

Il pretesto giusto per il

governatore Javier Duarte che ha

presentato un’iniziativa di legge

per riformare il Codice Penale e

creare il reato di “perturbazione

Page 38: n. 26 La Bella Politica

SOS per i giornalisti messicani

Casablanca pagina 38

dell’ordine pubblico”, che

permetterebbe di perseguitare

qualsiasi persona che faccia delle

affermazioni che il governo

consideri non convenienti. O che,

secondo il potere, metta in

pericolo la pace sociale.

La “Fiscalìa Especial para la

Atenciòn de Delitos Cometidos

contra la Libertad de Expresiòn”,

un ufficio governativo fatto

apposta per seguire i casi dei

giornalisti uccisi o minacciati, in

sei anni di esistenza ha avuto due

nomi diversi, quattro direttori

diversi e ha utilizzato solo il

quattro per centro del suo budget

previsto per poter prevenire il

pericolo verso i giornalisti che

denunciano delle minacce. Ad

oggi, ha rinviato a giudizio

soltanto ventisette operatori

dell’informazione con una sola

sentenza di condanna. Per alcuni

analisti questi sono i

sintomi non solo

dell’incompetenza ma

anche della complicità

dello Stato.

Insomma, un governo

inefficiente e aggressivo

i cui responsabili sono

l’esercito, la marina. Ogni polizia

municipale, statale e federale.

Loro sono indicati come i

colpevoli di sei su dieci abusi

contro i rappresentanti dei mass

media.

Invece, le aggressioni da parte di

soggetti che appartengono alla

criminalità organizzata rap-

presentano il 13,37 per cento.

Anche se la delinquenza organiz-

zata si attribuisce una di ogni sette

delle aggressioni nel Paese.

Un paradosso perverso!

In Messico la stampa subisce più

aggressioni da chi rappresenta il

potere dello Stato che dagli stessi

criminali, che dovrebbero essere

contrastati da chi il potere

gestisce. Il governo risulta,

quindi, un attore assente, oppure

un complice oltre che violento.

Difficile da capire e da accettare

però è così. I funzionari pubblici

in Messico sono, secondo questo

report, la principale fonte di

pericolo per i giornalisti, perché in

più della metà delle aggressioni

registrate sono coinvolti fun-

zionari della pubblica am-

ministrazione o delle forze di

sicurezza. Davanti a questa

violenza, i giornalisti cercano di

proteggersi togliendo la firma o

semplicemente conservando il

silenzio in tutto ciò che riguarda

la criminalità.

Tortura, morte e messaggi scritti

sugli striscioni dove si può

leggere: “Questo mi è accaduto

per dare informazione e scrivere

ciò che non si deve. Curate bene i

vostri testi prima di scrivere la

notizia”.

In Messico la stampa subisce più

aggressioni da chi rappresenta il

potere dello Stato che dagli stessi

criminali, che dovrebbero essere

contrastati da chi il potere gestisce.

Page 39: n. 26 La Bella Politica

SOS per i giornalisti messicani

Casablanca pagina 39

Giornalisti messicani uccisi quest’anno

DATA NOME TESTATA

6 gennaio Raúl Régulo Garza Quirino Collaboratore del settimanale

ULTIMA PALABRA a Cadereyta,

Nuevo Leòn. Ucciso dentro la sua

macchina.

28 aprile Regina Martínez Pérez Corrispondente del settimanale

PROCESO a Veracruz. Uccisa

dentro il suo appartamento.

3 maggio Gabriel Huge, Guillermo Luna

e Esteban Rodríguez

Fotografi dei giornali NOTIVER,

VERACRUZNEWS e DIARIO

AZ. Sono stati ritrovati morti con

segnali di torture in un fiume nella

città di Veracruz.

13 maggio René Orta Salgado Era giornalista di EL SOL DE

CUERNAVACA. Fu ritrovato

morto dentro la sua macchina

nello stato di Morelos.

18 maggio Marco Antonio Ávila García Lavorava per i giornali EL

REGIONAL DE SONORA e

DIARIO SONORA DE LA

TARDE. Fu rapito un giorno

prima di essere stato trovato

morto a Ciudad Obregòn, Sonora.

14 giugno Víctor Báez Era corrispondente del giornale

MILENIO, fu rapito e ucciso

nella città di Xalapa, Veracruz.

Cynthia Rodrìguez è una giornalista messicana che da sei anni vive in Italia. Fa la corrispondente per il

settimanale PROCESO, e alcuni giornali, fra cui EL UNIVERSAL ed EXCELSIOR.

Page 40: n. 26 La Bella Politica

Lancia sassi perché sogna la Libertà

Casablanca pagina 40

Kefah Lancia sassi perché

sogna la Libertà

Mara Bottini Bernaw

C’è stato un periodo in cui di apartheid si parlava. Ne abbiamo parlato. E per quei ragazzi

che lanciavano pietre contro i carri armati si provava tanta solidarietà. Forse anche tenerezza.

Rispondevano ad un esercito armato fino ai denti lanciandogli contro sassi. Nessuno più ne

parla, ma loro sono ancora lì, sventolano bandiere e lanciano pietre contro gli israeliani che

passano dal chekpoint. Oppure, attraverso Internet, denunciano lo stato di prigionia in cui

sono costretti a vivere, nei campi profughi. Kefan è uno di loro. Vive nel campo di Jenin. È

disperato perché senza lavoro e libertà. Vorrebbe morire.

Si chiama Kefah Esam. Ha 22

anni. È disperato.

Niente di strano, siamo in

Palestina. Qui i giovani devono

solo scegliere se morire sotto i

colpi di un drone israeliano, come

a Gaza; falcidiati da un mitra

israeliano, come in West Bank o

Cisgiordania, oppure vivere senza

lavoro e libertà, come in tutti i

Territori Occupati. Comunque, si

difendono. Loro, sono guerrieri.

Provano a reagire. Lanciando

sassi, sventolando bandiere. (Che

terroristi!). Radicati sul territorio,

stanno lì a presidiarlo da altre

invasioni. Oppure comunicando

su Internet. Tessendo contatti con

il mondo, denunciando lo stato di

prigionia in cui la violenza

dell’apartheid sionista li (de)tiene.

La loro ribellione.

Kefah vive e muore d’inedia nel

campo profughi di Jenin. La

famiglia è di Jaffa. Ma la città dei

suoi avi ora è diventata terra

d’Israele e Kefah non l’aveva mai

vista: ci è andato in visita il mese

scorso, giusto per dieci ore, il

tempo accordato dalle forze di

occupazione.

UN POPOLO SENZA STATO

Sono profughi. Si sa.

Secondo l’Agenzia delle Nazioni

Unite per il Soccorso e

l’Occupazione (UNRWA) “I

rifugiati palestinesi sono persone

il cui normale luogo di residenza

era la Palestina tra il giugno 1946

e il maggio 1948, che hanno perso

tanto le loro abitazioni quanto i

loro mezzi di sussistenza come

risultato della Guerra arabo-

israeliana del 1948”. Quello di

profugo palestinese è uno status

ereditario e così dai 700 degli

anni Cinquanta oggi sono oltre 5

milioni (fonte ONU).

I discendenti - come Kefah - degli

scacciati del 1948 prima e del

1967 dopo, sono sparsi nei 59

campi del Middle East.

Naturalmente uno dei nodi

fondamentali dei negoziati di pace

è sul diritto al ritorno dei

profughi. Che Israele nega

decisamente.

A 26 km da Nablus, il campo di

Jenin è tristemente famoso per un

altro eccidio, quello

che le forze di occupazione

d’Israele compirono in undici

giorni - dal due al diciannove

aprile - nel 2002. La fonte

israeliana parlò di 100, massimo

150 morti, per l’autorità

Page 41: n. 26 La Bella Politica

Lancia sassi perché sogna la Libertà

Casablanca pagina 41

palestinese si è trattato di oltre

500 cadaveri seppelliti in fosse

comuni.

Ancora oggi a distanza di tanti

anni Jenin Camp è un simbolo di

coraggio e resistenza.

“In quale altro modo possiamo

spiegare la resistenza di questo

piccolo campo profughi, lungo e

largo meno di un chilometro

quadrato, andata avanti per giorni

nonostante l’assalto di centinaia

di carri armati, elicotteri Apache,

e migliaia di assassini addestrati

che chiamano soldati?”. Si legge

su arabcomint.com.

Fondato nel 1953 come tendopoli

per ospitare migliaia di profughi

scacciati dalle varie aree della

Palestina invasa da Israele, il

Camp testimonia tenacia e

abnegazione. Il ricordo di questo

intervento militare senza

precedenti è ancora vivo, ma,

nessuna commissione d’inchiesta

nazionale o internazionale è stata

mai autorizzata per quella

tragedia.

Una sciagura raccontata e

ricostruita nel film Jenin Jenin di

Mohammed Bakri.

(http://www.youtube.com/watch?

v=ZE2-KfY25Xw).

Un film che appassiona, stringe il

cuore. Fa sentire impotenti. Non è

frutto di fantasia, è accaduto

realmente.

Dov’era il resto del mondo?

Dove eravamo tutti?

ORGOGLIO PALESTINESE

“Qui - spiega Kefah - tutti sono

orgogliosi di far parte del Campo,

è la sola terra che ci sia rimasta -

spiega - ma io sono stanco di

vivere senza libertà. Sono così

stanco che vorrei togliermi la vita.

Non vedo futuro e odio questa

condizione (costrizione, ndr)”.

La dignità di Kefah è immensa.

Parla del suo possibile suicidio

senza scomporsi: la morte è

talmente normale qui a Jenin

Camp che influenza la vita. E la

compromette. Tanto che a 22 anni

uno vuole uccidersi. Parlo con lui,

gli ricordo il motto palestinese

“Resist to exist”, “Resistere per

esistere”, gli dico che quella di

lottare per non morire è una dura

eredità del suo popolo ma è anche

la forza della sua gente e di questa

nazione senza Stato.

Ancora oggi la Palestina non è

riconosciuta dall’ONU e la

richiesta di riconoscimento,

reiterata quest’anno nel palazzo

delle Nazioni Unite dal Presidente

Abu Mazen, subisce -

invariabilmente - il veto di USA e

Israele.

“Dopo quello che ho vissuto, che

senso posso dare alla mia vita?” si

è chiesto qualcuno.

Ecco, il senso della sua vita Kefah

non riesce a trovarlo. Non si

capacita di non avere una vita

normale. Non pretende niente di

più di quello che hanno i suoi

coetanei nel vicino Israele.

Scuola, fognature, cibo, lavoro,

libertà di movimento. Sul suo

profilo di Facebook si sfoga con

tanto di firma. Kefah è un

nickname, presentarsi per nome e

cognome è troppo rischioso,

tuttavia sulla sua pagina fb ha

scritto: “Terrorist?! I’m a

terrorist?! How a terrorist and I

live in my country?! Terrorist?!

You are a terrorist! Eat me and I

live in my country!!!! Kefah”

(Terrorista? Io sono terrorista?

Come posso essere terrorista se

vivo nella mia Terra? Terrorista!

Tu sei terrorista! Mi mangi e io

vivo nella mia terra).

Paolo Pellegrin – classe 1964 – è un fotografo della Magnum. I suoi scatti in giro per il mondo

rappresentano una realtà mai cristallizzata. I suoi sono sguardi immobili e insieme dinamici. Fermi ed

espressivi, imponenti, silenziosi e assolutamente umani. Portfolio Palestine, è una raccolta fotografica

che da Gaza a Betlemme, dalle rive del Mar Morto fino a Gerusalemme, ritrae con espressività e

rispetto la condizione palestinese. Sono per lo più foto in bianco e nero: dell’aeroporto Yesser Arafat di

Gaza raso al suolo, del muro che corre lungo i confini israelo-palestinesi in West Bank, di un settler

israeliano armato, di bambini che giocano tra le rovine. Poi c’è questa immagine a colori: Two

Palestinian girls bathing in Ein Gedi, along the shores of the Dead Sea, 2009, courtesy © Paolo

Pellegrin/Magnum Photo/ Galerie Italienne Paris, dove ritrae la solitudine di un popolo in conflitto pur

raccontando un istante di contentezza. Il bagno delle due ragazze è liberatorio, struggente nel tramonto:

un attimo assoluto e intimo. Emoziona. Del resto, dall’Iran al Libano, dalla Cambogia al Kosovo fino

al Giappone o all’Indonesia devastati dallo Tsunami, Pellegrin testimonia le guerre, le calamità e la vita

con un’intensità straordinaria. Lavora per il Newsweek magazine, vive tra Roma e New York, ha vinto

numerosi premi, come il World Press Photo, e pubblicato una decina di libri.

Page 42: n. 26 La Bella Politica

Lancia sassi perché sogna la Libertà

Casablanca pagina 42

È chiaro, cerca un aiuto. Un aiuto

che io non posso dargli. Non

posso fargli la lettera d’invito per

venire in Italia: mio marito è di

Gaza, abbiamo da pensare alla

sua famiglia, ai tanti nostri

amici gazawi che come Kefah

sognano di lasciare la guerra.

Sembra crudele ma non c’è

alternativa. Ho parlato di Kefah,

potrei scrivere di Ahmed,

Naveed (lui è del Kashmir:

anche lì la situazione è

drammatica), Mohammed,

Usaym, Bassam, Amir, Omar.

Tutti chiedono aiuto, vorrei

aiutare tutti e non ho i fondi e le

energie. Soprattutto manca il

denaro. Magari chi legge ha

voglia di conoscere Kefah sul

social network

(https://www.facebook.com/kefah

.esam) e magari aiutarlo a crearsi

un futuro. Con un contributo

economico, o con una lettera

d’invito (indispensabile per la

richiesta di visto italiano). O

semplicemente, come me, con la

vicinanza virtuale. E non stupirti,

caro lettore, se a metà

conversazione Kefah ti saluterà

con uno sbarazzino see you: c’è

un chekpoint alle porte della città

di Jenin e Kefah, con i suoi

amici, si prepara a lanciare sassi

contro i tank israeliani.

Non stupirti. Lui sogna di

costruirsi un’esistenza diversa

fuori dalle sbarre del campo

profughi ma nel suo sangue, nel

DNA c’è e rimane la volontà,

l’imperativo, di resistere agli

oppressori d’Israele. Resistere è

tutto ciò che può fare, opporre

resistenza è il suo destino. Quella

resistenza che permette a lui e al

suo sfortunato popolo di

sopravvivere, nonostante tutto.

Salam alikom a tutti.

Page 43: n. 26 La Bella Politica

Una bella idea… giriamo in bicicletta!

Casablanca pagina 43

Come è delizioso

andar …

bicicletta Sindaco facciamo un giro in bicicletta?

Daniela Gambino

Il traffico di Palermo da molti palermitani e soprattutto dai forestieri è considerato una vera

e propria piaga. Tanto che Leoluca Orlando lo inserisce fra i punti programmatici della

campagna elettorale: incentivazione dell'uso delle piste ciclabili. Per adesso il neoeletto è alle

prese con mille urgenze, ma i promotori delle piste e gli amanti della bici attendono e nel

frattempo lo invitano ad una bellissima passeggiata in bicicletta. Sembrerebbe un argomento

ameno, ma per chi vive a Palermo non è così. Ecco perché nasce salvaiciclisti.it, un

movimento popolare che chiede città a misura di bici.

Il primo a dirlo è stato Benigni,

c’è quella battuta dell’avvocato

“zio” nel film Johnny Stecchino

ormai diventata un must “… È

nella terza di queste piaghe

che veramente diffama la

Sicilia e in patticolare

Palemmo agli occhi del

mondo... ehh... lei ha già

capito, è inutile che io glielo

dica... mi veggogno a dillo... è

il traffico! Troppe macchine! È

un traffico tentacolare,

vorticoso, che ci impedisce di

vivere e ci fa nemici famigghia

contro famigghia, troppe

macchine!”. Sappiamo qual è

la vera piaga, ma il trraffico,

detto così, con più erre, dove

lo metti? Un mio amico,

nordico, notò una sera che il

traffico di Palermo è sì,

rabbioso, invadente,

sconclusionato, però tutti

vanno piano, altrimenti non si

spiega come mai la maggior parte

della gente sopravviva a un

pomeriggio di ingorgo al centro,

riportandosi per intero a casa,

sebbene l’uso del casco, certe

volte, sia un optional. Ogni

tanto mi capita di incrociare,

nell’ordine, una carrozzella

di uno gnuri (così lo

chiamavano, anticamente, il

conducente, lo gnuri), un

ragazzino che cavalca un

Pony (ne ho visto sfilare

uno, al Borgo vecchio), un

altro ragazzetto in bici,

impegnato ad attraversare

una via intera a tutta velocità

su una sola ruota, 'mpinnari,

come dicono qui. Questo,

diciamolo, non è facile da

vedere al centro di Milano, o

di qualsiasi altra città, più

ordinata urbanisticamente,

italiana.

Ogni due per tre lo sento

dire: Palermo non è una città

Questo mio amore per la bicicletta

è una necessità lontana: ci andavo

a scuola, denunciava e soddisfaceva

il mio desiderio di indipendenza.

Page 44: n. 26 La Bella Politica

Una bella idea… giriamo in bicicletta!

Casablanca pagina 44

normale, lo status che deve

conseguire, più di ogni altra, è

appunto quello della normalità,

bisogna solo mettersi d’accordo

su quali siano i parametri di

questa supposta normalità. Che

sarebbe: niente pony, niente

impinnate, tutti col casco, niente

risalita spedita sui marciapiedi per

guadagnare qualche metro. Niente

battuta di Benigni. Certe volte una

si sente autorizzata a chiedersi

cosa spinga tanto i palermitani a

ridimensionare e rileggere il

codice della strada a loro uso e

consumo. C’è una spiegazione al

lavoro nero, all’arte di arrangiarsi,

ma alla rilettura del codice

stradale no. Spregio del pericolo?

Bisogno di andare velocemente

ovunque? (Al lavoro? Ma se c’è

un tasso di disoccupazione

altissimo?).

La verità è che i palermitani

amano l’auto, in maniera evidente

e spudorata, ci ho messo anni a

spiegare ad amici nordici che

l’idea di “facciamo una

passeggiata” palermitana è

mettiamoci in auto e

contempliamo a passo d’uomo il

lungomare di Mondello. Le

passeggiate si fanno coi passi, uno

dietro l’altro, o al massimo in

bicicletta, cioè usando il tuo

corpo, le tue gambe (o le

mani come abbiamo visto

fare a Zanardi in handbike)

per muoverti.

Questo mio amore per la

bicicletta è una necessità

lontana: ci andavo a scuola,

denunciava e soddisfaceva

il mio desiderio di

indipendenza. Lo so, perché

l’ho fatto. In bici puoi andare

ovunque, mantenendoti in

forma e senza inquinare. L’unica

cosa è che un ciclista tiene conto

del traffico, ma il traffico,

confessiamolo, non tiene conto

del ciclista (i pedalatori sono in

pericolo ovunque, per questo

nasce salvaiciclisti.it, un

movimento popolare che chiede

città a misura di bici). Adesso non

più, complice il prezzo della

benzina e le bici elettriche, ma

fino a qualche anno fa la tua

lentezza era presa quasi come

un’offesa. Palermo è perfetta per

essere percorsa in bicicletta, il

sole ti bacia per sei mesi all’anno.

Non ci sono salite, eccetto per

Monte Pellegrino, troppo

impegnative. Da qualche parte si

snodano piste ciclabili, invase da

auto e motorini, che finiscono nel

nulla, ogni tanto, senza preavviso,

che nessuno mantiene, che

basterebbe allungare, ripristinare,

considerare come piccole arterie

capaci di alleggerire il mostro

“traffico” che tiene in ostaggio

Palermo. Per questo, a un certo

punto, io l’ho chiesto persino al

Sindaco, il neoeletto Leoluca

Orlando (uno dei punti

programmatici della sua

campagna elettorale recita:

incentivazione dell’uso delle piste

ciclabili), per adesso alle prese

con mille urgenze, Gesip

in

testa. Questo l’invito: “Diego

Cammarata ignorò l’invito ma lei,

Leoluca Orlando! Ci viene con la

sua family a fare un giro in bici

con me per la città? Un

bell’itinerario turistico

monumentale, come fossimo

turisti che la vedono per la prima

volta, o un giro in centro,

proviamo a immaginarci i

palermitani che vogliono

rinunciare alla macchina, o le

mamme coi bimbi sul seggiolino

della ruota di dietro, o i precari,

gli ecologisti, gli studenti (di sede

e fuori sede), o semplicemente i

palermitani, con la bici, che

vogliono uscire e pedalare con

tutto questo sole o correre al

lavoro. Quando scenderà dal

sellino avrà le idee chiare come

non mai sulle piste ciclabili, sulla

circolazione del traffico, sulla

sicurezza stradale. Sarà

meraviglioso, sarà divertente.

Faremo risuonare il campanello

per tutti i vicoli! Lei queste cose

le sa fare. Poi le offro un caffè o

una granita per rinfrescarsi.

Oppure preferisce una brioche col

gelato?”. La missiva è stata

recapitata, vi terrò informati dei

risultati.

Page 45: n. 26 La Bella Politica

Diario della Pioggia di Gianni Allegra ©

Casablanca pagina 45

Page 46: n. 26 La Bella Politica

Il grande fratello … Gianni Lannes

Casablanca pagina 46

Il Grande Fratello

Di Gianni Lannes

Dalla Prefazione dell’editore (Draco Edizioni)

Io non sono nessuno, e continuerò ad esserlo, mi basta essere un

uomo. Figuriamoci poi come editore che rilievo posso avere,

paragonato a chi oggi, in Italia e nel mondo, domina il mercato

dell’informazione. Mi chiedo quindi perché devo essere io a

pubblicare questo libro di Gianni Lannes. Gianni è un bravo

giornalista, ha fatto inchieste importanti, ha rischiato, e rischia, la

vita, solo per aver tentato di affermare la verità su alcune cose che

gridano vendetta al cospetto di Dio. Perché nessuno in Italia si è

preso la briga di pubblicarlo? Le scuse addotte possono essere tante, ma le vere motivazioni sono sotto gli

occhi di tutti, in ogni momento. Questo mondo sta andando a rotoli, in primo luogo per colpa di ciascuno;

c’è troppo poco amore per la vita, per il pianeta e per il bene comune, ed è questa condizione limitata della

coscienza umana che rende possibile il fatto che ristrette oligarchie di esseri spietati, nel nome del proprio

interesse, spadroneggino sui popoli della Terra, imponendo condizioni inumane ad un mondo che potrebbe

essere un paradiso terrestre. Basterebbe fare della solidarietà il motore non dello sviluppo, mito tragico dei

nostri giorni, ma della vita, per trasformare il pianeta in pochi anni. Eppure dobbiamo sopportare che la

maggior parte delle ricchezze mondiali siano impiegate, direttamente o indirettamente, per distruggere la

vita, e per ‘portare la democrazia’ in paesi che, evidentemente, non devono per nulla avere il diritto di

autodeterminarsi.

Questi stormi di cavallette che dominano il mondo di sicuro non si preoccupano di che cosa sta succedendo

al pianeta più di quanto possa aver mangiato oggi un bambino che muore di fame. E venendo al nostro

contesto nazionale, che cosa cambia? Tragicamente niente, i governi che si susseguono si preoccupano solo

di partecipare al grande banchetto internazionale, per terminare il loro pasto ferale spolpando le ricchezze del

nostro meraviglioso paese. Direi che la cronaca di questi ultimi anni è stata particolarmente prodiga per chi

avesse mai voluto rendersi conto di come funzionano veramente le cose in Italia. Il problema è che ancora

troppi credono a quella che ormai possiamo definire la ridicola propaganda di regime, fatta di cretinate

televisive e di informazione falsa. I gruppi di potere che si esprimono anche attorno ai partiti sono al di là

delle etichette, stringono accordi, si dividono fette della nostra vita, calpestano la nostra dignità individuale e

la dignità di un popolo. E ormai quasi nulla sfugge al loro dominio, è per questo motivo che pubblico io il

libro di Gianni Lannes, Il Grande Fratello, perché rientro in quel quasi.

Ripeto, io non sono nessuno, e non voglio erigermi a pilastro morale, ma rivendico l’ordinarietà della dignità

umana, quella dignità di tutti quegli uomini semplici che hanno creduto e combattuto per un mondo

migliore, senza mai piegare la testa di fronte all’iniquità e alla prevaricazione. Difficilmente vedrete Gianni

in televisione, l’editore non ha i mezzi per pagare alle cricche dominanti quei bei passaggi televisivi che ti

fanno vendere tante copie in libreria. E non lo vedrete in quei bei salotti televisivi, composti e morigerati,

perché egli racconta delle semplici e scomode verità, che portano a galla la vera natura di questo edulcorato,

ed assassino, sistema, che mentre passa al telegiornale le immagini del piccolo di foca nato in cattività, fa

affondare nei nostri mari vecchie carrette sgangherate, cariche di scorie radioattive. C’è solo un modo per

uscire dalla situazione di degrado che stiamo pericolosamente vivendo: alziamoci in piedi, riprendiamoci la

nostra dignità, riprendiamoci la nostra bella nazione, riprendiamoci il pianeta, dalle mani grondanti di sangue

di chi si vende come paladino della pace e dello sviluppo e intanto schiaccia il pulsante che farà sganciare

una bomba su un villaggio in Afghanistan.

Se lo possono permettere perché ci stanno facendo il lavaggio del cervello, ma non ci deve essere più posto

per la menzogna; dai ragazzi, liberiamoci del Grande Fratello, insieme si può fare.

Page 47: n. 26 La Bella Politica

… è stata una bella musica siciliana

Casablanca pagina 47

Live to stay alive la Sicilia che si sente

Annalusi Rapicavoli

Sicilia: un applauso a tutti coloro che credono in questa terra tanto bella quanto difficile,

tanto affascinante quanto misteriosa nelle sue dinamiche di sviluppo e mancato sviluppo. Un

applauso a coloro che investono nella cultura, nelle arti, che si spendono per supportare i

corpi e gli spiriti di chi vuole sporcarsi le mani lealmente e far brillare questa terra di una

luce calda e accogliente che non sia solo quella del cocente sole di agosto.

L’estate è finita. Anche se ci sono

ancora giornate che dimostrano il

contrario. Tanta gente ancora

bivacca o fa i bagni a mare così

come faceva ad agosto, quando il

cuore dell’estate che pulsa, che

viaggia, che vibra, ha fatto vibrare

la Sicilia all’insegna della buona

musica.

La bella Trinacria dotata non di

due, ma di ben tre gambe

energiche e pronte a danzare e

saltellare per tutta la notte è stata

impegnata nella messa a punto di

tre grandi festival musicali ai

quali hanno preso parte gruppi

nazionali ed internazionali così da

ottenere un risultato soddisfacente

per ogni padiglione auricolare,

per ogni amante della musica,

dell’allegria, dell’atmosfera del

“festival”; ognuno con il suo

palco, le sue luci brillanti e

colorate, con le sue teste mobili

che seguono ogni volteggio, con i

suoi vj pronti a selezionare

immagini in accordo con il groove

di musicisti e dj che con la loro

arte animano il tutto!

A Palermo si è svolto lo storico

Ypsigrock di Castelbuono, giunto

alla sua XVI edizione, che ogni

anno garantisce uno spettacolo

musicale di altissima qualità nella

suggestiva location del Castello

dei Ventimiglia costruito sul colle

di S. Pietro d’Ypsigro, da cui

acquisisce il nome il festival. La

filosofia del festival è quella della

continua innovazione, della non

ripetitività, della sorpresa, della

ricerca. Vige per ciò la regola

detta la “ypsi once”, ossia nessun

artista potrà mai suonare due

volte ad ypsi con lo stesso

progetto.

A Noto per la seconda volta la

bianca val di Noto, città

patrimonio dell’UNESCO, si

rimbocca le sue barocche maniche

per ospitare il NOT.FEST

EDIZIONEZEROUNO, promet-

tente

festival

nato

dalla

volontà

del

direttore artistico dei Mercati

Generali di Catania e dal suo staff

operativo. Per quattro giorni i

Mercati Generali si spostano più a

sud con armi e bagagli per dare

vita a quel palcoscenico che verrà

calcato fino ad ogni alba dagli

artisti e dai ritmi più disparati.

Esplode Shantel & Bucovina Club

Orkestar con un coinvolgente

show in cui corde di chitarre, fiati

altisonanti e batteria scalpitante

diffondono la giocosa e

irresistibile musica balcanica; si

procede con la grinta di Fujia &

Miyagi che mettono in scena il

loro sound pensabile entro

sfumature indie-pop con accenti

funky-garage rubati

dall’underground newyorchese.

Altro astro del festival è Sòley

che, con la sua voce da sirena

ammaliante e le sue dita che

scorrono sui tasti della tastiera

come scarpette da punta ai piedi

di una prima ballerina, lascia il

pubblico a bocca aperta sotto

l’effetto dei suoi tenui e profondi

toni che si innalzano tra le luci del

Page 48: n. 26 La Bella Politica

… è stata una bella musica siciliana

Casablanca pagina 48

palco diventando un vero e

proprio rito di magia, una magia

che ti culla e ti avvolge.

Non manca lo spettacolo vero e

proprio quello fatto di costumi,

paillettes e lustrini, di drappi

svolazzanti, coreografie e coristi.

È Jessie Evans che caparbia e

audace calca il luminosissimo

palco del Not.Fest dando vita ad

una musica dai toni così vitali ed

esaltanti da cui nessuno può

essere esonerato, anche perché è

lei stessa a scendere in mezzo al

pubblico in visibilio così

felicemente costretto a farle da

corpo di ballo.

Ogni serata si conclude con live

set e dj set griffati Nikodemus,

Benji Boko, Daddy g, Apparat e

Miss Kittin che dall’alto della

consolle scatenano le masse loro

antistanti nella veste di veri e

propri leader della notte!

A Ragusa nella cava di Scicli

invece grande successo del Sicily

Music Village, un vero e proprio

villaggio munito di aree per

campeggiare così da poter

risiedere in loco e avere la

possibilità di godere della

“foltissima” line up messa a punto

per il festival. Musica nei piedi,

tra le mani e nelle orecchie H:24

tra dj set, live set e i veri e proprio

concerti live. Il Sicily ha scelto

una cava proprio perché si

preparava a fare rumore con la

presenza di Alborosie,

Dirtyphonics, Barrington Levy,

Aphrodite.

Le coste della bella Trinacria

hanno dunque offerto oltre che un

meraviglioso scenario

naturalistico, oltre alle sue

bianche o nere spiagge, oltre alle

sue alture verdi e refrigeranti

nelle quali fare lunghe

passeggiate rigeneranti, oltre alle

sue città ricche di cultura,

folclore, storia e vita, hanno

offerto anche un ricchissimo

scenario musicale conferendo

estrema importanza ai concerti

live, a quei live che permettono di

restare “alive”, che danno la

possibilità dell’interazione, della

comunicazione,

dell’improvvisazione. Quei live

che ci sarà un motivo se si

chiamano “live”, che portano in

scena l’amore e la passione di chi

la musica la crea, di chi lo

spettacolo lo inventa volta per

volta con il rinnovato intento di

“dare e darsi” al pubblico, di

rilasciare insieme alle note

qualcosa di sé, di far scoppiare

alte e basse frequenze che urlano

che la musica è vita e che in ogni

cosa risuona il ritmo della vita!!!

Niente in contrario per i djset che

ci fanno ballare e ancheggiare

fino allo sfinimento, che ci

immettono in un turbinio di

vibrazioni cangianti e salti

sorprendenti nell’attesa del

mixaggio più entusiasmante e

meglio eseguito, e per favore

niente cavalloni, così come il

gergo indica un cattivo passaggio

da un pezzo all’altro, quelli li

preferiamo al mare!!

Morale della favola, le colonne

sonore sono le colonne portanti di

ogni trama, e quelle tessute dalla

Sicilia per rendere piacevole

questa calda estate sono state tutte

una colonna sonora da applauso.

Page 49: n. 26 La Bella Politica

…Lettere

Casablanca pagina 49

Lettere

LETTERA APERTA ALLA COMPAGNA CAMUSSO

Cara compagna, ho appreso, nel corso di una riunione alla CGIL, che saresti presto venuta,

domenica 14 ottobre all’Hotel Excelsior.

Soltanto per un momento ho collegato l’evento alla drammatica crisi del lavoro che domina le nostre comunità

ed alla necessità di preparare la manifestazione del 20, premessa, forse, di uno sciopero generale. Un’azione di

lotta molte volte promessa, deliberata, minacciata e sempre rinviata in ossequio alla politica di unità nazionale

che, Monti duce, il PD persegue ed impone.

Una grave ingenuità la mia. Si tratta soltanto di una manifestazione elettorale di sostegno alla Segretaria

Generale della CGIL Sicilia ed al suo candidato presidente Rosario Crocetta; ammetterai che si tratta di una

scelta pesante, alcuni dicono sconcertante. Certo, nel tempo non sono mancate iniziative simili. Basterà

ricordare, alle ultime amministrative, il tonfo della segretaria di Agrigento e, prima ancora, di Italo Tripi. Non

sappiamo se analoga sorte colpirà Mariella Maggio. Il problema vero è che è in atto da anni, in forma pubblica

o sotterranea, la tendenza a trasformare la CGIL in un comitato elettorale del PD e che questa tendenza è tanto

più grande quanto minore è l’insediamento sociale delle due organizzazioni. Ricordiamo l’esito infelice di

Faraone a Palermo nonostante il visibile appoggio della SLC. Un caso di familismo sindacale che articola la più

vasta categoria del familismo amorale.

Ora il problema è questo: posto che la CGIL ha dichiarato l’incompatibilità tra cariche sindacali e mandato

elettorale, e conseguentemente l’indisponibilità delle strutture nella competizione, cosa deve intendersi per

struttura? La/il Segretaria/o è una struttura.

È naturalmente del tutto legittimo che la compagna Camusso si batta per le sue idee ma è del tutto inopportuno

che entri così pesantemente in campo. Il problema è ulteriormente complicato dalla natura della coalizione che

viene a sostenere e che è in assoluta continuità con la devastante esperienza Lombardo e dalla manifesta

volontà, al di là della concorrenza elettorale, di ricongiungersi, nel governo, delle due frazioni in cui si sono

divisi i lombardiani: Crocetta e Miccichè.

E che di unità, sotto l'egida della Confindustria Sicilia, si tratti è mostrato dal reciproco riferimento alla

manifestazione interclassista, di unità sicilianista, del 1° marzo, unica originale iniziativa del sindacato

siciliano.

Che l’esperienza Lombardo sia stata disastrosa ci è stato detto chiaramente dalla Corte dei Conti, dalla UE, da

tutti. È facile, è ragionevole, chiunque lo capisce, ma è una semplicità che è difficile da fare. Così è stato per il

PD siciliano che, dopo lacerazioni interne, ha minacciato, a dimissioni di Lombardo già annunziate, una

mozione di sfiducia ma non ha avuto il coraggio di presentarla. Come diceva don Abbondio, non c’è nulla da

fare: se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare:

È stato difficile trovare nella CGIL siciliana qualcuno che abbia dato un giudizio positivo su Lombardo.

Mariella Maggio ha sempre dosato i suoi commenti, spesso analiticamente acuti, ma non ha mai mosso un

muscolo per interrompere quell’esperienza. Solo tu, in un’intervista alla “Sicilia”, quando già incombeva sul

Presidente l’inchiesta Iblis, hai dato una valutazione moderatamente ottimista: Avevamo sorvolato pensando

“viene dal continente, non sa di che cosa parla, cu sapi chi ci ’ncucchiaru”.

Ora comunque, se Crocetta ti sta bene, bene!

Ognuno porta su di sé la croce delle proprie responsabilità.

Ma se non possiamo convenire su questo giudizio, almeno possiamo condividere valutazioni, diciamo, di natura

estetica: Crocetta è impresentabile.

Nelle sue lunghe dichiarazioni alla stampa, nelle decine e decine di pagine a pagamento sui quotidiani e

settimanali, il suo è un linguaggio violento verso gli avversari, o, più semplicemente, verso quelli che non

condividono il suo percorso.

A questi spettano o gli appellativi di checche isteriche o di terroristi (Renato Curcio sarebbe l’unico più a

sinistra di lui).

Naturalmente, verso le donne, il tono è più leggero. Così Giovanna Marano è soltanto “scema” e comunque si

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…Lettere

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può sanare la gaffe inviandole un cesto di rose. Il peggiore maschilismo siculo. Ci saremmo aspettati da te, da

Mariella Maggio, un sia pur timido distinguo. Ad una prestigiosa dirigente sindacale, così come ad ogni

compagna/o è dovuta quella solidarietà che costituisce il filo che dovrebbe unirci nella CGIL. Al di là del

vincolo associativo avrebbe dovuto muoverti quella forte solidarietà di genere che pure, con forza, e più volte,

hai evocato anche in occasione dello SNOQ.

Per questo non verrò ad ascoltarti. Raccoglierò firme per i referendum 8x18 che tu così irragionevolmente

osteggi.

Con immenso rammarico

Un vecchio compagno della CGIL

Gabriele Centineo

UNA TORTA ROSSO FIOM

Lettera di Antonio Di Luca pubblicata su fb il giorno del suo compleanno e della vittoria Fiom

19 ottobre 2012

Oggi non è solo il compleanno di un semplice operaio da oltre quattro anni in cassa integrazione forzata che

festeggia mestamente con la moglie e i suoi tre figli, dove l’ultimo, Marco di appena quattro anni ha voluto

fortemente fare una torta insieme alla mamma di colore rosso FIOM - giuro che sono state le sue parole - ma è

la giornata in cui una nuova sentenza della Corte di Appello di Roma ha condannato nuovamente la Fiat. Dopo

le sentenza di settembre 2011, di giugno 2012 e agosto 2012 a Pomigliano dunque Marchionne non è passato.

Non è passata la sua strategia di cancellare, insieme ai diritti, il rispetto delle leggi, la dignità del lavoro.

Con la forza della ragione, dell’etica e del cuore, la FIOM ha vinto.

La lotta di resistenza della FIOM credo abbia pochi precedenti nella storia del movimento operaio italiano. Ora,

questa lotta vissuta per lunghi mesi nell’isolamento più assoluto, è diventata un simbolo di resistenza per tutti.

Un simbolo di libertà che ora più che mai deve interrogare l’intero paese. Anche quel mondo della cultura che

non si era accorto che attraverso un accordo farsa, piani fatti e disfatti con disinvoltura dal management, non

solo si voleva affermare un sistema di relazioni industriali autoritario, ma in realtà s’intendeva mutare i caratteri

culturali, democratici, civili e sociali dell’intera comunità nazionale.

Ecco perché questa sentenza avviata da 19 coraggiosi operai, tra cui chi vi scrive, riguarda tutti, e spero faccia

riflettere ancora una volta tutte quelle forze democratiche, che le discriminazioni sono la forma più odiosa che

possa esistere in un paese che ama definirsi civile ed europeo.

Un grazie a tutti per gli auguri e per l’affetto. Vorrei abbracciarvi una/o ad una/o e portare con me in fabbrica a

testa alta tutte le compagne e i compagni ancora esclusi, compresi quelli che non hanno avuto la forza di

combattere, oppure chi, nella paura, viveva in solitudine il suo dramma.

Tutti in fabbrica entro Natale, per regalarci finalmente dopo anni di tristi festività un ri-scatto di dignità e forza

contro chi ci vuole in contrapposizione, deboli e ricattabili.

LETTERA APERTA A SUSANNA CAMUSSO

pubblicata su facebook da Pietro Milazzo il giorno Venerdì 12 ottobre 2012 alle ore 12.58

Cara Susanna,

sono PIETRO MILAZZO, un dirigente della CGIL siciliana e coordinatore regionale dell’area LAVORO e

SOCIETÀ, l’area che, come Tu sai perfettamente, governa assieme alla sensibilità maggioritaria che Tu

rappresenti, la CGIL nazionale.

Ti scrivo questa lettera, usando una forma inusuale, come questa nota su un social network, perché voglio

ESTERNARTI PUBBLICAMENTE e PERSONALMENTE, senza limitarmi al mugugno nelle stanze della

CGIL o a documenti per linee interne, il mio DISAGIO ed il mio DISSENSO per la Tua scelta di scendere in

campo personalmente, partecipando a iniziative elettorali, a Palermo e Catania, in sostegno alla candidatura

della nostra ex segretaria regionale Mariella Maggio, presente nel listino ed in una delle liste del candidato

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…Lettere

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presidente Crocetta.

Ovviamente nessuno contesta il Tuo diritto di cittadina e di elettrice di sostenere chi vuoi, ma reputo che ci

siano alcune questioni di opportunità e di metodo che devono essere assolutamente prese in considerazione e

che non sono state sufficientemente considerate.

L’art. 2 dello Statuto della CGIL, quello che regola ed elenca i principi fondamentali, recita: “La Cgil è un

sindacato di natura programmatica ed è un’organizzazione unitaria e democratica che considera la propria unità

e la democrazia come propri caratteri fondanti. La stessa autonomia della CGIL, anch’essa valore primario,

trova il suo fondamento nella capacità di elaborazione programmatica in primo luogo nei confronti dei datori di

lavoro, delle istituzioni e dei PARTITI e nel carattere unitario e democratico delle sue regole di vita interna”.

Dunque i valori primari per la CGIL sono l’autonomia, anche da istituzioni e partiti (o coalizioni di partiti),

l’unità, la democrazia regolata dalle regole interne.

Il nostro compito primario, come dirigenti della CGIL che rispettano la nostra carta costituzionale, lo Statuto, è

di operare per l’unità e l’autonomia, in tutela della natura e della storia della nostra organizzazione, ma non

solo.

La CGIL è un’organizzazione sociale, un corpo sociale complesso, il più grande d’Italia, nel quale convivono

sensibilità ed opzioni politiche diversissime, ma tutte ispirate alla lunga, travagliata, frastagliata, storia del

movimento dei lavoratori e delle forze politiche che ad essa si sono ispirati o che da esso sono scaturite. La Cgil

rimane l’unico laboratorio politico

UNITARIO presente in Italia dove continuano a convivere con un difficile, complesso ma utile dibattito interno

tutte le sensibilità principali presenti sul terreno della sinistra politica. Tutto ciò rappresenta un valore aggiunto

fondamentale che è decisivo per tutti tutelare.

Tu sai, perfettamente, Susanna che in Sicilia l’area progressista, le cui componenti sono presenti in CGIL, sono

divise e concorrenti... come le CANDIDATURE, in contemporanea, di GIOVANNA MARANO, ex segretaria

regionale della FIOM CGIL SICILIA e di MARIELLA MAGGIO, ex segretaria generale CGIL SICILIA,

attestano in modo eclatante.

Credo, compagna SUSANNA, che Tu, in un contesto così DELICATO e DIFFICILE, nel Tuo ruolo di

SEGRETARIA GENERALE nazionale, quindi non una dirigente qualunque, ma di titolare del massimo grado

di rappresentanza politica della nostra organizzazione, AVRESTI DOVUTO ASTENERTI da scendere in

campo, legittimando una candidatura, rispetto ad un’altra. TU DEVI ESSERE e RESTARE la MASSIMA

GARANTE di questa UNITÀ, nella diversità e nel pluralismo delle idee e delle tesi politiche e partitiche, tanto

più che ci stiamo avviando, sotto la spinta delle ignobili e vergognose conferme del grado di corruzione e di

marciume che è presente a tutti i livelli, ad una nuova fase di transizione che vedrà nelle prossime elezioni

politiche nazionali, un momento importantissimo. La CGIL che si avvia ad entrare con la sua Conferenza di

programma, dopo le elezioni politiche, nella sua fase precongressuale deve essere in grado d’orientarsi e di

orientare il mondo che rappresenta, in modo preciso e rigoroso, in questa fase delicatissima.

Lo statuto ci indica una strada ed un compito precipuo: quello di elaborazione programmatica e confronto

autonomo, terzo, con i soggetti datoriali, istituzionali e partitici. La nostra azione si svolge su quel livello non

su quello dello schierarsi e scendere direttamente in campo. Questo è il compito che la fase ci impone, e ciò

deve valere per TUTTE/I ed a tutti i livelli.

Con rispetto per il Tuo ruolo ed il Tuo lavoro, ma anche con la fermezza di un militante che difende con

accanimento il ruolo del nostro sindacato, la nostra casa comune.

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