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JO LATTARI - MARCO MOTTOLESE MURI IN TRANSITO

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JO LATTARI - MARCO MOTTOLESE

MURI In TRAnSITO

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Tutti voi scrivete i vostri nomi sui muri?Certo! Escluso lui.

Tu non scrivi?No, io non scrivo!

E perché no?Ho qualcun altro che scrive al posto mio.

(colloqui con grafitari a New York negli anni ‘70raccolti nel libro “The Faith on Graffiti”

di Norman Mailer)

Don’t bother to agree with meI’ve already changed my mind!

(Non vi preoccupate di essere d’accordo con me,ho già cambiato idea!)

Su un muro di Los Angeles

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Nota

Ti AMO COSTANZA (ma) SENZA SPERANZA

Enrico Ghezzi

Nell’ultima notte di babilonia, al grande tavolo di nabuccodonosor e del figlio baldassarre, tra fiammate orgiastiche e eccessi sacrileghi, si verifica un evento al-larmante. Una mano appare e scrive sul muro segni che nessuno riesce a leggere: ‘mane techel phares’. Tratto dal carcere e portato davanti al muro, è il profeta danie-le a riconoscere quei segni e a decriptare le tre parole in-dicandone il senso catastrofico (la misura è colma, il ti-ranno verrà ucciso la notte stessa e il regno sarà spartito tra i nemici). La torre di Babele/babilonia, contigua nel libro della Genesi con il capitolo di Noè, è l’esito sugge-stivo e diversamente catastrofico di un altro confronto tra la cifra della lingua e quella del potere.

Babilonia si segnala il set più hard e nitido nella sto-ria della comunicazione (ovvero del mondo in quanto riconosciuto). L’enigma presto risolto e dissipato, e la lingua unica che – punita per la sua sicurezza e per la tracotanza espansionistica – si frantuma nei rivoli delle diverse lingue (richiedendo poi uno sforzo di trasmis-sione traduzione ricomposizione. tutte figure della co-municazione che coincide in gran parte con la storia del mondo stesso).

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Confesso (chiedendo scusa – per l’apparente siderale distanza – ai due autori e ai lettori) che sono le prime idee forme immagini a venirmi in mente. Né sembro cambiare registro se dico che 2001 Odissea nello Spa-zio presenta nel proiettarsi sulla superficie liscia del monolite nero una percezione intensamente ambigua sul ruolo della scrittura (sulla losanga nera rettangolare dello schermo una scritta bianca basta a far passare mil-lenni e a scivolare verso mete interstellari e ultrainfini-te, e il film tutto appare didascalia sublime dell’infinito, lasciandoci per svariati minuti a luci spente di fronte al muro nero dello schermo).

Ancora una volta si mostra la catastrofe come già av-venuta, il visibile quale replica inevitabile dei resti di essa, con l’archeologia unica scienza possibile; e il mu-seo vivente in cui tutti vengono educati e preparati a morire, anzi a non-morire.

L’intero mondo, riconosciuto quale macchina resi-duale, va e viene, trascorrendo indifferentemente nei due sensi e negli sguardi opposti del desiderio (dal mu-seo verso l’esterno/dall’esterno verso il museo).

Questo traspare ovunque, anche a Cosenza. E vien da ammirare la leggerezza con cui jo lattari e marco mottolese hanno commentato le scritte sui muri foto-grafate. L’impegno di non volare, di non tradire con l’interpretazione, di smorzare, si impenna ogni tanto incrociandosi e ingolfandosi volutamente (lo stesso fac-cio io in questo preciso momento del 22 settembre 2015, mentre scrivo ascoltando in sottofondo tv la notizia del signor X che gira di notte in bicicletta testando l’asfalto e il selciato della sua città alessandria, scrivendo per terra

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con la bomboletta grossi avvisi in rosso o in bianco sulla presenza di buchi pericolosi del manto stradale).

Del resto, non pare sia possibile molto altro che ac-cettare l’anonimato che dai muri promana o che il muro sembra aver quasi inghiottito. le scritte murali non do-vrebbero arrestarsi mai, né possiamo non dire quanto a volte un monumento non disdegni d’esser solleticato da pennelli o matite o schizzi gassati, o non apprezzare come una scritta possa far rivivere un luogo stravisto e non più visto/letto da molti anni, o non perdere tempo a sciogliere coacervi di strati e forme prodotti e rigenerati da mani diverse e lontane.

A volte, specie nella notte di luna piena, si possono avvertire rumori di raschiature e fruscii di scrivani, ap-poggiati a muri che son diventati lavagne della città o del mondo, invisibili e fieri di non esser visti, sovrim-pressi dentro il loro stesso disegno o invettiva o gioco di parole o citazione poetica (e penso al bellissimo Passe Muraille di aymé, bizzarro antisupereroe capace di at-traversare i muri e infine bloccato dal muro che non lo accoglie più o lo accoglie troppo definitivamente, gher-mendolo e trattenendole in sé per sempre.

E non posso non tramandare la leggenda conferma-tissima dai miei pur miopissimi occhi.

Ti Amo Costanza ma Senza Speranza: la scritta (in-certo nel ricordo non filmato se ci fosse il Ma o no) restò per anni, attraverso diversi sindaci del periodo rutelvel-troniani, su un grande ponte all’uscita di roma verso la flaminia; più volte tentarono di cancellarla, per anni essa ritornava identica dopo ogni spugnatura. Infine, sparì da sola, credo per consunzione.

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Di certo, a meno che gli editor e gli editori del Mon-do non vogliano imbavagliare i muri e minare i palazzi segnalati come non (a)scrivibili, la bibbia che viviamo ci ricorda (ma mentre trascriviamo le parole il mondo ricomincia a disfarsi, anzi si disfa, ecco la mano – mane thecel phares.

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Note d’autore

Jo Lattari

In principio fu Ambrosia. L’ho incrociata in un no-ioso sabato sera. “Non sarò mai del tutto sveglia”. Fol-gorante. Come il verso di una poesia o il ritornello di una canzone che sembra parlare di te, anzi che avresti voluto scrivere tu per quanto ti è familiare. D’istinto butto un occhio all’angolo opposto della strada e altri muri mi parlano con scie di fucsia e grafia inconfondi-bile. Sono circondata, come dopo aver varcato un con-fine. Quasi che Ambrosia avesse scelto il suo territorio delimitandolo con tag e frasi criptiche. Inevitabilmen-te provo ad immaginarla (o immaginarlo, chi lo sa?) e in fondo in fondo desidero incrociarla, mentre sguscia da un vicolo per colpire ancora. Da quella sera, come una caccia al tesoro, ho frugato tra i muri della città sor-prendendomi dei tanti messaggi fino ad allora muti ai miei occhi. A metà strada tra il semplice imbrattare e l’esprimersi, frasi sgrammaticate o slogan impegnati si stagliano impertinenti in location spesso improbabili. Nulla di nuovo sotto il cielo e sopra i muri. Ad armare la mano sono i moventi di sempre: amore, politica, ri-vendicazioni sociali, filosofia di strada resa talvolta più spicciola dal dialetto del posto. Viene voglia di stanarli questi ignoti graffitari per vedere di nascosto che effetto gli fa. Perché proprio quel muro? E avevi paura che ti

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beccassero? Vivi ancora in città? E com’è passeggiare e ri-leggersi? Non posso non citare una biondissima ado-lescente che ha fulminato me e Ciccio Cangemi mentre fotografavamo un enorme “JENA TI AMO” su un mar-ciapiede. “Siete della polizia?” “No, lavoriamo ad un libro” Di slancio si è tirata giù dal muretto su cui stava svogliatamente appollaiata “Questa l’ ho fatta io! E lui è Jena” indicando un ragazzetto smilzo e spettinato che in nulla somigliava al temibile soprannome. Sono certa che questa scena avrebbe potuto avere come sfondo una qualsiasi città, perché l’urgenza è identica a tutte le lati-tudini: lasciare segni, lanciare sogni.

Marco Mottolese

Camminare, in una città che conosci per la prima volta, essere attratto dai muri, dai segni, dalle parole che li pervadono e li rivestono. Le scritte sui muri sono, ormai, al pari della pubblicità urbana (detta outdoor, in gergo) “inciampi visivi” che deviano a forza il corso dei pensieri. Non so se diventa più semplice capire dove sei “leggendo” una città attraverso le scritte. In questo caso Cosenza, Calabria, luoghi antichi (o vecchi?) sopraffatti di Sud.

È inverno, attraverso, in una giornata grigia e tiepi-da, una città di cui nulla so e che amalgama i colori del-la fatica umana in una unica tonalità, quella sostanza indefinita che diventa casa, che diventa immobile, così come immobili appaiono le scritte che letteralmente si

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abbracciano ai palazzi, in una morsa definitiva e intima. Epocale.

Lì, tatuato sul cemento, inizia e finisce lo sfogo di una tribù che desidera. Desidera comunicare. Cambia-re. Messaggi che però galleggiano all’interno della co-munità stessa e che fanno male, perché sono invettive per un mondo che si vorrebbe diverso, oppure per una età che sembra più dura e lunga a maturare di quan-to ci si aspettasse. Oppure perché, più semplicemente, naufragano contro l’indifferenza generazionale che ha partorito incomunicabilità e culture che non dialogano. E allora ci si chiede: per chi scrivono davvero?

E, se “tutto il mondo è paese”, qui è paese più che mai e l’esercizio creativo – e quasi “fuori legge” – di dare in pasto ed affidare il proprio pensiero ad una bomboletta spray che in parte lo rigenera diventa rivolta più che divertimento. Non c’è danno né ignoranza nello scrive-re e nell’imbrattare dei muri tutto sommato insensibili. Camminare tra questi muri è come camminare tra corpi feriti che attendono anticorpi artistici, letterari. Per gua-rire. Per resuscitare. Ci si aspetta una restituzione o un risarcimento e si inventano frasi ad effetto che possano non fermare il tempo, ma accellerarlo.

Così, il mio camminare è diventato viaggio. Forse al termine della notte. O all’inizio del desiderio. Un “muro è solo in transito” forse, ma infondo non è così per la vita stessa?

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MURI In TRAnSITO

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A MURI

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A MURI

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A MU

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AAA Cercasi

Vi ricordate gli annunci sui giornali, quelli preceduti dalle tre A, che quanto più pagavi tanto più stavi in cima alla colonna? Non vogliamo credere che chi scri-ve su questo muro sia così anziano da avere questa come strategia vincente. Invece ci viene in mente che nel sangue di ognuno di noi, in fondo in fondo, scorre la voglia di incontrare l’anima gemella per riconciliar-ci con la separazione iniziale. E Max non è il solo in cerca di questa anima, ma anche quel “furbetto del quartierino” che ha modificato il numero del cellula-re. E così chi chiamerà, più che l’altra metà della mela, troverà un impostore il quale, complice il muro, avrà forzato le sliding doors provocando smottamenti im-prevedibili.

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A MURI

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A chi più amiamo

Esemplare di aplomb cosentino su muro di via Lon-dra. Questa, infatti, è la versione italiana del prover-bio inglese che indica come a volte il coinvolgimento emotivo possa arrivare a “zittire” le parole. Nell’afa-sia amorosa, ci sono altri modi di comunicare e tra questi, evidentemente, le scritte sui muri che non te-mono concorrenti nel farsi notare da tutti. Dunque, se il rimbambimento amoroso impedisce di usare la voce, si passerà alla scritta sul muro e il messaggio diventerà un po’ monito e un po’ tavola della legge.

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A MU

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Catturare attenzione

Ancor prima che l’attenzione fu catturata l’anima e poi oscurata... Ripensamento tardivo? Downgrading amoroso in tempo reale? Oppure l’anima era troppa cosa da riversare in questa dichiarazione e sufficien-te fu l’attenzione, meno compromettente e maggior-mente controllabile?

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A MURI

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Pupacchia

Un modo come un altro di prendersi delle confidenze

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A MU

RI

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Se potessi

Ecco un grafomane che preferisce affidare a una bom-boletta le parole che avrebbe potuto dire a voce. Al-tamente romantico nell’annunciarsi, ma è tutto da ve-rificare. Facile parlare ai muri. Da notare, in alto, una scritta calcistica di protesta a rimarcare le due passio-ni dei maschi di tutte le età: le ragazze e il calcio. Da sbatterci la testa al muro.

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A MURI

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Sei mia no

Ci sono muri come confessionali laici. Lettera aperta di uno “stronzo” che si autoaccusa e si autoassolve pure, credendo sfrontatamente e fermamente nel per-dono.

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A MU

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Signora M la stimo

Accanto a un portone signorile, una scritta in stile “lettera commerciale”: Gentilissima Sign.ra M... Ma possediamo solamente un indizio. In questo intrigan-te comunicato murario, il nome da intuire cela un de-stinatario misterioso e l’attestato di stima rimane so-speso a evocare chissà quali nobili cause. Un pizzino amoroso che in tempi di toy boys potrebbe indurci a credere che questo sia messaggio da parte di giovane impetuoso a matura signora e, come buona creanza vuole, almeno in pubblico, si mantiene la distanza at-traverso l’uso del “lei”.

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A MURI

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Ti voglio

Qui abbiamo tutto il ventaglio delle possibilità:NON TI VOGLIO, TI VOGLIO, TI AMO, NN TI AMO. Una scritta passepartout, concepita dal collettivo di bipolari che un giorno amano e un altro no. Con l’ag-giunta di un po’ di colore (col rosso mi fermo, col blu parcheggio) e una spruzzata di liceo, quel “non” che minaccioso ghigliottina la vocale come a significare: sbrighiamoci a dire ‘sta cosa.

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Ti renderò le cose facili

Siamo a un bivio. “Ti renderò le cose più facili” es-sendoci o facendomi da parte? Sembra un busillis morettiano: “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte...” ma l’ignoto autore non chiarisce. In alto leggiamo “Freddo” e non sappiamo se è licenza poe-tica o citazione. Insomma, messaggio di commiato o colpo di genio risolutivo di tutti i problemi? Di certo il piccolo cuore in basso a destra ci dice che Joey ha l’istinto della geisha.

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Che mondo sarebbe

Già, saperlo, che mondo sarebbe se Pikkola non ci fosse... un po’ di maschilismo in quel nomignolo (per-ché, LUI, è grande?) e un po’ di sicumera da soap ope-ra. Chi ci rimette, in questo caso, è questo dignitoso spicchio di muro, che avrebbe volentieri continuato a essere ignorato dal resto del mondo.

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Ci siamo scambiati le vite

Ci sono esagerazioni che pretendono non solo il con-tenuto epico ma anche una grammatica ridondante. Se due, cioè entrambi, si scambiano la vita, mica è detto che si debba arrivare anche a un baratto di virtù interiori. Cioè a un’anima riflessa. C’è della filosofia su questo muro, come un Kant dal pensiero lucido ma col blocco dello scrittore. E questo spazio, allora, prende le sembianze di una gabbia mentale per un pensiero troppo grosso che naufraga nell’indicibile.

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A MURI

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Dove stai te sto io

Un raro caso di sdoppiamento? Metempsicosi? Qui si assume, usando la tecnica del “marciapiedi” – che consiste nel mettere il muro in orizzontale – che una persona possa essere sempre dove si trova l’altra. Ma abbiamo l’impressione che quella data quasi lapida-ria rappresenti l’esatto contrario di quanto scritto so-pra: la certezza dichiarata, infatti, si affida al calenda-rio e non ai poteri magici. Quel giorno sì, furono nello stesso luogo. Ma poi?

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L’amore ti fotte

Ogni tanto bisogna “prendere il toro per le corna”.Questa scritta ci fa venire in mente il vecchio adagio che rappresenta il momento decisionale. Poi, capire le ragioni di questo assioma erogato su un muro pra-ticamente isolato e invisibile, è un’altra cosa. Chia-ramente c’è stato qualche problema. Speriamo solo che chi scrive possa, un giorno, ravvedersi, e magari scrivere più verosimilmente sul prossimo muro: “in amore si fotte”.

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Jena ti amo

Un tempo i nomignoli erano più tradizionali e tene-roni. Qui si ama una jena (probabilmente per il writer la J fa più scena della I) e si vuole essere ben sicuri che la bestia in questione veda questo messaggio: tanto è vero che lo si scrive per terra.

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Mi amerai domani?

Quesiti cosmici. In effetti, in un’epoca in cui si scri-vono messaggi di 140 caratteri, si leggono libri di 50 pagine, si tende a taggare piuttosto che a dialogare, be’, è legittima la paura del graffitaro che si domanda se l’amore durerà almeno 24 ore. Fast Love.

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Non ti dimendicherò

È la frase che molti studenti potrebbero rivolgere alla tanto temuta e ormai desueta matita rossoblù, confi-ne cromatico tra “orrori” gravi e meno. Qui dilaga ca-tastroficamente il rosso. Ma ci viene anche da pensare che il graffitaro, per nulla preoccupato dell’ortogra-fia, sia corso ai ripari perché “dimendicare” si può, eccome. Mai dire mai.

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Scusa se ti deludo

Quale rafforzativo rappresenta la scritta sul muro, per vincere sulla comunicazione orale? È solo un sempli-ce paravento per evitare il contatto diretto? “Scusa se ti chiamo amore” la conoscevamo. Qui si passa a “Scusa se ti deludo” (anzi, “se ti sto deludendo”, in un crescendo drammatico). Per questo forsennato scrivere sui muri altro non è che formazione poetica per muratori romantici dall’immaginario troppo svi-luppato per andare oltre la prima pietra.

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Perdono cirillico

Chi potrà mai aver scritto in cirillico la parola PERDONO? Uno che si sente in colpa ma non ha vo-glia di pentirsi del tutto e usa l’escamotage di una lin-gua sconosciuta per salvarsi comunque l’anima? Un reincarnato alle prese con i rigurgiti di un’altra vita? Un fan moscovita di Caterina Caselli? Questa scritta rimane lì, isolata ed enigmatica, come il monolite di “2001 odissea nello spazio” che appare ad annunciare il prossimo cambiamento. Ma quale, poi? La ricerca di un modo di dire senza dire niente. Trendy Cosenza.

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Ti va un bagno

Il dubbio è lecito: si sta esprimendo un desiderio amoroso, una fantasia erotica, una variante sentimen-tale, oppure chi scrive è semplicemente disgustato dal cattivo odore di un suo simile? Che sia una for-mula esortativa?

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Amica mia

La grafia è femminile e la scelta del cancello chiuso emblematica. Qui gatta ci cova... le due amiche si sono sbarazzate del problema “uomini” e hanno creato una autocombustione reciproca che alimenta la tipica amicizia femminile (adolescenziale?), escludendo il resto del mondo. Il gioco durerà, ovviamente, finché le due firmatarie del messaggio non inciamperanno nel primo elemento maschile sul quale mettere gli oc-chi entrambe. Allora leggeremo scritte ben diverse e i cancelli saranno spalancati per la fuga (di lui).

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Ciao Paesà

“Pensavo fosse amore e invece...” Un tradimento. Un errore. Può capitare a tutti di sbagliarsi. Quale mi-gliore occasione, allora, per trasformare il rapporto amoroso in un legame di fratellanza, avvalorato da quel “paisà” rosselliniano? Il cinismo disinvolto rac-chiuso nel classico t.v.b. ci fa tanto pensare a un killer navigato: professione spaccacuori.

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A MURI

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Se dovrei

Speriamo che questo writer innamorato non “dovreb-be” mai scegliere tra l’amore e la vita perché potrem-mo subire nuove scritte ancora più confuse. Chissà se l’oggetto di tanta foga amorosa chiuderà un occhio sull’incipit sgrammaticato… Condizionali condizio-nanti.

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A MU

RI

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Sei come vorrei

La parola “amore”, spauracchio per generazioni, da pronunciare solo nelle grandi e definitive occasioni, si trasforma. Grazie ai reality, ai social e alla tecnologia, esplode sui muri. E ahinoi, ormai è facilmente inter-scambiabile: ”Auguri Principessina, ti twitto” o “Sei come vorrei che tu fossi. Ti whatsappo.”

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SOCIAL

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SOCI

AL

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87100

Immaginiamo di essere nel Bronx, a Seattle o a Tokyo. Lì, dove spesso nascono i trend e i brand mondiali... Il massimo della riconoscibilità coincide, spesso, con il minimo dell’apparenza. Il caso del “baffo” Nike o della “mela” Apple. O del cuore che sostituisce il ver-bo “Love”. Ecco, iconizzare il prefisso postale della propria città, addirittura su un grigio muro anonimo, rende l’idea. Lo sapevano bene anche i primi graffi-tari oltreceano, che si taggavano con il numero civico delle proprie abitazioni. Rimane da capire se qui si tratta di un messaggio cifrato tra cosche o, più sem-plicemente, dell’insano gesto di un impiegato postale con la sindrome charlottiana dei “tempi moderni”.

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Amnistia

Ci viene da pensare che questo sconosciuto scribac-chino sappia che, prima o poi, verrà acciuffato. Che cerchi l’amnistia preventiva sapendo che non potrà passarla liscia per una scritta del genere? L’urgenza del “subito” contrasta con la genericità della richie-sta di “grazia”, che ha sempre dinamiche e tempi che vanno rispettati. Un piccolo sfogo su un piccolo muro, tanto per sentirsi politicamente impegnati e avanzare pretese vaghe.

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Andate via corrotti

Siamo inquietati. Non tanto per la frase “andate via corrotti”, quantomeno attuale e nel solco ventennale di una Italia ladrona e corrotta. È quel “giovani senza pane che vi rubate” che sconcerta: è aggiunta spuria, mélange che affloscia l’anatema precedente non ri-solvendo, ma aggravando. Immaginiamo, certo, che si intenda che i “giovani non hanno lavoro per colpa dei corrotti” ma siamo certi che, cacciati questi ulti-mi, il lavoro emergerebbe per tutti? È un’ipotesi come un’altra. Premio al tentativo, aspettiamo la seconda prova.

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Tag con cane

Questo inintelligibile muro ben si sposa con il cane al centro della foto. I tag raccontano di linguaggi inespressi, di incapacità a comunicare se non, forse, all’interno della propria cerchia. Come i cani, che tra loro si capiscono benissimo. D’altronde il graffitismo annuncia già negli anni Cinquanta l’autentica cultura di strada adolescenziale. E questo criptico scenario sembra far parte di quella bolla di passaggio che (pri-ma o poi) tutti attraversiamo.

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Case

Quello dell’abitazione è sempre stato un problema so-ciale molto sentito. Tantissime le famiglie alla ricerca di una casa popolare affidata dalle istituzioni, ma fra inchieste della Procura, ritardi burocratici e criminali-tà molti si ritrovano senza un tetto sulla testa. Il tema è diventato ancora più caldo da quando il movimento Prendocasa ha iniziato l’occupazione di alcuni stabili in disuso o poco utilizzati come il convento delle suo-re Canossiane.

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Meno chiese

Lo spirito del ‘68 sembra non morire mai... questa sbiadita citazione era frase che già all’epoca dei tu-multi studenteschi compariva sui muri delle scuole. Anche se di chiese se ne costruiscono davvero poche, ormai, perché nel nostro Paese di certo non mancano. Ma se meno chiese deve significare più case allora il problema diventa urbanistico, stante alcuni orrori edilizi che vediamo in giro, soprattutto al sud.

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Meno rifiuti

Il “meno” è segno classico delle scritte sui muri. In questo caso si accostano due classici, che però sono due classici problemi del nostro Paese: i rifiuti e il lavoro. Non si sa perché avere meno rifiuti potrebbe portare maggior lavoro a qualcuno, ma apprezzia-mo lo spirito propositivo di voler tracciare un futuro ideale in cui le città sono pulite e il lavoro non man-ca. Chiaramente chi dovrebbe agire non coglierà lo spunto.

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Né Stato né Dio

Luogo che vai, anarchico che trovi. Colpisce che que-sto genere di scritta, reiterata ovunque, abbia sempre le medesime caratteristiche: la pennellata rigorosa-mente nera, lo stile dimesso e sfuggente come per non lasciar traccia del proprio passaggio. Sono scritte “vintage”pur se fresche di pittura. Come vecchi ma-nifesti elettorali strappati.

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Eat the rich

Abbiamo visto una scritta del genere in più parti d’I-talia. In versione stencil oppure manuale come su questo muro, in stile “operaio”. Eat the rich, col sacro simbolo comunista rivisitato ad hoc. Quella forchetta faciliterà il compito, una volta in atto l’opulenta rivo-luzione?

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Ettore

Ettore era un giovane tifoso del Cosenza. Anzi, Ettore è un giovane tifoso rossoblù. È andato via da questa terra troppo presto ma non c’è una partita di calcio in cui i suoi amici non lo ricordino con un coro. Ogni anno, supporter da tutta Italia giungono in Calabria per celebrarlo in un torneo di calcio. Perché Ettore vive.

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Fratelli bastardi

Agli adolescenti piace essere borderline. In questo caso un po’ Robin Hood e un po’ Zorro, un po’ cosca e un po’ “fratelli di sangue”. Una indicativa esaltazione di ego e machismo. I muri sono psicologi di strada.

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La mala e la tekno

Romanzo Criminale? O troppi fumetti?

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Luther Blissett

Semplice ode muraria. Siamo seguaci di Luther Blis-sett, si dice. E si potrebbe rispondere: io sono l’altro, alla Rimbaud. Negli anni Novanta, il collettivo Lu-ther Blissett introdusse in letteratura e nei media la variante collettiva situazionista. Questo muro non è una firma. È un’edicola votiva.

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Marulla al governo

Gigi Marulla era la bandiera della squadra di calcio cosentina, prematuramente scomparso a luglio 2015. Undici stagioni con indosso la maglia rossoblù, quasi cento goal e innumerevoli record battuti. Per gli ultrà non era un giocatore, era il Capitano. Una volta sui muri della città lo si voleva sindaco, poi ci si è accorti che era troppo poco. Per lui i cosentini avevano già deciso: ci voleva almeno un ministero.

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No metro

“Nessuno mi può misurare, nemmeno tu.” Se in Val di Susa la popolazione non vuole la Tav, a queste lati-tudini i ragazzi esprimono il loro no al progetto della metropolitana leggera. Lo scrivono con lo spray du-rante una manifestazione contro il governo. Vogliono più autobus e più verde. Il “metro” è anche di giudi-zio: contrarietà totale al progetto.

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Padre Fedele

Padre Fedele è un simbolo di Cosenza. Idolo della curva del Cosenza Calcio, ha educato centinaia di ul-trà alla solidarietà. Non ci sono mezze misure: o lo si ama o lo si odia. Una vicenda giudiziaria, conclusa-si positivamente, lo ha portato alla ribalta nazionale. Ma qui abbiamo la prova che c’è chi, sin dall’inizio, ha messo la mano sul fuoco sulla sua assoluta innocen-za. Muro profetico.

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Porta a porta

Chissà se il vetusto conduttore di “Porta a Porta”, Bruno Vespa, si risentirebbe passando da Cosenza e leggendo questo muro. Sicuramente qualcosa da dire ce l’ha, invece, il solito writer che deve avere qualche conto in sospeso con il piccolo schermo. A meno che questa scritta non sia un riconoscimento ad honorem per gli addetti al “porta a porta”, un mestiere che una volta riempiva le case di enciclopedie e aspirapolveri e che oggi, in tempi di crisi, sembrerebbe essere tor-nato in auge.

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Reggea

“Unione di culture”. Dallo psichedelico all’informati-co il passo ormai è breve. Reggae nerd.

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Sud ribelle

Dal Globale al Glocale è un attimo. È il novembre 2002 e gli echi del tragico G8 di Genova dell’anno prima arrivano fino alla città dei bruzi. Tredici militanti del movimento Sud Ribelle vengono arrestati con l’accu-sa di aver tentato di sovvertire “l’ordine politico ed economico dello Stato”. Sono ricercatori universita-ri, docenti, precari, volontari che operano nel sociale. Alcuni di loro vengono detenuti in regime di carcere duro. La città si indigna da destra e da sinistra e scen-de in piazza, insieme a centomila persone provenien-ti da tutta Italia per gridare i due slogan nelle foto. Dopo dieci anni di processi, i tredici militanti vengo-no tutti assolti perché il fatto non sussiste.

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Uccello libero

Uccello è il soprannome di un noto ultrà della curva del Cosenza Calcio. Ne ha passate tante nella vita e, come spesso capita in provincia, si finisce su strade sbagliate compiendo azioni di cui non si può andare fieri. Uccello ha pagato lo sbandamento con il carcere e con l’ospedale psichiatrico giudiziario e chi lo cono-sce ha sempre chiesto per lui un aiuto che non preve-desse sbarre.

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Vaticano talebano

La rima, ah, la rima... siamo (quasi) certi che questo muro è semplice e pura assonanza. Scevro di ragio-namenti politici e religiosi, viene calato come la carta scelta a caso dal mazzo. Sì, certo, il Vaticano potrebbe a suo modo anche essere talebano, ma anche il taleba-no può andare in Vaticano. Questo muro è come un limerick, quei brevi componenti poetici umoristici un po’ “nonsense”.

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Baglioni

In alto, alla destra di questa struggente frase c’è un condizionatore pronto a intervenire in caso di sve-nimento per palese mancanza d’aria. Baglioni docet. Dalla “maglietta fina” al respiro mancante la questio-ne rimane sottile e il pensiero debole se ne approfitta, spacciando per messaggio d’amore personale i popo-lari versi di un’icona italiota.

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Fedez

Qui c’è della premeditazione. Se mi lasci ti cancello. O ti sostituisco con un “copia e incolla”. E che dire di quella rima matita/finita? Crudele. Come solo gli innamorati sanno essere.

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Ligabue

Se “il meglio deve ancora venire” non può che essere la pulizia integrale di questo muro e del caos che si porta su. Pulizie e psicologo per il gruppo di imbrat-tatori, magari a spese di Ligabue, no?

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Battiato

Facciamo una psicolettura di questa scritta. Una stra-da in salita sovrasta un muretto che, per ovvie ragioni architettoniche, si assottiglia verso l’inizio della leg-gera discesa. Piciu, certamente il writer innamorato, sceglie di sprayare qui uno dei versi più belli mai scritti da un cantautore. Questo Piciu va a incastrare la magica dichiarazione di Battiato tra strada e asfal-to, all’inizio di due opposti sensi di marcia, rendendo assurda la scelta di realizzarla su questo brandello di muro. Analisi: la dichiarazione è “fuori luogo”, un verso poetico così alto non si può mettere in cattività.

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Beatles

Ci piace vederla così: “Stand by me, girl with a bro-ken smile”. Una diabolica crasi tra John Lennon e i Maroon 5. Questa è la fine che fa, cinquant’anni dopo, la canzone culto che fu inizialmente di Ben E. King. Ignara evoluzione o involuzione?

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Blink 182

I Jake e Sally cantati dalla band punk californiana Blink 182 altri non sono che i protagonisti della fa-vola gotico-romantica raccontata da Tim Burton nel suo celebre film “The nightmare before Christmas”. I personaggi vivono una storia d’amore struggente nel buio delle tenebre, ma alla fine la luce dei loro senti-menti li aiuterà a restare insieme. Muro emo.

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Pausini

Chi scrive è un serial killer? Un bandito? Un perico-loso delinquente? O piuttosto sente di rappresentare per l’altro un metaforico pericolo in quanto questuan-te d’amore? (E l’amore incute paura, eccome...). I ver-si sono d’autore ma il risultato, si sa, non può essere garantito.

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Lumpen

È il titolo del primo album dei Lumpen, band made in Cosenza che si cimenta con il punk oi, il genere che canta di temi sociali e della vita della working class. Suoni duri e parole ancora più crude per descrivere che la provincia dell’impero non è rosa e fiori. La fra-se richiama anche l’omonimo romanzo di Pino Ca-cucci in cui viene raccontata la vita di Jules Bonnet, l’anarchico francese che ha lottato per la rivoluzione.

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Bosé

Per la serie ESAGERAZIONI. Una hit del grande Miguel diventa muro per mandare un pizzino, sec-co: qualcuno ha mollato gli ormeggi. La vita appare insensata. Alzi la mano chi non ha provato almeno una volta una sensazione del genere. Ma quanti, inve-ce, sono andati a sfogare la propria tristezza su di un muro? “Ti amo azzu.” Sfrontati nel dichiararsi, i ra-gazzi hanno trovato chi li aiuta nella necessaria ana-lisi dell’abbandono: i muri, le scritte che li riempiono, e la tribuna pubblica, in linea con lo stile televisivo che ci ha cambiato la vita nel mettere in piazza i fatti nostri.

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Ferro da stiro

Per prendersi la briga di organizzare una scritta sul muro, e rischiare, in fondo solo per sfottere il cogno-me di un cantante, be’, questo Ferro deve aver rap-presentato qualcosa di importante per il writer. Ma siamo nel campo delle barzellette per bambini. For-se un fan deluso? O i biglietti dell’ultimo concerto di Ferro erano troppo cari?

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Bublé

Lei era stata molto chiara. Lo aveva scritto finanche sui muri che era finita. Ma è risaputo, non sempre l’uomo avvisato si salverà. “I never saw the writing that was on the wall”, confessa Bublé in “Lost”. Lui non aveva letto (distratto o analfabeta sentimentale?) e ora, come spesso accade, cerca di salvarsi in extre-mis. Rilancia muro contro muro, sfida il buio con il blu perché lei non si senta mai persa.

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Gemelli diversi

La minacciosa insegnante fa risvegliare lo studente sognatore e il risultato potrebbe suonare come puro esercizio di consecutio: coordinare una azione del passato a una del presente. Tra tutti i muri della se-zione musicale ci pare, forse, il più razionale ma an-che il più romantico. Dai sogni ci si risveglia per poter tornare a sognare.

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Mecna

“Torneremo felici del nostro inferno”. Questo verso murario ci trasporta in una torbida dimensione rim-baudiana. La stagione dell’adolescenza d’altronde è un po’ maledetta. Ma se si può essere felici del pro-prio inferno vale qualsiasi cosa. Infatti poi alla fine scopri che è un compleanno, e tutto si sfalda.

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X FACTOR

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Oasis

Il leader degli Oasis, durante un’intervista, ammise che la parola Wonderwall (letteralmente “muro delle meraviglie”) non aveva alcun significato. Il termine fu preso dalla colonna sonora di un film degli anni Sessanta scritta da George Harrison. Il “muro delle meraviglie” è la persona su cui si può sempre conta-re, solida al nostro fianco. Ma la canzone recita anche “Ci sono molte cose che vorrei dirti e non so come far-lo”. Allora wonderwall è il supporto stesso, l’anonimo muro metropolitano che si fa sfondo per l’urgenza di chi scrive, magico lasciapassare per un wonderworld.

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CTOR

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Zero

Sul finire degli anni Settanta questo inno al “triangolo libera tutti” arrivò di certo come una trasgressione, oltre che una liberazione. Oggi suona un po’ retrò. La geometria dei sentimenti si è evoluta: da “mi aspetta-vo lo sai un rapporto un po’ più normale” a quadrati da allargare a piacimento, cerchi da chiudere, teore-mi indimostrabili, rette che diventano perpendicola-ri. Ma i conti non tornano quasi mai. Alla fine tutti assolti per insufficienza di regole.

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X FACTOR

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fiFilosofIfi

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FILOSOFI

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FILOS

OFI

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Dio c’è

Alle origini delle scritte sui muri italiani “Dio c’è” è sempre esistita. Si è creata un’ampia mitologia sul suo significato che non esclude si tratti di un graffitaro va-ticanense – ci aspettiamo prima o poi una tag Cardinal 00120. Chi crede che segnali la presenza di un forte potere malavitoso, in un gergo mafioso o camorrista. Chi crede sia una setta che manda messaggi ai seguaci. Chi invece la accredita ai pusher che segnalano prez-zi modici. E chi ormai la legge senza sussulti, perché vista e rivista, in fondo, è innocua. Dato l’argomento, in questo libro non poteva mancare, anche perché se “Dio c’è” sicuramente è limitato. Da un muro.

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FILOSOFI

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Batti un colpo

Bene, dunque, a questo punto se “Dio c’è” prende for-ma spontanea l’esortazione: allora batti un colpo. Scriveva Mallarmé: Ogni pensiero emette un colpo di dadi. Spavaldo e azzardante l’ignoto writer sposta in avanti la sfida col muro e con chi leggerà. “Dio se ci sei lancia un dado”, “Giocatela con me”. Ci sono momenti nella vita in cui non esistono rivali, neanche in cielo.

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FILOS

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Fare tutto

Se Dio c’è e può battere un colpo magari può anche impedire ai writer di fare tutto quello che si metto-no in testa, come sfogarsi a casaccio su questo muro. Siamo per la libertà di espressione, non c’è dubbio. Ma caro collettivo del caos interiore, lo sanno tutti che anche i muri hanno delle regole.

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FILOSOFI

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Che state facendo

Andando in giro per Cosenza, come per molte altre città del nostro Bel Paese, il quesito sorge spontaneo. Il muro propaga l’interrogativo in una gigante do-manda retorica. Forse originariamente diretta a una piccola comunità, si trasforma in inchiesta sociale che, riletta così, inquieta e allarma. E rende tutti, in qualche modo, colpevoli.

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FILOS

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Elogio della follia

Simili con simili verrebbe da dire. Un elogio della fol-lia a due, ma non solo. Sarà mica un caso che in via degli Alimena si trova l’Azienda Sanitaria Provincia-le di Cosenza... Tra le righe sembra di intravedere il sottotesto “Noi siamo pazzi. E voi?” Chi legge non potrà dirsi del tutto immune al contagio. Per fortuna. Una follia così dichiarata strizza l’occhio al passante e alla fine è innocua, anzi, secondo Erasmo, porta addi-rittura alla felicità. Certamente è più innocua di tanta follia taciuta e travestita da “normalità”.

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FILOSOFI

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Vogliamo tutto

Ancora nella via dei pazzi, super sintesi dei meravi-gliosi slogan del ‘68 francese. Stringato come lo era-no allora, anche se l’ignoto scriba qui opta per la ri-mozione del verbo “volere” che all’epoca invece era la colonna del discorso. Vogliamo tutto fu romanzo importante anche da noi, grazie a Nanni Balestrini. Insomma questo muro pretende tutto e non solo, lo vuole subito. E dimostra che alcune lotte giovanili non sono state combattute invano. I nipotini potreb-bero risvegliarsi...

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Ho sete

Se qualcuno volesse descrivere il caos che pervade il genere umano potrebbe iniziare a farsi un’idea dalla lettura di questo muro. Greve ma leggero, come un bambino maleducato. Un verso che conosciamo reci-ta così: “L’individuo esce dal Caos, procede”. Guar-dando questo muro graffitato qualche dubbio lo ab-biamo. Il dadaismo pecoreccio del muro di via Mauro Leporace sembra suggerire che l’uomo esce dal Caos per entrare in una latrina. E il botta e risposta da ca-serma fa anche sorridere pensando che da qui si può solo risalire.

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FILOSOFI

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Fame di sesso

Un nuovo modo di mendicare? Senza alcun rite-gno (anzi, firmandosi!) il graffitaro piatisce, appun-to, del sesso e anche piuttosto famelico. Quando, in una certa fase della propria vita, si arriva a esternare pubblicamente un pensiero intimo così impellente il sovraccarico di punti esclamativi è cifra stilistica im-prescindibile. Ma il bon ton filosofico-scaramantico del “lasciamo fare al fato” deve aver prevalso sull’ur-genza se il nostro amico non ha condiviso con noi il suo numero di cellulare. Chissà se poi ha risolto.

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We love letto

Il concetto a questo punto è chiaro, ma le modalità per comunicarlo sono ancora un po’ confuse: si parte con l’inglese, si atterra sull’italiano; si scrive da soli ma si sdoppia il desiderio, parlando anche a nome di qualcun altro. Persino i caratteri cambiano nelle due righe. Un bravo designer ne farebbe una maglietta. Dove al posto di “love” ci sarebbe il solito, esausto cuore. Tanto si sa che il letto è la più grande sineddo-che mai inventata che porta sempre alla stessa cosa...

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FILOSOFI

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Momento catartico

Quando si dice che ormai la cultura è alta e bassa allo stesso tempo... in questo caso il muro ci par-la sia della catarsi, dal greco katharsis κἁθαρσις, sia del libro umoristico di tal Flavio Oreglio che, distruggendo la serietà del concetto di catarsi, prese spazio rilevante anni fa al “Maurizio Co-stanzo Show”, diventando star per i soliti 15 mi-nuti wharholiani. In Italia sembra abbastanza semplice unire l’utile al dilettevole, la cultura alla sottocultura, la streetart agli sgorbi murali. E sì, il momento è “catartico”.

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FILOS

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Filosofi cinici

Seguace della famosa scuola filosofica ateniese del “cinismo”, questo graffitaro ha sicuramente deciso di allontanarsi dal writing degli “assetati” e degli “af-famati” dei precedenti muri per creare una corrente autonoma. Indifferente ai bisogni e alle passioni, fe-dele solo al rigore morale e a una vita randagia. Que-sta scritta sembrerebbe un invito a un’adunata degli “happy few” che lo capiscono.

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FILOSOFI

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Francamente

Un filosofo cinico colpisce ancora? La comunicazione di servizio potrebbe essere “Francamente... me ne in-fischio”. Nell’incertezza dell’appartenenza alla nota scuola di pensiero cosentina, siamo almeno sicuri di essere di fronte a un caso pinocchiesco. Una tale Fran-ca mente a qualcuno.

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Sogni con gli sconosciuti

Avevamo già letto altrove di non accettare sogni dagli sconosciuti. Ora troviamo questa variante emblema-tica dove la condivisione implica che anni di monito della nonna sul “non accettare caramelle dagli scono-sciuti” non sono serviti a granché. Non solo c’è chi le caramelle se l’è prese, ma ora le vuole anche distribu-ire in giro. Ci viene da pensare che queste caramelle, o sogni che siano, fossero una gran fregatura. E ora le vogliono rifilare a qualcun altro. Certo, la nonna aveva avvisato.

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Non spreco fiato

Ecco uno statement molto preciso: il graffitaro inten-de far sapere a tutti che non parlerà più a vuoto, ma affida però tale decisione a una comunicazione che contrasta con il proponimento. Non “parlerò più a vuoto” però nel frattempo ve lo dico, ma senza emet-tere suono, così, per non andare contro la decisione. Insomma, un furbo escamotage che ci fa intuire che non passerà molto tempo prima che il writer ricomin-ci a sprecare il proprio fiato.

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Verba volant

Maccheronico il latino, incisiva la traduzione. Se non c’è fiato da sprecare allora meno parole e più fatti. Una rivendicazione trasversale, applicabile dalla po-litica all’amore. Il supporto in questo caso è risolutivo: mandare al macero le parole inutili su un cassonetto di rifiuti è quasi una garanzia. Divieto di affissione abilmente aggirato. Verba volant, scripta manent. E le chiamano lingue morte.

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Servabo te

Ancora una prova pubblica di erudizione del graf-fitaro colto. Emblematica la scelta della parete del Museo del Presente, crocevia di arti contemporanee e tendenze giovanili, per una citazione ripescata chissà come dal Satyricon di Petronio. Ben lontana dagli abu-sati Catullo e Orazio, troppo spesso sfoggiati all’occa-sione (sbagliata). L’ originale dice: “Salvami, ti salve-rò”. Qui la variatio è notevole: “Salvo me, salverò te”. Dal fondo di un gran pasticcio murario, la sentenza emerge forte e chiara: salvarne uno per salvarsi tutti.

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Siamo morti

Il collegamento tra solitudine e morte trova ben altri capisaldi nella storia della cultura degli uomini, che non ovviamente questa inquietante scritta come un monito tombale schiantato sul muro. Parole sparse qua e là sul medesimo, avanzi di più felici pensieri, contrastano con la cupezza della scritta rivestita di quell’emblematico viola eucaristico che ne aggrava il tono e la rende sepolcrale. Domandarsi come e per-ché nasce è un tutt’uno e la solitudine che pervade il graffito è testimonial di quanto la socialità, tanto bramata oggi, altro non sia che un falso rivestimento per giovani che combattono con i più cupi pensieri del futuro.

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Sopravvivo

Da un artista di strada che bazzica la zona universi-taria potevamo facilmente aspettarci una scritta da diario. Il muro come gigantografia del proprio ego. E come prolungamento di una coda di paglia. La scritta vale esclusivamente per il coraggio di esternare una banalità adolescenziale: excusatio non petita, accusatio manifesta.

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Troppo stanco

Chi è questa creatura che si sente troppo strana e troppo rara? Ma è ovvio, siamo ancora di fronte all’autoesaltazione dell’adolescente ripetente, che si sente unico e oscilla tra la vita e la morte (apparente) ogni giorno. Tra lo spleen di Rilke e “I ragazzi della via Pal”.

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Sorridi

Il sorriso è alla bellezza quello che il sale è alle vivande, scriveva Carlo Dossi. La pulizia formale e la sintetici-tà di questa scritta esaltano il muro come fa una bella cravatta su una camicia, e ci fa sognare di un graffita-ro che ha a cuore la bellezza di qualcuno che non ha, o crede di non avere, motivi per sorridere.

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Tutti toy

The difference between men and boys is the price of their toys (la differenza tra uomini e ragazzi è il prezzo dei loro giocattoli) disse nel 1975 Doris Rowland riferen-dosi al marito, l’imprenditore Ross Rowland jr , l’uo-mo che realizzò l’American Freedom Train. Abbas-sando di parecchio il profilo, per il writer i giocattoli siamo tutti noi. Interessante sapere che il termine toy nel linguaggio dei graffitari sta per pivello alle prime armi, ovvero “incompetente”. Insomma, qualcuno ci muove come marionette. Scritta mistica.

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Viva la vita single

Stratificazione di ere e di educazione all’italiana su questo muro, neanche a farlo apposta, di via degli Stadi: sembra una celebrazione del vitellonismo. “W la fica” è scritta da neorealismo, è goliardia in bian-co e nero. Trasformarla in “W la vita single” equiva-le al passaggio dalla macchina da scrivere al pc. Dai dinosauri allo zoo. Il tutto con brevi e rapidissime spruzzate per attraversare, in pochi secondi di im-brattatura, un secolo: dal proverbiale italico ardore alla solitudine che, per farla pesare meno e tirarsela un po’, si cita in inglese.

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Stile

Se poco conosci è più semplice la citazione che il si-lenzio. Lo immaginiamo questo writer che scrive sul muro con mano incerta un motto da regime totalita-rio di una volta. L’impasto di ideologie politiche che tendevano a sottomettere le intelligenze e il libero ar-bitrio è coltura ancora attiva in molti “pantani” del mondo. Paludi di ignoranza in cui si aggirano alcuni girini che, per colpa di società che faticano a dare ciò che dovrebbero, mai diventeranno rane. Il vero stile di una scritta del genere nasce nel passato e approda nel presente, trasformando un banalissimo muro in una cartina di tornasole.

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Caos quieto

E dopo Caos calmo ecco anche Caos quieto. Sicuramen-te un meta-citazione o, meglio ancora, una citazione a metà. Il libro di Veronesi avrà pure lasciato qualcosa nell’aria, ma l’aspetto più accattivante di questa im-magine sono i numeri danzanti che reggono dal bas-so la scritta. Deve essere stato un maggio non molto quieto questo, per lo sconosciuto “comunicatore”. Messaggio da crittografare.

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Si vive di notte

La notte è un mito. È lo spazio segreto in cui tutto sembra possibile. Chi non ha amato la prima volta in cui ha visto l’alba? In questo caso, però, sembra quasi un imperativo più che una esortazione: un’incitazio-ne, la chiamata alle armi di una tribù. Un appello sco-lastico. Da notare il rosa catarifrangente che emerge dal buio delle tenebre.

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Grande fratello

Apprezzabile il muretto che nasce direttamente in inglese. La lingua originale fornisce un tono diver-so a questo graffitaro che forse – magari – si ispira a Orwell e non alla trasmissione trash che ormai tutti conosciamo. Le sorti di un titolo superlativo, distrut-to dalla televisione, vengono salvate da un muro ai confini italici accendendoci di curiosità.

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Pensa al tuo

Muro criptico che incute paura. In assenza di punteg-giatura com’è, suona come un caloroso invito a farsi i fatti propri. Dopotutto siamo in Calabria e può capi-tare qui più che altrove. E se invece il movente fosse religioso? Il tuo inteso come ricchezza interiore. Fra-tello, pensa a quanto già hai e non desiderare i beni altrui. Oppure? Pensa al tuo… fidanzato, al tuo… futuro? O magari è semplicemente un messaggio in-completo. Mentre l’ignoto graffitaro scriveva è pas-sato qualcuno, e lui se l’è data a gambe lasciando la scritta abbandonata e l’oggetto della frase perso. Così nasce un mistero.

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Quei bravi ragazzi

Più che un muro questo è un grande schermo. “Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster” reci-tava Ray Liotta in Goodfellas (titolo originale di Quei bravi ragazzi). A meno che chi scrive non intenda fare esattamente il gangster nella vita, possiamo pensare che dietro ci sia lo zampino di un mister che vuole ce-lebrare la sua squadra di calcio, oppure del membro di una baby gang che usa una frase ad effetto per dar-si un tono e distinguersi. Il muro e pochi altri sanno.

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Vuota e soma

Un muro “bacheca” di cui molti si servono per la-sciare il proprio messaggio, che poi chissà se andrà a buon fine. L’ex Dudù, oggi solo Dù, è la vita di qualcuno. Qual-cun altro vuole bene a Marianna. A Soma è toccato riempire uno spazio, e ci auguriamo non solo a pa-role... Una sorta di autismo murario ci viene incontro dalle scritte per raccontare storie di “vuoti” e di “pie-ni”, dove solo l’amore e l’amicizia giovanili possono colmare la noia e scardinare la paura del futuro.

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in calabrese

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A capa mia nun è bona

Tra la confessione e la minaccia. Scuola napoletana, come suggerisce l’uso di “capa” a cui i calabresi pre-feriscono di gran lunga “capu”. Infinite le variazioni sul tema: “a capu un m’aiuta”, “capu frisca”, “capu gluriusa”, “‘na mala capu”, “un tegnu capu”, “ha pers’a capu”, “a capu è na sfoglia ‘i cipuddra”, “a capu è nu filu”. Da perderci la testa. Caput.

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Chi cosa bella a minda

Che bella cosa mettere. Questa scritta campeggia su un distributore di preservativi. A questo punto si aprono vari scenari interpretativi. Si tratta di un momento di euforia in previsione degli effetti dell’acquisto? Dob-biamo leggerla come una provocazione per chi sta per inserire i soldi nella macchinetta? O va forse in-tesa in chiave propagandistica e attribuita a qualcuno che è tornato ex post sul luogo del delitto? Il dialetto è secco e sbrigativo ma, a suo modo, quel “cchi cosa bella” ha un che di languido e nostalgico. E allora c’è una quarta via che non ci sentiamo di escludere e cioè che la scritta sia stata fatta da un anziano latin lover per ricordare i bei tempi che furono.

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Fascio

Lotta dura, senza paura! E la carica comunista contro i fascisti libro e moschetto è a colpi di ironia e di ver-dura. L’autore specifica che il significato del termine “fascio” che più gli aggrada è solo ed esclusivamente quello che si può abbinare ai broccoli. Per la cottura è altamente sconsigliato l’utilizzo di olio di ricino.

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Gent’i Cusenza

Il patriottismo regionale fa sì che sui muri si esalti ciò che spesso a parole viene denigrato. E così le “gent’i cusenza sono ok” anche se chi scrive sul muro ma-gari non lo pensa proprio. Suona come avvertimento questa scritta. Un “apt” locale e laterale che induce alla riflessione. Si può essere contenti o scontenti del luogo in cui si nasce, ma per sopravvivere bisogna farsi forza.

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Scugnizzo

Essere un amico significa appartenere a una sorta di magica cerchia. Ma il tale scugnizzu non deve essere per forza un giovanotto, la sua età (come del resto il suo nome), è indefinita. L’unica certezza è che si tratta del tipo giusto su cui si può contare magari per ri-mediare a degli errori, che forse si sono risolti quel depennato 14.12.11

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Mbratt your city

La scritta in sé è fiacchetta ma il contenuto interessan-te... Un pizzico di calabrese, una spruzzata di inglese. Ed ecco insorgere una esortazione per le masse a “im-brattare la propria città”, come se ce ne fosse ulteriore bisogno. A meno che il solito writer non cercasse con-nivenza. In fondo ‘mbrattare la propria città vuol dire lasciare un segno. E, in qualche modo, dominarla.

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Nua c’eramu

Non basta partecipare, bisogna scriverlo ai quattro venti. Italia Campione del Mondo 2006. C’era lo sti-vale intero e c’era pure Cosenza con tutti i cosentini.

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In CALABRESE

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Paniancu

In un mondo di spettacolarizzazione dove tutti vo-gliono essere visibili, anche un intero quartiere può dire la sua. È il caso della zona di via Panebianco, po-poloso quartiere nella parte nord della città. “Panian-cu c’è” e vuole che si sappia. E, implicitamente, tutti gli altri non sono nulla. Nel Paese dei Comuni anche il quartiere regna.

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Simu cà

Tipico intercalare bruzio multiuso in cui quel “nente” è poco attendibile. A volte è la degna risposta al gene-rico “Cum’è?” (Come stai? Che fai? Tutto bene? Novi-tà?). Talvolta, invece, l’espressione emerge dal nulla, come rassicurazione quando tra amici calano silenzi bergmaniani. In entrambi i casi, è d’obbligo reclinare il capo facendo spallucce.

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In CALABRESE

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S’affuca

Chi non ha avuto in classe il classico “battutista”? Una volta si chiamavano “pierini” oggi forse “silviet-ti”, ma comunque cambia poco. Mescolare le nozioni che, faticosamente, i professori cercano di inculcare agli studenti, con stravolgimenti di senso e finali a sorpresa, è un classico della scuola. Il “pierino” at-tende solo, ad arte, la fragorosa risata della classe e le facce contrite dei professori davanti a cotanta beffar-daggine. E così anche Archimede diventa televisione.

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Si ciota ma ti amo

La protagonista della scritta ha delle turbe psichiche. Fa la “pazzerellona” nei confronti di chi la ama, il quale ha come unica arma quella di raccontare anche ai muri del caratterino dell’innamorata. Ma allo stes-so tempo il romantico graffitaro non può evitare di sintetizzare in due parole tutto quello che la svitata rappresenta per lui nonostante i tormenti che gli pro-voca. Ah, l’amour...

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In CALABRESE

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Si ti pigghiu ti cunsumu

Il maschio, a ogni latitudine, ha la mitologia della candela. Bisogna liquefarla, si deve “consumare” e “disfare”per dirsi vivi e forti. Se poi lo fai nel tuo dia-letto vale il doppio. Su questo muro possiamo notare anche nelle sue parti meno “rilevanti” un leitmotiv sessuale di un certo tono. Noi siamo particolarmen-te colpiti dalla frase “iu ti pigghiu e ti cunsumu”. E se l’idea del “consumare” qualcuno, invece di eroica performance, si riferisse a uno slittamento verso la noia? Gli eroi del sesso estremo adolescenziale all’atto pratico solitamente scappano.

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In C

ALAB

RESE

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Simu singol

Dichiarazione di status doppiamente “singolare”. Non si comprende se quel “simu” sia un plurale ma-iestatis o l’indizio di una congrega fedele al “meglio soli che male accompagnati”. Con buona pace dell’in-glese, si dice SINGOL e si scrive uguale. Poco impor-ta se qualche coppietta storcerà il naso. Una risata di fondo, seppure scalcinata, la seppellirà.

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In CALABRESE

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Stipa ca truavi

La versione integrale del proverbio recita: “Campa ca vidi, stipa ca truavi” (vivi e vedrai, conserva e trove-rai). Un misto tra “cogli l’attimo” e “impara l’arte e mettila da parte”. Il potere evocativo dello stipu – l’i-taliana dispensa – è legato all’infanzia: nonne e ma-dri vi custodivano con parsimonia ogni bene per poi distribuirlo in famiglia come da un magico cilindro. L’antico invito a mettere da parte suona più che mai saggio in epoca di crisi. Formica batte cicala. Chi vi-vrà vedrà.

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In C

ALAB

RESE

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Vulamu

Una scritta dai tratti beckettiani. I due protagonisti, proprio come Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot, si domandano cosa sia più giusto fare durante la loro perenne attesa fatta di indecisioni. L’obiettivo di Pippo e Marti è un tantinello pretenzioso in questo caso. Ma, in fondo, perché porre i limiti alle proprie capacità? Perché non provare a volare?

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Senza parole

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SEnZA PAROLE

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Senz

a pa

role

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Psichedelico

I muri puramente “figurativi” spesso sono pervasi da echi di antiche culture che arrivano misteriosamente alle nuove leve tramite le generazioni di mezzo usate come fili conduttori in rame e, dunque, a bassa resisti-vità. In questo caso è evidente l’influsso della cultura psichedelica. Il fiore di loto, il “paese che non c’è” e gli uccelli in alto sono elementi simbolici degli anni Sessanta e Settanta, alimentati dalle tendenze musi-cali e letterarie e, spesso, come forse anche in questo caso, da nuvolette di fumo da respirare in comitiva.

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SEnZA PAROLE

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Psycho

Una parola, un film culto, una tag impegnativa. Psy-cho c’è e lotta insieme a noi, verrebbe da dire. La mano è acerba e contrasta con il contenuto drammatico ma nel complesso il muro è effervescente, anche grazie alle bollicine e al substrato confondente che in realtà fa risaltare la scritta ancora di più.

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Senz

a pa

role

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Occhio

Sicuramente, tra quelli che usano i muri di tutti come quaderni personali, un capitolo a parte andrebbe aperto per chi adotta la tecnica dello stencil. In ge-nere, hanno una filosofia tutta loro e, uscendo dagli schemi comunicano in modo trasversale, ma così tra-sversale che spesso non riusciamo a coglierlo. Come accade per questo occhio lacrimoso e ispirato. La sua origine ci è ignota, come l’artista e il suo scopo. Uno stencil come questo si colloca, in pieno autismo, tra quelli che molto evocano e nulla dicono.

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SEnZA PAROLE

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Fake Bansky

Sebbene la cultura del graffitismo sia giovane ha già i suoi punti di riferimento. Con la velocità che con-traddistingue i tempi moderni, il passo dal classico al contemporaneo è molto abbreviato. E così il grande Banksy, il misterioso streetartist inglese, il più famoso di tutti, viene qui ripreso nella sua esemplare bambi-na col pallone, un graffito che ha fatto il giro del mon-do quando apparve sul muro di Gaza, a simboleggia-re una leggerezza che potrebbe trasportare ovunque. Anche a Cosenza.

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Senz

a pa

role

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Marilyn

Per diventare fenomeno planetario la povera Marilyn ha dovuto attraversare una vita d’inferno. La bellezza ha il suo contrappeso malvagio. Eppure a noi scalda il cuore trovare replicato sulle superfici pubbliche di una sperduta città italiana uno stencil che raffigura il suo volto, icona pop che non morirà mai. Parafrasan-do: troverai su un muro chi è caro agli dei.

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SEnZA PAROLE

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Zappa

Un’immagine, un simbolo, nessuna parola: e così emerge dal passato, a stampigliarsi su un muro, un Frank Zappa accigliato (e molto somigliante) a ricor-darci che la cultura del rock non è in pericolo di estin-zione, anzi. Il suo culto attraversa gli anni, i continen-ti e i muri.

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Senz

a pa

role

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Pinguino

Gli elementi base di questo graffito ci sono tutti: la scelta del pavimento, il soggetto molto battuto dai graffitari, l’uso dello stencil a tre colori che va di moda. L’intenzione è apprezzabile ma, se pensiamo ai pinguini sui panettoni milanesi, la streetart cosen-tina ancora ne deve imbrattare di muri.

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A MURI

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A MU

RI

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Ambrosia

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AMBROSIA

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AMBR

OSIA

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Tag

Alle origini delle scritte sui muri, dei graffiti e della street art ci sono le tag, ovvero le firme degli autori. Inizialmente era questo il “manifesto” dei primi che tornarono a usare i muri come fossero tele, a distanza di milioni di anni (le grotte di Lascaux) o migliaia (i graffiti di Pompei). Ambrosia qui si firma con sicu-rezza al centro del muro, con la stessa spavalderia di un brand importante che spicca sulle vetrine di un negozio. E se dietro a questa tag ci fosse un’opera-zione di guerrilla marketing? Nome e colore potreb-bero essere parte di una strategia. Alla fine si insinua anche il dubbio che l’artista misterioso stia spiando dietro la finestra chiusa l’effetto che fa, nello zoo cit-tadino, la lettura coatta del proprio nome di battaglia.

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AMBROSIA

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Elettrostasi

Classico caso di tag non convenzionale. Continuiamo a seguire le orme del nostro graffitaro: Elektron in gre-co significa “ambra”, la portentosa resina che Talete, circa 600 anni prima di Cristo, notò che se strofinata con un panno attirava a sé polvere, pagliuzze e fili, svelando il fenomeno dell’elettrizzazione dei corpi. Se è vero che ogni nome è un presagio, qui Ambro-sia sembra non accontentarsi del facile riferimento al nettare degli dèi. Vuole fare scintille, proprio come tra cariche elettriche opposte. E trasforma questo muro in una scossa, tanto da far vedere le stelle alla “a”. Leggi ed è subito attrazione.

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AMBR

OSIA

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Non sono sveglia

“Attenzione: fase REM in corso”. Rapid Eye Move-ment, gli esperti chiamano così la fase liminale tra il sonno e la veglia la in cui, a ogni battito di ciglia, tutto può accadere. Perfino che Ambrosia usi la desinenza al femminile svelandoci il suo “genere”. E ci faccia entrare nel suo mondo fatto di chiaroscuri, contrad-dizioni e dormiveglia, appunto. Paradossi onirici. So-gno e son desta.

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AMBROSIA

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Il mattino

Pur di negare l’alba e trattenere l’amato, Giulietta spacciava allodole per usignoli. Ma qualcosa deve aver costretto Ambrosia ad affrontare il rassicuran-te, ma molto meno elettrizzante, “domani è un altro giorno”. Qui, a uno degli incroci preferiti dal traffico cittadino, nel viavai metropolitano che fagocita i sen-timenti, la domanda quasi intenerisce. E immaginia-mo la nostra graffitara girare l’angolo mettendo su gli occhiali da sole, con addosso il pallore tipico di una notte lasciata a malincuore.

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AMBR

OSIA

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Promesse

Jonathan Swift sentenziava che promesse e pastafrolla sono fatte per essere infrante, non lontano dalla nota questione del resistere alle tentazioni cedendovi. Un vecchio adagio dunque, sbiadito ad arte già nell’inci-pit. Chi scrive promette e non mantiene? O piuttosto lancia uno strale imbevuto di vernice spray contro gli impenitenti fedifraghi? Avevamo già intuito che il risveglio del mattino non presagiva nulla di buono. Ora quel muro sembra scrostato a furia di sbatterci la testa. Di certo Ambrosia una promessa non può farla: di non cedere alle ormai dilaganti abbreviazioni da chat.

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AMBROSIA

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Sberle

Tafferugli illuministi. Ci sono sberle come pugni nello stomaco e sberle salvifiche, che svegliano, soprattutto se non vengono da una mano ma da un pensiero. In ogni caso, anche le lettere hanno subìto il colpo e tra-ballano in disequilibrio. Più di tutte la “e”, rigiratasi a mimare il numero perfetto.

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AMBR

OSIA

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Senza desideri

Un ossimoro che potrebbe essere uno slogan genera-zionale. I desideri negati alla loro stessa fonte e la via Lattea si fa intricato labirinto. Come dire che potrem-mo avere tutto e non vogliamo niente. Ma nulla vieta a quel “noi”, che sta col naso insù, di arrampicarsi lungo un filo argentato del groviglio astrale e tentare la strada del cielo. Per aspera ad astra.

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AMBROSIA

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Troppo sentire

Scritta imparentata cromaticamente con i “filosofi ci-nici” che si aggirano per la città a spargere sensi di colpa... E se fosse ricollegabile anche ad altre? Se fos-se nata dopo un incontro fatale con il “collettivo dei bipolari”? Di vero c’è che il “troppo sentire stordisce” ma non inibisce. Ambrosia o Ax, attraversata da una ingestibile vena sentimentale, scarica il suo stupore di cinica filosofa su un muro che nulla avrebbe preteso nella sua immobilità. E così torna in sé, pronta a di-struggere tutto.

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AMBR

OSIA

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Destroy all

Il momento è solenne: bisogna ricominciare tutto da capo e non ci si deve distrarre. Quando le scritte si autolimitano a poche, fulminanti parole, è come se creassero, nel loro fluttuare nello spazio a disposizio-ne, una rete di protezione dal crossing selvaggio che solitamente conduce il muro al caos totale. E al van-dalismo. Anche qui infatti, come in altri casi analizza-ti, la secca incitazione a “distruggere” campeggia da sola nello spazio di cemento ingentilita, pur nella sua minacciosa imperatività, dalle fioriture della S e della Y. A un esperto calligrafo non sfuggirebbe che l’artista non distruggerà mai nulla.

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AMBROSIA

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Reset

“Reset” è termine necessario dopo un malfunziona-mento del computer. Sembra essere naturale conse-guenza della distruzione. Su questo muro “naviga” ancora isolata la parola, rigorosamente viola, e con quel punto che la rende inaggirabile. È un urlo nel deserto. Un grido sommesso che attira l’attenzione, una voce per chi non ha altro modo di farsi ascolta-re, come accadeva alle origini della storia dei graffiti. Non siamo d’accordo, sembra dire. Tempo di restau-rare un qualsiasi “status quo”.

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AMBR

OSIA

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Treno in transito

Può passare quasi inosservato. Perché se ne aspetta un altro, nell’assordante viavai di una stazione qua-lunque. Ma a volte un treno in transito è proprio quel-lo su cui vorremmo salire. E ci sfreccia accanto, spetti-nandoci i capelli come un’occasione mancata.

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AMBROSIA

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Sei nell’aria

Che una persona, un ricordo o una canzone possa, come un odore familiare, invadere la nostra aria non è poi così raro. Quell’“eppure” nasconde però pre-messe misteriose. Poco cambia l’aggiunta del NON. La negazione non ci convince. Qualcuno aleggia, no-nostante tutto. Così etereo ed impalpabile da sentire il bisogno di metterlo al muro.

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Ringraziamenti

I ringraziamenti degli autori vanno a: France-sco Cangemi che, oltre agli scatti fotografici, a questo libro ha dato moltissimo, scrivendo alcu-ne didascalie e girovagando per la città con oc-chio vigile e coinvolto a caccia di scritte. Un vice autore. A Enrico Ghezzi, che ha scritto facendo-si capire. Al professor Cimatti, che ha provato con disciplina cattedratica a sintonizzarsi sul progetto. Alla fidanzata di Jena, unica dei tan-ti writers presenti nel libro a palesarsi anche se in tempi non sospetti. Un grazie anche alla Da-cia rossa di Jo, senza la quale molte scritte non ci sarebbero “apparse”. Ringraziamenti da esten-dere, infine, ad Ambrosia, che ci ha fornito l’ispi-razione per il titolo ed ovviamente a Walter, che ci ha atteso con la pazienza che contraddistingue i grandi editori quando si mettono in testa una pubblicazione.

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