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La mafia come fenomeno di ibridazione sociale. Proposta dì un modello di Raimondo Catanzaro “Nel disordine apparente dei nostro mondo misterioso, vi sono indivi- dui che si adattano ad un sistema con sì squisito rigore, e i sistemi l’uno all’altro e a un tutto organico...”, N. Hawthorne, Wakefield. “Si diventa ciò che si è”, F. Nietzsche, Ecce Homo. I fenomeni recenti di recrudescenza della ma- fia pongono inquietanti interrogativi sulle ra- gioni della persistenza e della continuità del fenomeno mafioso e sulle sue radici sociali. Finiti (almeno così ci si augura) i tempi in cui si pensava che la mafia fosse semplicemente una manifestazione dell’arretratezza della so- cietà siciliana, oggi ci si interroga sulle possi- bilità di spiegare la persistenza del comporta- mento mafioso e la sua capacità di adeguarsi a nuovi contesti economici e sociali. La letteratura sulla mafia non ha sin qui affrontato esplicitamente questo problema. Mentre esistono interessanti analisi sulla mafia tradizionale, sui suoi codici di com- portamento, o sulle recenti evoluzioni in di- rezione dello svolgimento di attività im prenditoriali1, solo sporadicamente si pos- sono trovare accenni al fenomeno della continuità/trasformazione di codici cultu- rali e di comportamento che consentono il riprodursi della mafia. Tale è appunto lo scopo che ci proponiamo nel presente lavo- ro: dare un contributo alla comprensione dei modi di cui, attraverso la loro evoluzio- ne storica, i codici di comportamento e i valori tipici della mafia si sono di volta in volta adattati alle mutate condizioni socio- economiche e politiche del contesto in cui i mafiosi si trovano ad agire. Quest’articolo fa parte di un più ampio lavoro, ancora in corso, sulla mafia in Sicilia, e ne sintetizza alcune mete provvisorie che vogliono servire come spunti per un dibattito. Non si tratta di una ricerca su fonti inedite ma di un tentativo di interpretazione basato su fonti note e in cui si utilizzano i contributi forniti dalla letteratura cercando di combinare approcci storiografici, sociologici e antropologici. Precedenti stesure del saggio sono state lette da Danie- la Timpanaro e Donatella della Porta che mi hanno suggerito utili integrazioni e da Giuseppe Barone e Salvatore Lu- po che con le loro critiche mi hanno aiutato a migliorarlo in più punti. Nel corso di discussioni con Nino Recupero mi sono venuti rilevanti spunti di analisi, e con Francesco Cossentino è emersa l’idea di definire con il termine di ibri- dazione sociale i processi delineati in queste pagine. Nessuno di questi amici e colleghi, che ringrazio tutti, è tuttavia responsabile di quanto è sostenuto in questo articolo. 1 Vedi rispettivamente Anton Blok, The Mafia o f a Sicilian Village: 1860-1960, New York, Harper & Row, 1974; Henner Hess, Mafia, Bari, Laterza, 1973; Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna, Il Mulino, 1983. “Italia contemporanea”, settembre 1984, n. 156

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La mafia come fenomeno di ibridazione sociale.Proposta dì un modello

di Raimondo Catanzaro

“Nel disordine apparente dei nostro mondo misterioso, vi sono indivi­dui che si adattano ad un sistema con sì squisito rigore, e i sistemi l’uno all’altro e a un tutto organico...” , N. Hawthorne, Wakefield.

“Si diventa ciò che si è” , F. Nietzsche, Ecce Homo.

I fenomeni recenti di recrudescenza della ma­fia pongono inquietanti interrogativi sulle ra­gioni della persistenza e della continuità del fenomeno mafioso e sulle sue radici sociali. Finiti (almeno così ci si augura) i tempi in cui si pensava che la mafia fosse semplicemente una manifestazione dell’arretratezza della so­cietà siciliana, oggi ci si interroga sulle possi­bilità di spiegare la persistenza del comporta­mento mafioso e la sua capacità di adeguarsi a nuovi contesti economici e sociali.

La letteratura sulla mafia non ha sin qui affrontato esplicitamente questo problema. Mentre esistono interessanti analisi sulla mafia tradizionale, sui suoi codici di com­

portamento, o sulle recenti evoluzioni in di­rezione dello svolgimento di attività im prenditoriali1, solo sporadicamente si pos­sono trovare accenni al fenomeno della continuità/trasformazione di codici cultu­rali e di comportamento che consentono il riprodursi della mafia. Tale è appunto lo scopo che ci proponiamo nel presente lavo­ro: dare un contributo alla comprensione dei modi di cui, attraverso la loro evoluzio­ne storica, i codici di comportamento e i valori tipici della mafia si sono di volta in volta adattati alle mutate condizioni socio- economiche e politiche del contesto in cui i mafiosi si trovano ad agire.

Quest’articolo fa parte di un più ampio lavoro, ancora in corso, sulla mafia in Sicilia, e ne sintetizza alcune mete provvisorie che vogliono servire come spunti per un dibattito. Non si tratta di una ricerca su fonti inedite ma di un tentativo di interpretazione basato su fonti note e in cui si utilizzano i contributi forniti dalla letteratura cercando di combinare approcci storiografici, sociologici e antropologici. Precedenti stesure del saggio sono state lette da Danie­la Timpanaro e Donatella della Porta che mi hanno suggerito utili integrazioni e da Giuseppe Barone e Salvatore Lu­po che con le loro critiche mi hanno aiutato a migliorarlo in più punti. Nel corso di discussioni con Nino Recupero mi sono venuti rilevanti spunti di analisi, e con Francesco Cossentino è emersa l’idea di definire con il termine di ibri­dazione sociale i processi delineati in queste pagine. Nessuno di questi amici e colleghi, che ringrazio tutti, è tuttavia responsabile di quanto è sostenuto in questo articolo.1 Vedi rispettivamente Anton Blok, The Mafia o f a Sicilian Village: 1860-1960, New York, Harper & Row, 1974; Henner Hess, Mafia, Bari, Laterza, 1973; Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna, Il Mulino, 1983.

“Italia contemporanea”, settembre 1984, n. 156

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8 Raimondo Catanzaro

Le precondizioni

Il codice dell’onore. Il comportamento ma­fioso è per definizione un comportamento onorifico. Mafioso è colui che è in grado di farsi rispettare senza bisogno di ricorrere alla legge, o addirittura violandola con suc­cesso. Il codice dell’onore tuttavia non è proprio soltanto dell’agire mafioso, ma in­forma di sé gran parte della cultura delle società mediterranee2. La connotazione so­ciale dell’onore è duplice e contraddittoria nella compresenza dei suoi due aspetti. Da un lato esiste infatti una concezione statica dell’onore, connessa alle condizioni di disu­guaglianza. Dall’altro coesiste con la prima una seconda concezione, stavolta dinamica, derivante dalle condizioni o dalle pretese soggettive di uguaglianza, e che si manife­sta nella competizione tra individui e gruppi3.

Sotto il primo profilo l’onore è la capaci­tà, socialmente riconosciuta al capo di una famiglia, di essere in grado di garantire ai propri familiari un tenore di vita adeguato alle risorse possedute. Esso è quindi con­nesso all’efficace tutela dell’integrità dei propri beni e dell’unità della famiglia, con particolare riguardo alla protezione della castità della moglie e della verginità delle

figlie contro gli attacchi esterni. L’onore è quindi un modo socialmente riconosciuto di valutare la distribuzione degli status con ri­ferimento a tre aspetti del comportamento individuale: 1. vivere a livello delle risorse possedute; 2. garantire la tutela di tali risor­se; 3. vegliare efficacemente sull’integrità sessuale delle donne della famiglia4. Di que­sta concezione dell’onore va sottolineata la prescrizione consistente nel dovere sociale di vivere senza tentare di uscire dalla propria condizione sociale. In una società del gene­re, il patrimonio è dato, trasmesso per via ereditaria, non acquisito tramite processi di mobilità sociale. In questa accezione l’onore può essere definito come codice di compor­tamento che rispecchia la distribuzione isti­tuzionalizzata degli status ascritti. Persone onorate si è perché si nasce in famiglie ono­rate. In tal modo l’onore ha una connota­zione puramente statica, di rispecchiamento degli status ascritti.

Ma nella cultura siciliana e meridionale in genere, oltre che essere persone onorate si può essere “uomini d’onore” . A differenza che per le persone onorate, uomini d’onore non si nasce: si diventa. In questo secondo signi­ficato l’onore è una particolare abilità consi­stente nella forza, nell’astuzia, o in qualche altra dote individuale che suscita ammirazio-

2 Per una rassegna della tematica dell’onore nelle società mediterranee cfr. John Davis, Antropologia delle società mediterranee: un’analisi comparata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980, pp. 101-114.3 Alla duplicità del concetto di onore accenna J. Davis, Antropologia, cit., da cui riprendo l’interpretazione mate­rialistica dell’onore come idioma sociale connesso all’allocazione delle risorse. Appare unilaterale invece l’imposta­zione di Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 5 sgg., che accentua l’aspetto della competizione per l’onore, trascurandone l’altra faccia qui messa in rilievo.4 Da varie ricerche antropologiche risulta che nella cultura popolare questi tre elementi sono connessi. Per esempio se una donna è spendacciona o va vestita con abiti o colori non adeguati al suo rango, non ci si stupisce che sia anche adultera. Se un uomo non è in grado di garantire l’integrità sessuale delle donne della sua famiglia, è anche probabile che sia un fannullone o un buono a nulla. Vedi J. Davis, Antropologia, cit., p. 104. Nella cultura siciliana alle donne si applica soltanto questa concezione dell’onore. Come si desume dal linguaggio comune, in cui si parla di donna “onorata” oppure “onesta”, la donna può essere soggetto meramente passivo di attribuzione dell’onore. Per la don­na l’onore è una qualità che si consegue con la nascita e che si può soltanto perdere con comportamenti non adeguati alle prescrizioni sociali. È probabile che ciò discenda dall’equiparazione tra donne e proprietà in termini di onore- perdita dell’onore. Questa integrità dell’onore, come la definisce J. Davis, Antropologia, cit., p. I l i , vale a dire il suo investire tutti gli aspetti della personalità, sta probabilmente alla base di quella opposizione/complementarità tra virilità e verginità-pudicizia sulla quale pone l’accento P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., p. 24.

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ne e rispetto e consente di farsi largo nella vi­ta. In questo caso l’onore viene concepito co­me una capacità individuale straordinaria che viene rafforzata dall’accumulazione, co­ronata da successo, di un capitale di violen za5. Quanto più si è in grado di esercitare ef­ficacemente la violenza, tanto più si sale in alto nella scala dell’onore. La lotta per l’o­nore è quindi una competizione per l’ascesa sociale in una società che non ha ancora co­nosciuto il mercato capitalistico. Si lotta per acquisire onore, quindi per alterare la preesi­stente distribuzione istituzionalizzata dell’o­nore. A questo secondo aspetto corrisponde una concezione dinamica dell’onore: l’onore è uno status che si può acquisire.

L’onore è quindi da un lato status ascritto, derivante dalla condizione familiare, e in quanto tale aspetto tipico delle condizioni di disuguaglianza connesse alla gerarchia della stratificazione sociale. Ma dall’altro è anche capacità individuale straordinaria, cioè sta­tus acquisito tramite un comportamento onorifico nella lotta per l’onore e la sua di­stribuzione. In questo secondo aspetto l’ono­re è connesso a condizioni di uguaglianza. Va infatti sottolineato che la competizione per l’onore non è aperta a tutti (come lo è la competizione economica sul mercato), ma si svolge tra soggetti che si muovono su piani di uguaglianza o che avanzano pretese e riven­dicazioni di uguaglianza6. Nella Sicilia tradi­zionale se un barone seduceva la moglie o la figlia di un contadino, o si appropriava dei suoi beni, di solito non si dava luogo a con­flitti in termini di onore. Colui che era social­mente inferiore accettava questi eventi come facenti parte del suo destino terreno. Quan­

do invece le offese provenivano da soggetti di pari grado, ecco che scoppiavano i conflit­ti per l’onore. Tali conflitti sono particolar­mente violenti per due motivi. In primo luo­go perché la distribuzione sociale dell’onore è data; i conflitti sono a somma zero, chi ac­quista onore lo fa a spese di altri che nella stessa misura lo perdono.

Ma vi è un secondo e più rilevante motivo per cui la lotta per l’onore ha un’importanza cruciale. In una società in cui le risorse sono scarse, la gente compete per l’onore perché, risultando vittoriosa, conquista una risorsa simbolica che consente un più elevato grado d’accesso alle risorse materiali. L’onore in­fatti è un sistema di stratificazione che “de­scrive la distribuzione della ricchezza attra­verso un idioma sociale, e prescrive il com­portamento appropriato agli individui a se­conda della loro collocazione nella gerarchia sociale. Esso comporta l’accettazione di una posizione dominante e di una posizione su­bordinata” . [In tal modo] “la stratificazione per onore spinge gli individui di pari grado a scontrarsi, e sancisce la dipendenza in solido di coloro che hanno meno onore da coloro che ne hanno di più”7.

Il dualismo nella struttura economica e so­ciale. La duplicità del concetto di onore rin­via alla compresenza di due differenti princi­pi che presiedono alle reti di rapporti sociali. Da un lato abbiamo la distribuzione social­mente cristallizzata delle posizioni sociali, l’opposizione tra chi ha e chi non ha, tra ba­roni latifondisti e contadini, tra chi detiene l’onore e non può perderlo perché qualsiasi suo comportamento è lecito, e chi è senza di-

5 Per esempio uomo d’onore è chi, pur essendo di umili origini, è riuscito a diventare, con l’esercizio della sopraffa­zione, ricco e rispettato. Oppure chi, avendo ucciso un certo numero di persone, riesce ad essere assolto per insuffi­cienza di prove. Ciò significa che può contare sull’omertà, vale a dire sulla capacità di ottenere, tramite l’ammirazio­ne che suscitano le sue gesta o la paura di ritorsioni, il silenzio degli altri.6 Cfr. J. Davis, Antropologia, cit., p. 105; Jane Schneider, Peter Schneider, Culture and Politica! Economy in We­stern Sicily, New York, Academic Press, 1976, pp. 100-101.7 J. Davis, Antropologia, cit., p. 110.

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fesa di fronte agli attacchi al proprio onore perché, in quanto socialmente inferiore, deve accettare come parte del proprio destino ter­reno tutti i soprusi che vengono perpetrati a suoi danni da chi è collocato nei gradini su­periori della scala sociale8. In una società del genere non esiste possibilità di progetti di ascesa sociale, di cambiamenti di status; la mobilità sociale non è ammessa. In essa il possesso della terra è il criterio fondamentale di stratificazione; chi lo detiene è titolare al contempo di potere, ricchezza, onore. Se la terra non è commerciabile, e quando è fonte di potere politico non lo è, le posizioni sociali sono sostanzialmente stabili; e così pure l’imputazione dell’onore ai soggetti.

Accanto e insieme a questo, la concezione dell’onore come competizione tra uguali po­ne in luce 1’esistenza di un secondo criterio regolatore dei rapporti sociali. Questo crite­rio trova le sue radici nel funzionamento di una società in cui una serie di posizioni socia­li possono essere raggiunte con una carriera, attraverso forme di mobilità sociale. Tra no­bili latifondisti e contadini esistono una serie di professioni e mestieri aperte alla competi­zione, che configurano aree sociali caratte­rizzate dalla mobilità9.

Questi due criteri regolatori dei rapporti sociali — l’uno che non consente la competi­zione, l’altro che la prescrive —, non solo coesistono, ma si intrecciano e si combinano nel concreto funzionamento della società, e addirittura hanno avuto origine da uno stes­

so processo storico che risale alla dominazio­ne spagnola, e in particolare al periodo che va dal XV al XVII secolo. In questo periodo si verificano da un lato il rafforzamento del­la struttura latifondista della proprietà ter­riera, dall’altro un assenteismo dei baroni. Secondo una tesi avanzata di recente10, tali fenomeni, particolarmente accentuati nella Sicilia occidentale, diedero luogo al sorgere di un’imprenditorialità rurale molto attiva. Gli imprenditori colsero le opportunità di ar­ricchimento derivanti dal fatto che dapprima la Spagna, e successivamente anche le econo­mie centro-nord europee, domandavano in misura crescente una derrata agricola, il gra­no duro, nella cui produzione il latifondo della Sicilia occidentale si andava progressi­vamente specializzando. In precedenza, tra il XII e il XV secolo, si era andata configuran­do una struttura degli insediamenti umani basata sulle agrotown. In questo periodo erano scomparsi i villaggi rurali (casali), in connessione con l’espansione della pastorizia promossa dai baroni catalani quando la Sici­lia fu sottomessa al dominio aragonese. La pastorizia con il suo carattere nomade, alter­nandosi con la coltivazione dei cereali, diede luogo alla scomparsa dei piccoli insediamenti di popolazione agricola nelle campagne. In­sieme a questa scomparsa si registrò quella dei mercati intercittadini, e di parte delle strutture di comunicazione viaria e dei centri di produzione artigiana. Ne risultò una strut­tura degli insediamenti, in particolare nel-

8 Come sottolinea Eric J. Hobsbawm, “laddove esiste una struttura di potere consolidata, l’onore tende a divenire appannaggio dei potenti” . Cfr. Iribelli, Torino Einaudi, 1966, p. 56.9 Non a caso è stato riscontrato come i mafiosi si trovano tra queste “...occupazioni mutevoli e flessibili che alla possibilità di una rapida ascesa uniscono un grande margine di rischio [...] Attività di imprenditori e intermediari, at­tività attestate fra il contadino e il ricco proprietario terriero [...]: curatoli, guardiani dei giardini e dell’acqua nella zona dei latifondi, commercianti di cereali e di bestiame, mediatori di ogni genere, macellai che fungono da ricettato­ri negli abigeati. Mafiosi sono spesso anche i carrettieri [...] Tra i professionisti essi sono avvocati, farmacisti, medi­ci” . Vedi H. Hess, Mafia, cit., p. 82. Sebbene Hess non lo citi, questa indicazione sulla caratterizzazione in termini professionali dei mafiosi si trova in Gaetano Mosca, Che cosa è la mafia, in Idem, Partiti e sindacati nella crisi del re­gimeparlamentare, Bari, Laterza, 1949, pp. 229-230.10 Nell’analisi che segue mi sono servito delle indicazioni contenute nello studio di J. Schneider, P. Schneider, Cul­ture, cit., pp. 41-109.

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l’area del latifondo, meno differenziata e complessa. Il concentrarsi della proprietà terriera nelle mani dei baroni determinò una crescita di rilevanza del possesso della terra come criterio di stratificazione sociale, e ac­centuò la contrapposizione tra baroni e con­tadini. D’altra parte l’assenteismo dei baro­ni, la crescente cessione in affitto delle terre, la produzione cerealicola determinarono la scomparsa di una struttura nella quale villag­gi, centri rurali e città erano integrati attra­verso gerarchie economiche e commerciali. Nell’area del latifondo della Sicilia occiden­tale ciascuna agrotown divenne differenziata internamente, ma tutte si somigliavano: non c’era divisione del lavoro, né alcun ordine gerarchico tra loro. Ciascun insediamento era collegato al mondo esterno prevalente­mente a mezzo dell’esportazione di grano, quindi mancavano i collegamenti tra le agro­town e ciascuna di esse aveva connessioni soltanto con la capitale regionale o con le lo­calità costiere dove si concentravano i ma­gazzini per la raccolta del grano da avviare all’esportazione.

Questa tesi sembra trovare conferma in una serie di studi sulla Sicilia dei feudi nel pe­riodo che va dal XIV al XVII secolo, una fa­se storica caratterizzata dall’affermarsi della Sicilia come granaio del Mediterraneo e dalla trasformazione del ceto feudale in gruppo di imprenditori di masseria e di mandria. In particolare nel periodo che va dal 1460 al 1630 la Sicilia assolse pienamente il suo ruolo

di granaio del Mediterraneo, e anche se a partire dal 1520, a seguito dell’aumento del consumo interno siciliano, il livello delle esportazioni rimase costante, si affermò chiaramente la tendenza ad una evidente commercializzazione della produzione cerea­licola e all’unificazione del mercato siciliano. Insieme a queste tendenze, e inestricabilmen­te connesso con la commercializzazione della produzione cerealicola si affermava quel mo­do di organizzazione della produzione che frazionando i terreni in piccole quote date in subaffitto ai contadini, rendeva questi ultimi perennemente dipendenti dai prestiti e dal­l’usura dei proprietari e dei gabellotti, con­sentendo a questi ultimi di controllare una quota molto elevata del prodotto e determi­nando una condizione di accentuato sfrutta­mento del contadino da parte del proprieta­rio e del grande affittuario11.

La conseguenza di questi processi consi­stette essenzialmente in un incremento della commercializzazione dei prodotti della terra che determinò un processo di complicazione della struttura sociale. Da un lato l’espansio­ne del latifondo accentuava la polarizzazione della struttura di classe tra baroni latifondisti e contadini, evidenziando in tal modo quella concezione statica della società e dell’onore come riflesso della condizione patrimoniale (e quindi essenzialmente del possesso della terra), di cui s’è fatto cenno prima. Infatti non solo in questa condizione di grande disu­guaglianza sociale l’onore era esclusivo ap-

11 L’idea della Sicilia come granaio del Mediterraneo, enunciata da Fernand Braudel in Civiltà e imperi dei Mediter­raneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, pp. 624, 649-653, è stata ripresa e documentata soprattutto negli studi di Maurice Aymard, di cui vedi in particolare Amministrazione feudale e trasformazioni strutturali tra ’500 e ’700, “Archivio storico per la Sicilia orientale”, 1975, fase. I, pp. 17-42; Il commercio dei grani nella Sicilia del '500, “Archivio storico per la Sicilia orientale” , fase. l-III, pp. 7-40. Sulla caratterizzazione del feudo vedi Henri Bresc, Il feudo nella società siciliana medievale, in Saverio Di Bella (a cura di), Economia e Storia (Sicilia-Calabria X V -X IX secolo), Cosenza, Pellegrini, 1976. Sugli insediamenti vedi M. Aymard, H. Bresc, Problemi di storia dell’insedia­mento nella Sicilia medievale e moderna, “Quaderni storici” , settembre-dicembre 1973, n. 24, pp. 945-976; C. Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, in Storia d ’Italia, I documenti, Torino, Einaudi, 1973, voi. 5, t. II, pp. 309-364. Per una recente analisi del rapporto tra struttura degli insediamenti e modello feudale di produzione cerealicola nel latifondo vedi Marcello Verga, La “Sicilia dei feud i” o “Sicilia dei grani” dalle “Wiistun- gen” alla colonizzazione interna, “Società e storia”, 1978, n. 3, pp. 563-579.

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pannaggio dei potenti; ma vanno altresì presi in considerazione gli effetti che derivano dal­la collocazione di classe dei contadini. La collocazione di classe dei contadini infatti non è mai univoca, e tanto meno lo era in Si­cilia, dove non si riscontravano forme “pu­re” di contadini. Spesso i contadini erano al contempo proprietari di piccoli appezzamen­ti, affittuari, mezzadri, braccianti o lavora­tori giornalieri. Ciò implicava una grande difficoltà per i contadini di schierarsi in mo­do netto nel conflitto di classe, in quanto a ciascuno dei molteplici e compresenti aspetti della loro condizione lavorativa corrisponde­vano interessi differenti. L’assenza di precisi schieramenti di classe determinava come conseguenza un’assenza o una scarsissima ri­levanza dei conflitti di classe, e quindi la mancata messa in discussione delle posizioni di potere istituzionalizzate nella gerarchia so­ciale. Di conseguenza questa situazione ten­deva a rafforzare l’immagine statica della so­cietà e dell’onore.

Ma dall’altra parte l’assenteismo dei baro­ni, con la conseguente concessione delle terre in affitto a grandi affittuari (sistema delle ga­belle), e le esigenze di commercializzazione della produzione derivanti dal fatto che le proprietà erano molto estese, e che i prodotti dovevano fluire verso i mercati delle agro­

town e soprattutto verso i mercati cittadini e della capitale regionale, che assorbivano gran parte del consumo — mentre i luoghi di produzione si trovavano concentrati nell’in­terno dell’isola — tutti questi fattori deter­minarono il sorgere di un rilevante gruppo di imprenditori rurali. Tali imprenditori adem­pivano ad una svariata gamma di funzioni produttive, commerciali e di intermediazione economica, e si posero come classe interme­dia tra i baroni e i contadini. In tal modo lo stesso processo di trasformazione sociale che accentuò il versante statico della società re­gionale siciliana, fondato sulla contrapposi­zione tra proprietari terrieri e contadini, e che generò l’immagine statica dell’onore, al contempo determinò la formazione di un ce­to intermedio tra baroni e contadini che, svolgendo attività economiche e commercia­li, assunse la competitività come criterio di orientamento della propria azione. Cosicché la compresenza di due differenti e contrap­poste immagini dell’onore è da ricondursi al­la coesistenza nel latifondo della Sicilia occi­dentale di due differenti modalità dell’azione sociale, ed alla loro ibridazione in una for­mazione sociale12. La prima modalità di azione tendeva a rafforzare alcuni criteri propri della concezione feudale della società, l’altra veniva fortemente influenzata dai va-

12 È a questo tipo di dualismo apparentemente contraddittorio che intende probabilmente riferirsi Arlacchi quando sostiene che la mafia sorge in quel particolare tipo di formazione sociale che egli definisce come “società di transizio­ne permanente” (cfr. Mafia, contadini e latifondo, cit., pp. 81-139). La società di transizione permanente è una so­cietà commerciale che “si avvita su se stessa”, definizione quest’ultima che sembra essere la base logica della prima senza peraltro spiegarla molto. Tale affermazione serve ad Arlacchi per controbattere la tesi secondo cui la mafia sa­rebbe nata nel latifondo. Il problema è che in Sicilia la mafia nasce sia in zone di latifondo che in ambiente urbano, e cioè a Palermo. Sebbene poi egli affermi di aver dimostrato che la mafia può nascere soltanto in società di transizio­ne permanente (cfr. La mafia imprenditrice, cit., pp. 10-11), non si riscontra in quest’ultimo volume, nonostante le affermazioni in contrario (loc. cit. , p. 11), un’analisi della Sicilia occidentale come società di transizione permanente (a parte i dubbi sulla validità analitica di simile definizione). In realtà in quest’impostazione si riflettono le pecche di una schematica applicazione della teoria weberiana degli idealtipi all’analisi della mafia. Secondo Arlacchi, l’unico tipo di latifondo esistente nella realtà è quello corrispondente alla descrizione idealtipica del latifondo. Egli lo rin­traccia nel crotonese, dove non c’è mafia. Da qui la facile equazione secondo cui la mafia non sorge nel latifondo. Ma l’idea che possano esistere altre configurazioni del latifondo, differenti da quella idealtipica, come ad esempio si riscontrano nella Sicilia occidentale nel corso del XIX secolo, e dove la mafia ha avuto il suo crogiolo, è assoluta- mente trascurata in questo tipo di approccio.

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lori competitivo-commerciali che erano pro­pri della nascente classe di imprenditori rura­li. Tale coesistenza fece sì che la competizio­ne per l’onore si sviluppasse nelle forme della violenza.

La violenza come strumento di regolazione dell’economia. L’onore è un codice cul­turale che è servito per consentire alla fami­glia di difendere l’integrità del patrimonio (incluse le donne per le loro funzioni pro­duttive e riproduttive) contro gli attacchi esterni. L’onore sorge quindi come un’ideo­logia di difesa della famiglia e dei gruppi di parentela.

Si può avanzare l’ipotesi secondo cui le origini del codice dell’onore possono essere ricondotte ai differenti modi in cui vengono controllate le periferie nel sistema dell’eco­nomia capitalistica e nel sistema degli imperi13. A differenza delle prime, che con­trollano la società attraverso meccanismi di mercato, nel sistema degli imperi il controllo sulle periferie avviene essenzialmente attra­verso strumenti amministrativi tendenti a im­pedire o ritardare l’accumulazione privata del capitale. In Sicilia l’unità e la forza della famiglia erano minacciate, sotto il profilo patrimoniale, da vari elementi. Alle norme giuridiche che stabilivano la divisione del pa­trimonio fra gli eredi alla morte del capofa­miglia, e la dote per le figlie che si sposava­no, si aggiungevano i principi della Chiesa cattolica che, con il divieto di matrimonio tra cugini, impedivano il consolidamento della proprietà, e che inoltre subordinavano la co­munità di sangue alla comunità di fede. In questo senso sia la Chiesa che il potere politi­co esercitavano delle potenti pressioni ten­denti a limitare il potere dei gruppi di paren­

tela nella società. Il codice dell’onore nasce quindi come risposta agli attacchi della Chie­sa cattolica e del potere politico contro l’inte­grità della famiglia e del suo patrimonio. Ta­le ideologia di difesa assume forme violente per l’incapacità dell’amministrazione spa­gnola di garantire l’ordine pubblico, e per le caratteristiche dell’economia isolana e della sua produzione.

L’amministrazione spagnola della Sicilia in genere fu improntata al principio di effet­tuare pochi cambiamenti per non intaccare i privilegi dei baroni. A questi ultimi, poco soggetti all’imposizione fiscale, era lasciata mano libera nell’esercizio del potere nei pro­pri feudi; e si pensi che ancora nel XVII seco­lo i quattro quinti delle città e dei villaggi si­ciliani erano sotto il diretto controllo dei baroni14. D’altra parte la struttura degli inse­diamenti era tale per cui le agrotown erano isolate e circondate da una campagna in cui era pericoloso muoversi per i possibili attac­chi di banditi e rapinatori. Ma uomini e mer­ci dovevano viaggiare. In assenza di un’effi­cace tutela dell’ordine pubblico da parte del­l’amministrazione spagnola, i baroni assen­teisti, impegnati a Palermo nell’acquisto di titoli e privilegi per assurgere a posizioni so­ciali più elevate nei ranghi della nobiltà15, la­sciarono mano libera agli imprenditori rura­li. Costoro misero in atto un sistema di dife­sa dei beni e del patrimonio fondato sul­l’esercizio della violenza e della sua minaccia in nome e per conto dei baroni. Non a caso l’organizzazione di bande armate di campieri e di guardiani dei feudi costituirà in seguito una delle strutture operative di funziona­mento della violenza mafiosa nel latifondo. E non a caso i mafiosi provengono in massi­ma parte da attività intermedie tra quelle dei

13 Quest’analisi è stata condotta da J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 94 sgg., che traggono spunto dal modello di I. Wallerstein sul modello centro-periferia e sulle differenze tra l’economia capitalistica e gli imperi.14 Vedi Ernesto Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Firenze, Sansoni, 1943,pp. lOsgg.15 Denis Mack Smith, Storia della Sicilia, Bari, Laterza, 1970, pp. 191-201.

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contadini e dei proprietari terrieri, attività connesse spesso alle funzioni di guardiani dei fondi, di controllo del lavoro contadino e in generale di gestione dell’impresa agricola. Proprio questi soggetti infatti venivano a trovarsi in una condizione di discrasia tra mete culturalmente consentite e mezzi dispo­nibili. Mentre le norme culturali vigenti non consentivano loro di realizzare progetti di ascesa sociale (per quella concezione statica secondo cui la ricchezza era data) i rapporti sociali determinavano una concentrazione nelle loro mani dei mezzi utili per conseguire quelle mete proibite. Non esistendo quindi canali istituzionalizzati di mobilità sociale, l’unico modo possibile per risolvere questa incongruenza fu quello di fare ricorso alla violenza.

In tal modo la violenza divenne parte della cultura regionale. Il suo uso, o la minaccia di essa, divennero uno degli strumenti fonda- mentali di regolazione delle attività economi­che. Il contadino sapeva di dover sottostare alla legge del campiere se non voleva che per vendetta gli venisse dato in affitto, l’anno successivo, un appezzamento di terreno peg­giore o di redditività inferiore. Il campiere sapeva che doveva guardarsi da possibili at­tentati alla sua persona, perché l’eliminazio­ne fisica del titolare di un posto era l’unico sistema per renderlo vacante e poterlo rico­prire da parte di chi si era dimostrato più abi­le nell’uso della violenza. In una società in cui la protezione violenta del patrimonio era imposta dalle circostanze, dimostrare di sa­per esercitare efficacemente la violenza era un titolo d’onore. Era il modo migliore per misurarsi e trionfare nella competizione.

Ciò spiega anche il sorgere del codice del­l’omertà, vale a dire l’obbligo di tacere, di non testimoniare, di non denunciare all’au­torità pubblica i colpevoli di un reato,

foss’anche un omicidio. L’omertà infatti, prima ancora che nella paura di soggiacere alla vendetta dell’accusato o dei suoi parenti e amici, trova le sue radici originarie nel con­vincimento che le questioni d’onore si risol­vono ricorrendo alla violenza privata. La vit­tima di un’offesa deve essere in grado di farsi giustizia da sé; se non è in grado di farlo, le regole dell’onore gli impongono di accettare la legge del più forte. In quanto ai terzi non debbono intromettersi; non possono togliere a chi è stato offeso il diritto di dimostrarsi uomo d’onore, che sa farsi rispettare vendi­cando l’offesa. Intromettersi in questioni del genere significherebbe turbare un delicato equilibrio di potere in base al quale è tra of­feso e offensore che questioni del genere van­no risolte16.

Nel corso di questo processo storico i con­flitti per l’onore assumevano progressiva­mente la forma di una competizione econo­mica e sociale il cui principale strumento di regolazione era costituito dalla violenza.

L ’amicizia strumentale. La società siciliana tuttavia non poteva, com’è ovvio, reggersi unicamente sui principi competitivi dell’ono­re e della violenza. Come in ogni altra società erano necessarie anche delle strutture solida­ristiche che aggregassero gli individui in gruppi. Vero è che l’onore, in quanto ideolo­gia di difesa della famiglia, rinviava all’esi­stenza di ambiti parentali di solidarietà. Ma spesso questi legami solidaristici caratteriz zavano un nucleo familiare abbastanza ri­stretto, dandosi violenti conflitti d’onore tra gruppi di parenti. Inoltre la Sicilia sotto la dominazione spagnola era una società abba­stanza complessa per potersi fondare soltan­to su legami solidaristici di tipo familiare. Si trattava di una società che intratteneva rap­porti economici e commerciali con le econo-

16 Sul significato del codice dell’omertà vedi G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., 217-218; H. Hess, Mafia, cit., pp, 146-147; A. Blok, The mafia, cit., pp. 211-21.

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mie europee, che aveva una propria ammini­strazione unificata, sia pure nell’ambito dell’impero spagnolo, e quindi un’autonoma dinamica politica. In particolare l’economia centrata sulla produzione del latifondo, orientata ai commerci di lunga distanza e al­l’esportazione del grano, richiedeva la neces­sità di creare relazioni improntate alla fidu­cia che fornissero la garanzia di un regolare svolgimento dei traffici. La struttura di rela­zione che sorse a tal fine fu costituita dall’a­micizia strumentale.

Dalle due fondamentali componenti del­l’amicizia, quella affettiva e quella di accesso alle risorse, l’amicizia strumentale presenta in misura accentuata quest’ultima (mentre la prima è presente in misura accentuata nell’idealtipo dell’amicizia emotiva). Le dif­ferenze tra amicizia emotiva e amicizia stru­mentale possono essere sintetizzate sotto tre profili. Sotto il profilo della natura del prin­cipio costitutivo l’amicizia strumentale è fondata sulla reciprocità nello scambio di ri­sorse proprie o procurate (mentre l’amicizia emotiva è fondata sulla realizzazione affetti­va, cioè sul piacere fine a se stesso di stare in­sieme). Sotto il profilo delle condizioni di durata l’amicizia strumentale si fonda sulla continuità nelle prestazioni di scambio di ri­sorse (mentre l’amicizia emotiva si fonda sul­la persistenza della qualità affettiva del rap­porto). Infine sotto il profilo della estensione intersoggettiva del legame l’amicizia stru­mentale ha natura prevalentemente aperta, nel senso che ciascuno degli amici agisce co­me un legame potenziale con altri (mentre l’amicizia emotiva ha natura prevalentemen te diadica)17.

L’amicizia strumentale è dunque una sorta di carta di credito, che si esplicita in espres­sioni del tipo “di’ che ti mando io” , “vai a nome mio”. Essa crea dei legami tra gli ami­ci, legami che si strutturano secondo reticoli tipici che nel linguaggio popolare vengono definiti con l’espressione “amici degli amici”18. Tali reticoli sorgono in una società in cui non era ancora penetrato il principio dell’agire capitalistico di mercato, ma che non era avulsa da rapporti con le sedi dove si stava formando il sistema mondiale dell’eco­nomia capitalistica europea. In altri termini sono propri della periferia del sistema capita­listico europeo in formazione.

In Sicilia la carenza di collegamenti tra le agrotown, la mancanza tra loro di gerarchie commerciali e di mercato, l’esigenza di far arrivare a destinazione le merci determinaro­no la necessità di creare reti di relazioni che trascendessero quelle di ambito meramente locale definite dai rapporti di parentela e quasi-parentela. In assenza di una rete di re­lazioni impersonali tipiche del mercato capi­talistico, la prima base per la fiducia fu costi­tuita dall’amicizia strumentale e dal suo principale strumento operativo: la coalizione temporanea di amici. Entrambe servivano a definire le reti di scambio delle risorse economiche19.

L’amicizia strumentale serve essenzial­mente a creare dei non-corporate groups, cioè reti di relazioni non formalizzate che competono l’un l’altra sul mercato delle ri­sorse e che sono fondate sulla fiducia nell’adempimento degli obblighi di presta­zione in base al principio della reciprocità bilanciata20. Questi gruppi informali non so-

17 La distinzione tra amicizia strumentale ed emotiva è stata elaborata da Eric Wolf, Kinship, Friendship, and Patron-Clients Relations in Complex Societies, in Michael Banton (Ed.), The Social Anthropology o f Complex So­cieties, London, Tavistock, 1966, pp. 10-13.18 Vedi Jeremy Boissevain, Friends o f Friends. Networks, Manipulators and Coalitions, Oxford, Basil Blackwell, 1973; A. Blok, The Mafia, cit., p. 146.19 Sulle funzioni dell’amicizia strumentale in Sicilia vedi J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 102-109.20 Sul concetto di reciprocità bilanciata vedi Marshall D. Sahlins, La sociologia dello scambio primitivo, in Edoardo Grendi (a cura ài), L ’antropologia economica, Torino, Einaudi, 1972, pp. 99-146.

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no caratterizzati da una rete stabile di rela­zioni e obblighi impersonali tipici dei moder­ni gruppi associativi.

Le reti di amicizia strumentale basate sui rapporti informali di fiducia hanno giocato un ruolo essenziale nella storia della Sicilia prima dell’unità d’Italia. Tramite loro si rea­lizzavano infatti le principali transazioni eco­nomiche e commerciali. Lo strumento per il realizzarsi di tali commerci e transazioni eco­nomiche era costituito dalle coalizioni ad hoc, vale a dire da alleanze temporanee e orientate a scopi specifici. Tali alleanze era­no destinate a sciogliersi non appena gli sco­pi fossero stati raggiunti. Ciò dava luogo ad una sostanziale instabilità delle coalizioni e ad un loro continuo ridefinirsi e rimescolar­si21. Infatti la fiducia informale sulla quale si basavano aveva bisogno di essere continua- mente riconfermata dai fatti. Se non lo era, la coalizione si scioglieva prima ancora di aver raggiunto il suo scopo.

Il sorgere del codice dell’amicizia strumen­tale va dunque interpretato come una rispo­sta organizzativa data dagli imprenditori agricoli alle possibilità di mobilità sociale che si aprirono loro sotto la dominazione spa­gnola22. La necessità di rispondere in questi termini venne senz’altro accentuata dalle ca ratteristiche dell’amministrazione siciliana sotto la dominazione spagnola. Il sistema di distribuzione degli uffici era di tipo preben­dale, l’amministrazione della giustizia era improntata a principi di venalità23 e il com­portamento della burocrazia non corrispon­deva certo a quello previsto dall’idealtipo

weberiano. Per ottenere autorizzazioni, li­cenze, concessioni, lasciapassare ammini strati vi, era indispensabile avere giuste “en­trature” presso gli uffici, poter contare sui favori di persone cui reciprocare le prestazio­ni in futuro, essere in grado di “lubrificare” , attraverso la propria rete di conoscenze, i lenti meccanismi burocratici. L’amicizia strumentale serviva anche a questo. In una situazione di assenza del mercato capitalisti- co e dello Stato moderno essa si sostituì a quest’ultimo come struttura parallela e inter penetrantesi con l’amministrazione24.

In Sicilia si sviluppano dunque, prima del­la sua unificacazione nello Stato nazionale italiano, forme di relazioni sociali che, se da un lato non possono essere ricondotte alla presenza di quelle che nei paesi europei die­dero luogo alla formazione del sistema capi­talistico, dall’altro non possono neanche es­sere interpretate in termini di persistenza di una tradizione feudale, o della creazione di situazioni di isolamento dalle sedi centrali dello sviluppo capitalistico. Il dualismo della struttura economica e sociale, di cui abbia­mo parlato in precedenza, determina condi­zioni tali da addestrare individui e gruppi sia alla competitività, che ad un particolare rap­porto con il potere politico. La competitività si realizza su quel mercato particolare che è l’arena dell’onore. Occorre sottolineare che si tratta di un’arena in cui, a differenza del mercato, dove le probabilità di guadagno so­no formalmente pacifiche e i soggetti si for­niscono l’un l’altro la garanzia reciproca di astenersi dal ricorso all’impiego di mezzi pre-

21 Sull’instabilità delle coalizioni ad hoc vedi Peter Schneider, Coalition Formation and Colonialism in Western Si­cily, “European Journal of Sociology”, 1972, n. 13, pp. 256-267.22 Cfr. J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., p. 109.23 Per un quadro di sintesi dell’amministrazione in Sicilia sotto il dominio spagnolo vedi D. Mack Smith, Storia del­la Sicilia, cit., pp. 145-152.24 È stato sottolineato come in un certo senso l’amicizia strumentale stava alle coalizioni temporanee come lo Stato stava alle associazioni imprenditoriali nel nascente capitalismo: “dava credibilità ai contratti e forniva un minimo di prevedibilità agli affari”. J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., p. 109.

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datori e violenti, il mezzo fondamentale di acquisizione delle risorse è rappresentato dal­l’uso della violenza25. Ciò determina una tem­poraneità degli impegni, in quanto la manca­ta eliminazione della violenza dal mercato non consente una fiducia di ampia portata e quindi investimenti a lunga scadenza. Per questo motivo le coalizioni temporanee ad hoc basate sulle reti di amicizia strumentale costituiscono lo strumento ideale di natura associativa. Esse non soltanto consentono di instaurare un minimo di prevedibilità, nella misura in cui permettono di orientare le strut­ture pubbliche ai fini privati, ma presentano un’altra importante caratteristica. Infatti la loro flessibilità consente di orientare rapida­mente le alleanze in relazione ai mutamenti improvvisi e imprevedibili che si determinano in un mercato in cui la principale forza di re­golazione è data dall’esercizio della violenza.

Questo sistema economico-politico è stato definito come broker capitalism26; una for­mazione sociale differente sia dal feudalesi­mo che dal capitalismo, e nella quale un ruolo cruciale assumono le funzioni di mediazione.

La genesi

Crisi del latifondo e tensioni sociali. La mafia non è un residuo del passato, ma un mo­

derno prodotto del rapporto tra il processo di formazione dello Stato nazionale italiano e le caratteristiche della Sicilia come perife­ria. Abbiamo in questo caso un sottile para­dosso. Sebbene la mafia possa essere consi­derata come “l’antitesi di un governo forte... tuttavia non potrebbe esistere senza la concentrazione del potere nello Stato na­zionale”27. In quanto uso privato della vio­lenza esercitata come strumento di controllo sociale, la mafia è infatti un mezzo di acco modamento delle tensioni, una forma di me­diazione tra le esigenze formali della società politica nazionale e le domande della perife­ria. Chi esercita tale funzione può essere de­finito come un power broker, e tali sono in­fatti, al momento della loro formazione e per un lungo periodo di tempo, i mafiosi. La loro funzione consiste nel controllare i cana­li che collegano i contadini ai proprietari ter rieri, e la popolazione locale alla società nazionale28. Dunque la mafia non sarebbe venuta in essere se non ci fossero state da un lato la delega di poteri da parte dello Stato ai signori della terra, e dall’altro la protezione di questi ultimi nei confronti dei mafiosi29.

L’impatto dello Stato nazionale altera profondamente le condizioni della Sicilia che dal 1860 diventa una periferia dello Stato italiano, un cambiamento non di scarsa

25 La caratterizzazione del mercato come luogo alieno per definizione dalla violenza si deve, com’è noto, a Max We­ber, Osservazione preliminare a L ’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965, p. 67.26 La definizione di broker capitalism si deve a J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 10-14. È ovvio che buo­na parte delle caratteristiche descritte si riscontrano in molte società che non si sono ancora avviate all’industrializza­zione e allo Stato moderno. La loro rilevanza di precondizioni nel caso della mafia consiste nella circostanza che, co­me si vedrà tra breve, in Sicilia non si verificarono fratture storiche in grado di far emergere forze sociali portatrici di valori alternativi.27 Charles Tilly, Foreword a A. Blok, The Mafia, cit., pp. XVIII-XIX.28 Sul concetto di power broker vedi Richard N. Adams, Brokers and Career Mobility Systems in The Structure o f Complex Societies, “South Western Journal of Anthropology”, 1970, n. 315-327; Eric R. Wolf, Aspects o f Group Relations in a Complex Society: Mexico, “American Anthropologist” , 1956, pp. 1065-1078. L’interpretazione dei mafiosi in termini di power brokers si deve ad A. Blok, The Mafia, cit., pp. 7-8, passim.29 Su questi due aspetti del rapporto tra mafiosi, proprietari terrieri e Stato vedi Leopoldo Franchetti, Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1974, ( l a ed. 1876), pp. 109-110; Ch. Tilly, Foreword, cit., p. XIX.

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portata. Il problema dei rapporti con il cen­tro assume una rilevanza cruciale, e in parti colare assumono grande importanza tre pro­cessi di edificazione del sistema: penetrazio ne (cioè formazione dello Stato), standardiz zazione (cioè formazione della nazione), ed estensione dei diritti di partecipazione (istitu zionalizzazione della cittadinanza politi­ca)30. Ed è proprio nell’ambito di questi processi che si creano le condizioni di genesi della mafia. Il comportamento mafioso emerge come istituzionalizzazione della vio­lenza privata usata come mezzo di accumula­zione economica e di controllo sociale da parte dei soggetti detentori del monopolio dell’onore e al contempo come istituzionaliz­zazione della pratica dell’amicizia strumen­tale come mezzo di penetrazione nell’ammi- nistrazione pubblica per la sua utilizzazione a fini privati (clientelismo).

Nel corso della prima metà dell’Ottocento si verificano in Sicilia alcuni importanti pro­cessi di cambiamento che accentuano le ten­sioni sociali. Mentre si faceva più grave la crisi della produzione agricola, già iniziata nella seconda metà del Settecento, e non si intravedevano rilevanti processi di trasfor mazione colturale, una serie di fattori dava luogo ad un eccezionale incremento demo grafico, che determinava un’accentuazione della pressione sulla terra. Fu in questo qua­dro che ebbe luogo il processo di abolizione della feudalità e l’introduzione del processo di commercializzazione della terra. Questa riforma sortì però effetti differenti da quelli che ci si sarebbe aspettati, contribuendo po tentemente a rafforzare le condizioni che avrebbero dato luogo al sorgere della mafia nella Sicilia centro-occidentale. Qui infatti

erano tradizionalmente più rilevanti, rispetto al resto dell’isola, due condizioni cruciali nei rapporti di produzione, e cioè le caratteristi che feudali del modo di produzione e l’assen teismo dei baroni. Quest’ultima caratteristi ca era dovuta al fatto che Palermo era la ca­pitale del vicereame, e una città che non ave­va nulla da invidiare nel XVIII secolo, alle principali capitali europee. Per quanto ri­guarda il predominio della proprietà feudale si consideri che intorno alla metà del XVIII secolo un quarto delle terre siciliane erano proprietà demaniale, mentre i restanti tre quarti erano di proprietà feudale. Ma se si guarda alla situazione distintamente per la Sicilia centro-occidentale e per il resto della Sicilia, si può notare come i quattro quinti delle terre demaniali si concentravano nella Sicilia orientale, mentre nella Sicilia cen­tro-occidentale quasi il 90 per cento delle ter­re erano di proprietà feudale31.

La commercializzazione della terra non mutò la atipica struttura del latifondo nella Sicilia centro-occidentale. Il latifondo era in­fatti articolato intorno alla presenza di tre classi sociali, e cioè la nobiltà terriera assen teista, la borghesia agraria costituita dai ga- bellotti, e i contadini. Mancava una classe “pura” di braccianti senza terra, cioè di meri lavoratori agricoli salariati, mentre abbonda vano i contadini poveri e le figure miste. La liberalizzazione del commercio della terra non diede luogo al sorgere di una classe di contadini proprietari, ma rafforzò il potere della classe di proprietari borghesi e impren ditori rurali, i gabellotti, che non si differen ziava molto dall’alta aristocrazia terriera sia sotto il profilo dello scarso interesse allo svi­luppo economico dell’agricoltura che sotto

30 Questo modello interpretativo della formazione dello stato nazionale è stato proposto da Stein Rokkan, Dimen­sions o f State-Formation and Nation-Building: A Possible Paradigm fo r Research o f Variations within Europe, in Charles Tilly(ed), The Formation o f National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975, pp. 562-600.31 Nostra elaborazione su dati riportati in E. Pontieri, Il tramonto, cit., p. 8. Sull’incremento demografico vedi Idem, Il riformismo borbonico della Sicilia del sette e dell’ottocento, Napoli, ESI, 1961, p. 46.

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quello dei comportamenti sociali in genera­le. Nonostante la commerciabilità il merca­to rimase estremamente ristretto, in quanto la terra venne venduta raramente, e in e- stensioni tali che di fatto la gran massa dei contadini veniva esclusa da ogni possi bili- tà di acquisto. Inoltre l’affitto veniva ef­fettuato con contratti che non consenti va­no un uso razionale né uno sfruttamento intensivo dei terreni, e che scaricavano sui contadini tutti i rischi. In questo modo di produzione, che è stato definito come rent capitalism32, i contadini venivano progres sivamente perdendo i diritti comuni e gli usi civici, mentre le terre demaniali erano usurpate dalla voracità dei gabellotti. Le forme in cui si realizzò l’impatto del mer cato non servirono quindi ad eliminare o alleviare, ma accentuarono ulteriormente la fame di terra e la competizione per il suo possesso.

I modi in cui si manifesta questa compe tizione assumono due caratteristiche fonda mentali. In primo luogo essa si esprime in forme prevalentemente orizzontali, data la presenza di molti contadini poveri e di figu­re miste e la scarsa presenza di salariati pu­ri, cioè di quella classe che avrebbe potuto instaurare un tipo di conflittualità verticale con i proprietari terrieri e con i gabellotti. Il conflitto sociale si manifesta quindi non co­me lotta tra classi sovra e sotto ordinate, ma prevalentemente come competizione tra gruppi concorrenti per il possesso della ter­ra. La terra rimane dunque essenzialmente una fonte di potere, e in quanto tale il suo possesso o il controllo sul suo uso rimango no condizioni essenziali per la definizione sociale dell’onore e della sua imputazione

agli individui e ai gruppi. Ciò implica una seconda conseguenza, vale a dire il perma nere della violenza come principio regolato re della competizione economica e per l’o­nore. Anzi, la violenza si accentua e acqui­sta una sua caratteristica autonomia a se­guito dell’abolizione della feudalità.

La maggiore accessibilità alla ricchezza fece sì che anche la prepotenza e la violen za divenissero accessibili ad un numero maggiore di persone. Infatti non solo si moltiplicò il numero dei signori della terra interessati a difendere con la violenza i pro­pri possedimenti o a usurpare quelli altrui. Cambiò anche il significato sociale della violenza. Fin quando il possesso della terra comportava anche l’esercizio di un potere politico, dell’amministrazione dell’ordine pubblico e della giustizia, la violenza esercì tata dai baroni aveva una sua legittimazio ne giuridica. Abolita tale legittimazione, venne meno anche l’aspetto “pubblico”, per così dire, della violenza. I corpi di guardie armate dei baroni cessarono di es­sere istituzioni di diritto e divennero stru­mento di una crescente violenza sempre più caratterizzata in senso privato. La violenza inoltre tese a configurarsi come una vera e propria industria. I titolari della violenza, che in precedenza esercitavano il loro me­stiere prevalentemente per conto dei baro­si, acquistarono una propria autonomia crescente, tendendo ad offrire i propri ser­vizi ai migliori acquirenti, e trattando con loro da pari a pari33. La violenza divenne una risorsa il cui possesso monopolistico consentì l’affermazione di un potere, la conquista di ricchezze, la realizzazione di un progetto di ascesa sociale.

32 Sulle conseguenze dell’eversione della feudalità vedi Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino, Einau­di, 1948, pp. 175 sgg.; Sidney Sonnino, I contadini in Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1974 ( l a ed. 1876), pp. 17-29. Il concetto di rent capitalism è stato applicato al latifondo siciliano da A. Blok, The Mafia, cit., pp. 56-57, 64, passim. Sulle sue radici storiche vedi la bibliografia citata alla nota 11.33 Per una acuta analisi del processo qui tratteggiato L. Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 71-93.

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L ’impatto dello Stato e il sorgere della ma­fia. Nelle condizioni sopra descritte si deter­mina un’accentuazione delle tensioni sociali dovuta da un lato alla crescente differenzia zione sociale verificatasi nella prima metà del secolo, e che diede luogo al sorgere di una classe borghese di proprietari terrieri e all’aumento dei contadini senza terra, dal­l’altro, a una tendenza alla crescita dell’in­terdipendenza tra città e campagna e tra classi sociali dovuta all’impatto del mercato (la commerciabilità della terra). Questa cre­scente interdipendenza si scontrò con le esi­genze di controllo centralizzato tipiche di uno Stato nazionale appena formatosi. Ciò avvenne per due motivi: in primo luogo a causa del permanere degli interessi degli agrari assenteisti come forza principale della società siciliana. E in secondo luogo a causa del carattere fortemente segmentano della società rurale siciliana, legato all’auto suffi­cienza delle agrotown e alla mancanza di ef­ficienti reti di comunicazione tra questi in­sediamenti e la società nel suo complesso. Uno degli aspetti più rilevanti di questa seg mentazione era dato dall’esclusione dei con tadini dal mercato di lavoro, in quanto non costituivano ancora una forza-lavoro libera, e dal mercato politico, in quanto esclusi da­gli aventi diritto al suffragio. Di conseguen za, uno Stato sovraimposto dall’esterno co­me quello italiano non fu in grado di garan tire l’efficace controllo e la manipolazione delle crescenti tensioni sociali. Questo com­pito venne assunto in proprio dai signori della terra, che accentuarono il ricorso al­l’uso della violenza nell’esercizio del con­trollo sociale.

Il ricorso alla violenza non era certo una novità. Ma adesso non solo aveva cambiato

significato, come s’è visto prima, ma a diffe­renza che in passato si verificava nel quadro della debole autorità di uno Stato che sulla carta pretendeva di detenere formai mente il monopolio legittimo della violenza fisica. In­dusse quindi lo Stato a venire a patti con colo­ro che esercitavamo il potere di fatto a livello locale, e a delegare loro le funzioni di eserci­zio del monopolio della violenza fisica. Anzi in pratica lo Stato si sottopose alla loro auto­rità, perché mentre da un lato proibiva le vio­lenze private, dall’altro concedeva a quella stessa classe dominante locale responsabile della violenza privata il potere di governare in nome e per conto del governo centrale. Cosic­ché quando divenne chiaro che la sovranità dello Stato non esisteva che sulla carta, il ri corso alla violenza privata divenne generaliz­zato.

La mafia rappresenta dunque una rispo­sta alle tensioni che si creano tra contadini, aristocrazia terriera e borghesia agraria e tra queste classi e il governo centrale, ed è un modo per gestire le tensioni tramite la proposizione di uno specifico codice di comportamento nel quale i mafiosi si spe cializzano in quanto power brokers34.

La legittimazione nell’uso della violenza fisica deriva ai mafiosi da un’attribuzione sociale di onore. Una volta caratterizzati come detentori del monopolio dell’onore i mafiosi sono in grado di esercitare legitti mamente il controllo sociale giocando il lo­ro ruolo di intermediari politici ed economi ci. Le funzioni di mediazione e di collega mento giocate dai mafiosi non si limitavano infatti al controllo dell’elettorato e alla pre­venzione delle rivolte contadine (o alla loro repressione violenta), ma erano basate es­senzialmente sulla posizione di supervisione

34 Sull’aumento della violenza privata in connessione con l’incapacità dello Stato di gestire efficacemente il mono­polio della violenza legittima, e sulla creazione di un gap di comunicazione che consente la formazione dei mafiosi in quanto ceto specializzato di power brokers, vedi A. Blok, The Mafia, cit., pp. 177-178, da cui ho ripreso l’ana­lisi precedente. Sulla delega alla classe dominante locale dei poteri da parte dello Stato vedi L. Franchetti, Le con­dizioni, cit., pp. 83-93.

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di management che detenevano nelle tenute degli agrari. In questo senso si può dire che la base economica dei mafiosi come power brokers trova un corrispettivo nell’esistenza del broker capitalism. Così come quest’ulti­mo sorge per colmare il gap tra funzioni di produzione e di commercializza zione, allo stesso modo sul piano del controllo sociale sorge la figura del mafioso come power bro­ker che colma la distanza tra i contadini e Stato, assumendo da quest’ultimo la gestio­ne della violenza fisica. “In termini di con­trollo e di autorità la mafia” diventa in tal modo “una dimensione pragmatica dello Stato”35.

Questa caratterizzazione della mafia come dimensione pragmatica dello Stato ebbe non poca parte della sua origine nel caratte re as­sunto dallo Stato italiano, dalla sua ammini­strazione periferica e dal governo locale.

Lo Stato italiano sorge come federazione di élites regionali dai differenti interessi e dalla variegata configurazione politica, so­ciale e ideologica. Anche se l’ingresso del Mezzogiorno nello Stato avvenne con qual­che ritardo (più “mentale” che temporale) ri­spetto a quello delle altre regioni, e costituì per un certo periodo di tempo un pro blema più grande per ciò che concerneva l’integra­zione della popolazione nell’ambito della na­zione e dello Stato, tuttavia fin dall’inizio le élites meridionali furono in grado di inserirsi a pieno titolo nella gestione politica dello Stato. Sotto questo profilo è solo in parte ve­ro che lo Stato fu estraneo al Mezzogiorno, in quanto si deve invece dire che lo Stato nel Mezzogiorno assunse le sembianze che erano proprie delle élites meridionali. Ma proprio la formazione dello Stato come confedera­zione di élites determinò il sorgere di due tipi di conflitti: il primo fra gli interessi diversi, e spesso contrastanti, delle differenti élites re­gionali; il secondo tra gli astratti principi

dello Stato di diritto, di cui alcune élites re­gionali si facevano portatrici, e gli interessi delle élites regionali che questi principi con­trastavano. Il primo tipo di conflitti venne risolto sulla base di una deli mitazione del­la giurisdizione territoriale degli interessi economici da parte di ciascuna élites o gruppo di élites. L’intesa tra agrari del Mezzogiorno e borghesia industriale del Nord, su cui si sono a lungo soffermati i classici del meridionalismo, è un esempio di questo tipo di accordi di delimitazione terri toriale del potere. Questo tipo di accordo, se risolveva i problemi di convivenza tra differenti interessi delle élites regionali, ac­centuava invece i conflitti del secondo tipo, vale a dire quelli tra i principi dello Stato di diritto e gli interessi di alcune élites regiona li. Conflitti che erano particolar­mente evi denti e acuti nel Mezzogiorno. La ragione per l’evidenziarsi di questi con­flitti e per il loro acutizzarsi risiedeva nel fatto che in realtà non si trattava di conflit­ti tra astratti principi da una parte e con­creti interessi dall’altra, ma anche in questo caso di conflitti tra interessi economici. Lo sviluppo di un mercato nazionale e di un sistema industriale richiedevano infatti, co- m’è ovvio, l’affermazione di un moderno Stato di diritto che ponesse in essere tutte quelle condizioni di natura politica che so­no essenziali allo sviluppo di una società industriale, tanto più quando tale società arriva con un certo ritardo sulla scena dello sviluppo capitalistico. Di conseguenza l’a­ver lasciato carta bianca alle élites meridio­nali nella gestione dei propri interessi eco­nomici poneva alle élites borghesi del Nord gravi problemi consistenti nel fatto che la mancata affermazione di uno Stato moder­no avrebbe ostacolato proprio la crescita di quegli interessi economici di cui esse erano portatrici. D’altra parte per le élites meri-

35 A. Blok, The Mafia, cit., p. 96.

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dionali consentire l’affermazione dello Stato di diritto e dei suoi principi nel Mezzogiorno avrebbe significato perdere quella base di po­tere territoriale in conseguenza della quale potevano pretendere di essere uno degli inte ressi sulla cui federazione lo Stato italiano era sorto e che si era impegnato a tutelare. È alla luce di questa dialettica che vanno consi derati i problemi di affermazione e penetra zione delle strutture e dei principi dello Stato moderno nel Mezzogiorno e in Sicilia, tanto più se si considera che la situazione fu ulte­riormente resa complessa dal fatto che a par­tire da una certa data la classe di governo fu costituita dai rappresentanti di quelle élites meridionali che da un lato dovevano tutelare gli interessi prevalenti della nascente indu­stria del Nord, e dall’altro dovevano garanti­re i loro stessi interessi di élites politiche che avevano raggiunto il governo del paese.

A ciò si aggiunga poi che il nuovo Stato unitario italiano fu improntato, fin dal suo sorgere, all’esigenza di esercitare il controllo sulla periferia con strumenti molto forti per evitare l’insorgere di problemi sociali. Ciò indusse il governo centrale a preferire il siste ma amministrativo francese, basato sulla fi­gura del prefetto, a quello inglese36. Tuttavia il prefetto non fu uno strumento per realizza re l’unità interministeriale dell’amministra zione al modo francese in quanto, a differen­za che in Francia, dove la prefettura esercita va il controllo sulle attività territoriali di' tutti i ministeri, in Italia la prefettura come pro lungamento del ministero degli Interni ebbe funzioni di controllo estese soltanto alla giu stizia e all’amministrazione locale, lasciando

gli altri ministeri liberi di agire senza control lo alcuno a livello territoriale. Ciò diede luo­go ad una carenza di integrazione ammini strativa tra centro e periferia, e caratterizzò in senso disperso il sistema amministrativo italiano. A sua volta ciò ebbe come conse­guenza un’insufficiente penetrazione ammi nistrativa alla periferia e una debolezza di controllo amministrativo che indusse l’élite liberale a ritardare l’introduzione del suffra­gio universale, privando in tal modo il dissenso locale dello strumento della rappre­sentanza elettorale37.

D’altra parte neanche l’amministrazione del governo locale riuscì a fungere da inter­mediario fra la società locale e lo Stato. L’in­troduzione degli istituti di autonomia locale in una situazione di assenza della parcipazio- ne politica e di suffragio molto limitato con­centrò le risorse politiche nelle mani di pochi potenti locali o di uomini di loro fiducia, de­terminando un’intensificazione della compe­tizione per la conquista del potere a livello locale. Tale competizione tuttavia non pote­va svolgersi se non in forma clientelare e par­ticolaristica, dato che i gruppi che si impa­dronirono del governo locale erano quelli stessi che detenevano le basi materiali del po­tere a livello sociale. La vita politica assunse quindi l’aspetto di una competizione cliente­lare per il potere. Infatti aggregarsi ad una clientela era l’unico modo disponibile per proteggersi dalle conseguenze di un esercizio abusivo e discriminatoio del potere38.

Il clientelismo, sorto come strumento di controllo sociale in assenza di partecipazione politica, non era certo lo strumento più adat-

36 Riprendo quest’analisi sul sistema amministrativo italiano da Sidney Tarrow, Tra centro e periferia, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 47-61.37 Ivi, pp. 51-52. Se vi fu una carenza di penetrazione amministrativa, essa fu però accompagnata da un forte con­trollo politico da parte del governo centrale sulla vita politica locale. Il prefetto infatti era un organo di controllo po­litico. Politica era la sua nomina, politiche le forme di controllo che esercitava in quanto emissario del governo in ca­rica. Sulle funzioni del prefetto vedi Robert C. Fried, The Italian Prefects, New Haven, Yale University Press, 1963.38 Sul sistema clientelare nel Mezzogiorno vedi Luigi Graziano, Clientelismo e sistema politico. Il caso dell’Italia, Milano, Angeli, 1980, pp. 113-128.

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to per promuovere tale partecipazione. Le masse della popolazione restarono quindi escluse dal rapporto con lo Stato, e la loro integrazione venne affidata non già agli stru­menti politico-amministrativi, ma alla ge­stione clientelare del potere locale. Nelle zo­ne della Sicilia centro-occidentale ciò signifi­cò un intreccio potente tra mafia e potere po­litico, sia a livello del governo locale che del­le propaggini periferiche dell’amministrazio­ne centrale. E del resto i gruppi mafiosi, ad­destrati dalle reti di amicizia strumentale a muoversi con abilità nei meandri dell’ammi­nistrazione, non si trovarono certamente a disagio nel penetrare nei gangli vitali del- l’amministrazione dello Stato. Nel breve vol­gere dei primi quindici anni di storia della Si­cilia unitaria l’intreccio tra mafia e poteri dello Stato era diventato talmente ampio da poter essere documentato nel corso di indagi­ni promosse dal governo e di dibattiti parlamentari39. Lo stesso termine, che era in origine sinonimo di “eccellenza”, “baldan­za”, assunse per la prima volta il suo signifi­cato di organizzazione criminale in un docu­mento ufficiale del prefetto di Palermo nel 186540, a testimoniare che la mafia derivava dall’incontro fra condizioni della società lo­cale e formazione dello Stato nazionale. Con l’avvento al potere della Sinistra, il primo ampliamento del suffragio che potenziò le strutture clientelari del potere locale, e l’in­staurarsi del trasformismo come pratica di governo, l’istituzionalizzazione della mafia come espressione dell’intreccio fra Stato e potentati locali poteva dirsi compiuta.

L ’apogeo della mafia tradizionale. La mafia sorge dunque come una forma di relazione biunivoca tra Stato e potentati locali. Il go­verno centrale delega alla classe dominante l’esercizio del potere statale, e al contempo utilizza la classe dominante per gestire il con­trollo sulla periferia. D’altra parte, in modo complementare, la classe dominante locale utilizza gli strumenti di potere messi a dispo­sizione dallo Stato per rafforzare e legittima re il proprio dominio. L’incontro fra questi soggetti e i loro interessi fece sì che, assente una classe media autonoma dai proprietari terrieri e tagliati fuori i contadini e il proleta riato urbano (cioè la grande massa della po polazione) dal gioco politico, le regole del comportamento mafioso si radicassero rapi damente e in maniera estesa e profonda nella società.

In quanto all’estensione e profondità del fenomeno mafioso occorre ricordare come la mafia tradizionale non fosse un’organizza zione formale, tanto meno segreta. Non lo era sia per le difficoltà prima accennate a creare e mantenere impegni organizzativi di lunga durata sia perché la sua forza risiedeva nell’essere una forma di comportamento dif­fuso e corrispondente a valori socialmente accettati. Tra mafiosi ci si riconosceva dal modo di fare, dallo sguardo, da segni imper cettibili agli altri41.

La mancanza di carattere formale dell’or ganizzazione mafiosa si manifesta nel nucleo fondamentale di tale organizzazione, cioè la cosca. Il termine denota la fitta aderenza del­le foglie di un carciofo, così simboleggiando

39 Vedi gli atti del dibattito parlamentare del 1875-76, l’intervento del deputato Tajani e la relazione della Commis­sione d’inchiesta sulle condizioni dell’ordine pubblico in Sicilia (Relazione Bontadini). Parti del dibattito e della rela­zione sono pubblicati in Nando Russo (a cura di), Antologia della mafia, Palermo, Il punto edizioni, 1964, pp. 3-287. Per un quadro generale delle condizioni della Sicilia e delle lotte politiche che si verificarono nel primo quindi­cennio dell’unità vedi Paolo Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, Torino, Einaudi, 1954.40 Sull’originario significato del termine mafia vedi Giuseppe Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, 1889, vol. II, pp. 287 sgg. Sul rapporto del prefetto Gualterio che nel 1865 definisce la mafia come organizzazione criminosa vedi P. Alatri, Lotte politiche, cit., p. 92.41 Vedi Giuseppe Alongi, La maffia, Palermo, Sellerio, 1977 ( l a ed. 1886), pp. 52-53.

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la strettezza delle relazioni fra gli affiliati. La cosca è costituita da un gruppo di amici e dà luogo a coalizioni strumentali ad hoc. In quanto organizzazione instabile tende ad avere un solo leader, ma spesso a causa dei conflitti interni ne ha più d’uno. Strumento operativo dell’azione mafiosa, la cosca, che come organizzazione non ha nulla di fisso e di burocratico o di formale, è anche il princi pale canale di regolazione dei processi di mo­bilità sociale e di carriera mafiosa. Tra le sue funzioni inoltre va sottolineata quella di met­tere in un certo senso ordine nella lotta per il potere, regolando al suo interno la competi zione per la violenza e basandosi sulla norma fondamentale per cui il dominio di ciascuna cosca è territorialmente delimitato. All’inter­no di un determinato territorio soltanto una cosca poteva esercitare il monopolio della violenza42.

In quanto gruppo informale non associati vo la cosca presenta infine un’altra caratteri stica cruciale: “essa si configura come una serie di relazioni a coppie che il mafioso... intrattiene con persone tra loro indipenden­ti” . Questa struttura diadica dei legami tra i membri della cosca mafiosa è uguale alla for­ma organizzativa del clientelismo tradiziona le43, il che ci porta a sottolineare un altro punto caratteristico. La omogeneità delle forme organizzative rinvia all’estensione so­ciale degli atteggiamenti corrispondenti, e in particolare di quello che è stato definito co­me lo “spirito di mafia” .

L’atteggiamento mafioso consiste nella co difica degli orientamenti in termini di onore di cui si è parlato nella prima parte di questo saggio. Il reato perpetrato nei confronti

di una persona viene concepito da quest’ulti­ma come un torto col quale si vuol fare senti re dall’offensore la propria superiorità socia­le, come espressione di una volontà di pre­potere. Nell’ambito di questa accentuata concezione della personalità individuale, di questo esasperato concetto dell’onore, “reati che altrove non avrebbero alcun movente personale... in Sicilia assumono la parvenza di una vendetta per un torto vero o supposto che il reo... avrebbe subito da parte della vittima”44. La conseguenza della diffusione di questo atteggiamento è che, in quanto norma socialmente accettata di comporta­mento, anche coloro che vorrebbero esserne esenti sono indotti ad adeguarsi ad essa.

Quali sono le ragioni dell’ampia diffusio ne di atteggiamenti e comportamenti mafio­si? Della prima si è già detto, a proposito dell’intreccio fra esigenze del governo cen­trale e interessi della classe dominante locale. Una seconda ragione discende dalla prima, e riguarda la natura della mafia come fenome­no al contempo urbano e rurale. Si è visto come la mafia sorga a seguito del combinarsi di un processo di crisi e trasformazione del latifondo e della formazione dello Stato na­zionale. Ciò comportò la diffusione del feno­meno mafioso sia in ambiente rurale che ur­bano. Se infatti il controllo delle tensioni so­ciali doveva essere esercitato con riferimento ai contadini, nelle campagne, gli strumenti politici cruciali per lo svolgimento di tale funzione erano concentrati nella città di Palermo45. Lì si trovavano non soltanto que­gli organismi dello Stato responsabili dell’or­dine pubblico, della giustizia e in generale delPamministrazione della cosa pubblica,

42 Cfr. J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 187, 190-191; H. Hess, Mafia, cit., pp. 108-115; A. Blok, The Mafia, cit., p. 145; G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., pp. 227 sgg.43 H. Hess, Mafia, cit., p. 109; A. Blok, The Mafia, cit., p. 137.44 G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., p. 224.45 Questo carattere al contempo rurale e urbano del fenomeno mafioso non sfuggì agli studiosi dell’Ottocento. Vedi per esempio G. Alongi, La maffia, cit., pp. 106-107; L. Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 112 sgg.; e S. Sonnino, I contadini, cit., p. 68, sostengono che la mafia propriamente detta era fenomeno esclusivamente palermitano, mentre l’interno della Sicilia era caratterizzato dal brigantaggio e dal malandrinaggio. Non si dimentichi d’altronde che nel

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ma gli stessi proprietari terrieri assenteisti. Palermo era il centro in cui si raccoglieva gran parte della produzione delle zone del- l’ihterno, sia per il consumo locale che per l’esportazione. A Palermo e nei suoi dintor­ni, nella zona non latifondistica a coltura in­tensiva di agrumi e vigneto della cosiddetta Conca d’Oro, veniva inoltre reclutata buona parte del personale mafioso. Proprio perché la mafia non è soltanto un prodotto rurale, dell’economia del latifondo, ma una creatu­ra nata dalla combinazione di quei processi storici e sociali fin qui evidenziati, essa potè espandersi rapidamente e informare di sé tut­ta la Sicilia centro-occidentale. Ma la sua espansione non fu soltanto territoriale; per le funzioni che esplicava essa pervadeva di sé molteplici sfere dei comportamenti sociali.

I mafiosi si situano sulle giunture cruciali nei rapporti tra centro e periferia, tra con­tadini, proprietari terrieri e Stato. La loro funzione principale è quella di mediatori, di power brokers che detengono il monopo lio dell’esercizio della violenza sulla base di una legittimazione in termini d’onore. Gli stessi mafiosi del resto tendono a vedere le loro funzioni in termini di mediazione46. Tuttavia l’accento posto su queste funzioni della mafia tradizionale ha finito spesso col far dimenticare che mediazione e violenza

erano strumenti per il conseguimento di de terminati fini economici e politici. Ed è ap­punto nell’ambito di questi fini che vanno analizzate le funzioni del comportamento mafioso. In base ad un’analisi succinta li si può raggruppare in tre tipi fondamentali: funzioni di accumulazione economica, di controllo sociale, di esercizio del potere politico47.

In genere è raro che il mafioso vivesse sol­tanto dei proventi che gli derivavano dalla propria attività criminale. Non essendo un bandito o un gangster, egli tendeva ad utiliz zare l’attività criminale per raggiungere una posizione sociale accettata nella comunità in cui viveva. Anzi proprio questo era lo scopo della carriera mafiosa, perché senza essere considerati uomini di rispetto non sarebbe stato possibile esplicare le funzioni tipica mente mafiose. L’attività illegale serviva quindi per accumulare ricchezza esercitando un mestiere o un’attività agricola, industria­le, commerciale o professionale esercitata anche da altri. Uno dei modi tipici in cui ciò avveniva era l’acquisizione in modo violento di una posizione di monopolio, per esempio di intermediazione commerciale. Oppure nell’imposizione di tangenti, esercitando il controllo monopolistico su forme associative tra produttori o sulla forza lavoro48. Per non

1862-63 per la prima volta in assoluto viene usato il termine mafia ad indicare una forma di criminalità, con la descri­zione dell’ambiente delle carceri palermitane effettuata nel dramma I mafiusi della Vicaria di Palermo, quindi in am­biente urbano. Infine lo stesso Rasponi, prefetto di Palermo, riferiva nel 1874 in un rapporto al ministro dell’Interno, su “la mafia, comunemente intesa malandrinaggio di città...” . Vedi N. Russo (a cura di), Antologia, cit., p. 12.46 II carattere dei mafiosi come gruppo che sta tra i signori e i contadini era già stato posto in rilievo da Pasquale Vii- lari nella lettera meridionale sulla mafia. Vedi N. Russo (a cura di), Antologia, cit., p. 381. Sull’autorappresentazio­ne mafiosa in termini di funzioni di mediazione vedi gli esempi riportati da H. Hess, Mafia, cit., pp. 100-101.47 A nostro avviso in questi tre tipi possono essere raggruppate tutte le funzioni del comportamento mafioso. H. Hess, Mafia, cit., pp. 173-209, elenca un numero maggiore di funzioni, ma combinando insieme, senza distinguerli, funzioni e modi di manifestazione del comportamento mafioso. P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 41-57, cade nello stesso equivoco di Hess, da cui riprende l’analisi delle funzioni mafiose.48 Per esempi di queste professioni vedi H. Hess, Mafia, cit., pp. 82-83; G. Alongi, La maffia, cit., 106-107; L. Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 6-7. Non possiamo qui soffermarci sul processo di legittimazione del potere ma­fioso e sulla dialettica tra attività straordinaria (esercizio manifesto della violenza) e gestione ordinaria del potere da parte dei mafiosi. Per alcuni spunti in materia vedi Nino Novacco, Inchiesta sulla mafia, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 27-28; H. Hess, Mafia, cit., pp. 96 sgg.; P. Arlacchi, Mafia, contadini, cit., pp. 5-7.

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parlare degli abigeati, delle lettere di scrocco, dei rapimenti a scopo di riscatto.

In altri casi la professione, o meglio il po­sto che si aspirava a ricoprire, veniva creato dal nulla, come nel caso dell’assunzione di funzioni di campiere o di guardiano tramite quella particolare minaccia che viene detta “fucilata di chiacchiarìa”49. Il proprietario di un fondo si sentiva sparare una fucilata con i proiettili che gli passavano a due palmi dalla testa. Dopo qualche giorno gli si presentava qualcuno a spiegargli che il fondo aveva bi sogno di protezione, e si offriva come guar­diano. Il proprietario, capita l’antifona, ac­cettava per evitare guai peggiori.

Un altro tipico metodo di arricchimento mafioso era costituito dall’esercizio dell’usu­ra a danno dei contadini, costretti a vivere in condizioni di perenne indebitamento, mentre bastava un piccolo gruzzolo agli usurai per vivere di rendita riuscendo anche ad acqui­stare proprietà terriere50. Con l’usura si crea­rono capitali con i quali, a partire dal 1860, attraverso i sistemi delle aste truccate, gran parte delle terre pubbliche provenienti dall’incameramento dei beni ecclesiastici an­darono ad accrescere la grande proprietà ter­riera borghese invece di contribuire a creare un ceto di contadini proprietari. È stato sti­mato che la proprietà borghese della terra sia passata, tra il 1860 e la fine del secolo, da250.000 a 650.000 ettari. Di questo incre­mento di 400.000 ettari, circa 250.000 ettari

sono derivati dall’acquisto o dall’usurpazio ne di terreni ecclesiastici e demaniali. Nella formazione così caratterizzata della proprie­tà borghese della terra la mafia ebbe spesso un ruolo rilevante51.

In un quadro del genere, di sfruttamento accentuato dei contadini, era chiaro che il controllo sociale dovesse costituire una delle funzioni essenziali svolte dalla mafia. La prevenzione e la repressione delle periodiche rivolte contadine ha percorso l’intera evolu­zione del fenomeno mafioso fino ai primi an­ni cinquanta di questo secolo. Nella loro azione di agenti del controllo sociale, i ma­fiosi erano facilitati dall’ambivalenza delle loro relazioni con le autorità dello Stato. In­fatti i mafiosi mostravano disprezzo per le leggi ed erano in grado di sfidarle, spesso im punemente. Al contempo erano conniventi con le autorità, per conto delle quali esercita vano il controllo52. Il loro disprezzo per la legge di uno Stato considerato come stranie ro e oppressore li caratterizzava simbolica mente come espressione della resistenza e delle esigenze della società locale, e forniva una legittimazione sociale alle loro fuzioni di tutori dell’ordine.

Lo svolgimento delle prime due funzioni non sarebbe stato efficace senza l’esercizio del potere politico. Prescindendo dai casi più clamorosi di infiltrazione di soggetti mafiosi tra le forze di polizia, nella prefettura e nella stessa magistratura53, basterà richiamare il

49 Letteralmente “una fucilata per chiacchierare, per discutere”, quindi un avvertimento o un ammonimento. Cfr. S. Sonnino, Icontadini, cit., p. 68.50 Sul ruolo dell’usura in Sicilia e nei confronti dei contadini vedi S. Sonnino, Icontadini, cit., p. 107; H. Hess, Ma­fia, cit., p. 182.51 Sulla mancata creazione di un ceto di contadini proprietari a seguito della vendita dei beni ecclesiastici vedi per tutti S. Sonnino, Icontadini, cit., pp. 163-164. Sul ruolo della mafia nella formazione della proprietà borghese della terra E. Sereni, Il capitalismo, cit., pp. 291-292. Nel secondo dopoguerra la mafia svolgerà un ruolo di rilievo anche nella formazione della proprietà contadina della terra a seguito della riforma agraria. Cfr. Francesco Renda, Funzioni e ba­si sociali della mafia, in Idem, Il movimento contadino nella società siciliana, Palermo, Edizioni “Sicilia al lavoro”, 1956. Si tratta di esempi di quella che più avanti sarà definita come le capacità di ibridazione sociale della mafia.52 Vedi A. Blok, The Mafia, cit., p. 6.53 Su cui vedi gli esempi riferiti da Diego Tajani, Discorso alla Camera dei Deputati, Tornata dell’l l e 12 giugno 1875, in N. Russo (a cura di), Antologia, cit., pp. 135-177; G. Alongi, La maffia, cit., pp. 98-99; Antonino Cutrera, La mafia e i mafiosi, Palermo, Sandron, 1900, cap. XII.

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modo di gestione del potere a livello locale e negli organi periferici dell’amministrazione centrale.

Un esempio concerne la gestione della po­litica fiscale da parte delle amministrazioni comunali. Le imposte comunali, dalla tassa sulle bestie da soma e da tiro al dazio di con­sumo, dall’imposta sul macinato a quella di famiglia gravavano tutte in misura spropor zionatamente iniqua sui contadini54. Ed è su­perfluo ricordare come nei comuni dell’area mafiosa il potere locale fosse nelle mani delle principali cosche, le quali “ ... compresero subito il gran partito che potevano trarre dal­la loro partecipazione alle elezioni politiche e amministrative. Questa partecipazione di­ventò più efficace ed attiva dopo le leggi che allargarono il suffragio e che diedero il dirit­to di voto ai membri stessi delle cosche...”55.

Dal resto è noto come nel Mezzogiorno il sistema di utilizzare la malavita da parte dei prefetti al fine di sostenere nelle campagne elettorali i candidati governativi divenne am­piamente praticato in connessione con l’av­vento al potere della Sinistra e con la diffu­sione del trasformismo come pratica di go­verno. Liberare i mafiosi che avessero garan­tito di lavorare a favore dei candidati alla vi­gilia delle elezioni per nominare commissari favorevoli al governo era pratica comune56.

La mafia come effetto e agente di processi di ibridazione sociale. La mafia nasce come ri­sposta della periferia all’impatto del centro; ma non potrebbe affermarsi senza il soste­

gno di quest’ultimo. L’utilizzazione del pote­re mafioso da parte delle autorità statali indi­ca che il fenomeno mafioso va inquadrato nell’ambito di sistemi di alleanze tra classi sociali e fra interessi politici che si realizzano a livello locale, ma che per mantenersi in vita e affermarsi devono travalicare il sistema po­litico locale e immergersi in un brodo di col­tura costituito da equilibri politici nazionali. L’alleanza regionale fra la borghesia agraria, la piccola borghesia intellettuale e i nobili la­tifondisti in Sicilia può reggersi soltanto sulla repressione mafiosa dei contadini. Perché questa possa essere esercitata impune mente è necessario che si realizzi un’alleanza nazio­nale tra latifondisti meridionali e borghesia industriale settentrionale che ne delega ai pri­mi l’esercizio57. Cosicché la mafia si radica socialmente per ragioni più ampie di quelle che ne hanno definito le origini. Le cause della persistenza del fenomeno mafioso non sono identiche a quelle della sua genesi. Il fe­nomeno acquista una sua autonomia che ne garantisce, in modo per così dire auto mati- co, la riproduzione, e ne rende difficile lo sradicamento.

Un esempio di quanto s’è detto può essere tratto dalla vicenda della repressione polizie­sca della mafia sotto il fascismo58. L’assun­zione da parte dello Stato del monopolio del­la violenza, e la soppressione delle elezioni tolsero le basi sociali dell’attività dei mafiosi come mediatori. La mafia apparentemente si disgregò; i mafiosi di piccolo calibro che non si inserirono nel movimento delle camicie ne-

54 Sull’utilizzazione in funzione anticontadina delle amministrazioni locali in Sicilia vedi S. Sonnino, I contadini, cit., pp. 107 sgg.55 G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., p. 243.56 Vedi Napoleone Colajanni, La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi, Milano, Ed. Coop, libro popolare, 1951, pp. 73- 93; Gaetano Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull’Italia giolittiana, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 135-144.57 Com’è noto questa è l’analisi condotta da Salvemini. Per una sintesi di essa si veda Massimo L. Salvadori, Il mito del buongoverno, Torino, Einaudi, 1960, pp. 295-296.58 Sulle vicende della mafia sotto il regime fascista vedi, per i profili qui accennati, H. Hess, Mafia, cit., pp. 60-61, 232-237; A. Blok, The Mafia, cit., pp. 182-189.

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re furono eliminati. I grandi proprietari ter­rieri, una volta che la repressione dei contadi­ni veniva garantita dall’apparato del regime e dello Stato, furono ben lieti di potersi liberare del peso economico della mediazione mafiosa59, e aderirono al regime. Cosicché quando il prefetto Mori, principale protago­nista dell’azione di polizia, cominciò a pren­dere di mira gli stessi agrari, venne brusca­mente destituito. “Il Fascismo... aveva mo­nopolizzato l’uso della violenza senza... cam­biare l’ambiente sociale nel quale la mafia aveva prosperato”60. La mafia riemerse nel 1943, apparentemente con le stesse caratteri stiche che le erano proprie all’inizio del seco­lo. Ma di lì a qualche anno un profondo pro­cesso di crisi, trasformazione e ristrutturazio­ne l’avrebbe investita, per farla riemergere in nuove forme negli anni settanta.

È stato sottolineato come uno dei fonda- mentali modelli di comportamento della ma­fia consista nel resistere all’introduzione di mutamenti sociali e poi, quando questi ulti­mi appaiono inevitabili, nello sfruttarli ai propri fini61. Uno fra i tanti esempi è costi­tuito dalla resistenza all’introduzione del movimento cooperativistico tra i contadini e, successivamente, dall’organizzazione di coo­perative da parte degli stessi mafiosi. Don Calò Vizzini, uno dei principali capimafia della prima metà del secolo, cominciò ad or­ganizzare cooperative agricole fra combat­tenti e reduci all’indomani della prima guer­ra mondiale. Lo troviamo a svolgere questa attività fin dopo la seconda guerra mondiale, riuscendo con l’uso di un tipico strumento dell’associazionismo contadino a scompagi­nare lo stesso movimento62.

Una delle conseguenze di questo model­lo di comportamento è che istituzioni nuo­ve vengono ad essere utilizzate per la rea­lizzazione di valori tradizionali. In tal mo­do si ha un duplice processo: da un lato istituzioni moderne vengono modificate e strumentalizzate per fini altri da quelli per cui originariamente erano sorte. Dall’altro i valori tradizionali non scompaiono, non vengono sostituiti da nuovi valori, ma si adeguano all’uso tradizionale delle nuove istituzioni. Questo processo di ibridazione sociale di cui la mafia è, forse in modo emblematico, al contempo agente e risulta­to, costituisce la base del potere mafioso e della sua straordinaria capacità di persi­stenza e riproduzione. Per meglio com prendere questo processo ci si può soffer mare sull’esempio dell’organizzazione eoo perativistica promossa dal capomafia. Egli riesce a far bloccare dalle autorità regio­nali una cooperativa fondata sul movi­mento contadino; a quel punto costituisce la propria. I contadini che hanno visto fallire la propria proposta dipendono da lui per la propria sopravvivenza. Coloro che saranno ammessi a far parte della cooperativa si sentiranno beneficati, e percepiranno l’ammissione non nei termini di una normale transazione economica, ma come una forma di concessione incon­dizionata di benefici. Chi si sente così be­neficato “diventa l’uomo del suo protetto­re nel senso feudale della parola; ha in un certo modo ricevuto da lui in fuedo la vi­ta, e d’allora in poi, è pronto ai suoi servizi”63.

Quali sono le conseguenze del persistere

59 Cfr. Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Verona, Mondadori, 1932, pp. 251, 354, passim.60 A. Blok, The Mafia, cit., p. 186.61 J. Schneider, P. Scheider Culture, cit., p. 183; E. J. Hobsbawm, Iribelli, cit., p. 131.62 Vedi Michele Pantaleone, Mafia e politica, Torino, Einaudi, 1962, pp. 100-118.63 L. Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 109-110. Sul concetto di concessione incondizionata di benefici vedi Charles Lindblom, Politica e mercato, Milano, Etas, 1979, p. 41.

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di questa concezione precontrattuale64 della transazione economica e del suo combinarsi con rapporti propri di un’economia di mer­cato? La caratteristica della concessione in­condizionata di benefici è che non viene ri­chiesta una controprestazione specifica da parte del soggetto beneficato. Ma in un am­biente sociale come quello descritto in queste pagine, l’indeterminatezza della contropre­stazione si traduce nella perenne esigibilità di prove di obbligazione etica, cioè di simboli e garanzie di fedeltà e lealtà. Dal soggetto be­neficato si può così ottenere la tangente sulle attività economiche, o il voto per un candi­dato alle elezioni. Gli si può chiedere di tra­sformarsi in killer. In tal modo funzioni eco­nomiche, di controllo sociale e di potere poli­tico si combinano strettamente nell’obbliga- zione mafiosa. In termini generali si può dire che si ha una conversione di risorse economi­che in risorse politiche, cioè nell’acquisizione di controllo su altri soggetti, e una moltipli­cazione di risorse disponibili. Infatti le con­troprestazioni fondate sulla fedeltà costitui­scono un credito, un potenziale esigibile sem­pre e ripetutamente nel tempo.

Ciò spiega perché i mafiosi sono stati in grado, sin dal loro nascere nell’ambiente del­la Sicilia centro-occidentale, di adeguarsi ai processi di trasformazione economica di una società che se non fu in grado di svilupparsi in senso industriale era ben lungi dall’essere statica, registrando invece una notevole di­namicità di intraprese economiche65. L’adat­tamento costante di questo modello di com­

portamento al mutare delle condizioni stori­che ha costituito la forza della mafia. Di tale capacità si avrà una riprova esemplare nel se­condo dopoguerra.

Le trasformazioni recenti

Intervento pubblico e trasformazioni sociali nel secondo dopoguerra. Il declino che la mafia sembrò registrare durante il fascismo fu apparente. Mentre per la prima volta dai tempi della formazione dello Stato unitario si colpivano alcune manifestazioni del feno­meno mafioso a livello locale, oltre cinquan- t ’anni prima66 era iniziato un processo che avrebbe posto le basi per l’espansione della mafia a livello sovranazionale. Attraverso l’emigrazione transoceanica si andavano in­fatti costituendo quei legami tra mafia sici­liana e delinquenza organizzata americana che da tempo caratterizzano la mafia come multinazionale del crimine e che oggi giorno costituiscono uno dei principali strumenti or­ganizzativi per il traffico internazio naie del­la droga.

Il riemergere della mafia alla fine della se­conda guerra mondiale e il suo accompa gnarsi alla storia italiana degli ultimi quaran- t’anni non possono tuttavia essere compresi appieno se non si fa riferimento alle tra sfor­mazioni sociali registrate dalla società sicilia­na e alla nuove funzioni che assume lo Stato nell’ambito di una più generale politica di in­terventi per la promozione dello svilup-

64 L. Graziano ha richiamato l’attenzione sulle caratteristiche del Mezzogiorno come società precontrattuale. Vedi Luigi Graziano, Clientelismo e sviluppo politico: il caso del Mezzogiorno, in Luigi Graziano (a cura di), Clientelismo e mutamento politico, Milano, Angeli, 1974, p. 339.65 Per un’analisi delle tendenze dinamiche e dei tentativi di sviluppo di iniziative economiche moderne in Sicilia vedi Giuseppe Barone, Stato, capitale finanziario e Mezzogiorno, Salvatore Lupo, Rosario Mangiameli, La modernizza­zione difficile: blocchi corporativi e conflitto di classe in una società arretrata, entrambi in Aa.Vv., La modernizza­zione difficile, Bari, De Donato, 1983.66 Sui primi casi di espansione della mafia siciliana in America vedi Ed Reid, La mafia, Firenze, Parenti, 1956, pp. 152-179. In generale sull’argomento cfr. Salvatore F. Romano, Storia della mafia, Milano, Sugar, 1963, pp. 209-227.

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po nel Mezzogiorno. L’aspetto generale di questa politica risulta dalla combinazione di due orientamenti diversi; da un lato la pro­mozione dello sviluppo economico in un’area sottosviluppata; dall’altro la redi­stribuzione delle risorse, cioè l’istituzionaliz­zazione dei diritti di cittadinanza sociale67. Alle radici di tale politica vi furono le pro­fonde trasformazioni registrate nei rapporti sociali in Sicilia negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mon­diale.

Ancora nel 1946 circa il 50 per cento della superficie agricola siciliana era nelle mani dell’ 1 per cento della popolazione68, mentre a partire dall’occupazione alleata nel 1943 si era andata progressivamente sviluppando una vasta serie di lotte per la riforma agraria e la distribuzione delle terre ai contadini. Nel breve volgere di pochi anni il latifondo come fattore portante della struttura economica e sociale siciliana venne spazzato via. La fine del latifondo non comportò però il trionfo dei contadini ma, per uno di quei paradossi storici di cui la Sicilia sembra così ricca, die­de l’avvio al loro declino come classe sociale. La distribuzione delle terre ai contadini non venne effettuata in modo da garantire la for­mazione di una piccola proprietà efficiente. Sia per l’estensione ridotta dei terreni asse­gnati che per la loro qualità scadente, la for mazione della proprietà contadina servì in massima parte soltanto a tamponare il pro­cesso di espulsione di forza lavoro dalla terra e a rendere meno drammaticamente esplosi­vo il problema dell’emigrazione. La distribu zione del latifondo aveva dato luogo infatti alla formazione di proprietà capitalistiche

della terra, nelle quali la razionalizzazione colturale e l’incremento della produttività ebbero come ovvia conseguenza un impiego più intensivo del fattore lavoro e una sua ri­duzione quantitativa.

La mafia, che si introdusse da protagoni sta nell’intricata rete di rapporti tra movi­mento contadino, banditismo e separatismo che caratterizzò l’immediato dopoguerra in Sicilia, e che ebbe parte non irrilevante nella formazione della piccola proprietà con­tadina69, alla fine di questo processo vide ve­nire meno, con la scomparsa dei latifondisti, uno dei tradizionali poli della sua duplice funzione di mediazione. La funzione dei mafiosi come brokers fra contandini e lati- fondisti perse la sua ragion d’essere; restava possibile fra contadini e Stato. Ma anche quest’ultima subì ben presto un grosso colpo man mano che il partito di mag gioranza as­sunse in proprio quest’ultima funzione di mediazione.

Nel Mezzogiorno e in Sicilia il secondo do poguerra è stato caratterizzato dall’integra zione della società meridionale all’interno della società nazionale italiana70. Protagoni­sti di questa integrazione sono stati il merca­to e lo Stato. La caratteristica centrale di questo processo è consistita nel fatto che il mercato non è penetrato con le sue sole forze nel Mezzogiorno, ma la sua penetrazione è stata gestita dallo Stato. Quest’ultimo, per adempiere a tale funzione, ha registrato una sostanziale trasformazione, è passato cioè da nemico della popolazione, quale si presenta­va all’indomani dell’unificazione nazionale, a protettore della società tradizionale. Lo Stato ha assunto queste funzioni di protezio

67 Sulla istituzionalizzazione dei diritti di cittadinanza sociale come aspetto del processo di formazione dello Stato e della nazione si vedano Thomas H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Torino, Utet, 1976; Reihnardt Bendix, Stato nazionale e integrazione di classe, Bari, Laterza, 1969; S. Rokkan, Dimensions, cit.68 D. Mack Smith, Storia, cit., pp. 725-726.69 Cfr. F. Renda, Funzioni, cit.70 Gabriella Gribaudi, Mediatori, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980, pp. 23-28, passim.

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ne esplicando una duplice mediazione: tra Mezzogiorno e zone industrializzate del nord del paese, e fra centro e società periferica lo­cale. In tal modo ha assunto in proprio le funzioni che erano proprie dei mafiosi come brokers. I nuovi mediatori si sono fatti parte attiva nel promuovere un certo tipo di svilup­po della società meridionale e siciliana, fa­cendo sì che nei suoi confronti fluissero le ri­sorse pubbliche.

La realizzazione di questa politica di in­tervento richiese e al contempo comportò un cambiamento nelle funzioni di mediazio­ne. Da una parte cambiano i soggetti sociali che esercitano la mediazione; dai notabili e dai patroni tradizionali si passa ai brokers di partito che riescono ad avere accesso ai luoghi in cui si decide l’erogazione delle ri­sorse verso la periferia. Cambia anche il ti­po di risorse: dalle risorse di proprietà del notabile tradizionale si passa alle risorse pubbliche, alle quali il mediatore accede. Infine cambia il contenuto della mediazio­ne: dalla mediazione rispetto alle funzioni repressive dello Stato si passa a stimolare l’intervento pubblico. Di conguenza il nuo­vo broker è costretto ad assumere un ruolo attivo di promozione del cambiamento. Egli infatti continua a manipolare norme sociali, come in passato, ma la sua relazione con i clienti è di natura instabile, essendo fondata sulla capacità del broker di far affluire ri­sorse che non sono sue. Ciò fa venir meno il carattere tradizionale di monopolio delle funzioni di mediazione, e le trasforma in at­tività formalmente più aperte e accessibili a un numero maggiore di soggetti, ma soprat­tutto a soggetti con caratteristiche differenti dai mafiosi tradizionali.

L’introduzione di risorse pubbliche nel si­stema economico costituisce un impulso enorme alla formazione di una categoria di mediatori. Ma perché la mediazione possa essere efficace nel nuovo quadro della pro mozione pubblica delle attività economiche è necessario che si basi su istituzioni che serva­

no come una sorta di azienda di credito poli­tico a garantire continuità e stabilità nello svolgimento di tali funzioni, e che garanti scano, tramite i contatti privilegiati con gli enti governativi, il costante successo dell’at­tività di mediazione. E sono proprio queste esigenze che danno luogo al formarsi di isti­tuzioni specializzate nelle funzioni di media zione (partiti politici, sindacati, patronati specializzati in pratiche pensionistiche e di welfare ecc.), all’interno delle quali i singoli mediatori agiscono nelle vesti di agenti o “concessionari” dell’intermediazione. A questo processo va ricondotta la crisi e la de­finitiva scomparsa dei mafiosi tradizionali come brokers. Cessata l’esigenza di controllo sociale su una massa di contadini in costante diminuzione e ormai inquadrati nelle orga nizzazioni collaterali dei partiti di massa, as­sunte dai partiti le nuove funzioni di media­zione, non c’era più spazio per l’azione dei mafiosi tradizionali.

Crisi e mutazione della mafia. Se si guarda alla configurazione della mafia nel corso de­gli anni cinquanta, si può notare l’esistenza di un coacervo di figure e personaggi che raf figurano un universo in transizione. Sono ancora in azione i mafiosi tradizionali, gli uomini di rispetto legati all’ambiente del lati­fondo: don Calò'Vizzini a Villalba, Giuseppe Genco Russo a Mussomeli, il dottor Michele Navarra a Corleone, Vincenzo Di Carlo a Raffadali. Al contempo cominciano ad emergere i cosiddetti mafiosi-gangster, di­sposti ad usare le armi senza scrupoli, e che hanno sostituito il mitra alla tradizionale lu­para. Ed emergono sia dall’ambiente rurale del latifondo, con la trasformazione di figure come quelle dei campieri e dei gabellotti, sia dall’ambiente urbano della malavita delle estorsioni e dei ricatti. Ma già si cominciano a combinare attività mafiose nei mercati del commercio all’ingrosso di Palermo con atti­vità legate allo sviluppo urbano e all’edilizia e con il traffico degli stupefacenti. Nuove

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carriere mafiose si sviluppano sfruttando gli appalti per lavori pubblici e i legami con il sistema creditizio e bancario a Palermo, Trapani e Agrigento, o le nuove opportuni tà aperte dal commercio su larga scala degli stupefacenti. Buona parte di coloro che in traprendono nuovi tipi di commerci illeciti mafiosi erano già attivi prima della seconda guerra mondiale, o addirittura prima della Grande Guerra. E forse il più straordinario esempio di questa capacità di sopravvivere al cambiamento dei tempi, innovando i moduli del comportamento mafioso e creando nuovi settori di azione e di traffi­co, è costituito da quei clan esponenti nel­l’anteguerra della mafia degli agrumeti e del controllo sulle acque e divenuti uno dei principali gruppi nel commercio mondiale dell’eroina71.

Questo variegato universo in trasforma zione è determinato dalle risposte dei gruppi mafiosi ai processi di erosione del loro potere tradizionale messi in moto dalle trasforma zioni sociopolitiche ed economiche tratteg giate nel paragrafo precedente. Quelle stesse trasformazioni che ancora una volta, mentre erodevano le basi tradizionali del potere ma­fioso, creavano le condizioni per dare spazio a nuove forme di azione e di organizzazione della mafia. Spazi e occasioni che i gruppi mafiosi, utilizzando nuovamente la loro ca­pacità di piegare il mutamento ai propri fini, non si sarebbero lasciati sfuggire. Di questi processi di rifondazione dall’agire mafioso, tre sono forse quelli più emblematici: le nuo­ve forme di penetrazione mafiosa nei partiti e nell’apparato dello Stato, la formazione di un’imprenditorialità assistita, l’apertura di

enormi opportunità di arricchimento attra­verso lo sfruttamento delle chances offerte dell’espansione del settore illecito dall’eco­nomia.

L’assunzione di compiti assistenziali da parte dello Stato nel Mezzogiorno e in Sicilia dà luogo a un passaggio dalle forme tradizio­nali di clientelismo al moderno mass patro­nage gestito dal partito democristiano e dalle sue organizzazioni collaterali72. Una delle conseguenze più rilevanti di questa trasfor mazione è la compenetrazione tra apparati pubblici e partito al potere. In particolare le assunzioni negli organismi deH’amministra zione pubblica regionale e locale e negli enti di sviluppo e di promozione economica av­vennero nella maggior parte dei casi (e certa­mente per tutti gli anni cinquanta questa fu la norma di fatto attuata) senza le garanzie del concorso pubblico73, favorendo ogni tipo di pressioni clientelari e lasciando nelle mani di funzionari spesso senza competenze e in­clini all’uso particolaristico e discriminatorio dei poteri loro affidati la gestione delle poli­tiche redistributive e di promozione dello svi­luppo economico.

La stabilizzazione di questo sistema di po­tere indusse delle svolte nell’atteggiamento della mafia a proposito dei rapporti con i partiti e i pubblici poteri. Tradizionalmente infatti la mafia non si era mai apertamente schierata, se non per il breve periodo degli anni immediatamente successivi al 1943, con un solo partito politico, preferendo sempre attendere chi fosse il più forte a cose fatte. Così come i deputati siciliani e meridionali in genere, la mafia per sua stessa natura tende­va ad essere “governativa”, cioè a schierarsi

71 Si tratta del clan dei Greco di Ciaculli, recentemente venuti alla ribalta per gli omicidi di Dalla Chiesa e Chinnici, ma dei quali si parla già nelle biografie di singoli e di famiglie mafiose ricostruite dalla Commissione Antimafia e pubblicate in 7 boss della mafia, Roma, Editori Riuniti, 1971.12 Cfr. Sidney Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1972, pp. 296 sgg.73 Per alcuni esempi di questa prassi vedi Mario Caciagli e altri, Democrazia cristiana e potere nel Mezzogiorno, Fi­renze, Guaraldi, 1977, capp. V, VI e VII; P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 91-92.

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pragmaticamente con chi deteneva le funzio­ni pubbliche e doveva quindi venire a patti con i potentati locali, garantendo loro al contempo ampie sfere di autonomia e dele­gando, come si è visto in precedenza, la ge­stione della violenza. Nel secondo dopoguer ra, cessata la variabilità degli schieramenti governativi, caratterizzatasi la De come par­tito stabilmente governativo, di fronte all’a­pertura di opportunità di intervenire in for­me nuove nei gangli vitali dello Stato e dei pubblici poteri, i gruppi mafiosi non esitaro­no a cambiare strategia. A partire dagli anni cinquanta si determinò un intreccio molto stretto tra mafia e De a Palermo, intreccio che, per l’importanza strategica della città come capoluogo della regione e sede del go­verno regionale, e per il suo peso politico ne­gli equilibri nazionali, sarebbe stato destina­to ad avere effetti e rilevanza non limitati e- sclusivamente a livello locale.

In questo quadro l’intreccio tra attività economiche e attività politiche diventa più stretto, favorendo ancora una volta come in passato l’emergere e raffermarsi di quei gruppi e di quegli individui che erano già sta­ti addestrati in precedenza a muoversi nei meandri della politica e a penetrare nella pubblica amministrazione.

Spersonalizzazione e occultamento del pote­re mafioso. Insieme alla trasformazione di vecchi soggetti sociali, la politica di interven­to dà luogo al sorgere di altri gruppi. In par ticolare si determina la formazione di nuovi gruppi di operatori economici che assumono la veste tipica dell’imprenditore assistito74, cioè di soggetti le cui attività economiche e la cui affermazione sul mercato sono garantite da un rapporto privilegiato con le fonti di fi nanziamento pubblico delle attività econo­miche private. In misura più massiccia che in periodi precedenti a partire dagli anni cin­

quanta il sorgere di gruppi e di iniziative im prenditoriali private in Sicilia non avviene sulla base del funzionamento selettivo del li­bero mercato, ma in seguito ad una cospicua politica di finanziamenti pubblici. Lo Stato e la regione promuovono una politica econo­mica rivolta alla creazione di infrastrutture e allo sviluppo delle opere pubbliche e dell’edi­lizia. Le nascenti iniziative imprenditoriali vengono stimolate attraverso la concessione di rilevanti agevolazioni creditizie e di contri­buti a fondo perduto alle aziende che si inse­diano nel territorio siciliano. Gli effetti di questa politica sono tali da creare un ceto im prenditoriale fortemente legato da rapporti di scambio politico-clientelare con il sistema dei partiti (e in particolare con la Democra­zia cristiana) e con il sistema politico-ammi nistrativo.

I mafiosi comprendono che la virtù fonda mentale dell’uomo moderno è quella di pro curarsi capitali attraverso le attività econo miche, e afferrano la possibilità di moltipli­care il loro giro d’affari e la loro potenza economica sfruttando i rapporti privilegiati con il partito al potere e quindi con le attività di promozione dello sviluppo economico da parte dello Stato. È questo il periodo che du­ra per tutti gli anni cinquanta e parte dei ses­santa, in cui la cosiddetta nuova mafia è strettamente connessa con lo sviluppo urba­no delle città. Anni caratterizzati ancora dal­l’uccisione di sindacalisti ed esponenti del movimento operaio, ma in cui al contempo si afferma emblematicamente il seppellimento per colata nel cemento dei moderni edifici che sorgono come funghi nei centri urbani o alle loro periferie.

La formazione di un’imprenditorialità as­sistita è fenomeno comune sia alle zone tradi zionalmente mafiose della Sicilia che a quelle non toccate dalla mafia. L’espansione in ter­mini di mercato della imprenditorialità

74 Vedi Raimondo Catanzaro e altri, L ’imprenditore assistito, Bologna, 11 Mulino, 1979.

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assistita comporta come conseguenza una tendenziale omogeneizzazione delle pratiche di comportamento mafioso. Nel corso degli anni settanta gli imprenditori assistiti ope­ranti nelle zone della Sicilia orientale, tradi zionalmente considerate immuni dal fenome­no mafioso, cominciano ad operare su mer­cati della Sicilia occidentale. Di conseguenza debbono cominciare a fare i conti con le pra­tiche di rapporti tra economia e politica colà esistenti. Le differenze non sono molte: si tratta di adeguare le pratiche clientelari in di rezione clientelar-mafiosa. In tal modo un’imprenditorialità che sembrava esser sor­ta in modi “puliti”, in quanto immune da pratiche mafiose, viene ad essere “inquina­ta” da tali pratiche a seguito della conquista di nuovi mercati. Ciò è reso necessario dal fatto che per poter competere con le imprese mafiose operanti in loco è necessario usare le stesse armi della concorrenza mafiosa; altri­menti non si possono ottenere, ad esempio, appalti di opere pubbliche. Il fenomeno complementare si verifica per quegli impren­ditori sorti sin dalla loro nascita come im prenditori mafiosi. La loro espansione su mercati originariamente non infestati dalla mafia determina un tendenziale processo di trasformazione in senso clientelar-mafioso dei sistemi politici locali.

Si determina in tal modo un processo di diffusione delle pratiche mafiose a livello ter ritoriale dell’intera Sicilia e un’omogeneizza zione in senso clientelar-mafioso dei rapporti tra sistema economico e sistema politico. Questo fenomeno è importante perché non si tratta soltanto di mutamenti di quantità o di grado delle attività mafiose. Siamo in pre­senza di un fenomeno di tendenziale sperso nalizzazione del potere mafioso.

Tradizionalmente il potere mafioso si con­figurava come un potere di natura personale.

Ciò era dovuto in primo luogo alle funzioni dei mafiosi come brokers. Ogni attività di mediazione richiede qualità e collegamenti, capacità di persuasione e di influenza, poteri di fatto legati a specifiche persone. Ciò era tanto più vero in quanto il potere mafioso si manifestava nell’ambito di una comunità nella quale il mafioso assumeva, una volta che il suo potere si era istituzionalizzato co­me legittimo, compiti di risoluzione delle controversie, di amministrazione di fatto della giustizia, di rappresentanza della comu­nità all’esterno. Questo aspetto comunitario era infine connesso ad una terza caratteristi ca del potere mafioso. Si trattava infatti di un potere delimitato territorialmente.

La crisi delle funzioni di mediazione e l’or ganizzazione mafiosa di attività economiche e imprenditoriali moderne pongono fine alla caratterizzazione personale del potere mafio­so. La formazione di imprese mafiose non soltanto fa scomparire l’aspetto comunitario del potere ma, a seguito della logica di espan­sione e di conquista dei mercati, fa saltare anche la delimitazione territoriale del potere mafioso. Emerge così una forte tendenza alla trasformazione del potere mafioso in un im­personale potere di mercato.

Tale tendenza trova una limitazione nel permanere e talvolta anzi nell’accentuarsi dell’uso della violenza come strumento di re­golazione della competizione economica tra gruppi mafiosi. La fine della delimitazione territoriale del potere mafioso comporta in­fatti un’esasperazione della lotta violenta tra gruppi mafiosi concorrenti per la conquista di mercati o comunque di opportunità eco­nomiche75. Non vanno tuttavia dimenticati alcuni fatti che rafforzano il processo di spersonalizzazione del potere mafioso. Tali fatti consistono nei collegamenti puramente economici, e quindi di interesse, che si in-

75 Pino Arlacchi, Mafia e tipi di società, “Rassegna italiana di sociologia”, 1980, n. 1, pp. 3-49; Idem, La mafia im­prenditrice, cit., pp. 180-85.

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staurano tra imprese mafiose e altri soggetti economici. Le altre imprese cui vengono su­bappaltati lavori, o con le quali si stipulano accordi o si formano cartelli; il sistema ban­cario e finanziario nelle cui casse affluiscono sotto forma di depositi e conti correnti i capi­tali di origine mafiosa; i numerosi soggetti individuali che ricavano redditi di lavoro da questi giri d’affari. Tutti costoro vengono a configurare una costellazione d’interessi su cui si forma l’impersonale potere di mercato dei gruppi mafiosi76.

Ma non è soltanto nel senso dell’anonima­to del potere di mercato che si caratterizza il processo di spersonalizzazione del potere mafioso. Esso assume anche le sembianze di un potere occulto, come effetto dei processi delineati nelle pagine precedenti e in conse­guenza del proliferare delle attività economi­che illecite.

Il potere mafioso tradizionale non era oc­culto, ma si manifestava apertamente agli occhi di tutti. E ciò era vero per entrambi i momenti della carriera mafiosa tradizionale, e cioè quello violento, eversivo, e quello isti­tuzionalizzato, reso legittimo dall’accetta­zione da parte della popolazione a seguito del successo nell’uso della violenza. In en­trambi i casi l’aperta manifestazione di pote­re da parte dei mafiosi discendeva dalla com­binazione fra la loro funzione di mediatori e la delega nell’esercizio della violenza loro concessa dallo Stato. Per assolvere la funzio­ne di mediazione il mafioso deve godere di re putazione sociale, deve essere considerato uomo di rispetto; e questa considerazione di­scende dal fatto di aver dimostrato in prece­denza di essere il più abile nell’uso della vio­lenza. Una volta acquisito questo riconosci­

mento, egli può governare senza far ricorso personalmente alla violenza aperta, così co­me può procurarsi un reddito tramite lo svol­gimento di normali attività economiche fon­date sull’esistenza di un patrimonio illecito- mente accumulato.

Entrambi questi processi di traslazione, dall’uso della violenza alla legittimazione del potere, e dall’illecito alle attività econo miche lecite, sono venuti meno nel nuovo quadro che si delinea a partire dagli anni cinquanta. Fortemente attenuatesi le esigen­ze di controllo sociale con i metodi tradizio­nali, sono cessate sia la delega del monopo­lio della violenza da parte dello Stato, sia le funzioni di mediazione degli uomini di ri­spetto. La mafia ha perduto il suo aspetto di dimensione pragmatica dello Stato e di conseguenza la visibilità del potere è venuta meno. Accanto a questi processi, la rilevan­te crescita di importanza del settore illecito delle attività economiche mafiose ha com­portato una crescente tendenza al suo confi­gurarsi come potere occulto. Dagli anni cin­quanta in poi i mafiosi sono costantemente immersi nell’illecito, e non soltanto nella prima fase della propria carriera come in passato.

L’organizzazione di attività illecite da par­te della mafia registra un salto di qualità con l’inizio del contrabbando di stupefacenti ne­gli anni cinquanta. Sono infatti dell’inizio di quel decennio le prime segnalazioni della po­lizia tributaria sul traffico degli stupefacenti nella Sicilia occidentale77.

L’espansione del mercato della droga e la conquista di posizioni di preminenza da par­te delle organizzazioni mafiose siciliane78 comportano una serie di conseguenze, la pri-

76 Max Weber, Economia e società, Milano, Comunità, 1961, vol. II, p. 245.77 Cfr. I boss della mafia, cit., pp. 227, 320.78 Allo stato attuale della documentazione non siamo in grado di affermare se la posizione di preminenza della ma­fia siciliana nel traffico mondiale della droga si verifichi a partire dagli anni settanta, come sostiene P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., oppure fosse in atto già negli anni cinquanta, come è sostenuto nel rapporto McClellan, ri­preso dalla Commissione parlamentare d ’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, vol. IV, tomo XIII, parte pri­ma, p. 202, citato in Umberto Santino, Economia della droga. Traffico di stupefacenti, mafia e organized crime,

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ma delle quali si verifica sul sistema crediti­zio. Il condizionamento diretto e indiretto dei gruppi mafiosi sul sistema bancario è evi­dente. Da un lato crescono, come conseguen­za dei profitti derivanti dalle attività dell’im prenditorialità assistita e dell’imprenditoria lità mafiosa, le banche private, le banche po­polari e le casse rurali, da sempre e tradizio nalmente luogo privilegiato di accumulazio ne del capitale di origine mafiosa special mente nella Sicilia occidentale. Dall’altro cresce il potere condizionante derivante dal­l’enorme quantità di denaro liquido disponi­bile nelle mani dei mafiosi79. Si può avere un’idea delle dimensioni di questo potere se si considera che già negli anni sessanta la Commissione antimafia riscontrava casi ab­normi di fidi e scoperture di credito concessi a noti mafiosi non soltanto da piccole ban­che private, ma anche da banche di diritto pubblico80.

L’espansione e la scala delle attività ma- fiose al giorno d’oggi hanno determinato uno stravolgimento dei tradizionali rapporti tra mafia e potere politico. In che modo si è verificato questo stravolgimento? Quali con­seguenze ha avuto? Che ruolo gioca sul­l’odierna configurazione dei rapporti tra uni­verso mafioso e politica lo strumento tradi­

zionale dell’amicizia strumentale e del clien telismo?

L ’adattamento dei codici culturali tradizio­nali. Il passaggio dei mafiosi da power bro­kers a imprenditori costituisce una mutazio­ne antropologica di straordinaria rilevanza. Ma tale mutazione non consiste, come erro­neamente si è creduto81, nello sviluppo di attività imprenditoriali in precedenza inesi­stenti nell’universo di comportamento ma­fioso. Si è dimostrato prima infatti come le funzioni di power brokers dei mafiosi fosse­ro rese possibili dal loro collocarsi sulle giunture cruciali di certi rapporti, e in parti colare dal loro ruolo di imprenditori sia con riferimento alle varie funzioni connesse alla produzione agricola nel latifondo che ai compiti di intermediazione commerciale. Piuttosto l’elemento di novità consiste nel fatto che le attività imprenditoriali, a segui­to del mutato contesto di rapporti economi­ci e politici, vengono a perdere quella corni­ce culturale che le inquadrava nell’ambito delle funzioni politiche e di controllo socia­le. In tal modo l’utilizzazione dei meccani smi di mercato e di un rapporto privilegiato con gli apparati dello Stato per costruire de­gli imperi economici basati sulla combina-

“Segno”, 1982, n. 31-32, p. 47. Certo è comunque che la diponibilità in mani mafiose di ingenti somme di origine il­lecita doveva essere notevole già alla fine degli anni cinquanta, se la stessa Commissione documenta pagamenti per un miliardo e trecento milioni di lire (a prezzi correnti) effettuati dagli americani ad un gruppo mafioso siciliano per la fornitura di 361 chili di eroina nel periodo 1958-1961.79 Sulla moltiplicazione delle iniziative bancarie in Sicilia cfr. Stefano Ruvolo, Mafia e speculazione edilizia, in Ac­cumulazione e cultura mafiosa, Bollettino a cura del Comitato di controinformazione “Peppino Impastato”, Paler­mo, Editrice Centofiori, 1979, p. 5; P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 234-235. Sull’argomento tuttavia non è stata ancora condotta alcuna ricerca approfondita.80 Cfr. Iboss della mafia, cit., pp. 346-360.81 Cfr. P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit. Anche nel caso di questo brillante saggio, l’errore fondamentale consiste in un’applicazione meccanica del modello weberiano dell’idealtipo. Costruito a priori un modello del mafio­so tradizionale che per definizione non dovrebbe svolgere attività imprenditoriali (perché nella società tradizionale tali attività non esistono, sempre per definizione), Arlacchi vi contrappone un mafioso imprenditore, anzi addirittu­ra imprenditore schumpeteriano, perché innovatore. Solo che questo presunto imprenditore schumpeteriano secon­do lo stesso Arlacchi non promuove sviluppo, quindi — aggiungiamo noi — non è affatto schumpeteriano, perché il collegamento con lo sviluppo è carattere imprescindibile nella definizione dell’innovazione imprenditoriale che dà Schumpeter.

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zione fra attività legali e illegali si sviluppa ulteriormente rispetto a quanto avveniva in precedenza, e consente alle imprese mafiose di raggiungere dimensioni tali da costituire un’ennesima riprova della capacità dei grup­pi mafiosi di combinare vecchio e nuovo, moderno e tradizionale82. In questa nuova combinazione si ripete un vecchio modello: i valori tradizionali non scompaiono, ma cam­biano funzione; di conseguenza anche il loro significato cambia. Ciò si verifica sia per l’o­nore che per la violenza e l’amicizia strumen­tale.

Entrati i mafiosi nel gioco della competi­zione economica di mercato, debbono adat­tarsi alle sue regole. Le funzioni dell’amicizia strumentale per consentire fiducia e prevedi­bilità nelle transazioni economiche vengono in gran parte meno, sostituite dalle garanzie giuridiche e commerciali. In gran parte, ma non tutte. Il problema degli andamenti di mercato resta, soprattutto in un’economia marginale caratterizzata da incapacità di in­vestire nei settori avanzati della produzione, e i cui mercati sono soggetti a forti fluttua zioni dovute alla concorrenza esterna. Il pro­blema della prevedibilità viene risolto attra­verso l’intervento pubblico che, favorendo sistematicamente certi settori di attività eco­nomica con i propri finanziamenti, consente agli imprenditori di individuare le opportuni tà di investimento a basso rischio83. Sul pia­no della funzione di prevedibilità l’amicizia strumentale si trasforma in misura crescente da un lato in un rapporto di scambio cliente lare tra imprenditori e politici, dall’altro nel­la formazione di gruppi e alleanze tra sogget­ti economici, soggetti politici e parti dell’ap­parato dello Stato. Perde quindi i residui di

natura simbolico-emotiva, e diventa rappor­to puramente strumentale di legame tra inte­ressi.

In quanto al problema della fiducia, se vie­ne meno la necessità di far ricorso all’amici­zia strumentale nel settore lecito dell’econo­mia, tale necessità si manifesta in maniera pressante per il settore dei traffici illeciti. Qui però, data l’entità degli interessi in gioco, l’amicizia strumentale non si rivela più in grado di fornire garanzie sufficienti. Il fun zionamento del settore dei traffici illeciti per sua stessa natura non può riposare su transa zioni che avvengano alla luce del sole e basa­te sui normali rapporti di fiducia propri del mercato. Poiché i traffici si svolgono in mo­do occulto, l’unico sistema per far funziona­re la macchina dell’illecito consiste nel creare una rete di relazioni fiduciarie molto intense. Per questi motivi i gruppi mafiosi si organiz­zano recuperando una serie di valori tradi zionali. L’organizzazione dell’impresa crimi­nale mafiosa è fondata sulla famiglia, su rap­porti di parentela e quasi parentela84. Ma per quanto si possano estendere questi legami at­traverso strategie matrimoniali, relazioni di comparaggio e così via, resta pur sempre ne cessario ricorrere a soggetti estranei alle reti di relazioni parentali e quasi parentali. In questi casi, che sono molto numerosi, so­prattutto nelle ipotesi non infrequenti di al­leanze tra cosche differenti, il ricorso al tra­dizionale codice dell’onore si rivela di fonda mentale importanza. Il rispetto degli impegni presi, l’adeguarsi a ciò che è stato deciso nel­l’ambito della cosca, sono comportamenti conformi al codice dell’onore. Tale codice diventa dunque il principale strumento su cui si basano i rapporti di fiducia organizzativa

82 Per una rassegna della recente letteratura sul Mezzogiorno a proposito delle tematiche sopra esposte vedi Raimon­do Catanzaro, Struttura sociale, sistema politico e azione collettiva nel Mezzogiorno, “Stato e mercato”, 1983, n. 8, pp. 105-149.83 R. Catanzaro e altri, L ’imprenditore assistito, cit., pp. 41-51.84 P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 222-228.

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nelle attività economiche illegali. L’onore perde le funzioni che aveva avuto, di nor­ma culturale regolatrice della competizione per l’ascesa sociale. Adesso che anche i ma­fiosi sono rivolti più ad accumulare capitali che ad acquisire rispetto, l’onore serve co­me mezzo di coesione interna ai gruppi ma­fiosi.

Tuttavia tale coesione non è facile da mantenere perché sono molte le tentazioni offerte dal mercato dell’illecito. Basta una sola operazione a buon fine, basta tenere per sé invece che consegnare ai titolari del­l’operazione il ricavo della vendita di una partita di droga, oppure trattenere una tan­gente non ammessa dall’organizzazione, per arricchirsi. Fu proprio un episodio del gene­re ad innescare i violenti conflitti tra cosche che avrebbero caratterizzato una delle tante fasi calde attraversate dalla città di Palermo agli inizi degli anni sessanta85. Il sospetto che due corrieri avessero distratto una parte del quantitativo di droga da consegnare ne­gli Stati Uniti indusse una cosca a rompere l’alleanza con le altre, a uccidere uno dei presunti traditori (l’altro si era reso irreperi­bile) e parecchi fra i parenti e amici, deter­minando una reazione a catena di vaste proporzioni.

Forzando un po’ i termini si potrebbe di­re, a proposito dell’episodio precedente, che una sorta di “conflitto aziendale” viene ri­solto facendo ricorso all’esercizio della vio­lenza. La violenza diventa strumento fonda mentale della competizione economica tra mafiosi. Non è che non lo fosse anche pri­ma; ma adesso assume un significato nuo­vo, più scoperto, privo di incrostazioni e giustificazioni ideologiche. Fino agli anni cinquanta la violenza mafiosa trovava una sua legittimazione in tre fattori: la delega al suo esercizio da parte dello Stato; il caratte re comunitario del potere mafioso come ge­

stione pubblica dell’ordine; la titolarità del suo monopolio, giustificata in termini di at­tribuzione sociale dell’onore. Adesso che si sono esaurite le condizioni di esistenza di questi tre fattori, l’esercizio della violenza si manifesta per quello che è, anche nella so stituzione dei mitra e del tritolo alla tradi zionale lupara: pura, brutale, spesso indi scriminata dimostrazione del dominio della forza fisica.

Nella grande trasformazione mafiosa de­gli ultimi trent’anni si determina dunque uno sconvolgimento e un riadattamento dei codici culturali tradizionali. L’amicizia stru mentale perde il delicato equilibrio tra aspetti strumentali e aspetti simbolico-soli daristici. I primi si trasferiscono ai rapporti di interesse e di scambio fra soggetti indivi duali e collettivi e agenzie specializzate. I se­condi tendono, per quel che riguarda i gruppi mafiosi, ad essere sostituiti dall’ono­re. Quest’ultimo perde la connotazione da un lato di idioma in cui si parla di linguag­gio della ricchezza materiale, e dall’altro di strumento regolatore della competizione per l’ascesa sociale. Viene meno quindi l’ambi valente duplicità del concetto di onore. So­stituito dalla ricchezza come criterio di stra tificazione sociale e simbolo di potenza, l’onore tende ad assumere le funzioni di istituzionalizzazione della fiducia nei de­licati rapporti di interesse che si instaurano nell’organizzazione dell’economia illecita. La sua precedente funzione di natura com­petitiva viene assunta dalla violenza. Quest’ultima, nel suo esercizio effettivo e nella minaccia di farvi ricorso, non solo re­gola la competizione tra gruppi mafiosi, ma tende a porsi come sistema normativo nelle relazioni tra il complesso del settore econo­mico mafioso e il settore non mafioso del­l’economia. Lo scoraggiamento in varie for­me della concorrenza di imprese non mafio-

85 Cfr. I boss della mafia, cit., pp. 241, 272-294.

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se da parte di quelle mafiose è un esempio non irrilevante di questo tentativo di imporre la violenza come norma generale di regola­zione della competizione di mercato.

Mafia e potere politico: dalla periferia al centro. La violenza mafiosa, priva ormai della copertura simbolica dell’onore, non si pone soltanto come strumento di regolazio ne della competizione economica. In misura crescente tende a diventare forza politica e a porsi in conflitto aperto con i poteri dello Stato. Si può dire che sistematicamente da più di dieci anni esponenti dei poteri dello Stato, magistrati, funzionari di polizia e uffi­ciali dei carabinieri, persino un presidente del governo regionale siciliano e un prefetto della Repubblica sono entrati nel mirino dal­la mafia. Si tratta di un fenomeno asso­lutamente nuovo perché in precedenza, salvo rare eccezioni della mafia rurale o scontri a fuoco fra mafiosi-gangster e forze dell’ordi­ne, la mafia non si era mai scagliata contro i poteri dello Stato.

Quali le cause di questo mutamento? Si può affermare che esse trovano le loro radici nello sconvolgimento delle condizioni di esi­stenza dell’universo mafioso che sono state tratteggiate in precedenza. In breve l’espan­sione dell’economia illegale, il giro d’affari messo in moto dai traffici mafiosi, le dimen­sioni nazionali e internazionali degli interessi coinvolti hanno determinato un duplice fe­nomeno: da una parte la necessità dei gruppi mafiosi di impadronirsi diretta mente di set­tori e parti cruciali degli apparati dello Stato; dall’altra quella di combattere apertamente quegli apparati che resistono a tale conquista e che si oppongono al dilagare del fenomeno mafioso.

Di recente è stata avanzata una tesi se­

condo la quale la crescita della potenza mafiosa sarebbe caratterizzata, rispetto al modello tradizionale dei rapporti tra mafia e politica, da un elemento di novità, consi­stente nell’autonomia politica del potere mafioso. Tale autonomia si esprimerebbe nelle due forme della “della rappresentanza politica dei gruppi mafiosi” e della costitu­zione di lobbies politico- mafiose basate su “rapporti di comune interesse economico tra leader mafiosi, leader politici e settori del mondo economico e finanziario locale e nazionale”86. Tale tesi, se appare convin­cente sotto il profilo dell’esistenza di un’accresciuta potenza mafiosa, non altret­tanto lo è nel definire l’autonomia del po­tere mafioso e le forme in cui si manifesta come delle novità rispetto ai tradizio nali rapporti tra mafia e potere politico.

La prima difficoltà consiste nella possibili­tà stessa di definire l’autonomia del potere mafioso come novità rispetto al modello tra dizionale. Se infatti si assume come modello tradizionale dei rapporti tra mafia e potere politico quello che si è configurato negli anni cinquanta, consistente in una quasi completa identificazione della mafia con la Democra­zia cristiana, allora i processi cui assistiamo oggi sono, almeno in parte, differenti. Ma se, come abbiamo sostenuto in precedenza, il modello della mafia degli anni cinquanta co­stituisce un’eccezione, nell’ambito di un pro­cesso di profonda trasformazione, dei rap­porti tra mafia e potere politico, e del modo stesso di configurarsi della mafia, allora ne consegue che non è legittimo, come sembra fare Arlacchi, equiparare il modello dei rap­porti tra mafia e potere politico degli anni cinquanta con quello della mafia della secon­da metà dell’Ottocento e dei primi venti anni del Novecento87. Tradizionalmente infatti la

86 P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 193-194 sgg.87 In una conversazione privata Salvatore Lupo ha avanzato l’ipotesi che l’immagine della mafia come fenomeno ru­rale e legato al latifondo, diffusa sia popolarmente che nelle analisi degli studiosi, si sarebbe consolidata nell’im-

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mafia sorge proprio a seguito di un processo di autonomizzazione dell’industria della vio­lenza. Come si è visto in precedenza, que­st’autonomia si realizzava nell’ambito di un rapporto di scambio in cui il non intervento statale sul potere degli agrari meridionali era barattato con un appoggio alla politica go­vernativa di protezione e di sviluppo degli in­teressi industriali al Nord. In questo senso l’autonomia del potere mafioso era limitata alla periferia. Ciò non significa che non si fossero creati dei gruppi di interesse politico- mafiosi che aggregavano in misura ampia in­teressi economico-finanziari e politici a livel­lo locale e nazionale. Anzi proprio resisten­za di questi gruppi sembra dimostrare come già allora anche il fenomeno dell’internaliz- zazione della rappresentanza politica fosse presente88.

L’autonomia del potere mafioso, intesa in questo significato di delega del dominio sulla periferia, percorre tutta l’evoluzione della mafia fino agli anni cinquanta, quando viene a cessare la delega ai mafiosi nell’uso della violenza. Ed è proprio in questo periodo che si registra una crisi dell’autonomia del potere mafioso. La fine del monopolio della media­zione mafiosa, e l’assunzione delle funzioni di mediazione, controllo sociale e protezione della società tradizionale da parte del partito democristiano e degli uomini politici, costi­tuiscono una sfida formidabile al potere ma­fioso tradizionale. La sua riorganizzazione, nelle forme tratteggiate nelle pagine prece denti, ha comportato il venire in essere di due caratterizzazioni rilevanti ai fini dell’a­nalisi delle nuove forme del potere mafioso: l’organizzazione dei traffici illeciti e di

conseguenza la fine della delimitazione alla periferia del fenomeno mafioso.

Da ciò deriva che l’aspetto forse più nuovo del potere mafioso consiste nel fatto che non si tratta più di un potere delegato dallo Sta­to. Questo si verificava a partire dagli anni cinquanta, ed è a partire da quella stessa data che si mette in moto un processo di conquista dei nuovi apparati dello Stato. Anche questo non è un fenomeno nuovo. Ma prima si veri­ficava con il consenso dello Stato per gestire il potere alla periferia nell’interesse della classe dominante locale. Adesso invece lo Stato detiene il monopolio della violenza, e l’attività economica illecita ha una scala tale da superare interessi propri soltanto o prevalentemente della periferia, e che si caratterizzano invece lungo dimensioni na­zionali e sovranazionali. Di conseguenza la profonda differenza del potere mafioso ri­spetto al modello tradizionale consiste nel fatto che da fenomeno proprio della perife­ria esso tende a coinvolgere l’intero sistema politico italiano. Dalla periferia dove era sorto il potere mafioso si è mosso verso il centro, cercando di conquistarne il dominio. Le uccisioni di giudici, uomini politici, alti funzionari dello Stato e di polizia dimostra­no che la lotta tra mafiosi e quei settori dell’apparato dello Stato che si oppongono a questa marcia è ben lungi dall’essere vinta. Tali delitti non possono essere letti se non al­la luce di una violenta lotta tra gruppi di po­tere che si annidano dentro l’apparato stesso delle istituzioni dello Stato e che combattono per detenerne il controllo.

La mafia è diventata dunque pervasiva mente parte del sistema economico, del siste-

mediato secondo dopoguerra a seguito del riemergere della mafia da una fase di latenza durante la quale, nel periodo fascista, si ritrasse nel latifondo, perdendo in tal modo parte dei suoi caratteri originari. Un’indagine rivolta alla verifica di quest’ipotesi esula dalle forze di chi scrive, ma potrebbe costituire un tema affascinante di studio.88 Basti citare il famoso scandalo dell’assassinio Notarbartolo, ex direttore generale del Banco di Sicilia, avvenuto nel 1893. Quale mandante dell’omicidio venne incriminato un deputato al Parlamento, che, condannato in primo grado, venne prosciolto in appello. Il processo mise in luce una serie di collusioni tra interessi economici, finanziari e politici che travalicavano i limiti della Sicilia. Per un’analisi del rapporto tra mafia, sistema rappresentativo e interessi econo­mici e politici che prende lo spunto dal caso in questione vedi G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., pp. 249-256.

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ma finanziario e del sistema politico. La sua presenza non si limita più soltanto ad un ter­ritorio delimitato all’interno dello Stato. La mafia non può essere più vista come un grup­po particolare, ma richiede di essere interpre tata come un subsistema sociale che articola

la propria presenza in tutti i principali gangli vitali per il funzionamento degli apparati della società. Ed è proprio questo che costi­tuisce oggi la sua forza e la sua pericolosità.

Raimondo Catanzaro

MOVIMENTO O PER A IO E SOCIALISTARivista trimestrale N. 2/1984

Italia anni cinquantaTrasformazioni, protagonisti sociali, culture a cura di Luigi Ganapini e Paride Rugafiori

L.G.-P.R., Per una rilettura degli anni cinquanta-, Furio Bednarz, La scelta migratoria. Decollo industriale e ambiente rurale a Pordenone-, Guido Crainz, La “scomparsa" del bracciante padano; Gloria Chianese, Cultura comunitaria e coscienza sindacale all'llva- Italsider di Bagnoli', Adele Maiello, Politica e professione nella cultura dei quadri sinda­cali.

Alcune rilessioniLuca Borzani, L’“aitra fotografia". Note sulle immagini operaie degli anni cinquanta-, Tra propaganda e informazione: la stampa di sinistra negli “anni difficili". Intervista a Paolo Murialdi, a cura di Paride Rugafiori; Venti schede sulla storia sindacale: CISL e cultura operaia (a cura di Elisabetta Benenati); La CGIL tra istituzioni e conflitto sociale (a cura di Gianfranco Petrillo).

Note e discussioniMario Insenghi, Per una mappa linguistica di un "regime di parole". A proposito del convegno “Parlare fascista’’] Antonio Gibelli, Parole e altoparlanti tra guerra e fasci­smo: appunti per un dibattito.