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FANHS N. 0 Rivista di cultura e religiosità pagana. Rivista elettronica mensile “Phanes”, num. 0, Luglio 2011, Roma. Tutti i diritti riservati al sito www.phanes.jimdo.it, Roma 22 Agosto 2011. Personaggio del Mese: Mary Teresa Cullen I CELTI E L’OLTRETOMBA BRIGHIT LE CLASSI DRUIDICHE IL CULTO DI MITRA ELIOGABALO DEFIXIONES W.B.Yeats Inno a Nettuno Le Odae Adespotae L’ Inno a Venere di Marullo L Obelisco di Antinoo La Genealogia di Bride Surya Kildare Roqueper- tuse Elagaba- lium

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FANHS

N. 0

Rivista di cultura e religiosità pagana.

Rivista elettronica mensile “Phanes”, num. 0, Luglio 2011, Roma.

Tutti i diritti riservati al sito www.phanes.jimdo.it, Roma 22 Agosto 2011.

Personaggio del Mese:

Mary Teresa Cullen

I CELTI E L’OLTRETOMBA

BRIGHIT

LE CLASSI DRUIDICHE

IL CULTO DI MITRA

ELIOGABALO

DEFIXIONES

W.B.Yeats

Inno a Nettuno

Le Odae Adespotae

L’ Inno a Venere di Marullo

L Obelisco di Antinoo

La Genealogia di Bride

Surya

Kildare

Roqueper-tuse

Elagaba-lium

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PHANES rivista di cultura e religiosità pagana

rivista mensile elettronica

Redazione:

Caporedattore

Jonathan Righi. [J.R.]

Redattore

Lorenzo Abbate. [L.A.]

Contributi

Giovanni Rinaldi. [G.R.]

Alessandra Greco. [A.G.]

Recapiti

www.phanes.jimdo.com

[email protected]

Tutti i diritti sono riservati agli autori dei singoli contributi ed al sito www.phanes.jimdo.com. Ogni violazione del copyright e dei diritti di riproduzione saranno perseguiti a norma di legge. La riproduzione è vietata, anche se parziale, se non previo accordo con il sito, che si occuperà di contattare gli aventi diritto.

Roma 22. Agosto 2011.

Phanes n.1

Tutti i diritti riservati a www.phanes.jimdo.com

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Editoriale Tutti i diritti riservati a www.phanes.jimdo.com

Phanes n.1

Con questo numero comincia definitivamente la nostra avventura in questo cammino che definirei “gargantuesco”; molti sono stati coloro che hanno scaricato il numero 0 della rivista, ed ancora di più coloro che hanno seguito il sito. Apro questo editoriale ringraziando a nome di tutta la redazione le persone che ci sono state accanto e che ci hanno supportato. Per quest’uscita si sono aggiunti a noi anche Giovanni Rinaldi ed Alessandra Greco, due ragazzi che hanno contribuito brillantemente con i due articoli che leggerete, e con vari spunti interessantissimi riguardo grafica e organizzazione dei temi a lungo termine. Ci hanno dimostrato che, anche se ancora non largamente, lo spirito autentico sul quale si basa questa pubblicazione, è stato percepito: collaborazione, condivisione e raffinazione interscambievole. E proprio spronati da questa collaborazione fruttuosa rinnoviamo il nostro invito a voler partecipare attivamente a questo progetto; per permettere che non risulti una speculazione fra due, e per sottolineare punti di vista e fonti sempre diversi fra loro.

Il personaggio al quale abbiamo deciso di dedicarci è Mary Teresa Cullen, della quale avrete modo di leggere poi, ed in effetti in tempi come i nostri, nei quali il confronto fra antiche e preponderanti tradizioni si fa sempre più necessario e scoperto, quale miglior Personaggio da prendere in considerazione. Come osserverete, abbiamo cercato di mantenere dei nessi tematici con la precedente uscita, approfondendo o ricollegandoci ad argomenti già trattati. Ed ora passiamo alle ammende: come avrete notato, è passato un po’ più di un mese dalla pubblicazione del n.0; ebbene perdonateci, fino all’altro ieri eravamo solo in due a spartirci tutti gli articoli; ed organizzare, impaginare, e correggere diventa un bell’impegno, tuttavia persisteremo, non abbiate dubbi. Detto ciò, vi lasciamo alla lettura, augurandoci che ci sosterrete e che alcuni di voi decidano di passare da lettori a scrittori; sul nostro sito potrete tenere d’occhio gli aggiornamenti, e sul gruppo facebook o via e-mail discutere degli argomenti qui presentati. Anche se in ritardo, speriamo abbiate vissuto a pieno e il più serenamente possibile la festa di Lughnasad. Al prossimo mese, in trepidante attesa della collaborazione di Massimiliano Caretto.

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Pagina 1 Phanes n.1

INDICE:

Mary Cullen 2 La fiamma che unì due culture?

I Celti e l’Oltretomba 6

La simbiosi fra morti e vivi.

Le Classi druidiche 11

Brighit 14

Da Dea a Santa.

Il Culto di Mitra 18

Eliogabalo 24

Il monoteismo solare a Roma.

Maledizioni greche 28

Defixiones graece.

L’Inno a Nettuno di G. Leopardi 34

W. B. Yeats 39

Le Odae Adespotae di G. Leopardi 43

La genealogia di Bride 46

Antica supplica a Bride la raggiante.

Surya 47

Il Sole Indiano.

L’Inno a Venere di Marullo 48

Kildare 53

La chiesetta della quercia.

Eliogabalion 55

Il portale di Roquepertuse 56

L’obelisco di Antinoo al Pincio 58

Recensioni 61

Bibliografia generale 62

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Questa storia, che mi è particolarmente cara, a s s u m e m o l t e p l i c i sfaccettature, e sfumature, ognuna delle quali ci porta a profonde speculazioni riguardo agli antichi culti ed alla Tradizione dei nostri Avi. In Irlanda, fino a che memoria e testi ci assistono, è sempre stata presente e forte la venerazione della divinità femminile Brighit. Questa, come avremo modo di vedere in diversi articoli in questa rivista(1), aveva come luogo di culto principale, la città di Kildare, ed in particolare possedeva un tempio adiacente ad una quercia, sulla cima di una collina. In questo tempio bruciava la sua fiamma, che era attentamente accudita da diciannove sacerdotesse, e che assumeva un ruolo fondamentale durante i festeggiamenti di Imbolc, il 18 Marzo(2). La vita di questo fuoco rimase lunga per svariati secoli, sino a che, con l’arrivo del Cristianesimo in

Irlanda, g l i ordini sacerdotali dell’antico p a g a n e s i m o f u r o n o sostituiti da quelli cattolici: diciannove suore presero il posto delle diciannove sacerdotesse, e nel paese iniziò una lenta opera di “sostituzione coatta”, più elegantemente c h i a m a t a “sincretizzazione”. Non avendo modo di scalzare e cancellare la memoria e

l’importanza della Dea fra le menti della popolazione, fu necessario organizzarsi altrimenti, trasformandola in Santa Brigida. Venne stilata la sua storia, narrate le sue gesta e sottolineate la sua grandezza ed il suo potere; niente di nuovo viene da pensare, eppure queste operazioni assunsero una portata gigantesca, S. Brigida venne acclamata Maria dei Gael, Madre adottiva di Cristo, ed assunse un ruolo fondamentale nella teologia cristiana. Chiese sempre più grandi e ricche sostituirono le prime costruzioni

MARY CULLEN La fiamma che unì due culture?

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rudimentali, man a mano che la fama della Santa cresceva, sino a che il suo prestigio non divenne pari solo a quello di S. Patrizio. Suore diverse si successero nella custodia del fuoco sacro, tuttavia, durante il XVI sec., per ordine di Enrico XIII, la fiamma fu estinta e l’ordine sciolto. Tutto rimase sopito fino al 1807, quando Daniel Delany, Vescovo di Kildare, iniziò la ricostituzione dell’Ordine delle brigidine, ed ancora tuttavia nessuna luce illuminava le arcate dell’ormai Cattedrale di Kildare. Qui la nostra storia si rovescia: nel 1993, durante una conferenza intitolata “Brighid, profetessa, agricoltrice, rappacificatrice.”, Mary Teresa Cullen allora capo dell’Ordine di S. Brigida, riaccese la sacra fiamma nella Market Square. Il fuoco fu portato nelle abitazioni delle suore, e nel 1 Febbraio del 2006 fu ricondotto nella sua precedente sede, a Market Square. Il Kildare County Council commissionò un monumento che permettesse il mantenimento della fiamma senza spiacevoli incidenti: questo era costituito da una colonna principale in foggia di rami attorcigliati, con in cima foglie di quercia ed una base di ghianda rovesciata, nella quale fu apposto il fuoco. Il simbolismo del monumento guarda ad un riconoscimento dell’antica tradizione pagana, per la quale l’albero della quercia chiamato duir (si noti la somiglianza con la parola Druido), aveva importanza fondamentale. Tutt’oggi il fuoco rimane

custodito da due suore, e divampa vivo. Molte domande sorgono, alcune dettate dall’amore e dal rispetto di un cammino spirituale che si cerca di mantenere “puro” e “tradizionale”; altre dovute all’estrema volontà di far sopravvivere ancor oggi quegli antichi culti. Era in diritto Mary Cullen, di riaccendere quel sacro fuoco che un tempo splendeva per la Madre della Poesia, e non per un suo surrogato sbiadito? È la stessa fiamma ancora oggi venerabile come potere manifesto di Brighit? Quanto “spirito di convenienza” piuttosto che “puro sentire” si cela dietro il gesto del 1993? Questo gesto straordinario si riempie di pericolosi fantasmi troppo spesso sottovalutati, eppure spesso considerati pregiudizievolmente. Ad ognuno di noi rimane il personale giudizio, su tale faccenda, personalmente, non ritenendo sacerdotesse delle suore, non ritenendo S. Brigida una Dea, e non accettando una cattedrale come luogo di culto per una Dea pagana…il resto vien da sé. [J.R.]

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NOTE:

1. si vedano gli articoli: “Brighit” p.14 e sgg.; e l’articolo “Kildare” p.53 e sgg.

2. si veda l’articolo “I Celti e l’Astronomia” in Phanes n.0 p.12 e sgg.

Immagini:

p.2, dall’alto verso il basso: testa bronzea di Brighid; immagine di S Brigida affiancata da una lampada con fiamma e da un tronco di quercia.

p.3, Mary Cullen durante l’accensione del fuoco.

p.4, statua di S. Bridiga a Kildare.

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A cura di Jonathan Righi

SEZIONE CELTICA

I CELTI E L’OLTRETOMBA

LE CLASSI DRUIDICHE

BRIGHIT

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Cesare prima, e molti altri poi; hanno posto p a r t i c o l a r e a t t e n z i o n e riguardo alla c o n c e z i o n e c e l t i c a dell’Oltretomba. Le evidenze che c i p o s s o n o a i u t a r e a sintetizzare il loro pensiero provengono dalle fonti letterarie, dai ritrovamenti archeologici, e dai racconti mitologici tramandati oralmente. È inoltre importante premettere che i reperti archeologici qui evidenziati, come tombe e sepolture, sono da considerarsi relativamente al rango dell’individuo seppellito. Sin dall’inizio del I millennio a.C., le tombe dell’elite guerriera hanno assunto due funzioni fondamentali: dimostrare lo sfarzo del defunto, e fornire i giusti strumenti e sostentamenti per l’”oltrevita” dello stesso(1). Lucano ci aiuta a fare luce su come i Celti considerassero la morte, ossia come una pausa fra una vita ed un’altra: durante questa pausa l’anima avrebbe continuato a controllare lo stesso corpo, seppure in un altro “mondo” o “dimensione”. Diodoro Siculo è dello

stesso avviso: a morte avvenuta, lo spirito del defunto avrebbe atteso diversi anni prima di entrare in un corpo diverso ed iniziare una nuova esistenza terrena. Di qui torna facile r i cordare i

presunti contatti fra Druidi e Pitagorici, ed è proprio la teoria della Trasmigrazione delle anime a fungere da collegamento. Un altro sguardo per comprendere l’argomento deve essere dato alle tradizioni tramandate oralmente: concezioni di una ciclicità ininterrotta fra vita e morte si hanno leggendo i passi riguardanti Manannan (Dio del Mare nella letteratura irlandese), egli è chiamato “Signore della Terra Promessa”, ed è associato con i poteri della rinascita. L’Oltretomba irlandese è quantomeno felice e sereno per il defunto: privo di vecchiaia, malattie e sofferenza, inoltre è considerato come un posto realmente presente per le popolazioni celtiche, infatti un gran numero di eroi, fra cui Conla e Bran, riescono a visitarlo pur essendo ancora in vita. Altra tradizione

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I CELTI E L’OLTRETOMBA La simbiosi fra vivi e morti.

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interessante collegabile all’argomento è la festa di Samhain, nella quale i defunti hanno la possibilità di tornare per una notte fra i vivi, condividendo con loro quest’unico pasto annuale. Consideriamo ora come venivano seppelliti i morti: nella prima Età del Ferro il metodo più diffuso era la cremazione, dal II millennio a. C. invece si è iniziato ad utilizzare l’inumazione in particolar modo dall’età di Halstatt. La credenza in un Oltretomba inteso come continuazione della vita terrena è chiara quando lo status del vivente viene riproposto nella sepoltura. Le sepolture più ricche sono costituite principalmente da una camera rivestita contenente il cadavere, un carro a quattro ruote e una spada di ferro. Vediamo nel

particolare l’Hohmichele Barrow, risalente al VI sec. a. C. nelle vicinanze del Danubio: la camera funebre principale

conteneva due sottocamere in legno, la prima contenente una donna ed un carro da guerra; la seconda con un uomo fornito di un carro e di una imbracatura poggiati su una pelle di toro, oltre questo c’erano anche una faretra, due muli e 50 frecce a punta di ferro, ed ancora sete di fattura cinese. Lo sfarzo legato alla sepoltura dell’uomo è innegabile, e contempla sia il

suo status sociale che tutto l’occorrente che sarebbe servito alla sua anima per poter continuare coerentemente la sua

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permanenza nell’Oltretomba. Altro sito funebre fondamentale è quello di Býčí Skála, nella repubblica Ceca: in questo sono state trovate pire funebri, carri rituali, una nave di legno, infine grano e animali offerti in dono alle potenze ctonie. I defunti qui rinvenuti sono particolarmente interessanti: diversi scheletri femminili sono stati seppelliti, ma il dato interessante è un altro, infatti questi scheletri erano privi di testa, mani e piedi, e circondati da due carcasse di cavalli smembrati in quarti. Altro oggetto scoperto nella sepoltura è un calderone di bronzo contenente due teschi uno dei quali con apparente funzione di coppa. Questo è un esempio interessantissimo che tuttavia manca di alcuni oggetti imprescindibili per comprendere al meglio la visione celtica dell’oltrevita. Il Belgio ci soccorre prontamente donandoci tombe di epoca pre-Romana di simil struttura a quelle precedentemente viste: queste contengono ceramiche, anfore per il vino, spille, specchi, pugnali, lame, teste di maiale e calderoni muniti di tripode e catena. Ora finalmente il collegamento con un benessere nel post-vita risulta chiarissimo: ricordiamo che questa visione rimarrà fondata ben oltre la conquista romana. Questo perché Celti e Romani avevano numerosi punti di contatto nella concezione dell ’Oltretomba: la sopravvivenza dell’anima dopo la morte, la presenza di spiriti nelle vicinanze dei luoghi di sepoltura, e le offerte di vino e cibo a questi defunti. Un altro luogo di sepoltura peculiare si trova a Lonkhills nel Winchester, è un sito con tombe

particolarmente complesse e difficilmente interpretabili: gli scheletri di sette uomini e donne sono stati ritrovati decapitati e con la testa posta fra le gambe. Il processo della decapitazione era effettuato meticolosamente, da davanti con un pugnale, alcuni ritengono che si trattasse di un rito per impedire all’anima del defunto di stazionare nelle vicinanze della tomba permettendo così che si dirigesse direttamente nell’Oltretomba. Abbiamo visto che assieme al defunto venivano seppelliti animali ed oggetti di culto(2), fattore che conferma senza dubbio l’usanza di una sorta di “corredo” necessario dopo la morte. Per avere maggiore certezza riguardo a queste teorie è di indubbia importanza analizzare le “pits”, le buche rituali; queste erano riempite con grano, manifatture metalliche, simulacri di divinità, animali (fra cui cani), alberi come cipressi, ed altro, tutto atto palesemente a creare un collegamento fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Viene logico ora andare a conoscere quali fossero le divinità alle

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quali queste offerte erano dedicate: rimane semplice ricostruire i loro nomi e descrivere le loro aree di appartenenza, tuttavia più ostico è delineare l’atteggiamento che i Celti avevano nei loro confronti. Innanzitutto premettiamo che non erano solo esseri divini ad essere cultuati in relazione all’Oltretomba: infatti in Val Camonica pitture rurali dimostrano come persino gli stessi spiriti dei defunti fossero venerati. Nelle pitture della tarda Età del Bronzo il morto è raffigurato con a fianco le armi, un sacerdote, i parenti ed un sacrificio. I testi vernacolari ci parlano di Donn, il Dio

dell’Oltretomba dalla cui stirpe discendono gli uomini; mentre Cesare(3) afferma che alcuni Celti sostengono di appartenere alla discendenza del Dio Dis Pater(4). Rintracciare questa divinità nei reperti non è facile, ma per fortuna siamo a conoscenza che due iscrizioni, una nel Sud della Germania ed una nei Balcani, recano una dedica a Dis Pater ed Aericura (Ecuba). Un’altra divinità che assume chiari connotati ctonii è Sucellus, che in questo aspetto è raffigurato affiancato da un corvo ed un cane a tre teste(5). Altro attributo di Sucellus è un martello: Tertulliano sostiene una similitudine fra

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questa divinità celtica ed il Charon etrusco(6). Lambrechts considera il martello come possibile arma contro le forze dei defunti con intenzioni malvagie(7). Baucher propone un altro parallelo: secondo questa teoria se si sostituisce il martello con una folgore Dis Pater risulterà identico a Giove(8). Il Giove gallico nelle descrizioni che abbiamo assume il ruolo di difensore della vita, combattente, ed in particolar modo in Gallia, prende l’epiteto di Narborense ossia “Dio della Vegetazione”. La cosa che più distingue le divinità ctonie del mondo celtico dalla maggior parte delle altre, è che raramente, anzi quasi mai, una divinità è esclusivamente associata alla dimensione dell’Oltretomba. Questo perché l’Oltretomba non era una realtà a sé stante, indipendente dalle successioni della vita mondana, bensì estendeva le sue rappresentazioni e le sue influenze in ogni ambito della società, sino a penetrare profondamente nelle più comuni usanze e costumi dell’intero popolo. [J.R.]

NOTE:

1. CAES. De bel. Gal. VI, 19.

2. Come nel caso di Verulamium e York dove fra i vari ritrovamenti era presente una statuina bronzea di un’Afrodite Celtica.

3. CAES. De bel. Gal VI, 18.

4. Ovviamente Dis Pater è una divinità di origine romana, ed è stata presa in prestito da Cesare per poter meglio descrivere divinità che non conosceva e delle quali probabilmente non poteva sapere il nome.

5. Questa raffigurazione chiarisce il perché delle sepolture canine precedentemente esposte.

6. TERTULL. Ad Nat. 1, 10.

7. LAMBRECHTS 1942.

8. BAUCHER 1976.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-LAMBRECHTS 1942: P. LAMBRECHTS, Divinités Equéstres Celtiques on Defunts Heroisés?, Bruges 1942.

- BAUCHER 1976: S. BOUCHER, Recherches sur les bronzes figurés de la Gaule pré-romaine et romaine, Parigi 1976.

Immagini :

p. 6, Ritrovamenti di cranio e mani amputati nelle sepolture di Býčí skála.

p.7, dall’alto verso il basso: il teschio di una giovane donna le cui vertebre sono giustapposte con le vertebre di una donna più anziana, a loro volta adagiate su una mandibola animale, Mary M. Voigt/Gordion Project; ritrovamento formato da un insieme di ossa proveninenti da diversi individui, la mandibola di un individuo è stata apposta sulla spina dorsale di un altro. E come è facilmente notabile, il cranio è stato posto fra le gambe dello scheletro principale. Mary M. Voigt / Sondra Jarvis and Carrie Alblinger, Gordion Project.

p.8, esempio di pittura rupestre scoperto in Val Camonica.

p.9, a sinistra: immagine di Sucellus provvisto di martello, cane a tre teste e corvo ai piedi; a destra: immagine del Charon etrusco.

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La società celtica è stata sempre contraddistinta da una divisione in classi ben definita; tuttavia mentre l’insieme degli artigiani e dei guerrieri può essere ricondotto a ben noti paralleli con altre civiltà, la classe sacerdotale presenta peculiarità uniche. Diodoro Siculo, come molti altri(1), suddivide questa classe in ulteriori tre scomparti: i Bardi, gli Ovati ed i Druidi. A suo dire i Bardi erano coloro che avevano il compito di comporre satire ed elogi, i mantes (Ovati) coloro che interpretavano gli esiti dei sacrifici ed i presagi(2), ed infine i Druidi che compivano ricerche “riguardo alle cose sublimi e segrete”. I Druidi erano anche coloro che professavano l’immortalità dell’anima, e che erano in sintonia con il pensiero pitagorico. Queste erano le tre suddivisioni principali fra i sacerdoti dei Celti, eppure la letteratura ci offre un dato interessante: esistevano specifiche “professioni” fra gli Ovati, ed ognuna di queste assumeva una denominazione a se stante. Ci vengono descritti nel libro VIII del De Bello Gallico, i gutuater, il cui nome significa

“Maestro”, “Padre delle Invocazioni”, o più semplicemente, “Invocatore”. È da notare come un sacerdote del Dio Moltinus, era definito gutuater martis, suggerendo un ovvio parallelo fra Marte e Moltinus. Un’altra professione descritta era quella sei semnotheoi, la cui funzione

è tuttavia più oscura. Il termine semnotheoi è traducibile secondo alcuni con “reverenza agli Dei”, o con “Padre della voce”. Stuart Piggott ha descritto e definito questa triplice divisione della classe sacerdotale come in continuo mutamento, attraverso la storia dei Celti, ed in particolare, poco prima e durante la dominazione Romana: nella sua ricostruzione, il termine più utilizzato dagli autori romani e greci p e r d e s c r i v e r e g e n e r i c a m e n t e u n

sacerdote celtico è drui(3). Tuttavia drui contraddistingue solamente l’elite di un più ampio raggruppamento sacerdotale, comprendente anche i Vati. Dopo l’avvento del Cristianesimo in Irlanda il termine drui fu svalutato in favore della parola vate, e furono proprio questi Vati, secondi d’importanza nella gerarchia

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LE CLASSI DRUIDICHE

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druidica, a detenere il potere e l’influenza sul culto. È chiaramente o s s e r v a b i l e l ’ e n o r m e quantità dei termini utilizzati per designare queste varie divisioni; facciamo un po’ di chiarezza riassumendo tutte le varie testimonianze degli autori antichi, e le teorie di quelli moderni: I sacerdoti sono chiamati comunemente Druidi, tuttavia il termine Druido definisce una sola di tre classi principali degli “addetti al culto”. Le altre due classi in ordine di importanza sono quella degli Ovati e quella dei Bardi. Vate, Heuages, Ovates, definiscono tutti una stessa classe, nella quale i n q u a d r i a m o l e “ s p e c i a l i z z a z i o n i ” d i Gutuater, e Semnotheoi. Inoltre è bene ricordare che tutti questi termini e classi definiscono gerarchie del Galles, che trovano la loro controparte, con diversi nomi, anche in Irlanda. L’Ovates gallico, corrisponde al File (pl. Filid) irlandese. Fra i Filid vengono distinte numerose professioni, ognuna adibita ad un diverso compito: il Sencha era lo storico, l’annalista, colui che aveva l’onere di ricordare e diffondere la storia del suo popolo e le varie teorie filosofiche. Il Brithem era colui che assumeva la funzione di arbitro e giudice nelle dispute,

aveva il ruolo di ambasciatore e legislatore. Lo Scelaige era il compositore di romanzi epici e mitologici, che offriva i suoi versi per tramandare la memoria di eroi e guerre. Il Cainte era analogo al Gutuater, era maestro del canto magico, una sorta di campione bardico in grado di pronunciare maledizioni, benedizioni, invocazioni ed esecrazioni(4). Il Liaig era il medico, l’esperto in piante ed erbe medicinali, in chirurgia e rituali di guarigione. Il Cruitire era un arpista che possedeva il magico sono dei tre canti: questi avevano il potere di far

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addormentare, ridere o piangere chiunque li ascoltasse. Il Deogbaire aveva la funzione di coppiere, ed inoltre conosceva le sostanze allucinogene, inebrianti e psicotrope, nonché il loro uso. Infine il Faith il divinatore, assimilabile con il Vatis gallico. Per quanto concerne le gerarchi irlandesi, e le loro definizioni attraverso la letteratura, anche qui alcuni autori utilizzano i termini Druido e File in te r scambia bi lmente ; t u t t av i a , stranamente, la verità ci è testimoniata dallo stesso S. Patrizio che dice di aver sfruttato la rivalità esistente fra Druidi e Filid per poter meglio dividere e conquistare nonché convertire, tutto il territorio irlandese(5). [J.R.]

NOTE:

1. Posidonio descrive una precisa tripartizione: i Druidi, gli Ouateis (Ovati) interpreti di sacrifici e studiosi dei fenomeni naturali, e i Bardoi, cantori e poeti.

2. I Mantes (Ovati), prendono anche il nome di Heuages.

3. PIGGOTT 1985.

4. Era ritenuto altamente sconveniente e infamante ricevere un’esecrazione da parte di un esponente della classe bardica. Si rietene che questi Bardi avessero il potere di far apparire sul volto del loro bersaglio di denigrazione, tre pustole, simbolo della vergogna che l’individuo avrebbe dovuto sopportare. Solitamente queste composizioni a scopo offensivo erano composte dopo un rifiuto d’ospitalità, o un trattamento rude; l’ospitalità era fra i Celti, uno dei più grandi e infrangibili doveri di ogni uomo che si

definisse tale.

5. D’ARBOIS 1906.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-S. PIGGOTT 1985: S. Piggott, The Druids, New York 1985.

- D’ARBOIS 1906: D’Arbois de Joubanville, Les Druides, Parigi 1906.

Immagini :

p.11, Sacrifico umano agli Dei, Arthur Boyd.

p.12, Assemblea Druidica, C. Knight.

p.13, A British Druid, Wiltshire & Swindon. History Centre, Chippenham.

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La Gloriosa(1), questo è l’epiteto che più riassume la figura di Brighit, la più importante fra le divinità dei Celti. Questa Dea appare sovente in triplice forma, o descritta accanto alle sue due sorelle, entrambe di nome Brighit; è la divinità patrona della Guarigione miracolosa, dell’arte, del sole, della famiglia, della musica, del focolare, della poesia, della divinazione, della profezia e del parto umano e animale. In Irlanda era venerata come la Madre del Leinster, figlia del Daghda, e la sua festa era celebrata il 18 Marzo (il nostro 2 Febbraio). Spendiamo qualche parola per descrivere questa festività: ad Imbolc(2), Brighit era, ed è tuttora, usa visitare le case dei suoi fedeli, come si dice testimonino le orme di cigno trovabili l’indomani m a t t i n a d a v a n t i all’abitazione; se queste si dirigevano dalla porta verso il fuoco del camino, la primavera sarebbe stata prospera, nel caso opposto, sarebbe risultata infausta e poco fruttuosa. Durante la vigilia di questa celebrazione le donne e le giovani fabbricavano bamboline con gli steli del grano,

rivestendole poi con conchiglie, cristalli, margherite, bucaneve e fiori di campo. In particolare al posto del cuore, nella bambola era inserita la Reul-Iuil, ossia un cristallo trasparente simboleggiante la Stella di Brighit, la stessa stella del Natale cristiano. Durante i festeggiamenti veniva formata una processione nella quale era portata in corteo la bambola principale, al suono del canto: “Bride bhoidheach

oighnam mile beus!” ossia “Bellissima Bride, vergine dei mille prodigi!”. La processione passava per ogni casa, ed ogni famiglia era usa recare un dono: una candela, del burro, del latte, foccacce o fiori; alla fine terminava nella casa nella quale si sarebbe tenuta la festa di Brighid, la Fàis Bride, e ivi le donne si chiudevano dentro al buio. Gli uomini dovevano iniziare a chiedere il permesso di entrare con

esclamazioni e preghiere ben formulate, e solo dopo un consulto fra le donne, questi erano lasciati entrare, ed i festeggiamenti sarebbero durati sino al giorno dopo. Al mattino in circolo, tutti i partecipanti cantavano: “Bride bhoideach muime chorr chriosda.” ossia “Bellissima Bride,

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BRIGHIT Da Dea a Santa.

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madre adottiva di Cristo.” quindi le offerte erano regalate ai poveri. Secondo il folklore Brighit era nata dal sole dell’alba, ed il suo respiro donava vita ai morti e tramutava l’acqua in vino; era inoltre sempre avvolta da una colonna di fuoco ed aveva il compito di far tornare la primavera dopo i duri giorni invernali. Brighit donò il fischio agli uomini, i quali lo appresero dopo che la Dea perse il figlio Ruadan, che venne ucciso dal Dio fabbro Goibniu per aver tentato di rubargli i segreti della fusione; infatti la Dea proruppe in un fischio di dolore, una sorta di lamento funebre, fu così che l’uomo ne venne a conoscenza. I nomi con i quali ritroviamo Brighit nei vari paesi dell’Europa sono molti: Brigantia (in Britannia), Bride (in Scozia), Brigandu o Bricta (in Gallia), ed infine Belisama la “molto brillante” (nella Gallia del Nord). Cesare parla di una Minerva celtica, riferendosi probabilmente a Brighit ed il Cath Maige Tuired la dice figlia del Daghda; tuttavia non raramente si osserva una certa confusione fra la sua figura e quella di altre divinità come Boann, Etain e Tailtiu. La toponomastica la ritrova nei nomi di moltissime città e luoghi come: Bregenz, Bribacte, Briançon e Briare in Francia, Arebrigium in Valle d’Aosta, nel fiume Boune, e nelle Ebridi, le Isole di Bride. Secondo la tradizione Brighit ebbe tre figli dal Dio Tuireann: Brìan, Iuchar e Iucharba(3). Essa è chiamata con diversi epiteti fra i quali i più utili a descrivere la sua figura sono: brighit bé legis la

guaritrice, Brighit bé goibnechta la protettrice dei fabbri, Brighit bé filid la signora della poesia e della fertilità, ed ancora La Vergine, La Regina del Canto, La Sovrana dei Boschi, Freccia Ardente(4). I primi tre epiteti presentati, come detto sopra, descrivono a pieno la sua funzione: ella infatti riassume e protegge dentro di sé le tre principali classi della società celtica; quella contadina, quella guerriera e quella sacerdotale. È importante sottolineare la “competenza” di Brighit in un’arte maschile come quella dei fabbri; ebbene anche dalla letteratura appare lampante la sua vicinanza con le figure dei

tre fabbri divini Goibniu, Credne e Luchta (il fabbro, il fonditore ed il carpentiere), sebbene vi siano enormi differenze nel ruolo: mentre i tre fabbri simboleggiano l’arte manuale di realizzazione e lavorazione del ferro, Brighit sintetizza in sé l’ispirazione

divina che porta a questa realizzazione materiale. Un’ invocazione risalente al XVIII sec. recita: “Brighit, donna eccellente, fiamma improvvisa, possa lo splendente ed infuocato Sole portarci al regno eterno.” Passiamo ora ad una informazione ben meno piacevole ma fondamentale: Brighit appare sincretizzata nella tradizione cristiano-cattolica come Santa Brigida, o Brigitta. La storia di questa Santa è peculiare, e a dirla tutta, anche abbastanza improbabile; questa era la potente Badessa del monastero di Cill-Dara, l’attuale Kildare(5). L’ordine delle brigidine che la badessa fondò era custode

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di un fuoco perpetuo (identico a quello presente nel tempio sopra al quale fu costruito il monastero), che rimase acceso fino all’epoca di Enrico XIII. Si dice che il fuoco scaturì non appena la Santa venne deposta nel sepolcro. Le diciannove suore continuavano a custodire il fuoco per diciannove giorni consecutivi, ed il ventesimo lo lasciavano incustodito dicendo: “Brigida, abbi cura del tuo fuoco, perché questa notte ti appartiene!”(6). Tornando alle sue origini, Brigida nacque il 1 Maggio del 445 d.C a Faughart (stesso giorno e mese della festività pagana di Belatine); e morì a Kildare nel 523 d.C. In vita viaggiò in Scozia, in Galles ed in Cornovaglia, fermandosi a Glastonbury; suo padre era un druido (notare la casualità) di nome Dubhtach, e la nutrì con il latte di una mucca incantata dalle orecchie rosse (animale che più volte è citato come a lei sacro nella letteratura irlandese). Un aneddoto divertente: il celeberrimo S. Patrizio, nell’apice della sua piissima opera di conversione, nominò per errore S. Brigida, Sacerdote; grazie a questo disguido la Santa potè diventare Arcivescovo e nominare vescovi a sua volta. I fedeli si rivolgono a lei come Maria dei Galli e Madre adottiva di Gesù, in quanto ebbe l’onere/onore di nutrire e vestire per prima il neonato Gesù, mentre la madre Maria dormiva dopo le fatiche del parto. [J.R.]

NOTE:

1. MAC KILLOP 1998.

2. si veda l’articolo “I Celti e l’Astronomia” in Phanes n.0 p. 12 e sgg.

3. MAC KILLOP 1998.

4. SMITH 1988.

5. si veda l’articolo “Kildare” a p.53 e sgg.

6. BROSSE 1991.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-MAC KILLOP 1998: J. Mac Killop, Dictionary of Celtic Mythology, Oxford 1998.

-SMITH 1988: D. Smith, A guide to irish mythology, Dublin 1988.

-BROSSE 1991: J.Brosse, Mitologia degli Alberi, Milano 1991.

Immagini:

p.14, busto in Bronzo della Dea Brighit.

p.15, Croce di Brighit, simbolo sia della Santa che della Dea, chiaro richiamo alla svastika solare.

p.16, dipinto raffigurante S. Brigida.

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A cura di Lorenzo Abbate

SEZIONE GRECO ROMANA

IL CULTO DI MITRA

ELIOGABALO

DEFIZIONES

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È molto probabile che lo stesso fascino che lega e spinge noi moderni ad analizzare e studiare i naufragati culti misterici fosse proprio lo stesso mordente che attirò in epoca tardo-antica una mole non trascurabile di fedeli. Fedeli si, ma sopratutto iniziati, iniziati a culti dei quali spesso ci sfuggono finanche le finalità e le informazioni cultuali di base. Naufragate

le fonti dirette quello che ci rimane sono solo le testimonianze di chi, all'epoca, o dopo, ebbe modo di ascoltare, sapere, vedere e partecipare talvolta, a pratiche e rituali che come regola prima imponevano la segretezza: è quindi spiegato presto come chi sapesse non parlò, e chi non sapeva riportò notizie di seconda o terza mano, pari spesso, a

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IL CULTO DI MITRA

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pettegolezzi; se aggiungiamo poi, la politica cristiana di contrasto a culti così potenti e settari, si spiegano presto parole come quelle che Firmico Materno spese intorno ai culti mitraici: «Chiamano questo Mitra, e tramandano il suo culto in oscure caverne, […] immersi costantemente nello squallore oscuro delle tenebre»(1) dimenticando forse che la propagazione della loro fede avvenne proprio all'interno di c a t a c o m b e , n o n esattamente famose per la loro luminosità, splendore, visibilità e igiene. L'origine dei culti mitraici è s i c u r a m e n t e rintracciabile negli ambienti indiani ed iranici, ma quello che m i i n t e r e s s a puntualizzare non sono le conoscenze che ora, a posteriori, possiamo avere nella ricostruzione storica di un culto, ma quello che i fedeli romani, e in minima parte greci, conoscevano e credevano a proposito delle origini del proprio culto. «E questi, infatti, credono nell'esistenza di due Dèi che sono tra loro in competizione: l'uno produce il bene, l'altro il male. Vi sono quelli che chiamano Dio il migliore tra i due, e l'altro dèmone, come fa il mago Zoroastro, […] e questo, allora, dava all'uno il nome di Horomazes (ÑVromãzhn), all'altro

quello di Arimanios (ÉAreimãnion); e inoltre dimostrava che l'uno, tra ciò che è percepibile con i sensi, si apparentava sopratutto alla luce e l'altro, al contrario, alle tenebre e all'ignoranza; tra i due in mezzo si collocava Mitra, che per questa ragione i Persiani chiamavano “mediatore” (tÚn mes¤thn) [...]».(2) Il contenuto del culto mitraico però ci sfugge, e solo ipotesi sono state avanzate

sul senso di questa religione, complessa ed iniziatica. La sua struttura ci è piuttosto chiara: sette i livelli di iniziazione, proprio come le sette sfere celesti platoniche, che l'iniziato dovrebbe percorrere prima di g i u n g e r e all'illuminazione divina ed alla contemplazione della stessa. Corvo, Ninfo, Soldato, Leone, Persiano, Eliodromo, Padre( 3) : questi i sette gradi di

iniziazione. Le fonti concordano nell'attribuire collegamenti celesti ai vari gradi di iniziazione: secondo questa teoria ogni grado doveva corrispondere ad uno dei pianeti, per cui Ninfo/Venere, S o l d a t o / M a r t e , L e o n e / G i o v e , Persiano/Mercurio, Eliodromo/Sole, Padre/Saturno(4) (le fonti non concordano sull'accostamento planetario del primo grado, quello del Corvo). Una teoria molto suggestiva, e che trova riscontri nell'iconografia ricerca la forza del culto

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mitraico nella scoperta da parte di Ipparco di Nicea della successione degli equinozi, del quale Mitra sarebbe proprio la forza divina causante(5). Molte delle nostre conoscenze si basano sull'iconografia delle scene sacre ritrovate in gran numero all'interno dei mitrei: la tauroctonia, una immagine sacra capace di racchiudere in se l'intero messaggio iniziatico del culto. Sentiamo la spiegazione che ce ne consegna Porfirio: «Pertanto assegnarono come adatta a Mitra la sede degli Equinozi; egli porta il pugnale di Ariete, segno di Ares, e cavalca il toro, simbolo di Afrodite. Poiché Mitra, come il Toro, è demiurgo e padrone della generazione, è collocato nel cerchio equinoziale, avendo alla sua destra le regioni settentrionali,

alla sua sinistra quelle meridionali, e a sud è collocato Cautes, perchè caldo, e a nord Cautopates per il fatto che il vento del nord è freddo»(6). Bisognerà aggiungere che nelle tauroctonie, abitualmente, compaiono anche due figure, sospese nel cielo, a sinistra Helios, al quale Mitra, nell'atto di uccidere il toro guarda, e a destra Selene. Intorno alla figura del toro atterrato gravitano tre animali, uno scorpione che attacca i testicoli dell'animale e un cane ed un serpente che si nutrono del sangue sgorgante dalla ferita. Questi animali rappresenterebbero, assieme a Mitra ed al toro, una sorta di mappa celeste durante l'era del Toro: serpente/Idra di Lerna, cane/Canis Major (o Minor?), scorpione/Scorpio, il

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s a n g u e / S p i c a , Mitra/Perseo(7). Altra teoria, antica, cerca di r i v e d e r e n e l l a tauroctonia il mito della generazione, e rigenerazione, delle anime. Partiamo un'altra volta da Porfirio: «Gli antichi […] chiamavano Melissa la Luna, che p r e s i e d e a l l a generazione, tanto più in quanto la Luna è anche Toro, il toro è l'esaltazione della Luna, le api nascono dai buoi e le anime s c e n d o n o n e l l a generazione sono dette nate da un bue»(8). Il mito della nascita delle api dal corpo del bue, e della generazione della a n i m e è e c c e l l e n t e m e n t e spiegato in SCARPI 2008 p. 550: «la nascita delle api dalla carcassa di un bue appartiene alla tradizione mitica greca e ha all'origine una colpa di natura sessuale: Ariste, immagine dello sposo leale e fedele, modello dell'apicoltore, vede Euridice, la giovane sposa di Orfeo, il mitico cantore di Tracia, e tenta di violentarla; ma Euridice fugge e nella fuga viene morsa da un serpente e muore; gli dèi allora

puniscono Aristeo i n v i a n d o u n a p e s t i l e n z a c h e distrugge le api; rivoltosi alla madre Cirene, che lo aveva generato ad (sic) Apollo, da questa viene a sapere sia quale era stata la causa della pestilenza che aveva colpito le sue api, sia come far rinascere le api: sacrificare quattro buoi e lasciarli al chiuso, lontani dalla luce, sino a che dalle carcasse putrefatte fossero nati nuovi sciami (Verg. Georg. IV 317-559). Non è improbabi le che l'assimilazione della anime alle api si fondasse anche sul fatto che la tradizione antica, in particolare greca, vedeva in

questo insetto l'animale più puro. La nascita o ri-nascita dell'ape dalla carcassa del bue si configura in questo caso come metafora della ri-nascita dell'anima dalla carcassa umana rappresentata dal corpo.» Proprio le api ci rimandano ad un aspetto della pratica cultuale: in un mitreo, oltre alla rappresentazione della tauroctonia, quello che non poteva mancare era anche un'anfora e sopratutto un cratere: «le api

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ripongono il miele nelle anfore e nei crateri, perchè i crateri sono simbolo delle fonti, proprio come presso mitra è collocato un cratere al posto di una fonte, le anfore poi sono simbolo di ciò con cui si attinge l'acqua dalle fonti»(9). Il miele inoltre, cosparso sulle mani degli iniziati che accedevano al grado di Leone, li rendeva puri; per gli altri gradi, a quel che sappiamo, era utilizzata l'acqua come purificante. Pur nella carenza dei dati certi a livello pratico e cultuale il messaggio religioso, salvifico e filosofico del culto del “Sole invitto” ci è piuttosto chiaro (anche se meno chiara è la relazione tra culti misterici mitraici e culti di Helios). Giuliano Imperatore, nei suoi scritti su Helios ci ha tramandato questa codificazione: la nascita degli uomini è opera della cooperazione tra la provvidenza di Helios(10) e la generazione materiale da un corpo umano. Helios però è solo la manifestazione palese rispetto all'essenza divina, conoscibile solo grazie all'aiuto di Hermes e di Apollo Musegete(11). Il potere di Helios, secondo Giuliano, è capace di fissare, mantenere e preservare tanto gli equilibri celesti quanto quelli terreni, e deriverebbe direttamente dal Bene, l'Uno platonico, vero unico genitore del Dio: Helios regna quindi sugli altri Dei proprio come domina i l panorama ce les te , manifestandosi al mondo come Sole, palese donatore della vita nell'universo(12). Infondo proprio questa semplicità di messaggio, accessibile e constatabile da tutti tramite le manifestazioni quotidiane del Dio, ed una possente impalcatura

filosofico-misterica furono la base della fortuna di questo culto: le iscrizioni d'altronde ci attestano come non fosse una pratica religiosa settaria, ma anzi, molto diffusa tra il popolo, e sopratutto tra le legioni romane, tanto da trovare evidenze archeologiche di Mitrei in molti accampamenti stabili delle legioni romane. Ma già nella codificazione dei suoi rituali, il mitraismo, possedeva la spia del rischio della scomparsa: la preclusione delle pratiche alle donne, le stesse donne che giocheranno invece un ruolo di prim’ordine nella propagazione del culto cristiano. Il messaggio di Mitra è un altro tassello che possiamo, gloriosamente, aggiungere alla ricostruzione di un culto solare, che vede unite e cooperanti, figure mitologiche di diversissime, e lontane civiltà: proprio quello della cooperazione, della mediazione e dell'amicizia era il messaggio originario del dio Mitra secondo la sistemazione di Zoroastro: dalla mediazione alla pacificazione, fino alla vita, il passo è molto breve, tanto breve da sopravvivere, oggi, dopo oltre tremiladuecento anni. [L.A.]

NOTE:

1. Firmico Materno, De errore profanarum religionum, 5, 2.

2. Plutarco, De Iside et Osiride, 369d.

3. vd. ad es. Gerolamo, Ep. 107, 2.

4. Queste corrispondenze sono attestate dall'iscrizione CIMRM I, 480.

5. ULANSEY 2001.

6. Porfirio, De antro Nympharum, 24.

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7. BECK 2006, pp. 194 sgg.

8. Porfirio, De antro Nympharum, 18.

9. Porfirio, De antro Nympharum, 17.

10. Aristotele, Fisica, II, 2 194b.

11. Giuliano, Oraz. XI, 132 c.

12. Giuliano, Oraz. XI, 133 c.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-BECK 2006: R. BECK, The religion of the Mithras cult in the Roman Empire, Oxford Press, Oxford 2006.

-SCARPI 2008: Le Religioni dei Misteri, a c. P. SCARPI, vol. 2. Milano, Mondadori 2008.

-ULANSEY 2001: D. ULANSEY, I Misteri di Mithra, ed. Mediterraneo, Roma, 2001.

Immagini:

p.18, Tauroctonia, Londra, British Museum.

p.19, Il mitreo Barberini, Roma.

p.20, Tauroctonia, nell’affresco del mitreo Barberini, Roma.

p.21, Il Mitra Chiaramonti, Roma, Musei Vaticani.

p.23, Tauroctonia Roma, Musei Vaticani.

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Dedicare un articolo ad Eliogabalo significa ripercorrere, da un'angolatura tutta particolare, il lento cammino che porterà l'affermazione a Roma dei culti Solari di stampo orientale. Eliogabalo, imperatore bambino, nacque in Siria, col nome di Vario Avito Bassiano nel 203, e per diritto ereditario destinato alla carica di Gran Sacerdote del locale culto solare, quello del Dio El-Gabal di Emesa. La sua ascesa al trono fu il frutto della capacità di cospirazione della nonna Giulia Mesa (nonna anche di Alessandro Severo), che innalzò alla porpora imperiale un ragazzo

di appena quindici anni, con aspirazioni ed inclinazioni sacerdotali più che imperiali. I primi anni del suo regno videro l'approvazione, salvo stramberie sopportate(1), sia del senato che del popolo romano: i veri problemi, e la rivelazione dell'indole e dell'impreparazione dell'imperatore vennero alla luce al suo ingresso a Roma nell'autunno del 219. Eliogabalo iniziò a distribuire cariche lucrose e titolo ai propri amanti e favoriti: Zotico e Ierocle (un auriga che l'imperatore definiva tranquillamente “suo marito”) divennero rispettivamente Cubiculares e Cesare(2). Ma il punto che destò sincero sconcerto tra i Romani fu l'accellerazione che Eliogabalo apportò all'instaurazione e celebrazione dei culti solari, già importati da Settimio Severo. L'imperatore pose il Dio El-Gabal, che indicò col nome di Deus Sol Invictus al di sopra dello stesso Giove(3), provvedendo poi poi a due ierogamie, che unirono il Dio Sole con Minerva prima, e Urania poi(4). Convinto di essere rappresentante terreno del Dio, Eliogabalo si sentì autorizzato a contrarre matrimonio con una Vestale: tale unione avrebbe, nei suoi progetti, rappresentato a livello terreno lo sposalizio celeste del Sol Invictus con

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ELIOGABALO

Il monoteismo solare a Roma.

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Vesta; da questo matrimonio, secondo il suo progetto, non sarebbero che potuti nascere figli simili a divinità(5). Le celebrazioni ufficiali del Dio, erano fissate al solstizio d'estate, quando i senatori erano costretti a guardare l'imperatore danzare, in stato di trance, al suono dei cimbali, presso l'altare, posto all'interno del tempio palatino (costruito, forse, su un preesistente luogo di culto dedicato a Giove). Eliogabalo, sin dai primissimi anni di regno, fece portare a Roma da Emesa, il simulacro del dio El-Gabal, una conoide, forse un meteorite, nero, lo stesso simulacro che veniva portato in parata durante le celebrazioni: “Un carro a sei cavalli conduceva la divinità (in processione): i cavalli enormi e di un bianco immacolato, con dispendiosi finimenti in oro e ricchi ornamenti. Nessuno teneva le redini, e nessuno era a bordo del carro; il veicolo andava avanti come se il Dio stesso ne fosse l'auriga.

Eliogabalo invece camminava all'indietro proprio difronte alla biga, rivolto verso il Dio (...). Compiva tutto il viaggio camminando in questo modo, al contrario, guardando in faccia il suo Dio(6)”.

La strategia rel ig iosa di eliocentrismo di Eliogabalo portò ad altri cambiamenti, che il popolo non riusciva affatto a digerire: nell'Elagabalium (vd. Articolo) vennero riunite le reliquie più sante e venerate di tutta Roma. Fu così che il simulacro della Magna Mater, il fuoco di Vesta, il Palladio e gli Ancilia presero collocazione nel tempio del Dio: in questo modo, sacrificando o venerando quelle venerande reliquie era impossibile non rivolgere un pensiero alla divinità ospitante(7).

Il declino del potere imperiale e della politica religiosa di Eliogabalo fu molto veloce: già nel 221 era palese l ' i m p o p o la r i t à d e l l a c o n d o t t a

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dell'imperatore, tanto da condurlo all'uccisione, da parte dei pretoriani, a soli diciotto anni nel 222. Travestitismo e prostituzione sacra, pratiche bacchiche ed estasi mistiche, danze orgiastiche e ierogamie terrene erano pratiche inconciliabili col sentire religioso romano: l'incapacità di compromessi e di attenzioni alle apparenze ed ai costumi di Roma, decretò la fine di un imperatore e di un culto(8). L'imperatore fu ucciso dai pretoriani mentre cercava di fuggire in una latrina(9); fu perseguitato anche dopo morto: le sue statue abbattute, molti ritratti rimodellati sulle sembianze del

successore, e bollato come “folle” dalla storiografia contemporanea e postuma. Ma quanto più poteva temere in cuor suo Eliogabalo, avvenne proprio dopo la sua morte: le pratiche di culto correlate al Sol Invictus ricevettero un sostanziale abbandono fino alla restaurazione avvenuta sotto Aureliano, ed il simulacro del Dio venne rispedito ad Emesa, dove ritrovò la sua originaria collocazione: un

Dio scacciato da una terra straniera infedele(10).

Fu, appunto, solo con Aureliano che il culto del Sol Invictus venne restaurato, dotato di una nuova struttura cultuale, alle pendici del Quirinale, e di un corpus di sacerdoti addetti, i pontefices Solis Invicti. La consacrazione del tempio avvenne il 25 dicembre 274, durante la festa denominata come “Dies Natalis Solis Invicti”, che prevedeva una particolare pratica devozionale: i fedeli, rinchiusi in una grotta alla mezzanotte del giorno precedente, ne uscivano all'alba annunciando la nascita del Sole

(denominato Aion) dalla vergine Kore(11). Il vero trionfo della religione eliocentrica però, si ebbe prima con l'avvento del mitraismo, e poi con l'esperienza di Giuliano imperatore, che sintetizzò in queste parole il messaggio divino eliocentrico: “Ritengo comunque che, se bisogna credere ai sapienti, non è una novità che questo Dio sia il padre comune

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di tutti gli uomini ( a buon diritto infatti, si dice che l'uomo è generato dall'uomo e dal Sole) e che semini sulla terra non solo le anime che procedono da lui, ma anche quelle che procedono dagli altri Dei (12).”

Il tentativo di instaurazione di un culto, sostanzialmente un monoteismo solare, da parte di Eliogabalo è uno dei primi tentativi di accentramento religioso in un'unica figura divina all'interno del pantheon romano: la sincretizzazione si rivela essere la vera aspirazione di questo giovane imperatore, volto con lo sguardo e coll'animo al Sole, fin tanto da non riuscire a constatare il suo distacco, lento e progressivo dalle abitudini, dal sentimento religioso, e dalle pratiche di un popolo, tanto aperto alle novità, ma poco propenso a capire e comprendere esigenze tendenti a destrutturarne l'assetto originario. I tentativi successivi di sincretismo e di monoteismo divino, benchè non vittoriosi, risulteranno molto meglio accetti dal popolo, che farà dei “nuovi” Serapide, Helios, Mitra il cardine della propria devozione privata. [L.A.]

NOTE: 1. La nonna Giulia Mesa fece collocare a Roma, nell'aula del Senato, proprio sopra l'altare alla Dea Vittoria, la statua del ragazzo in vesti sacerdotali, ponendo i senatori nella scomoda posizione di sacrificare anche all'imperatore ogni qualvolta sacrificassero alla Dea. 2. Cassio Dione XXX, 15. 3. Cassio Dione, XXX, 11. 4. Erodiano, V, 6. 5. Cassio Dione, XXX, 9.

6. Erodiano, V. 6. 7. Cassio Dione, XXX, 12-22. 8. Historia Augusta - Vita di Eliogabalo, 10. ed anche Erodiano, V, 6. 9. Cassio Dione, XXX, 20. 10. Cassio Dione, XXX, 21. 11. Epifanio di Salamina,Contro le eresie,51,22,8-11. 12. Giuliano, A Helios Re, 2. Immagini: p.24, Ritratto di Eliogabalo, Roma, Musei Capitolini. p.25, Aureo di Eliogabalo, con incisione del carro trasportante la pietra sacra durante il solstizio d’estate, festa del Sol Invictus. p.26, Asse dell’usurpatore Uranio Antonino, sul verso il tempio del Sol Invictus con la pietra sacra.

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Si è sempre sottolineato come l'epigrafia sia la testimonianza letteraria e scrittoria più diretta per ricostruire il vissuto di una civiltà: iscrizioni civili, pubbliche, votive, sepolcrali e onorarie sono tutte documenti unici ed originali, un messaggio rimasto (più o meno) intatto, una voce parlante senza bisogno di intermediari. Per definire l'ambito di ricerca dell'epigrafia si è ricorsi a molte definizioni, limitando i materiali e i metodi di fabbricazione, ma gli unici punti fissi in questo marasma di parole sono rimasti l'unicità del documento e la genuinità dello stesso. Se uniche, quindi, le epigrafi, e sicuramente fabbricate in antico, rappresentano per gli studiosi uno strumento irripetibile per la conoscenza di una civiltà altamente

alfabetizzata come fu quella greca. Ma non è nostro intento quello di analizzare i più alti e sublimi prodotti dell'epigrafia, tantomeno analizzare le epigrafi che riportano epitaffi metrici, ma anzi, rivolgeremo lo sguardo ad una tipologia di documento diffusa sopratutto nei ceti medio-bassi della società: le tabelle di maledizione.

Coll'espressione "defixiones" si intendono alcune particolari maledizioni di carattere privato atte a punire persone in virtù di un qualcosa commesso o al fine di arginare le problematiche che una azione in fieri potrebbe portare al maledicente. Questi documenti, come già accennato, furono prodotti in larga

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MALEDIZIONI GRECHE Defixiones graece.

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maggioranza da un ambiente sociale poco elevato, e oscillano tra religiosità e superstizione. Le defixiones sono pressoché sempre incise su laminette di piombo, successivamente piegate, o su

statuette rappresentanti i "maledetti". La scelta dei materiali non era casuale: il piombo, per il suo peso, per il suo essere gelido, per il suo colore grigio era perfettamente intonato ai funesti auguri c h e v e n i v a n o i v i s c r i t t i ( 1 ) . Le modalità di preparazione delle maledizioni prevedeva, sicuramente, una ritualistica ben precisa, in buona parte per noi non ricostruibile: è indubbio che spesso il mago incaricato di "maledire" una tale persona, si facesse anche carico di scrivere egli stesso l'iscrizione, s o p p e r e n d o a l l ' i g n o r a n z a d e l "maledicente". La stranezza dei caratteri

non è dovuta ad un particolar modo di scrittura, o a chissà quale alfabeto magico, ma unicamente alle difficoltà di scrittura correlate all'incisione sul metallo.

Lo scopo essenziale delle defixiones

greche era quello di immobilizzare la persona odiata in ogni manifestazione della sua vita, facendo sì che questa potesse morire prima del decorso naturale della propria vita. Lo scopo veniva raggiunto chiedendone l'attuazione e la persecuzione allo spirito di un morto. Si prediligevano gli spiriti turbolenti: anime di defunti spirati di morte violenta, persone morte immaturamente, suicidi, anime di feti nati già morti erano una vera calamita per i maghi dell'epoca; bastava scrivere il messaggio, in un formulario ben preciso, affidarlo alla tomba

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dell'esecutore ritenuto perfetto ed il gioco era fatto. Anche i santuari di divinità infere, pozzi e sorgenti erano molto gettonati: la vita dell'odiato nemico sarebbe stata falciata dalla divinità o

affogata e trascinata via dalle acque prescelte. In un primo momento si credette bastevole il deporre il nome del "maledetto" nel luogo prescelto, ma successivamente si pensò più sicuro aggiungere alla formula anche l'invocazione diretta a qualche divinità infera, in modo che il messaggio non potesse, in alcun modo, andar trascurato.

Ma leggiamo quache testo. La prima è una defixio databile al V a. C., ritrovata ad Atene: precisa il nome del defisso, indicando anche la moglie, ed ha

come intento l'annientare la persona in ogni sua attività, rivoltandogli contro finanche le sostanze colle quali, per lavoro è a contatto continuo: "Lysias, soffiatore nella zecca, sia lui che la moglie e i suoi

beni, ciò che lavora, le sostanze, le mani, i piedi, la mente, la testa ed il naso [siano distrutti] dalla sacra terra"(2).

L'indicazione delle divinità infere alle quali si affida la vita del defisso è in un esemplare databile al I sec. a. C. E ritrovata a Morgantina: "Gea. Ermete, Dei inferi, accogliete Venusta ,figlia di Rufo, la serva" (3). Come si può vedere il metodo è molto semplice: l'indicazione del nome, del patronimico, e la raccomandazione agli dei infernali. Non è da escludere però che il rituale di maledizione prevedesse

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delle libagioni agli dei inferi, e delle formule rituali non tramandate. In questo caso l'augurio nefasto consiste semplicemente in una sorta di preghiera affinchè la donna venga portata e accolta nel regno degli inferi.

Particolarmente più dettagliata è invece la defixio, molto tarda, ritrovata a Roma, e databile al II o III secolo d. C. Chi si vuole colpire con questa maledizione è un medico, probabilmente colpevole di aver ucciso il fratello del maledicente: "Opprimi Artemidoros, il medico, figlio di Artemidoros, quello della terza coorte pretoria. Compie l'azione il fratello del defunto Demetrio, il quale vuole ora partire verso la propria patria. Non risparmiate dunque lui, ma opprimete la terra italica; e per di più insabbiate la città dei Romani. Ma opprimete il medico Artemidoro. Eulamon, Laimeilasion, Kreiochersophrix, Omelieus, Axeieus, Areius e Lathos e Tham, opprimete!"(4). La defixio è un unicum: accomuna alla maledizione l'intera città di Roma. La divinità infera alla quale viene affidata la persecuzione dell'uomo non è esplicita, si dovrà quindi pensare che la defixio fosse posta in qualche tomba.

I verbi più ricorrentemente

utilizzati nelle tavole di defissione greca sono di due tipi: un primo gruppo per invocare l'attenzione del morto o della divinità, ed un secondo finalizzati ad esprimere/richiedere il nefasto augurio. Kale›n oppure §pikale›syai o anche kiklÆskein sono utilizzati nel medesimo significato di "chiamare"; più accorato il significato di flketeÊein e ırk¤zein r i spet t ivamente " suppl icare " e "scongiurare". Kat°xein , facente parte del secondo gruppo di verbi, indica propriamente l'azione di "sottomettere", "tenere sotto", "opprimere" rivolto sempre agli Dei infernali o a Demoni e morti, chiati kãtoixoi. ParadidÒnai invece è un verbo spesso pronunciato dall'autore della defixio, significa "consegnare", seguito spesso dalla specifica del destinatario della consegna malefica. De›n, katade›n, sunde›n , s igni f icano propriamente "legare" il nemico, seguiti spe s so da un prÒs segu i to dall'indicazione del nome del demone o del Dio infero. Ma il vero in assoluto più famoso ed utilizzato è katagrãfein "iscrivere": il nome del maledetto veniva "iscritto" nelle liste infernali del morto, o del Dio, in modo che il suono di quel nome non andasse disperso, ma proprio

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nome non andasse disperso, ma proprio perchè iscr itto , sarebbe stato continuamente sotto gli occhi attenti dell'esecutore infernale.

Il panorama delle defixiones, assolutamente curioso e degno di essere esposto e reso maggiormente noto, non è ovviamente completo, mancando in questo articolo le corrispettive maledizione in ambito romano: mi occuperò nel prossimo numero di fornire un'ampia carrellata di esempi di maledizioni in ambito latino, a testimonianza di un altro fattore di vita religiosa, comune alla civiltà greca ed a quella romana, sempre pronta a recepire le invenzioni, anche le più malefiche, di una civiltà evolutissima ed originale come quella greca. [L.A.]

NOTE:

1. Plinio, Naturalis Historia, XI, 274.

2. EG. IV, pp. 247 sgg.

3. EG. IV, pp. 250 sgg.

4. EG. IV, pp. 251 sgg.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-EG: M. GUARDUCCI, Epigrafia Greca, vol IV, Roma 1978.

Immagini:

p.28, Defixio greca. Presenta la classica forma "a libretto": la lamina di piombo iscritto è piegato in due, in modo da includere il lato inciso. Parigi, Biblioteca Nazionale.

p.29, Defixio latina. È una delle poche defixiones su due facciate e con un disegno a corredo della scrittura.

p.30, Defixio greca. La lamina di piombo era stata arrotolata su se stessa: l'estrema duttilità del materiale ha permesso agli archeologi di srotolarla e leggerne il contenuto.

p.31, Defixio con forma "a libretto". Monaco, Museo Archeologico.

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A cura di Lorenzo Abbate

SEZIONE MISCELLANEA

INNO A NETTUNO

W. B. YEATS

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La scelta di stendere un contributo sull’Inno a Nettuno di Giacomo Leopardi rientra in un più ampio p r o g e t t o d i s e g n a l a z i o n e , arricchimento e studio delle possibili fonti letterario-religiose a beneficio di una fede antica nel mondo contemporaneo. È strano pensare che uno scrittore come Leopardi, prima del suo distaccamento dalla fede cattolica, potesse concepire, stendere e pubblicare un’opera innologica dedicata ad una divinità antica, proprio negli anni in cui, già circolavano e spadroneggiavano gli Inni Sacri (ovviamente cattolici) di Manzoni.

Il progetto di Leopardi però, non ebbe mai mire religiose, ma solo ed unicamente letterarie. Leopardi infatti pubblicò l’Inno cercando di spacciarlo per un originale greco, inedito, tradotto: Leopardi non come autore quindi, ma come traduttore. La truffa ebbe un certo

seguito, e l’Inno vene da molti creduto come originale ed autentico; la “truffa letteraria” di Leopardi portava come prove avvaloranti solo due versi greci, quello d’inizio e quello di fine dell’Inno (anche le O d a e A d e s p o t a e vennero pubblicate assieme). Ma la vera prova di “autenticità”,

sarebbe dovuta essere, in mente di Leopardi, l’assoluta corrispondenza di questo Inno a tutte le caratteristiche degli Inni omerici già noti. La vicenda divina di Nettuno-Poseidone è ricostruita fin nei minimi particolari, dalla nascita fino ai miti più noti, una vera enciclopedia divina. La scelta del Dio, a mio avviso, basata su una semplice constatazione: il corpus degli Inni omerici presenta un solo inno a Poseidone, di pochissimi versi, che non avrebbe mai potuto fungere da arma un confronto, per un eventuale sventramento della “truffa letteraria” approntata.

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L’INNO A NETTUNO DI G. LEOPARDI

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Pietro Giordani, amico fraterno di Leopardi, nel pubblicare un volume per Le Monnier nel 1845, contenente tutti gli studi filologici di Leopardi, non ebbe dubbi nell’inserirvi l’Inno a Nettuno; a suo dire, la capacità di “ingrecarsi”(1), ovvero di calarsi nei panni di un greco dell’VIII sec. a. C. d i Leopard i , r e n d e v a quest’opera non sono un’abile falsificazione, ma quasi più degno di un originale greco. Leopardi nel 1816, a poco più di due anni dall’inizio del suo solitario studio del greco, era perfettamente in g r a d o d i falsificare un inno sacro, dedicato a Nettuno.

Tutto in quest ’ Inno è g r e c o , o g n i singolo mito, ogni pa r o l a , og n i movimento delle frasi sembra seguire, ricalcare, riprendere un originale greco, esistente solo nella mente nostalgica e sognatrice del diciottenne Leopardi. La sua reverenza per gli antichi, seppure non sfociando mai in devozione, si basò su un ossequioso rispetto delle tradizioni e delle

testimonianze di un mondo scomparso. L’inno si apre con solenni parole: “Lui che la terra scuote, azzurro il crine / A cantar incomincio. Alati preghi / A te, Nettuno Re […]”(2); come nella prassi innologica Leopardi dichiara tutte le capacità protettive e benefiche del Dio sin

d a l l ’ a p e r t ur a ; Poseidone, dio del mare, è il p u n t o d i r i f e r i m e n t o p r i m o d e i n a v i g a n t i , quando hanno a c u o r e d i s c a m p a r e a orrenda morte in mare: “forza è che indrizzi / Il n o c c h i e r fatichevole che corre / Su veloce naviglio il vasto mare, / Se campar brama dai sonanti flutti / E la morte schivar”. La g e n e a l o g i a d i v i n a è

specificata subito dopo: “che a te l’impero/ Del pelago toccò, da che nascesti/ Figlio a Saturno, e al fulminante Giove, / Fratello e al nero Pluto.”(3) La stirpe di discendenza completamente indicata, ad eccezione della madre, Rea, vero centro del racconto che segue, quello della nascita del Dio, assolutamente commovente per la

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capacità di mimesi con passi di uguale argomento degli inni omerici: “E Rea la Diva/ Dal vago crin di partorì, ma in cielo/ Non già: che di Saturno astuto Nume/ Gli sguardi paventava. Ella discese/ A la selvosa terra, il petto carca/ D’acerba doglia, e scolorite avea/ Le rosee guance. Mentre il sole eccelso/ Adrea su le montagne i verdi boschi […] / Ella s’assise all’ombra, e come uscito/ Fosti dal suo grand’alvo, ti ripose/ Su le ginocchia assai piangendo, e preghi/ Porse a la Terra e a lo stellato Cielo”(4). Rea rivolge quindi un accorato appello a Gea e Urano, che permette di salvare la vita al figlio, e di farlo crescere sano e forte.

Uno dei frammenti più interessanti dell’Inno è la lite tra Atena e Poseidone, mito alla base della fondazione di Atene. La lite scaturisce per il nome da dare alla città: “Atene / La Cecropia città, poi ch’appellata/ Tu la volevi dal tuo nome, e Palla/ il suo darle voleva.”(5) La sconfitta di Poseidone è famosissima: “Ella ti vinse:/ Che con la lancia poderosa il suolo/ Percosse e uscir ne fe’ virente olivo/ Di rami spasi.”(6). Da parte sua Poseidone dona qualcosa di non meno prezioso dell’ulivo ad Atene: “Ma tu pur fiedesti/ La diva terra col tridente d’oro,/ E tosto fuor n’uscì destrier ch’avea/ Florido il crine:”(7).

Al verso 93 Leopardi interrompe la narrazione, per una di quelle classiche apostrofi dirette dal dio: “Salve, equestre Nettuno”(8) dice, per continuare colla spiegazione dell’importanza del dono del cavallo, aiuto all’agricoltore, e animale

infaticabile. Un lungo elenco di “Ninfe a te dilette”(9) segue, come introduzione alla trattazione della figliolanza del Dio: Cercione, Eufemo, Triope, Astaco, Rodo, Teseo, Allirrozio, Tritone, Dirrachio, Eumolpo, Polifemo…canto, questo sui figli, molto delicato: “Ma questo/ Canto è meglio lasciar, che spesso i figli/ Cagion furono a te d’acerbo lutto.(10).

Ma Poseidone non è dio solo del mare, e sacro solo ai beneficiari del dono del cavallo, o ai naviganti in difficoltà: “Salve, o Nettuno/ Ampio-possente: a te gl’Istmici ludi/ E le corse de’ cocchi e de gli atleti/ Son sacre, e l’aspre lotte”(10).; “Salve, o gran figlio di Saturno.”(11); “Salve, equestre Nettuno!”(12). Tutti questi riallacci narrativi, queste invocazione e questi saluti, sono congeniali al giovane Giacomo per introdurre argomenti che gli stanno a cuore, o che gli sta a cuore mettere in luce: la sua cultura e la voglia

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di ostentarla, vince, in quest’opera, sulla sua capacità poetica? Ci si è chiesto molto spesso questo, e spesso si è detto che l’Inno a Nettuno è affossato sotto la melma dell’erudizione che stilla da queste pagine. Chi sostiene questo, non è chiaramente in grado di inquadrare quest’opera nella sua giusta collocazione: un inno greco, non può rispondere alle tipologie poetiche italiane di inizio ottocento, ed anzi, il non nseguirle è sintomo di maggior capacità poetica e mimetica di Leopardi. L’operazione letteraria dello scrittore tende, oltre che ad una affermazione nel panorama letterario italiano, a dotare Poseidone di un componimento innologico simile a quelli maggiori tramandati dal corpus omerico. L’Inno a Nettuno, ad una lettura scevra da preconcetti letterari, trasmette perfettamente la voglia di un ragazzo di affiancarsi ai mitici cantori omerici, calandosi totalmente in un ambito di devozione a lui estraneo, sperimentando forme liturgiche antiche. Ma è proprio quando, deposti i panni dell’erudito grecista, Leopardi si cala nei panni del fedele antico, che, senza bisogno di nozioni, epiteti e quant’altro, riesce a spiegare e fissare perfettamente lo spirito devozionale: “O Dio possente/ Soccorri a’ naviganti, e fra le rotte/ Nubi fa che si vegga il cielo azzurro/ Ne la tempesta, e su la nave splenda/ Del sole o de la luna un qualche raggio/ O de le stelle, ed il soffiar de’ venti/ Cessi; e tu l’onde rumorose appiana,/ Sì che campin dal rischio i marinai. O Nume, salve, e con benigna mente/ Proteggi i vati che de gl’inni han

cura!”(13). Poseidone viene dunque inquadrato come protettore dei poeti, e proprio in questa ottica è ancor più possibile capire il perché di una scelta divina così inconsueta per un giovane che non aveva ancora mai toccato quel mare, regno del Dio, che vedeva solo in lontananza dalle finestre della casa paterna. [L.A.]

NOTE:

1. GIORDANI 1845, p. XVI-XVII.

2. Inno a Nettuno, vv. 1-3.

3. Inno a Nettuno, vv. 7-10. (in quanto a te toccò il regno sul mare, da quando nascesti figlio di Saturno e fratello di Giove tonante e dell’oscuro Plutone).

4. Inno a Nettuno, vv. 10 sgg. (E Rea, la dea da molle crine, ti partorì non in cielo, poiché di Saturno, astuta divinità, temeva gli sguardi. Ella quindi discese sulla terra piena di selve, con il cuore addolorato, e colle guance prive del loro rossore. Nel mentre il sole eccelso scottava le foreste sui verdi boschi, […] Ella si sedette all’ombra, e non appena fosti di lei uscio, ti ripose sulle sue ginocchia, piangendo e pregando la Terra ed il Cielo popolato di stelle.)

5. Inno a Nettuno, vv. 75-8.

6. Inno a Nettuno, vv. 78-81.

7. Inno a Nettuno, vv. 81-4.

8. Inno a Nettuno, v. 93.

9. Inno a Nettuno, vv. 103.

10. Inno a Nettuno, vv. 121-3.

11. Inno a Nettuno, v. 153.

12. Inno a Nettuno, v. 93.

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13. Inno a Nettuno, vv. 191-203.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-GIORDANI 1845: G. LEOPARDI, Studi filologici a c. di P. PELLEGRINI e P. GIORDANI, Firenze 1845.

Immagini:

p.34, Giacomo Leopardi, Ritratto a matita del Lolli, Recanati, Casa Leopardi.

p.35, Cratere attico rappresentante la contesa tra Atena e Minerva, Atene, Museo Archeologico.

p.36, Poussin, Nettuno, Philadelphia, Museum of art.

p.38, Sala I della Biblioteca Leopardi a Recanati.

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L’Irlanda, terra dai vividi colori, dalle imperiture tradizioni, accolse la nascita di William Butler Yeats il 13 Giugno 1865, a Sandymount. Sin da piccolo ebbe modo di assaporare a pieno le varie realtà locali irlandesi, come nelle sue permanenze a Sligo, un piccolo porto sulla costa Ovest, una cittadina ricca di folklore, racconti mitici, croci celtiche ed atmosfere leggendarie. Tutte queste suggestioni rimasero profondamente radicate nella sua personalità, e divennero il punto fondante dove ritrovare sé stesso durante l’improvviso e traumatico trasloco a Londra. Qui conobbe Gorge Russell, sotto l’influenza del quale iniziò a comporre i primi drammi e poemi a tema magico/mitico, separandosi sempre di più dalle figure del padre e del nonno, a dir

poco castranti per il suo genio creativo. Con l’andare del tempo crebbe l’interesse per le scienze occulte, ed incluse fra le sue letture autori come: A. P. Sinnett, Blake, L. Agrippa, Pico della Mirandola e molti altri; grazie a questi nuovi spunti sviluppò una spiritualità ibrida fra pre-esistente cattolicesimo e paganesimo neo-acquisito. A tal proposito scrisse: “Io non ho trovato la mia tradizione nella Chiesa Cattolica, che non fu la Chiesa della mia infanzia, ma là dove la tradizione è, almeno credo, più universale e più antica.”. Altro incontro fondamentale fu quello con O’Leary sotto l’egida del quale sviluppò un sempre più crescente nazionalismo; proprio contemporaneamente agli attentati dei repubblicani irlandesi alle stazioni ferroviarie inglesi. La decisione di non adottare alcun soggetto nei suoi componimenti che non fosse di natura irlandese, appare allora spiegabilissima, anche perché divenne attivo nella realtà politica irlandese. La sua attenzione per il panorama esoterico rimase alta, e Yeats cercò sempre di mediare e fondere i suoi ideali di “letteratura didattica, nazionale e pura” con il canone espressivo da poco sviluppato interamente; ci riuscì, e produsse una sintesi oscillante fra preraffaellismo e decadenza fin de siècle.

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W. B. YEATS

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Le successive svolte furono l’iscrizione alla sovversiva Irish Republican Brotherhood e l’incontro con Lady Augusta, che lo risollevò dal suo periodo di deperimento fisico e intellettuale, e gli mise a disposizione un’enormità di libri e collaborazioni con altri intellettuali. La sua poesia iniziò a concretizzarsi sempre maggiormente ed il pensiero poetico prese forma, raggiungendo la conciliazione di due opposti: generò la poesia attraverso la reale sperimentazione della materia, senza alcuna finzione. Rimane ancora aperta la diatriba fra gli studiosi, se Yeats sia un romantico o meno; tuttavia la sua opera di fusione fra intelletto e sensibilità demolisce le stesse fondamenta del Romanticismo. Infatti prevalse nei suoi scritti il desiderio di ricercare una ”estetica pura”, una “sintesi della bellezza”. “A partire dal 1886 non ho trattato quasi più che soggetti irlandesi , e ciò per le ragioni da me espresse in Ireland and the Arts. Nella decadenza di un’età votata al culto della ricchezza vi ritroviamo i sacerdoti di una religione quasi del tutto dimenticata. Allo scopo di mantenere il loro carattere sacro, i poeti devono cessare di porsi al servizio di un internazionalismo astratto e vago; essi devono sposare i tratti della natura che li circonda, i sentimenti dominanti di una razza e di un popolo. L’Irlanda rimasta isolata da una civiltà industriale e priva di personalità, per le circostanze della sua storia è intensamente cosciente della sua originalità nazionale. Ella offre agli artisti temi privi legiati : l ’amore del soprannaturale e la passione della sua

indipendenza, creando così fra i suoi poeti e il suo popolo una comunione tale da fare della razza irlandese una razza eletta, e uno dei pilastri che sostengono il mondo”: così Yeats ci comunica i suoi ideali, il suo amor di patria, la sua smaniosa determinazione a liberare la terra nella quale il popolo irlandese non può più sentirsi libero. Sembra inutile sottolinearlo, ma l’utilizzo del termine “race” (tr. razza), risulta ovviamente scevro dai soliti ovvi compartimenti nei quali spesso viene, non sempre ingiustamente, inser ito ; previa considerazione del periodo storico e politico-sociale nel quale furono scritte queste parole. Comunque sia, la poesia diventa nelle mani del maturo Yeats, un potentissimo strumento di realizzazione del proprio sé, in parallelo alle dottrine esoteriche da lui acquisite. Nel 1923 a William Butler Yeats fu riconosciuto il Premio Nobel per la letteratura, e sedici anni dopo, il 28 Gennaio del 1939 morì di congestione polmonare, venne seppellito prima a Roquebrune in Francia, e poi spostato a Drumcliffe. Sulla sua pietra tombale furono incisi gli ultimi versi della poesia Under Ben Bulben:

Cast a cold eye

On life, on death.

Horseman, pass by!

Qui di seguito riportiamo una delle poesie a nostro parere più evocative che appartengono alla raccolta «Last Poems» (1936-1939):

Phanes n.1

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Cuchulain Confortato

<< Un uomo che subì sei ferite mortali, un uomo/ Violento e famoso, marciò fra i morti;/ Degli occhi guardarono fissamente fra i rami, e scomparvero.

Allora alcuni Spiriti che bisbigliavano testa a testa/ Sopraggiunsero e poi scomparvero. Egli si appoggiò addosso ad un albero/ Quasi volesse ragionare sulle ferite e sul sangue.

E uno degli Spiriti che pareva detenere più autorità/ Fra tutte quelle cose dalla forma d’uccello, venne e lasciò cadere/ Un fardello di lino. Spiriti a due ed a tre

Vennero arrampicandosi poiché quell’uomo era immobile./ E quindi colui che portava il lino disse:/ “La tua vita sarà molto più dolce se obbedirai

Alle nostre antiche regole e ti farai un sudario;/ Soprattutto perché con tutto ciò che solo noi sappiamo/ Il fracasso di quelle armi ci rende spaventati.

Noi infiliamo il filo nelle crune, e ciò che noi facciamo/ Tutti devono farlo assieme a noi.” E detto ciò, l’uomo/ Afferrò l’ago più vicino e iniziò a cucire.

“Or dobbiamo cantare e cantare nel modo migliore,/ Ma prima devi conoscere che carattere abbiamo:/ Tutti codardi senza scampo, uccisi dai parenti

O sottratti alle loro case e lasciati a morire nella paura.”/ Essi cantarono, ma non avevano né parole né melodie umane,/ Sebbene ogni cosa fosse fatta in comune come prima;/ Le loro gole erano mutate ed ora avevano le gole degli

uccelli. >> [Trad. a c.d.r.] [J.R.]

Immagini:

p.39. William Butler Yeats, di John Singer Sargent, 1908.

p.41, Statua di Cuchulainn, di Oliver Sheppard, Dublin.

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A cura di Jonathan Righi

SEZIONE OMNIA ALTERA

ODAE ADESPOTAE KILDARE

INNO A VENERE ROQUEPERTUSE

LA GENEALOGIA DI BRIDE ELIOGABALEION

SURYA RECENSIONI

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Aveva solo diciassette anni, aveva iniziato a studiare il greco da soli due anni, senza maestro, e su libri antiquatissimi, ed era già in grado di comporre due odi, di una grazia sorprendente, adeguandosi ad un metro lirico molto difficile ed ad un registro linguistico degno di un navigato filologo. Le due Odae Adespotae, letteralmente “Odi di autore incerto”, sono una imitazione delle famose odi di Anacreonte, o meglio, quelle che nel 1700 giravano sotto il suo nome: un corpus di odi in metro lirico, di estensione molto limitata e di leggiadria e leggerezza ineguagliabili, con tematiche molto disparate, ma tutte incentrate su un programmatico utilizzo all’interno dei simposi. La prima ode, “Ad Amore” è la più breve, appena 9 versi, la seconda, “A Selene” è lunga 31 versi. Le edizioni oggi disponibili tendono a tradurre i titoli

come “All’amore” e “Alla luna”, tralasciando sia il significato delle due odi, sia la grafia delle stampe approvate dall’autore. Il primo componimento è molto vicino ad un epigramma, sia per forma che per significato, mentre il secondo è prettamente una preghiera, nulla di più e nulla di meno. Leopardi, che scrisse e spacciò per originali greci i due componimenti, proprio come l’Inno a Nettuno, ne corredò il testo metrico greco con una traduzione, in prosa ritmica, latina. La traduzione che qui forniamo è la prima letterale mai approntata delle due odi.

(Metro. “Ad Amore”: ferecratei. “A Selene”: dimetri ionici con anaclasi, con prima sillaba di quantità indifferente.)

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LE ODAE ADESPOTAE DI G. LEOPARDI

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Ode I, Ad Amore.

In una foresta frondosa

Sorpresi Amore addormentato

E subito sbrigandomi

Il (fanciullo) che non sentiva legai

Con rosei lacci.

Ma il bambino non appena si risvegliò

Spezzò quanto lo teneva legato e disse:

Non così presto te ne saresti liberato

Se ti avessi legato io!

Ode II, A Selene.

Voglio cantare Selene.

Ti canteremo, o Selene,

Sublime, Viso argenteo,

Che, possedendo il cielo,

Regni sulla placida notte,

e sui sogni oscuri.

Tu onori anche le stelle

Che tutto il cielo rendi splendente,

Guidi il bianco carro

E i chiari cavalli

Che si levano su dal mare:

E mentre in ogni luogo

Gli uomini tacciono,

Silenziosamente, tu, sola e notturna

Percorri il cammino nel mezzo del cielo;

Sopra i monti, sopra le cime

Degli alberi e i tetti delle case

E sulle strade e sui laghi

Posi la tua pura luce.

Tu sei temuta dai ladri

Dacchè tutto l’universo percorri

Ma ti lodano gli usignoli,

tutta la notte nel tempo d’estate,

Canticchiando con voce leggera

Tra i rami densi di foglie.

Sei cara ai viaggiatori.

Nel mentre emergi dalle acque,

Ti amano gli Dei, t’onorano gli umani,

O splendore dal viso argenteo,

Degna di rispetto, sublime, apportatrice di luce. [L.A.]

Immagini:

p.43, Prima Edizione, da Lo Spettatore 1817.

p.45, Prima edizione, da Lo Spettatore, 1817.

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Pagina 46 Phanes n.1

Vi riportiamo qui di seguito la “Sloinntireachd Bhride”, estratta dai Carmina Gaelica di Alexander Carmichael, ed a voi presentata in traduzione italiana. La Genealogia di Bride ha lo scopo di richiamare Bride accanto al supplice per proteggerlo e condurlo alla salvezza.

“La genealogia di Bride, la santa fanciulla,/ raggiante d’oro e di fiamma, la nobile madre adottiva di Cristo./ Bride, figlia di Dugall il Bruno, figlio di Aodh/ Figlio di Art, figlio di Conn/ Figlio di Criara, Figlio di Cis, Figlio di Cormac, Figlio di Carruin.

Ogni giorno ed ogni notte/ Quando ripeterò la genealogia di Bride,/ Non potrò essere ucciso, non potrò essere derubato,/ Non potrò essere fatto prigioniero, non potrò essere ferito,/ E Cristo non potrà mai scordarsi di me.

Né fuoco, né sole, né luna mi potranno bruciare,/ Né lago, né fiume, né mare mi potranno affogare,/ Né freccia di fata né dardo di folletto mi potranno ferire,/ Sono sotto la protezione di Maria la

Santa,/ E la dolce mia madre adottiva è l’amabile Bride.(1)” [J.R.]

NOTE:

1. CARMICHAEL 1992.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-CARMICHAEL 1992: A. CARMICHAEL, Carmina Gadelica: Hymns & Incantations, Lindisfarne Books, 1992.

Immagini:

p.46, Particolare del “Book of Kells”.

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LA GENEALOGIA DI BRIDE Antica supplica a Bride la raggiante.

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Il più potente fra tutti i Navagrahas è Surya, il Sole; anche chiamato Ravi; egli è considerato come la personificazione del pianeta Sole, il globo di luce e calore, ed è raffigurato con una carnagione dorata e raggi luminosi di gloria che circondano il suo capo. Talvolta lo si dipinge con due braccia, altre volte con quattro, regge in mano un fiore di loto e per questo prende il nome di “signore del loto”(1). Poiché la natura prima del Sole è luce, Surya è chiamato ātmakāraka, ossia colui che presiede all’ ātmā(2). In questi termini governa sulla fiducia che ogni persona ha verso se stessa, sull’autorità e lo status di ogni uomo. È anche la divinità patrona degli occhi e governatore del segno del Leone(3). Il Visnu Purāna (2.8.15), afferma che il sole non si muove, non sorge e non tramonta, poiché il sorgere ed il tramontare implicherebbero fasi nelle quali il sole non sarebbe presente, o comunque sarebbe “scomparso”. Per conciliarsi con Surya, viene dato il mantra che qui di seguito riportiamo. [J.R.]

Japa Kusuma Sankasham

Kashyapeyam Mahadyuthim

Thamognam Sarvapapagnam

Pranathosmi Divakaram.

O Distruttore dell’oscurità dell’ignoranza!

O Epuratore di ogni peccato!

Ti porgo il mio omaggio!

NOTE:

1. COLEMAN 1995.

2. Il termine ātmā è traducibile con “il sé”; indica il vero sé scevro dalle identificazioni con i fenomeni naturali.

3. Si veda l’articolo “Navagrahas” in Phanes n.0 p. 37 e sgg.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-COLEMAN 1995: C. COLEMAN, The Mythology of the Hindus, Asian Educational Services, New Delhi 1995.

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SURYA Il Sole indiano.

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Quest’Inno, facente parte del-la raccolta degli Hymni Naturales, è rielaborazione ed ampliamento di un’idea desunta da Marullo dalla let-tura dell’incipit del primo libro di Lu-crezio: innegabili i debiti, ma ancor più innegabile l’apporto origina-le dell’autore, ca- pace di trasforma-re una invocazione in un inno, lirico, in strofe saffiche. Marullo nacque a Costantinopoli nel 1453, greco di na-scita dunque, si spostò in Italia dopo il crollo dell’impero bizantino, per entrare nella cerchia degli umanisti medicei (circa nel 1486). Antagonista di Poliziano, Marullo utilizzò il latino non come una lingua cristalliz-zata e stereotipata, bensì come uno strumento linguistico ancora vivo e ancora valido. Le sue raccolte principali sono quattro libri di epigrammi ed appunto, questi Inni Naturali (editi nel 1497). Il testo che qui riportiamo è solo una sezione dell’intero componimento. Nei primi quindici versi, che abbiamo tagliato, vi era l’invocazione ad Erato, musa della poesia amoro-sa. La splendida traduzione che qui presentiamo è tratta dall’esemplare e immancabile rac-colta Poeti latini del quattrocento di Francesco Arnaldi. e Lucia Gualdo-Rosa (pp. 48 sgg.). [L.A.]

L’INNO A VENERE DI MARULLO

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Pagina 49 Phanes n.1

Ante nec terrae facies inerti

Nec suus stellis honor et sine ullis

Aura torpebant zephyris, sine ullis

(20)Piscibus unda ;

Prima de patris gremio Cythere

Caeca Naturae miserata membra,

Solvi antiquam minimum vigendo

Foedere litem.

(25)Illa supremis spatiis removit

Lucidum hun ignem mediasque terras

Arte suspendit pelagusque molles

Inter et auras :

Tunc et immenso micuere primum

(30)Signa tot coelo et sua flamina aer

Coepit, admirans volucrem proterva

Proelia fratum ;

Tunc repentinis freta visa montris

Fervere et nova facie novoque

(35)Flore diffusos aperire tellus

Daedela vultus

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Prima la terra inerte non aveva un volto, né le stelle avevano il loro splendore, dormiva l’aria senza alcun soffio di zeffiro, dormivano le acque senza pesci.

Per prima Citerea, nascendo dal grembo del padre, ebbe compassione delle cieche membra della natura e sciolse con un auspicabile patto la antica contesa.

Ella trasse dagli spazi supremi questa nostra splendida luce e sospese la terra in mezzo tra l’oceano e l’aria leggera:

Allora per la prima volta brillarono tante stelle nell’immensità del cielo e l’aria ebbe i suoi venti, e stupì ammirando le ac-cese battaglie degli alati fratelli.

Allora all’improvviso rividero le on-de ribollire gonfie di mostri, e la terra crea-trice si dischiuse in nuovo aspetto e sparse il suo volto di fiori novelli.

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Iam greges passim varios boumque ar-

Menta, iam pictas volucres ferasque

Surgere emotis erat hic et illic

(40)Cernere glebis ;

At virum, quamvis etiam labante

Aegra plebs genu, meditari et urbes

Tectaque et iam tum sociorum amicos

Iungere coetus.

(45)Quos ferox inter medios Cupido

Acer it, fratrum comitante turba,

Callidus quondam petiisse certa

Quenque sagitta,

Seu libet magnae genetricis alta

(50)Templa semota paragrare cura,

Seu procellosae per aperta vitae

Flectere gressum,

Sive, mutato iaculis veneno,

Mutuis tactos penitus favillis

(55)Carpere et gentis breve ver parata

Prole novare.

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Già si potevano vedere numerosi greggi ed armenti di buoi, e uccelli vario-pinti e fiere selvatiche sorgere qua e là dal-le zolle smosse.

E la stirpe degli uomini, benché an-cora vacillante sulle ginocchia mal ferme, concepire case e città, e, fin da allora, riu-nirsi in società civili.

In mezzo tra loro avanza il feroce Cupido, accompagnato dalla schiera dei suoi fratelli, abile da sempre nel colpire tutti colla sua freccia sicura,

Sia che gli piaccia errare nelle alte dimore della sua grande madre lungi da ogni preoccupazione, sia che voglia andare all’aperto, per le vie tempestose della vita,

Sia che, mutando il veleno dei suoi dardi, preferisca colpire nel fondo due cuo-ri con fiamma scambievole e rinnovare colla prole la breve stagione degli uomini.

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Pagina 51 Phanes n.1

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Ipso lascivo Venus alma partu

Laeta, nunc iunctis vehitur columbis,

Eriosque alto set optima Cypri

(60)Templa revisens

Ridet et tellus veniente diva

Carpathi et rident freta, nec sereno

Sibilat coelo nisi blandientis

Aura Favoni;

(65)Nunc, novis sanctum caput impedita

Floribus, plausasque levis choreas

Ducit et passim violis scatentem

Ter pede nudo

Concutit terram : sequitur Iuventa

(70)Fervidum Spirans, sequitur Voluptas

Prodiga et zonis Charitum renidens

Turba solutis.

Spectat occulto latitans roseto

Mars pater simulque cupit videri

(75)Et timet, simul velut igne cera ex-

udat abitque.

E l’alma Venere, lieta del suo capric-cioso figliolo, ora su un carro trasportato da colombe si reca sull’alta Erice o ai ricchi templi di Cipro:

Ride la terra all’arrivo della dea, ri-dono le onde del mare di Scarpanto, e il cie-lo sereno è turbato solo dall’aura carezzevo-le di Zefiro;

Ora, col santo capo inghirlandato di giovani fiori, segna il ritmo delle danze leg-giadre, e per tre volte col piede nudo

Colpisce la terra: che tutta si ricopre di viole, la segue l’ardente Gioventù, la se-gue il Piacere prodigo, e il gruppo delle splendide Grazie dalle cinture sciolte.

La guarda, nascondendosi nel folto di un roseto, il padre Marte, e insieme desidera e teme di essere visto, insieme si scioglie co-me cera al contatto del fuoco.

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Pagina 52 Phanes n.1

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Nunc uni currus, ubi amica quondam

Hasta? Quid tecum, bone dux, roseto?

Nempe iam sordent galeae aptiorque

(80)Crinibus herba est.

Illa tormentisuqe deique amore

Pulchrior, quam dissimulat videre,

Hoc mage occulta placuisse quaerit,

Callida, ab arte :

(85)Et modo suras teretas reducta

Veste, dum saltat, studiosa nudat,

Et modo pectus retegit statimque

Claudit eburneum.

Sed, Venus regina, Iovis propago

(90)Aurea, hunc adsis, precor, et maligna

Nocte discussa tua da beata

visere templa.

Dov’è ora il carro, dove l’asta, che un tempo ti era amica? Che hai a che fare, coraggioso condottiero, con un roseto? Or-mai l’elmo si arrugginisce, e l’erba è più adatta ai tuoi capelli.

Quella, resa più bella dagli affanni e dall’amore del Dio, quanto più finge di non vederlo, tanto più di nascosto, astuta, cerca di piacergli:

Ed ora ad arte scopre, danzando, le belle gambe, ora denuda il petto d’avorio e subito lo nasconde.

Ma tu, o Venere regina, aurea stirpe di Giove, vieni qui, ti prego, e, disperdendo la notte maligna, permettimi di visitare i

tuoi templi bea-ti.

Immagini:

p.48, Ritratto di Michele Marullo Tarcaniota, S. Botticelli, Museo del Prado.

p.52, Affresco raffigurante Venere nascente con amorini. Da Pompei.

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In una piccola città che conta poco più di 7000 abitanti, 50 km ad ovest di Dublino, sorge la cattedrale di Kildare, sede principale di venerazione di Santa Brigida d’Irlanda. Questa figura porta sulle spalle il nome di un’antichissima divinità celtica, l’eccellente Brighit; tuttavia l’agiografia ci racconta altrimenti: S. Brigida nacque a Faughart nel 445 d. C., da un padre druido, e divenne una delle figure essenziali del Cristianesimo irlandese, paragonabile solo a S. Patrizio. La cattedrale di Kildare ha una storia controversa e lunga, che trova le sue

radici nel nome stesso: Kildare significa infatti Chiesa delle Querce; l’originaria costruzione architettonica risale al 480 a. C., e secondo la tradizione fu pensata e realizzata dalla stessa S. Brigida. Ovviamente non si può pensare che non vi fosse ancor più anticamente un tempio dedicato alla Dea Brighit(1), ed in effetti l’archeologia ha contribuito a sfatare la tradizione cristiana rendendo giustizia all’antica dimora della Dea. Anticamente Kildare è stata quindi luogo di culto dell’”eccellente” divinità, patrona del fuoco, delle acque, dei fabbri, della poesia,

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KILDARE La chiesetta della Quercia.

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musica, e nutrice feconda datrice di vita. Eravamo tuttavia rimasti al 480 d. C., data del primo insediamento della Santa; nel 6 sec. d. C. compare la prima costruzione di una chiesetta, ma è solo nel 1223 che la vera e propria cattedrale prende forma, sotto direzione del vescovo Ralph of Bristol. La struttura in stile gotico resisterà sino al 1641 circa, dove vivrà un periodo di rovina e trasandatezza, ed infine solo nel 19 sec. verrà restaurata completamente e riportata all’antica interezza. Nei pressi della cattedrale rimangono gli indelebili segni del culto pagano che un tempo lì dimorava; ed il Tempio del Fuoco ne è simbolo incontrovertibile: una struttura quadrata ed un muretto ricordano il luogo nel quale veniva acceso e mantenuto costantemente il fuoco sacro alla Dea, e proprio del destino di questa fiamma è necessario parlare, infatti con l’avvicendarsi dei secoli, le suore brigidine

assunsero il ruolo di guardiane del sacro fuoco, sino a che nel 16 sec. Enrico XIII decise di estinguerlo. Fu solo ai nostri tempi, nel 1993, che la fiamma riacquistò la sua sacralità(2). [J.R.]

NOTE:

1. Si veda l’articolo “Brighit”, a p.14 e sgg.

2. Si veda l’articolo su Mary Cullen, a p.2 e sgg.

Immagini:

p.53, cattedrale di Kildare.

p.54, Tempio del fuoco a Kildare.

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L'Elagabalium era un tempio, costruito a Roma da Eliogabalo, imperatore-sacerdote del dio El-Gabal, latinizzato in Sol Invictus. Il tempio sorgeva sul lato nord-orientale del colle Palatino, probabilmente su un preesistente luogo di culto dedicato a Giove. La dedica originaria a Giove sarebbe suffragata, oltre che da fonti letterarie, dal fatto che il tempio, alla morte di Eliogabalo, venne subito riciclato a luogo di culto del Re degli Dei. Il tempio aveva dimensioni assolutamente ragguardevoli: 70x40m. ed era circondato da un porticato. La piattaforma sulla quale il tempio sorse era stata messa a punto da Domiziano per il suddetto tempio preesistente. Appena salito al potere, il giovanissimo imperatore, importò da Emesa a Roma la pietra nera, un asteroide a forma di cono, dono del Dio alla terra, per collocarlo prima in un tempio costruito nei pressi dell'attuale basilica di S. Croce in Gerusalemme, in attesa dell'ultimazione della più consona collocazione sul Palatino. Che il tempio del sol Invictus sostituisse quello preesistente di Giove è forse anche un modo evidente per ribadire quanto sostenuto in ambito teologico dall'Imperatore: la supremazia divina del Sol Invictus su tutte le divinità del pantheon romano. Questo Dio sarebbe infatti alla base della generazione stessa delle divinità. Gli unici resti visibili sono

riconducibili alle sostruzioni del terrazzamento, mentre del tempio rimangono visibili solo scarsi resti nei pressi della chiesa di S. Sebastiano sul Palatino. [L.A.]

Immagini:

p . 5 5 P i a n t i n a r i c o s t r u t t i v a dell'Elagabalium, comprendente l'attuale chiesa di S. Sebastiano.

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ELAGABALIUM

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Il reperto di questo numero si trova vicino Velaux, a Nord di Marsiglia, è stato r i n v e n u t o n e l l ’ A c r o p o l i d i Roquepertuse, distrutta dalle invasioni romane nel 124 a. C. e scoperta nel 1860. Il più i m p o r t a n t e r i t r o v a m e n t o d i quest’area è stata una piattaforma di pietra di 50m per 20m, risalente al III sec. a.C., su questa sono stati eretti quattro pilastri costituenti una porta: sui tre pilastri verticali sono presenti sette nicchie. Sul pilastro orizzontale è poggiata una statua aviforme alta circa 60 cm, rappresentante probabilmente un’oca. Innanzi al portale si trovano due statue di guerrieri a gambe incrociate, inoltre nella stessa area è stata rinvenuta una testa bicefala somigliante alle comuni rappresentazioni di Giano. Moltissimi studiosi si sono avvicendati ad interpretare i possibili significati di questa struttura: i crani posti nelle nicchie riportano direttamente al significato della “testa” nella tradizione celtica. Nella testa secondo le filosofie dei Celti, era la sede dell’anima; lo testimoniano i racconti e le

e v i d e n z e archeologiche: viene descritta l’usanza dei guerrieri di tagliare le teste dei nemici per poi appenderle sul carro ed esibirle durante le battaglie. L’uccello assiso sul portale è creduto essere un’oca: nella Repubblica Ceca dell’Est svariati luoghi di sepoltura risalenti all’Età del Ferro contengono, assieme allo scheletro del

defunto (quasi sempre nel caso di soldati), ossa di oche. Il collegamento fra soldato e oca diviene spiegabile se si pensa a questi uccelli in natura, infatti hanno un comportamento combattivo e bellicoso, oltre ad essere eccellenti combattenti. Una curiosità, fra i vari reperti, abbiamo anche dei semi vegetali che sono stati prima lavorati e poi tostati, e che fanno ipotizzare una produzione di birra quindi risalente sin dall’Età del Ferro. [G. R.]

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IL PORTALE DI ROQUEPERTUSE

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Immagini:

p.56, portale e guerrieri seduti.

p.57, guerriero seduto a gambe incrociate.

p.57, testa bicefala.

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Un documento epigrafico forse a molti non noto, inerente alla figura di Antinoo, è l’obelisco pinciano. Questo monolite di granito rosa di Aswan è alto ben 9,24 metri, e presenta iscrizioni geroglifiche su tutti e quattro i lati. La sua storia è alquanto misteriosa. Non se ne conosce la sua originale collocazione, e le ipotesi sono state molto disparate: proveniente dal così detto “Antioneion”, o da Palatino? L’obelisco venne spostato dalla sua originaria collocazione da Eliogabalo, che lo volle come ornamento per la spina del circo Variano, nella residenza imperiale suburbana. La prima menzione dell’obelisco risale al 1527, anno in cui Andrea Fulvio ebbe modo di vederlo, semi sepolto e spezzato, proprio nel circo suddetto, presso le mura Aureliane. Nel 1633 papa Urbano VIII Barberini lo fece trasportare, spezzato in tre grosse parti, nei giardini del palazzo avito, dove rimase fin quando venne regalato da una discendente del casato a Clemente XIV, nel 1773, e quindi trasportato in Vaticano. Ma solo con Pio VII, nel 1822, l’obelisco tornò a svettare, nella sua sede, ormai permanente, del Pincio. L’obelisco reca geroglifici, forse incisi a Roma, che narrano dei funerali e delle cerimonie cultuali dedicate e da dedicarsi ad Antinoo, ormai Dio associato ad Osiride. Ma leggiamo insieme il testo tradotto (il lato II, che è in ordine di

lettura il primo, non viene qui riportato, in quanto contiene solo la dedica ad Adriano ed alla consorte Sabina):

Lato III.

“l’hsy (titolo onorifico che designa l’eroizzazione del defunto) Antinoo, giusto di voce. Era un bel fanciullo, festoso nel volto, forte di animo, valoroso come un leone.

Avendo ricevuto il comando del dio di andare, gli sono stati praticati tutti i riti dei sacerdoti di Osiride e tutte le operazioni misteriose del suo libro, tutto il paese ne venne a conoscenza e tutti ne parlarono con ardore come mai era avvenuto sino ad oggi.

I suoi alari, il suo lago sacro, le preghiere per lui gli danno il soffio di vita. Nel cuore di tutta la gente di Hermopolis vi fu adorazione per lui.

Il Signore della parola del dio (Toth) ringiovanisce il suo ka.

La gente lo ama, lo adora e lo loda, il suo posto è nella Sala Ma’aty con gli Hw ikr che sono al seguito di Osiride; il suo ka è libero di entrare e di uscire secondo la sua volontà e i Custodi delle Porte della terra del Silenzio aprono i loro chiavistelli e spalancano le loro porte per milioni di anni.”

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L’OBELISCO DI ANTINOO AL PINCIO

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Lato I.

L’hsy giusto di voce, Antinoo, che si rallegra in questo santuario posto all’interno del deserto orientale […] del signore di Tebe […] di Roma.

Gli è stato eretto un tempio e gli viene tributato culto come ad un Dio da parte dei sacerdoti hm e dei sacerdoti w3b dell’Alto e del Basso Egitto e di quelli che sono in Alessandria.

Gli è stata intitolata una città, abitata dai greci; gli Dei e le Dee dei santuari d’Egitto sono andati lì e sono stati donati loro campi e terreno fertile.

C’è un tempio di questo dio, l’hsy Osiride Antinoo, giusto di voce, costruito con pietra bianca decorato con sfingi, statue ed ornamenti senza numero nello stile antico e nello stile dei greci. Tutti gli Dei gli concedano il soffio di vita, e la salute per l’eternità.

Lato IV.

L’hsy Antinoo, giusto di voce; si celebra una festa in questo giorno nel suo tempio, che porta il suo nome; i forti che sono in questo luogo, i giovani rematori, i più forti di tutto il mondo, tutta la gente che conosce la devozione a Toth, portano in dono corone e offerte di ogni cosa dolce e pura suoi suoi altari e gli bruciano incenso, i seguaci di Toth lo lodano per la sua potenza perché tutti quelli che si recano al suo tempio da ogni parte di tutta la terra, sono ascoltati nelle loro preghiere, ha guarito i malati apparendo

nel sogno e le cose da lui compiute hanno avuto successo tra gli uomini con il suo volere, perché è di origine divina ed è un dio dalla nascita.(1)

L’importanza documentale di questo obelisco è immensa: veniamo informati delle pratiche cultuali, delle associazioni divine alle quali si appigliava la divinizzazione di Antinoo, e forse anche sul suo logo di sepoltura: il lato II infatti riporta le parole: “(Antinoo) riposa in questa tomba, situata all’interno del giardino proprietà del Principe di Roma.”. La collocazione originaria dell’obelisco, si è detto, non è nota, ma si è ipotizzato che si trovasse sul Palatino, nella zona vicino all’attuale chiesa di S. Sebastiano, dove, Eliogabalo smantellò delle preesistenti strutture a favore della costruzione del suo tempio del Sole. In questa occasione quindi l’obelisco sarebbe stato trasferito nel circo di Vario. Inoltre la menzione di un tempio in stile greco, delle sculture e dell’usanza agonale collegata al culto del Dio, ci potrebbe perfettamente riportare all’interno dei palazzi palatini, dotati, come noto, di diverse strutture agonali, oltre quella principale del Circo Massimo, a pochissimi metri di distanza. L’iscrizione però potrebbe anche essere facilmente intesa come indicante il luogo del così detto “Antioneion” di Villa Adriana, altra tenuta imperiale. [A.G.]

NOTE:

1. Sulle questioni del ritrovamento si veda

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MAMBELLA 2008.

2. Le traduzioni qui riportate sono tratte da ROMEO 2007.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-ROMEO 2007: P. ROMEO, Ancora sull’obelisco adrianeo del Pincio, in «Annali» 2007, pp. 92-8.

-MAMBELLA 2008: R. MAMBELLA , Antinoo un dio malinconico, Roma 2008.

Immagini:

p.60, Obelisco di Antinoo, Roma.

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Ossian, per la prima volta nominato da Giraldo Cambrense nel XII sec., fu il leggendario Bardo scozzese frutto dell’unione fra il condottiero Finn Mac Cumhail e la poetessa Sadhbh. James MacPherson scrisse questi Canti di Ossian, probabilmente inventati interamente, e li disse essere una fedele raccolta dei lasciti letterari del grande Ossian. La diatriba è ancora in corso, eppure risulta indubbia una ricerca ed analisi di reali ballate ossianiche scozzesi. Più che di “falso” bisognerebbe

parlare di “massiva rivisitazione”. Sebbene la falsificazione fosse comunque stata appurata, l’opera ebbe una popolarità immensa; e fu oggetto di ispirazione per grandi autori come Foscolo e Goethe. I Canti di Ossian furono pubblicati nel 1760, con il titolo “Fragments of Ancient Poetry collected in the Highlands of Scotland”. L’anno successivo tutti furono estremamente incuriositi dall’annuncio di MacPherson: aveva ritrovato un poema epico riguardante le gesta dell’eroe Fingal, di autore ovviamente noto, Ossian; così nel 1765 prese corpo la raccolta finale, “The Works of Ossian”. Fra i vari appassionati a questo libro vi furono Napoleone e Schubert. L’edizione che vi consigliamo, è frutto dello sforzo di Melchiorre Cesarotti il quale tradusse in termini coerenti alla realtà poetica italiana del tempo, versi appartenenti ad un retroterra assolutamente avulso. Non disponendo di una immagine del libro qui consigliato, riportiamo gli estremi dello stesso qui di seguito: Melchiorre Cesarotti, Le poesie di Ossian, 2 voll., Fabbri Editore, Milano, 2001. [J.R.] Immagini:

p.61, Ossian awakening the spirits on the banks of the Lora, with the sound of his harp, Gérard François, Kunsthalle, Hamburgo.

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I CANTI DI OSSIAN Di Tura accanto alla muraglia assiso (…)

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