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MT MONFALCONE: ANATOMIA DI UN OMICIDIO MT MONFALCONE TERRITORIO MT è un giornale promosso dall’associazione “libertà di parola” Reg. Trib. Go N° 01/09 del 08/01/2009 Anno II, n° 1, Aprile 2010 | Prezzo 2 € MONFY E LA LOTTA AGLI INFEDELI ANCORA CARBONE PER MONFALCONE LA FABBRICA DELLA PAURA CENTRODESTRA MONFALCONESE Impaginato N°5.indd 1 12-04-2010 20:41:33

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MONFALCONE: ANATOMIA DI UN OMICIDIO

MTMONFALCONE TERRITORIOMT è un giornale promosso dall’associazione “libertà di parola”Reg. Trib. Go N° 01/09 del 08/01/2009Anno II, n° 1, Aprile 2010 | Prezzo 2 €

MONFY E LA LOTTA AGLI INFEDELI

ANCORA CARBONE PER MONFALCONE

LA FABBRICA DELLA PAURA

CENTRODESTRA MONFALCONESE

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SOMMARIOSOMMARIOSOMMARIO

Eccoci al secondo anno.

Siamo al primo numero del 2010. Con un po’ di ritardo sul previsto ma

facciamo quello che possiamo .Anche se con grandi diffi coltà ci

sembra importante mantenere viva questa voce fuori dal coro.

A Monfalcone le cose continuano ad andare malamente. Assistiamo continuamente ad un imbarbarimento che a volte lascia sgomenti. La destra, Razzini in testa, non perde occasione per

creare zizzania in città, per esasperare gli animi e creare solchi sociali diffi cili poi da ricomporre.

Sembra sia andata persa ogni capacità di ragionare sui problemi, si preferisce agitarli, amplifi carli, inventarli per creare un clima di insofferenza che non appartiene alla nostra gente.

Se ne sentono di tutti i colori: anche la proposta di abbattere gli alberi del viale per far posto a parcheggi. Sembra

che ogni limite all’umana decenza sia ormai superato.

In città si parla del mega piano Unicredit di cui si capisce la portata (1 ml di euro) ma non cosa rappresenterà per il nostro porto e la nostra città. Intanto la centrale termoelettrica continuerà ad andare a carbone ed il gas rimane una chimera. Con buona pace dei nostri polmoni. Di tutto questo parliamo nella copia di MT che avete tra le mani... ❒

MT è un giornale promosso dall’ associazione “libertà di parola”. Un giornale per vivere ha bisogno del contributo di tutti coloro che hanno a cuore un’informazione libera e plurale. MT è aperto alle collaborazioni di tutti. Segna-lazioni, articoli, proposte, offerte di collaborazione possono essere inviate a: [email protected] blog: http://monfalconeterritorio.org

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ECCOCI AL SECONDO ANNO

IL MORSO DEL RAGNO

MONFALCONE: ANATOMIA DI UN OMICIDIO

SICUREZZA PER TUTTI O DELIRIO DI POTENZA?LA FABBRICA DELLA PAURA

SE POTESSI AVERE 1000 EURO AL MESE

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ANSIA PRESS

MONFALCONE VISTA DA CHI CI VIENE A VIVERE DA FUORI

SAPETE DOVE SI TROVA HAITI?

L’ISTINTO DELLA LIBERTÀ

MONFY E LA LOTTA AGLI INFEDELI

IL MURO DI MONFALCONE

ANCORA A PROPOSITO DI AMIANTO

ELZEVIRO

LE MIE RIFORME

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IL CENTRO DESTRA MONFALCONESE BOLLE E RIBOLLEIN VISTA DEL 2011

INTERVISTA AD ANTONIO INGROIA

PENSO IN BISIACO, PARLO IN BISIACO, SONO BISIACO?

MEDIAZIONE ANIMALE

SOMMARIOSOMMARIO

IL PORTO DELLE NEBBIE

Ringraziamo Gabriele Polo per aver acconsentito a fi rmare questo giornale

[email protected]

Arturo BertoliBettina BinsauMauro BussaniGiacomo CuscunàEva DemarchiMassimiliano Moschin

Michela ParovelStefano PireddaGianni SpizzoFranco TerzoniRoberto ZanetTiziano Pizzamiglio

COMITATO DI REDAZIONE

Gabriele Polo

DIRETTORE RESPONSABILE

PROGETTAZIONE GRAFICA E IMPAGINAZIONE

Lucia Bottegaro

FOTO

Foto di Roberto Francomano e Giacomo CuscunàCopertina Giacomo

Stampato presso Grafi ka Soča Via Sedejeva, 4 5000 Nova Gorica - Slovenia

STAMPA

VIGNETTE DI

Gianfranco Pilosio, Ester, Lara Babudro

MAXI-ROTATORIA O MAXI-CAZZATA?

LA SCUOLA IN DEGRADO

MONFALCONE SI TRASFORMA..

EDITORIALEEditoriale

VARIETÀ

ANCORA CARBONE PER MONFALCONE

UNO A ZERO

EL GAUCHO

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Il morso del ragno

Monfalcone

Partiamo da un dato di fatto concre-to: ben pochi oggi possono profes-sarsi monfalconesi da più di due

o tre generazioni, però magari percepirsi tali sì, tuttavia percepire è ben altra cosa dall’essere, come vedremo. Dunque si trat-ta di una comunità composita e sempre ali-mentata da nuovi venuti nella quale spesso i più intolleranti sono i penultimi arrivati. È un nuovo venuto il sindaco, e sono figli o nipoti di nuovi venuti quasi tutti i suoi as-sessori. Il dato oggettivo che ne consegue è che i nuovi venuti sono tali per ragioni di lavoro, e anche qua non ci piove.

Non so se, in precedenza, l’integra-zione fosse un fatto naturale, fatto sta che il fenomeno insicurezza esplode in questi anni e coincide con l’arrivo di una comunità proveniente da lontano e con la pelle appena un po’ più scura che, come chiunque altro in precedenza, è arrivata in città per concedersi un futuro grazie al lavoro, ed è proprio questo dato che ci rende tutti partecipi della medesima co-munità di destino.

Ora l’industria dell’insicurezza ha av-viato la produzione anche nella fabbrica di Monfalcone e già il fatturato è signifi-cativo perché la paura del rischio dilaga e il bisogno di sicurezza è già una richiesta a cui volentieri rispondono i politici più voraci di consenso. In questo modo, la lo-gica politica viene a corrispondere perfet-tamente a quella di mercato: prima si crea un bisogno, poi si realizzano i prodotti che, alla fine, vengono commercializza-ti. Tanto per essere chiaro confermo che l’insicurezza dilagante è figlia di quella politica insana che intenzionalmente l’ali-menta ritenendo di ricavarne il consenso sufficiente per rimanere in sella.

Il clima di paura non è suffragato da alcun dato reale e neanche da nessuna statistica ufficiale ma, lo stesso, si è sca-tenata una campagna d’insicurezza che ha per oggetto l’opinione pubblica mon-falconese, come soggetti gli immigrati dal Bangladesh e come mezzo gli organi d’informazione locale che conoscono be-nissimo l’interesse dei lettori per tutto ciò che, anche di striscio, può essere definito cronaca nera. Ed è così che convergono gli interessi di informazione e politica che sono scontati quando si tratta di destra e forzati quando no. Su questo punto sarà bene spendere qualche parola in più per-

ché le politiche di inserimento e di for-mazione, rivolte a chi è venuto in Italia per darsi un futuro, del “centrosinistra” furono del tutto insufficienti sopratutto a causa della variegata alleanza di partiti e partitini incapaci di darsi un programma di governo accettabile ed efficace, mentre gli interventi del governo di centrodestra: escludere gli immigrati dalla partecipa-zione alla nostra società, furono dettati da puntuali scelte politiche.

Poi è chiaro che non sono tutte rose e fiori, ma è del tutto evidente che dall’ina-deguatezza dell’accoglienza, che non è affatto facoltativa, ma imposta dalla glo-balizzazione, possono scaturire, disagio, regresso culturale e civile e sacche di po-vertà che queste sì possono determinare episodi di criminalità.

Tuttavia, sia a destra e che a sinistra è ben noto, e infatti lo dichiarano apertamen-te, che l’insicurezza non è reale, ma solo percepita. Ma si può rispondere concreta-mente a ciò che per definizione è astratto?

In un romanzo poliziesco di successo che si intitola Un luogo incerto, uscito nel 2008 c’è un personaggio la cui vicenda umana è la metafora perfetta di tutto ciò che è percepito ma non è reale. Questo personaggio è Lucio, vicino di casa del commissario Jean Baptiste Adamsberg il celebre ispettore creato dalla dalla scrit-trice francese Fred Vargas e diventato ormai un cult planetario. Lucio è privo di un braccio, lo ha perso 69 anni prima, quando di anni ne aveva solo nove, du-rante la guerra civile spagnola. Poco pri-ma di perdere l’arto era stato morso da un ragno senza riuscire a finire di grattarsi. Per tutta la vita Lucio ha grattato a vuoto un braccio che non aveva più, percepen-do una sensazione che l’atto concreto di grattare il vuoto non può essere in grado di risolvere e nemmeno lenire. Alla stes-sa stregua, è impossibile produrre azioni concrete per ridurre o azzerare un senti-mento astratto come l’insicurezza, a mag-gior ragione quando viene artificiosamen-te indotta da politici privi di cultura civile o, per contro, da politici che dietro il dito della cultura civile vorrebbero nascondere ciò che “rose e fiori” non è. E allora grat-tate, grattate all’infinito che tanto l’arto se l’è portato via la guerra di Spagna e il ra-gno è morto serenamente di vecchiaia da decenni. ❒

Ben pochi monfalconesi oggi possono dichiararsi tali da più di due o tre gene-razioni, però magari perce-pirsi tali sì ma percepire è ben altra cosa dall’essere

[di Tiziano Pizzamiglio]

MONFALCONE

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LA SCENA DEL DELITTOQuando per l’ennesima volta mi sono sentito dire da triestini, goriziani, grade-si... che non venivano più a Monfalcone perché “con tutto quello che si legge…” ho capito che il delitto era stato consuma-to!

Il cadavere è sotto gli occhi di tutti: la “reputazione” della città di Monfalcone. Chi si occupa di comunicazione sa che è molto più semplice distruggere l’immagi-ne di qualcuno o qualcosa che costruirla.

Se nell’immaginario della gente si è consolidata l’equazione Monfalcone = paura, criminalità, violenza, sarà davvero molto difficile far cambiare idea. Come si sa, nella comunicazione la verità è un accessorio trascurabile, basta la verosimi-glianza.

I segni premonitori di questo delit-to annunciato sono noti da tempo, ma si pensava che alla fine la ragione e la realtà dei fatti potessero avere il sopravvento. E invece pare proprio di no.

Ma come si è arrivati all’omicidio? Quale o quali i moventi? E i killer?

L’inizio della storia risale a qualche anno fa e segue un disegno preciso: crea-re le condizioni ambientali per indebolire la vittima, attribuire l’eventuale morte a cause naturali o a imperizia dei medici curanti, giustificare l’intervento miraco-loso di improbabili salvatori della patria per resuscitare il morto.

IL MOVENTEPer scoprire i colpevoli è necessario inda-gare sul movente. E qui di moventi ne ab-biamo due: il primo riguarda l’economia, l’altro il potere.

Si sa che un giornale, per vivere, ha bisogno di lettori e per conquistarli non si guarda in faccia nessuno! La storia del giornalismo e la fortuna dei tabloid inglesi ci insegnano che gli argomenti “acchiap-pa lettori” sono essenzialmente: il sesso, il sangue, lo sport, i tormentoni e tutti i loro derivati.

La necessità di spregiudicatezza di-venta più impellente quando le copie ven-dute passano dalle 50.000 dei tempi d‘oro alle risicate 30.000 dei nostri giorni. Bi-

sogna correre ai ripari! E allora il Piccolo ingrana la marcia. Il primo tormentone risale al tempo della scelta della raccolta differenziata porta a porta. Per quasi due anni il giornale, quasi quotidianamente, si è esercitato nella costruzione dell’allar-mismo: la raccolta porta a porta avrebbe reso la vita impossibile ai cittadini, la città sarebbe stata più sporca, le case sarebbe-ro diventate maleodoranti, gli anziani non avrebbero mai imparato a differenziare i rifiuti, per non parlare degli immigrati, nostrani o stranieri.

Addirittura la pagina web del Piccolo, per mesi, rappresentava Monfalcone con la foto di un cassonetto circondato di rifiuti.

Ogni giorno articoli, lettere e spon-sorizzazioni degli inceneritori (chiamati gentilmente termovalorizzatori), richieste di referendum, spazi concessi a ogni di-chiarazione del centro destra per quanto ridicola e bizzarra fosse. Punti di vista parziali, usati anche recentemente, come la critica ai lievi aumenti di tariffa a Mon-falcone, omettendo che a Trieste, dove praticamente la differenziata non si fa e si manda tutto a bruciare, le tariffe sono più alte del 50%.

Finito un tormentone ne è partito subi-to un altro: quello sulla sicurezza. In due anni di grancassa Monfalcone, una delle città italiane con meno reati, è diventata una specie di Bronx, dove si rischia la vita girando per strada. Di volta in volta sono stati individuati i colpevoli del nul-la, prima i trasfertisti meridionali, poi il bullismo dei ragazzi, poi i colpevoli per-fetti: gli immigrati. E improvvisamente la comunità più pacifica che ci potesse capi-tare, i Bangladeshi dalla pelle un pochi-no più scura della nostra, sono diventati i capri espiatori. Poco importa che nessun reato sia mai stato contestato alla comu-nità, poco importa che i fatti e i numeri dimostrino che non c’è nessuna predispo-sizione a delinquere. Basta inventarsele, le cose. E allora ecco che diventa un pro-blema il fatto che vadano in piazza, si sie-dano sulle panchine, girino in bicicletta, cucinino speziato, aprano negozi dei loro prodotti alimentari. Infine il colpo da mae-stro: sono mussulmani, quindi potenziali

talebani (che è come dire che tutti i pre-ti cattolici sono pedofili) e vogliono una moschea. Non importa che non l’abbiano mai nemmeno chiesta, non importa che il Comune, anche volendo, non potrebbe mai finanziarla. L’importante è inventare l’idea di un possibile pericolo e lavorarci sopra anche in assenza di fatti.

L’altro elemento/movente, che ha de-terminato questa insensata campagna di terrore, è il potere e riguarda i due partiti di destra, Lega Nord e Popolo della liber-tà (di far quel che si vuole n.d.r.), che in città brillano per la mancanza di qualsiasi capacità progettuale. In anni di esisten-za non hanno prodotto una sola idea su come governare la città, come risolvere i problemi del lavoro, della sanità, delle scuole, degli anziani. Ma hanno condivi-so, alimentato, sostenuto e rilanciato, con il Piccolo, la campagna della paura. Flic e Floc alla guerra.

Che le loro campagne non corrispon-dano alla verità dei fatti non è rilevante. A loro interessa prendersi le poltrone e non sono schizzinosi. Per raggiungere il potere di cui sono ghiotti non si ferma-no davanti a nulla, nemmeno di fronte al ridicolo.

Eccoli allora sempre solerti sui due argomenti che il cielo ha offerto loro. Si agitano offrendosi come sceriffi, parlando per mesi di ronde (non pervenute), grida-no al pericolo mussulmano soffiando con-tinuamente su rigurgiti razzisti e si allea-no con i prima odiati meridionali per dare addosso ai bangladeshi, evitando d’im-porre questioni scomode alla Fincantieri dove la Lega ha conquistato poltrone di vertice. Così Nicoli, Razzini e i loro poco decorosi seguaci si sono lanciati in cro-ciate politiche prima contro la moschea, che non c’è, poi per la sicurezza con la ridicola distribuzione degli spray al pe-peroncino, che però non fanno nelle città amministrate dai loro partiti dove il tasso di delinquenza è molte volte superiore a quello di Monfalcone.

Si sa, l’importante non è la verità, ma l’apparenza. In fondo le tecniche usate dal Piccolo e dai partiti di destra a Mon-falcone sono ben studiate dalla psicologia

MONFALCONEMonfalcone

[di Arturo Bertoli]

Monfalcone: anatomia di un omicidio

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Monfalcone

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neurolinguistica applicata alle strategie persuasorie: più un concetto viene ripetu-to, al di là della sua veridicità, più resta in memoria e maggiore è la probabilità che influenzi opinioni e atteggiamenti. Il movente è dunque chiaro. Monfalcone deve morire affinché “loro” possano vi-vacchiare.

I COLPEVOLILe prove sono numerosissime e portano di-rettamente ai colpevoli, il movente è certo.

Negli ultimi quattro anni il Piccolo ha offerto spazi generosi ai denigratori della città, ha ricostruito faziosamente i fatti e ignorato le dichiarazioni degli ad-detti ai lavori. Che importa se persino il questore, confortato dai numeri, ripete in continuazione che Monfalcone è una città tranquilla e sicura e che gli episodi di cri-minalità sono marginali? Che importa se i problemi maggiori sono quelli legati al sistema degli appalti e subappalti di Fin-cantieri con il loro corredo di paghe glo-bali, di caporalato, di sfruttamento? Non importa, bisogna dire che Monfalcone è insicura, che non si può più passeggiare tranquilli nelle strade. E se non ci sono reati si amplificano i pochi che avvengo-no. Si spinge per riempire la città di te-lecamere che riprendono il nulla e si fa di necessità virtù lavorando sulla notizia. Così una scazzottata a scuola diventa bul-lismo di eccezionale gravità, un atto di banale vandalismo come il taglio di una tenda occupa una pagina intera (20 anni fa mi hanno rigato la macchina e rubato lo specchietto… e non c’erano Bangla-deshi o trasferisti). E le interviste? Solo alle persone anziane, che dicono di avere paura di passare in piazza nonostante sia

200 volte più luminosa di Piazza Vittoria a Gorizia. Le prove a carico del Piccolo sono schiaccianti.

Inconfutabili anche le prove a carico dei complici: Razzini (Lega Nord) e Ni-coli (Popolo della libertà - di far quel che si vuole - n.d.r.) che le pensano proprio tutte per sputtanare questa povera città. Ricordate quando dicevano: “adesso che a Gorizia comandiamo noi, cambieremo la raccolta differenziata” infatti tutto è ri-masto – giustamente – come ai tempi del centro sinistra. I complici omettono di dire che nella quasi totalità dei comuni veneti, dove governano, la raccolta porta a porta si fa eccome e con modalità più restritti-ve che da noi. Altro cavallo di battaglia: il problema della sicurezza. D’altronde la cosa ha ben funzionato con Berlusconi. Ricorderete che prima delle ultime elezio-ni nazionali i telegiornali grondavano san-gue, rapine in villa, furti, scippi, violenze di ogni tipo. Dopo la vittoria di Berlusco-ni, come per magia, tutto è praticamente scomparso, anche se le statistiche dicono che le variazioni sul numero e la tipologia dei reati sono di lieve entità.

E così anche i nostri prodi guerrie-ri si sono messi di buona lena a denun-ciare la criminalità che invaderebbe la città. Razzini e Nicoli non hanno perso una sola occasione per ingigantire ogni piccolo episodio di disagio sociale in città, per evocare spettri e catastrofi, per invocare telecamere in ogni dove (ma il loro capo non è acceso fautore della privacy?). Hanno deciso di infischiar-sene della nuda verità dei numeri, delle dichiarazioni degli addetti ai lavori, del-l’evidenza dei fatti. Quello che importa-va loro era far crescere la percezione del

pericolo. Ecco la parola magica: paura percepita. E questa è un’altra prova a loro carico. Prima creano un clima di paura, poi, di fronte all’evidenza, am-mettono che forse è vero, che non c’è la delinquenza tanto spesso evocata, ma la gente percepisce un clima di paura. E chi l’ha creato questo clima? Complimenti, un vero capolavoro!

Centinaia di persone sono morte, muoiono e moriranno a causa dell’amian-to. Uno spargimento di sangue senza pre-cedenti. Eppure il crimine è sputare per terra.

Di nuovo complimenti.I colpevoli, i killer hanno anche altri

complici. Chi sono? Uno, ad esempio, è l’ex assessore Luise, il girovago della po-litica, l’uomo che nella sua vita ha cam-biato più partiti che mutande, l’uomo che si è inventato le ordinanze per stroncare la delinquenza a Monfalcone: gli sputi (in un anno nemmeno una sanzione) e le biciclette parcheggiate male (per le auto in doppia fila, niente). L’uomo che se n’è andato dalla giunta non perché, come al-cuni dicono, il centrosinistra non voleva candidarlo a prossimo sindaco, ma perché avrebbe voluto emettere ordinanze anco-ra più restrittive (contro cosa non è dato sapere).

Altro complice il presidente locale dell’Ascom Boscarolli, sempre attivissi-mo nel denunciare il clima oscuro della città. Vorrebbe ancora più luci in centro ma non riesce a convincere i negozianti a lasciare le vetrine accese, vorrebbe la piazza nuovamente attraversata dalle auto e l’eliminazione del trasporto pubblico (saremmo gli unici al mondo!). Conti-nuando a denigrare la città rende davvero un servizio fantastico ai suoi associati che vedono sparire, sempre di più, i clienti provenienti da fuori.

Dipingere Monfalcone come la ca-sbah che non è, come il bronx che non è, alla fine ha prodotto un grande risultato: isolare la città, renderla meno attrattiva, scoraggiare chi vorrebbe venire a viver-ci, aprire un’azienda o semplicemente a lavorare.

Il danno l’hanno fatto. Quello che do-vrebbe essere evidente a tutti è che non potranno mai essere gli assassini a ridare vita alla città che hanno ucciso. Toccherà a qualcun altro, non a loro, non a loro. ❒

MONFALCONE

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SICUREZZA Sicurezza

quanto autorità sanitaria; nessuna altra autorità dello stato può essere delegata a raccogliere tale adesione.

- Tale analisi in virtù del persistere delle tracce nelle urine anche per setti-mane non ha carattere d’urgenza e per-tanto non può essere utilizzato il pronto soccorso per tale scopo. Dopo questa vi-cenda infatti sarebbe il caso che la dire-zione sanitaria dell’ASS n°2 “Isontina” emanasse prontamente una circolare che specifichi meglio ai propri servizi la mo-dalità idonea di intervento.

- L’iter corretto per questo gene-re di intervento è recarsi dal proprio

SICUREZZA Sicurezza

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[di Mauro Bussani]

Avanza in qualche maniera un imma-ginario collettivo che tende a ride-finire i giovani in quanto tali come

una categoria pericolosa che deve per forza avere le caratteristiche del bullismo, del vandalismo e della dipendenza da al-cool e sostanze.

Si direbbe che i carabinieri odino il carnevale e facciano di tutto per impedire agli altri di divertirsi. Ad un anno preciso dalla ormai famosa “operazione blu”, le forze dell’ordine della provincia di Gori-zia tornano a suscitare un certo clamore, in negativo vale la pena da aggiungere, inventando l’ennesima bislacca opera-zione tesa a colpire il piccolo consumo di sostanze leggere.

Nella notte del 5 febbraio infatti scat-ta la perquisizione nelle case di una tren-tina di giovanissimi tra i 17 e 23 anni con risultati talmente scarsi che il comando provinciale, per salvare la faccia, si trin-cera dietro un ben poco plausibile scopo “educativo preventivo” dell’operazione.

Sullo scopo educativo è bene stende-re un velo di pietà e non spendere altre parole se non rimarcare il fatto che ben altri sono i soggetti competenti per que-sto tipo di iniziative, dalla famiglia alla scuola passando per le istituzioni e l’as-sociazionismo.

Preme invece sottolineare un altro aspetto, questo si la novità, assolutamen-te non condivisibile e del quale è neces-sario impedirne eventuali repliche.

I ragazzini ed i loro genitori infatti sono stati indotti, evidentemente intimo-riti dalla presenza delle divise alle tre di notte, a firmare un consenso per la ricerca di tracce di assunzione di sostanze nelle urine e solo in pochi casi tale tentativo è stato rifiutato.

Si è così potuto assistere ad una conti-nua processione verso il pronto soccorso dell’ospedale di San Polo proseguita per tutto il giorno tanto da mettere in crisi un servizio di prima emergenza già di per sé molto utilizzato.

Nelle discussioni delle giornate suc-cessive a proposito di questo episodio sono emerse tutta una serie di valuta-zioni che è indispensabile riportare non fosse altro che per informare chiunque

Sicurezza per tutti o delirio di potenza?

Il 5 e 6 febbraio il territorio monfal-conese ha vissuto una iniziativa da parte dei Carabinieri, che ha avuto

una larga eco sulla stampa locale: una trentina di ragazzi di età tra i 17 e i 23 anni hanno subito all’alba una perquisi-zione domiciliare alla ricerca di sostan-ze stupefacenti; l’operazione ha visto protagonisti un centinaio di carabinieri e si è conclusa con l’accompagnamento “spontaneo” dei ragazzi al Pronto Soc-corso dell’Ospedale di Monfalcone per sottoporli ai test antidroga.Tale operazione ha avuto una larga eco nella stampa locale; in particolare nei giorni e settimane successivi sono apparsi numerosi articoli, che portava-no all’attenzione dei lettori il fatto che l’uso di droghe è largamente presente non solo nelle scuole, ma anche nei luo-ghi di lavoro ed intrattenimento. Che grande scoperta!!!Tutta l’operazione è stata presentata

dall’Arma dei Carabinieri e dalla stes-sa Procura della Repubblica di Gorizia come un’attività di prevenzione, volta a sensibilizzare le famiglie e i giovani stessi rispetto al consumo di sostanze; esplicitamente è stata descritta come fi-nalizzata al recupero di un “sano stile di vita”.Noi crediamo che tale operazione “pre-ventiva” di polizia sia allarmante e ciò per alcune precise motivazioni:• Il consumo di sostanze a Monfalcone, come in tutto il mondo, è presente, va diffondendosi sempre più e non solo tra i giovani, assume i caratteri di un vero e proprio consumismo, dato che frequen-temente l’acquisto non differenza più i tipi di sostanze, anche perché il mer-cato illegale dominato dalle organizza-zioni criminali offre sostanzialmente allo stesso prezzo tutte le sostanze; le leggi orientate – come quella italiana – alla criminalizzazione e punizione

La fabbrica della pauraCome e qualmodo la repressione diventa maestra di vita

[Gianni Cavallini]

dei propri diritti, sempre più messi in discussione da un modo di fare che si avvicina più all’esercizio ossessivo e de-lirante del mero potere piuttosto che a un ragionamento collettivo atto a garantire un miglior livello di sicurezza sociale per tutti.

- L’analisi delle urine per verificare l’assunzione di qualsiasi tipologia di so-stanze è un atto volontario che deve es-sere meditato in autonomia e consapevo-lezza, nessuno può esservi indotto dietro pressioni di chicchessia.

- Il consenso può essere firmato sola-mente davanti al medico competente in

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altri contesti – possa solamente promuo-vere la progressiva marginalizzazione di fasce sempre più ampie di ragazze/i, che già -per la situazione del mercato del la-voro- vivono una concreta e quotidiana esperienza di precarietà rispetto al reddito e alla possibilità di soddisfare i comuni bisogni sociali.In conclusione, ritengo che quanto acca-duto sia un eccellente segnale di una peri-colosa deriva: diffusa nella popolazione è la paura per la propria sicurezza; in realtà, tutte le relazioni ufficiali, ministeriali e/o europee, confermano che il numero di reati, in particolare contro il patrimonio, è in costante riduzione in tutti i paesi cosid-detti sviluppati; il consumo di alcolici e di droghe è, invece, in progressivo aumento; la stessa legge sul tabacco, dopo l’inizia-le successo, non ha assolutamente ridotto i consumi. Allora, se ciò è vero come è vero, possiamo capire che da una parte i provvedimenti “forti” non hanno efficacia sui comportamenti diffusi delle persone; dall’altra, che tali comportamenti (in cre-scita) non hanno alcuna correlazione con i reati (in diminuzione).Perché, allora, si spendono centinaia di migliaia di euro per installare telecamere nelle scuole( 800.000 solo a Udine)? Non è che per caso la costruzione della paura sia utile a realizzare profitti e controllo so-ciale? ❒

SICUREZZA Sicurezza

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medico di fiducia per farsi prescrivere l’impegnativa, pagare il ticket relativo, aspettare il proprio turno presso l’am-bulatorio analisi il giorno indicato del-l’appuntamento.

Non è un caso infatti che proprio verso questo modo di procedere si sia pronunciata da subito la Camera Pe-nale, organo degli avvocati del Foro di Gorizia, con una dura nota firmata dal presidente avv. Riccardo Cattarini nella quale, tra l’altro, si afferma un’ “estre-ma preoccupazione per l’utilizzo di uno strumento delicato e assai invasivo quale quello dell’indagine penale in situazioni che paiono invece appartenere a forme di disagio sociale e che dunque debbono trovare giusta soluzione in interventi di natura educativa ed assistenziale, non già

in operazioni di polizia”. Nota trasmessa a tutti i livelli istituzionali dal ministro Maroni in giù.

Avanza in qualche maniera un imma-ginario collettivo che tende a ridefinire i giovani in quanto tali come una catego-ria pericolosa che deve per forza avere le caratteristiche del bullismo, del van-dalismo e della dipendenza da alcool e sostanze.

Anche da questo punto di vista l’Ita-lia continua a distinguersi dal resto del mondo per l’aspetto repressivo che viene dato a tutte le politiche sociali. L’unico modello educativo condivisibile è quello teso a far emergere in positivo dai ragaz-zi le specifiche risorse insite in ciascuno per metterle a disposizione della collet-tività. Che è tutt’altra cosa che eseguire

retate nel cuore della notte, con buona pace dei carabinieri.

Nel frattempo, mercoledì 16 marzo è stata celebrata l’udienza preliminare del-la scandalosa “operazione blu” (vedere il secondo numero di MT) con tanto di presidio di protesta fuori dal tribunale di Gorizia. Tutti gli imputati rinviati a giu-dizio ma la nota rilevante è l’immediato proscioglimento dalle accuse relative al-l’aver adibito alcuni domicili privati e lo stesso edificio di via Natisone a luoghi di consumo di sostanze.

Cioè Officina Sociale non era in al-cun modo la centrale dello spaccio mon-falconese come sbandierato a piena pagi-na sui giornali e come ipotesi portante di tutta l’operazione nelle teste degli inqui-renti. ❒

del consumo sono sostanzialmente fallite, proprio perché non sono state in grado di contrastare la diffusione molecolare del comportamento. In tutto il mondo, anche nei governi, cresce la consapevolezza della necessità di modificare radicalmente l’approccio, al fine di contrastare effica-cemente la situazione.• L’educazione in particolare dei giova-ni non può essere affidata e gestita dagli organi di polizia, attraverso operazioni spettacolari quanto inutili (pochissimi i grammi di sostanze cannabinoidi seque-strate nell’operazione di Monfalcone): educare deve significare rinforzare nei giovani e nelle famiglie le conoscenze e le competenze sul tema specifico, in modo da rendere i consumatori soggetti capaci di realizzare scelte consapevoli dei rischi e delle modalità per contrastare i danni possibili.• Il consumo di sostanze è cosa diversa dalla dipendenza da sostanze: nel vino come nelle cosiddette droghe è esperien-za diffusa l’utilizzo moderato e consape-vole che non si accompagna allo stato di tossicodipendenza; da millenni l’umanità convive con questi comportamenti e a noi appare irrealistico pensare alla soppres-sione di questi comportamenti, attraver-so in particolare il ricorso al carcere o a provvedimenti quali la sospensione della patente e dal lavoro, nel caso di positività

ai test; non esiste in alcun paese del mon-do prova di efficacia di approcci repressi-vi di questo tipo. Anzi in Italia – proprio a seguito dell’incarcerazione di massa per reati connessi al consumo di sostanze – le carceri ormai hanno raggiunto un livello inqualificabile di detenzione, stigmatiz-zato anche da organismi internazionali. Depenalizzare i reati connessi ai com-portamenti sulle droghe consentirebbe di ripristinare nelle carceri stesse una situa-zione di gestione normale (si consideri che circa un terzo dei detenuti sono legati all’applicazione della Legge Fini Giova-nardi sulle droghe).• Oggi i giovani sono oggetto di un ap-proccio persecutorio: dalla presenza della Polizia con i cani nelle scuole ai conti-nui controlli nelle strade è un susseguir-si di azioni di controllo particolarmente orientate ai giovani in quanto tali: quasi fossero una classe sociale pericolosa, i giovani vivono il proprio diritto alla vita, al divertimento, alla socialità come se si trattasse di un reato di per sé. Noi cre-diamo che un siffatto approccio – anche alla luce di esperienze già realizzatesi in

iL consumo di sostanze è cosa diversa

Ddalla dipendenza da sostanze

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INTERVISTA

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Intervista

“Tutto ciò che si vende come attenzione ai diritti del fan-ciullo e dei minori assorbe

risorse e crea un ritorno favorevole a chi promuove convegni, manifestazioni e quant’altro”.C’è grande attenzione, in giro, per le te-matiche legate ai minori: celebrazioni di ricorrenze, interventi di esperti, protocolli d’intesa tra le scuole e gli enti territoriali, dibattiti, studi sul fenomeno del bullismo, servizi televisi e trasmissioni dedica-te ai più disparati fenomeni di devianza dei minori … Insomma tutti si occupa-no della condizione minorile segnalando l’aumento del disagio, le violenze subi-te o perpetrate e così via. E’ un tema di grande attualità, così come la prevenzio-ne. Prova ne sia che a Monfalcone perfi -no le nostre forze dell’ordine, a proposito dell’operazione antidroga, hanno mes-so l’accento sulla necessità di prevenire comportamenti pericolosi: “Tante fami-glie – ha spiegato il comandante Zuliani – non immaginavano nemmeno che i fi gli consumassero droga, seppure leggera. È sbagliato – ha aggiunto il colonnello -, signifi ca che i ragazzi hanno già intrapre-so la strada sbagliata. Può essere una vita rovinata in partenza. Per i genitori, la no-stra operazione di forte prevenzione deve essere un bel campanello d’allarme”. (Il Piccolo)

Insomma pare che l’attenzione del paese sia davvero molto forte quindi sup-pongo che le forze messe in campo sia per la prevenzione sia per la tutela e la giu-stizia minorile siano davvero effi cienti. Per averne conferma ne parlo con il dott. Paolo Sceusa, Presidente del Tribunale per i Minorenni di Trieste, organismo di competenza regionale.

Conosco Paolo dal 1970, frequentava-mo la stessa classe al Liceo, siamo amici

e ricordo bene quando, giovanissimo in-traprese la sua carriera in magistratura, era uno dei “giudici ragazzini” tanto cari a Cossiga… Sei anni al tribunale di Gori-zia, una dozzina alla Procura dei minoren-ni, sei anni al Tribunale civile di Trieste.

Da quanto tempo sei Presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste?Da luglio del 2009.

Qual è la situazione in merito agli orga-nici, fi nanziamenti e così via?I problemi sono sempre gli stessi, scarsità di personale (l’organico è di 20 impiega-ti, presenti 11, di cui 6 a tempo pieno e i rimanenti part time) e carenza di mezzi materiali. I fondi del Ministero sono dav-vero esigui, quest’anno circa 1.000 euro. Tieni conto che le spese del Tribunale ri-guardano tutto ciò che serve: dotazioni di carta, toner, codici, che dobbiamo com-prare dalle case editrici e che vengono ripubblicati frequentemente a seguito di continui aggiornamenti, abbonamenti a riviste, l’auto di servizio, la benzina…Ti faccio un esempio: in dicembre 2009, praticamente a fondi esauriti, ci giunge la disposizione del Ministero di fare la manutenzione dell’auto di servizio, im-

matricolata dodici anni fa. Disponevamo di 300 euro, quindi mini gara d’appalto. Totale della spesa 380 euro. A venti giorni dalla messa a punto dell’auto ci perviene l’ordine di demolizione da eseguire en-tro dieci giorni. Detto fatto: a oggi siamo ancora senza automobile e il meccanico deve ancora avere 80 euro. La macchina è indispensabile, devo spostarmi in tutta la regione, quindi uso la mia…

Quindi siete in diffi coltà?Direi proprio di sì, l’urgenza più seria riguarda il settore civile: affi damenti, adozioni nazionali e internazionali, prov-vedimenti sulla potestà, riconoscimenti e disconoscimenti. Sono circa 1000 casi l’anno. Il cattivo esercizio della potestà genitoriale in tutte le sue forme, dalle più piccole trascuratezze alle peggiori forme di abbandono, violenza e abusi sessuali, rappresenta l’urgenza reale e drammatica. Purtroppo non c’è suffi ciente tempestività rispetto a queste tematiche e siamo carenti di risorse umane, anche per quanto riguar-da i servizi territoriali e gli enti locali…

A proposito degli enti locali e dei servizi territoriali quanto è importante la loro azione?E’ fondamentale, proprio per affrontare le situazioni di disagio prima che esse arri-vino sul mio tavolo. Mi spiego, l’azione dei servizi pubblici essenziali diffusi sul territorio è molto importante, dovrebbe offrire interventi preventivi prima che i disagi dei minori acquistino una rilevanza giuridica ma, purtroppo, risulta carente per i soliti motivi: risorse e fi nanziamenti insuffi cienti.

Eppure, apparentemente, lo sforzo è grande...dei minori si parla molto…Sì, se ne parla, si parla molto, ma gli in-

Se potessi avere mille euro al meseIntervista a Paolo Sceusa, Presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste [di Eva Demarchi]

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INTERVISTAIntervista

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terventi concreti a favore degli operatori minorili giudiziari e sociali non sono la priorità nella distribuzione delle risorse. Tutto ciò che si vende come attenzione ai diritti del fanciullo e dei minori assor-be risorse e crea un ritorno favorevole a chi promuove convegni, manifestazioni e quant’altro. Si tratta di quello che io de-finisco “minorilismo di facciata”, produ-ce consenso senza affrontare e risolvere i problemi reali. Ti faccio un altro esempio: il Tribunale per i Minorenni è stato creato nel 1934, allora era composto da un orga-nico di 3 giudici professionali, oggi siamo a un organico di 5 giudici.

Il ministro Brunetta ha ripetutamente chiesto i tornelli per i magistrati di-chiarando che “molti sono al lavoro 2/3 giorni su sette”, che ne pensi?Evidentemente confonde il fatto che i ma-gistrati lavorano per due o tre giorni con il fatto che tengono udienze due, tre se non quattro volte la settimana. La parte più consistente del lavoro, che riguarda lo studio dei fascicoli e la redazione delle sentenze, molti magistrati sono costretti a farla a casa per la cronica mancanza di uf-fici, computer e strutture adeguate. Provo a spiegarmi con un esempio: immagina che in un ristorante con venti coperti il came-riere e il cuoco siano la stessa persona… se tutti i tavoli sono occupati immagina i tempi di attesa per mangiare e prova ad immaginare il lavoro del cuoco/camerie-re. E’ ovvio che la contemporaneità non è possibile. Il ministro Brunetta vede solo il lavoro di sala … Mi sono spiegato?

Perfettamente. Veniamo al settore pe-nale, qual è la situazione in regione?Affrontiamo circa 700 casi l’anno, per la maggior parte si tratta di reati patrimo-niali (furti e danneggiamenti), anche se si avverte un incremento di reati a sfondo sessuale tra i minorenni. Nella nostra re-gione il settore penale è comunque meno significativo dal punto di vista dell’allar-me sociale. I diversi provvedimenti messi in atto come perdono giudiziario, limiti più ampi della condizionale, messa alla prova, hanno come scopo il recupero so-cio educativo del minore.

Puoi spiegare in che cosa consiste il provvedimento di “messa alla prova”?Si tratta di un’innovazione nel processo penale minorile. Con questo provvedi-mento il processo viene sospeso e il mi-nore è affidato ai servizi minorili dell’am-ministrazione della giustizia che, anche in collaborazione con i servizi socio-as-sistenziali degli enti locali, svolgono nei suoi confronti attività di osservazione, sostegno e controllo.

L’applicabilità della misura è possi-bile indipendentemente dalla tipologia e dalla gravità del reato. Su precise indica-zioni del Tribunale, che ritiene possibile il recupero del minore, i servizi sociali elaborano il progetto di messa alla prova, che deve necessariamente essere accet-tato e condiviso dal ragazzo. In una per-sonalità in crescita, come quella del mi-norenne, il singolo atto trasgressivo non può essere considerato indicativo di una scelta di vita deviante, pertanto l’istituto della messa alla prova tende a non inter-rompere i processi di crescita del minore, puntando al suo recupero sociale.

Il fenomeno del bullismo: proviamo a definire il termine, spesso abusato…Ovviamente nessuna legge definisce il termine bullismo, né descrive il compor-tamento da “bullo” in una forma specifica di reato. Per semplificare, forse banaliz-zando il concetto, posso dire che il bulli-smo sta alla scuola come il nonnismo sta alla caserma. Sostanzialmente si determi-na un clima, più o meno consapevole, di atti vessatori da parte di più persone verso un soggetto che già si trova in condizio-ni di fragilità personale e che proprio per questo diventa un bersaglio. La novità è l’attenzione speciale nei confronti del fenomeno perché alcune volte le conse-guenze possono essere molto gravi: ab-bandoni scolastici, problemi psicologici o peggio, come alcuni fatti di cronaca han-no dimostrato.

I casi di reati minorili sono in aumento in regione? Hai qualche dato anche sul territorio di Monfalcone?Tendenzialmente non si registra un signi-ficativo aumento della casistica penale minorile in regione, negli ultimi anni. Per quanto riguarda Monfalcone c’è un certo aumento delle denunce a carico dei mi-norenni ma nulla di allarmante. Non mi risultano in aumento reati, denunce e pro-cessi in merito all’uso, abuso e spaccio di sostanze stupefacenti e comunque si trat-ta, per lo più, di sostanze “leggere.” Per quanto riguarda il reato di clandestinità, a oggi, non ci sono state incriminazioni.

Recentemente la Cassazione ha respin-to il ricorso di un padre albanese, con moglie in attesa della cittadinanza ita-liana e due figli minori, che chiedeva di poter restare in Italia in nome del di-ritto al «sano sviluppo psicofisico» dei suoi bambini, che sarebbe stato altera-to dall’allontanamento del papà. Che cosa ne pensi?In questo caso la sentenza della Cassazio-ne ha ritenuto di non porre un problema di costituzionalità della normativa che ha applicato privilegiando, posso dire incre-dibilmente, l’osservanza delle norme an-ticlandestinità rispetto al diritto dei figli minorenni di conservare l’integrità della propria famiglia.

Insomma la giustizia minorile funzio-na?Siamo classicamente tra il dire e il fare, in sostanza ci troviamo di fronte a un sistema di regole ben congeniate, che, ti assicuro, il mondo ci invidia, come ad esempio, la composizione mista del Tribunale fatta di giudici e di esperti di problematiche minorili. Il problema è l’attuazione, cioè il fare, che viene lasciato languire nella penuria di risorse umane e di mezzi di cui abbiamo parlato all’inizio.

Grazie PaoloPrego, ma non dovevamo incontrarci per parlare di Avatar?

La prossima volta, te lo prometto… ❒

tUTTO CIÒ CHE SI VENDE COME

ATTENZIONE

Ai diritti del fanciullo e dei minori assorbe risorse e crea consenso

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I l dott. Tozzi prende la parola, davan-ti ai seggi del consiglio comunale, con una relazione interessante, bre-

ve e concisa, che ritrae una città pro-fondamente diversa da quella cesellata dal Piccolo, che quotidianamente tra bande armate e narcotrafficanti la pa-ragona più alla periferia di Bogotà che alla realtà di una cittadina del nord-est.

Parla a tutto tondo il questore di Gorizia. Parla della realtà dell’immi-grazione, dei cambiamenti di composi-zione sociale, parla delle nuove droghe che girano tra i ragazzi, parla soprattut-to di una città monitorata e molto con-trollata, provoca addirittura sull’ipotesi di un ulteriore aumento delle telecame-re (poi puntualmente arrivato a breve giro di posta) considerando la presenza di occhi elettronici già sufficiente e ol-tretutto difficile da gestire, essendo pa-lesemente impossibile mettere un uomo dietro ogni schermo, ventiquattro ore su ventiquattro (tra l’altro sarebbe un lavoro enormemente noioso ndA).

Lo fa da uomo d’ordine, senza so-ciologia né giri di parole, facendo spes-so ricorso a eventi, esempi, chiarimenti. Chiarisce una volta in più che la colla-borazione con i vigili è più che buona e che l’organico attuale è da considerarsi sufficiente per coprire il territorio.

Con in mano un foglietto di appunti riassume i numeri, usciti sulla stampa anche in questi giorni, della situazione criminale nel mandamento, numeri mi-nuscoli, da contabilità elementare, indi-cativi di una situazione assolutamente sotto controllo, inserita in una dimen-sione urbana sicura e pacifica.

Risponde con la calma e con i dati al fuoco di fila delle destre, pronte a spostare abilmente la discussione dalla sostanza, dai fatti, alle percezioni.

Quando lascio la sala ho la netta sensazione che le garanzie portate sia-no sensate, ragionevoli e convincenti.

Eppure nonostante le statistiche, no-

Ansia Press Ovvero cronache dalla città che non dorme mai (sonni tranquilli)Monfalcone, a leggerne sui giornali, ha un tremendo problema con il crimine e la sicurezza. Non c’è da sorprendersi, allora, che l’amministrazione, allarmata, chieda un incontro col questore con lo scopo di parlare di sicurezza. Anzi, di sicurezza e per-cezione. Binomio psicanalitico diventato ormai patrimonio comune.

Vivo a Monfalcone da quasi 5 anni, ma la mia prima volta qui è stata per un lavoro che durava

una settimana, un lavoro incentrato su “La Questione Amianto”. Ho conosciu-to la città con gli occhi di chi sa una sola cosa: che qui c’è tanta gente che muo-re di amianto. Ero qui per denunciare il Male, con le parole di Massimo Carlot-to, con uno spettacolo teatrale. La prima cosa che mi ha colpito di Monfalcone?

Che la Sua Fabbrica sia ancora attiva. Ma come? Ha provocato la morte di cen-tinaia di persone ed è ancora qui? Col tempo ho capito il Suo peso nell’eco-nomia dei fatti e il vero significato del verso di una poesia “il cantiere è come un buon papà”. Ci si può ribellare ad un buon papà? Infatti molti ancora oggi fanno finta di niente. E la città va avanti: ignora i tanti morti, le tante brutture, per concentrarsi su somme lamentele come

VISTA DA VICINO

Monfalcone vista da chi ci viene a vivere da fuori.

SICUREZZA Sicurezza

nostante i numeri (che nessuno smen-tirà, nemmeno in seguito), nonostante le garanzie del questore, assistiamo al quotidiano bombardamento mediati-co...

“Il questore non allontana la Pau-ra” il titolo del giorno dopo sul Piccolo è il ritratto di un’offensiva mediatica e il manifesto di una linea editoriale. Quella della Paura.

Sicurezza e Percezione, binomio che si ripete fino alla noia sui giornali,

dotato di un piccolo trabocchetto retori-co, se infatti è chiaro che la città è ma-terialmente sicura, allora il problema si sposta sulla percezione. Ma come gua-rire un malato che non ha alcuna vera malattia?

Ecco che si propone di armare i vi-gili urbani, di sparare raffiche di ordi-nanze, di aumentare le telecamere, di spendere fiumi di denaro pubblico (per-chè di questo si tratta) per affrontare un problema che non c’è.

Mentre si sposta, con questa scusa, lo sguardo lontano da una crisi econo-mica angosciante che rischia di mettere in crisi l’intero comparto produttivo del territorio, da una ristrutturazione sani-taria che potrebbe annichilire la sanità isontina, da un progressivo logoramen-to dei diritti civili, dalla destrutturazio-ne della cultura come spazio di propo-sta pubblica.

Per questi temi non c’è spazio, tutto occupato dall’infinito dibattito sulla si-curezza placebo.

Nel mercato elettorale, evidente-mente, l’ansia paga un prezzo molto alto. ■

[Alessandro Saullo]

[di Laura Fogagnolo]

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A questa domanda alcuni studenti han-no risposto con sicurezza:” E’ quel-l’isola delle ragazze con le corone di

fiori al collo e i gonnellini di paglia”. Poco male, dirà qualcuno, confondere il Pacifi-co con i Caraibi non è un problema vitale. E sapere dov’è accaduto uno dei più gravi disastri della storia moderna non è fon-damentale…è un posto così lontano…e poi la geografia è una materia così noio-sa e desueta. Forse la pensa così anche il ministro Gelmini, che nella riforma delle scuola superiore prevede il ridimensiona-mento dello studio della geografia, disci-plina già bistrattata alle medie, tagliata di netto negli istituti professionali e quasi in tutti i tecnici (anche nei nautici e aeronau-tici!!!), drasticamente ridotta nei licei.

La Aiig, associazione italiana inse-gnanti di geografia, ha lanciato una rac-colta firme via internet che ha raccolto 4.000 adesioni in tre giorni. Come mai tanto clamore?

«Perchè meno geografia rende tutti più poveri», risponde Gino De Vecchis, docente, geografo e presidente dell’Aigg. E ha ragione, perché privare gli studenti di conoscenze indispensabili relative ai problemi mondiali come quelli ambien-tali, socio-economici, geopolitici e cultu-rali, legati alla globalizzazione, significa impoverire la formazione dei cittadini. Da anni ormai lo studio della geografia

non si limita alla memorizzazione nozionistica ma affronta tema-tiche legate al-l’umanizzazione del pianeta, alle relazioni tra la collettività e la natura nel corso della storia, al-l’intercultura…Se nella scuola dell’obbligo si può riparare (con fatica) ai tagli at-traverso l’insegnamento interdisciplinare (storia, scienze, italiano, cittadinanza e quant’altro) è proprio nella scuola supe-riore che l’approfondimento di temi così complessi ma indispensabili dovrebbe trovare la giusta collocazione. Invece la geografia viene accorpata alla storia (nel biennio) per un totale di 3 ore settimanali e scompare nel triennio! Ancora una vol-ta, in nome del riordino e della razionaliz-zazione (vedi risparmio), si usa l’accetta e si colpisce dove, apparentemente, fa meno male: materia di serie “b”, noiosa e inutile dal momento che su Internet si può trovare tutto!

Così continueremo a stupirci dell’ ignoranza della geografia, anche quella

Sapete dove si trova Haiti?Per la Gelmini lo studio della geografia non serve più [di Eva Demarchi]

la compianta scomparsa del biscotto, le pericolosissime piste ciclabili, la bruta-lità delle strade cittadine e la disgraziata raccolta differenziata. Il discorso di Sior Anzoleto, che sempre abbonda di battu-te sui bengalesi che occupano la piazza e la città, mi infastidisce in quanto atto pubblico che alimenta l’intolleranza già abusata dai giornali e dal pensiero comune che cioè lo straniero sia una minaccia. Che cosa vede una Torinese di questa città? Vede tanta gente che ha voglia di vivere, di ridere, di creare ini-ziative. Vede molte ricchezze: il mare, orizzonte sempre aperto, il Carso, con la sua guerra e la sua testimonianza, un’eredità sociale e culturale originata

anche dall’essere stata crocevia di tante esistenze, di tanto lavoro, di tante pro-venienze e di tanto dolore. È una terra che ha dato tanto questa, cadendo forse in una sorta di abitudine all’oblio: si di-mentica di queste terre il resto d’Italia e si dimenticano della propria storia molti di quelli che qui vivono. C’è paura del-l’altro, ma fomentare paure e amplifica-re i facili giudizi ci allontana, ci tiene chiusi in casa, ci fa presumere di sapere già tutto. Siamo tutti soltanto ospiti tem-poranei del territorio in cui viviamo: qui possiamo dare e avere nella misura in cui mettiamo in gioco le nostre energie per conoscere e rispettare ogni altro da noi. ■

“tradizionale”, che almeno ci permetteva di collocarci nel mondo partendo dal no-stro territorio, la regione, lo stato e così via. Continueremo a ridere amaramente di fronte all’incertezza sulla capitale d’Italia e a pensare che a scuola “non insegnano più niente”. Beh, non è sempre colpa del-la scuola, spesso scelte scellerate rendono impossibile la trasmissione dei saperi! Non voglio certamente difendere la memoriz-zazione delle nozioni su bandiere, altezze dei monti, capitali e fiumi, argomenti così cari ai quiz televisivi, che pure ci dimo-strano quanto poco conosciamo del nostro pianeta, ma sono convinta che lo studio della geografia oggi sia indispensabile alla formazione del cittadino globale.

E allora viva la geografia che fa riflet-tere i ragazzi sulla qualità della vita, sulla tutela dell’ambiente, sul consumo di ener-gia, sulle cause e le conseguenze dei mo-vimenti di popolazione e la crescita incon-trollata delle megalopoli; viva la geografia che stimola a conoscere come è la vita in altre parti del mondo; viva la geografia che porta a conoscere chi arriva da lontano e vive accanto a noi, anche in classe; viva la geografia che ci proietta oltre il confine di casa nostra; viva la geografia che insegna a leggere le carte e che aiuta a comprende-re il paese che visitiamo in vacanza; viva la geografia, che anche grazie a Internet, GPS e quant’altro ci aiuta a trasferire le nostre conoscenze dal locale al globale. Insomma, viva la geografia senza la quale non c’è storia e viceversa. E’ ovvio che tut-to ciò non serve per partecipare al “Grande Fratello”… ma forse “resistono” anche al-tre aspirazioni, o no? ■

SCUOLAScuola

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L’istinto della LibertàBreve intervista a Beppino Englaro [a cura di Giacomo Cuscunà]

Ad un anno da quando l’intero di-battito politico, mediatico e civile era incentrato sul caso di Eluana,

qual’è oggi la situazione della legge sul fine-vita, da un punto di vista politico?Come si può constatare i politici non han-no ancora trovato il bandolo della matas-sa, il filo rosso per portare questa legge al livello che deve avere una norma che si occupa di questi temi eticamente sensibi-li. Sono lontani dal darle l’impostazione giusta.Al di là degli slogan che tanto hanno

riempito le bocche dei politici, secondo lei si arriverà ad una legge realmente laica attraverso un dibattito serio al-l’interno delle istituzioni?Senz’altro è possibile. Ci deve essere però la volontà politica di dialogo e di confron-to. Ma che siano un dialogo ed un con-fronto realmente aperti.Lei al momento vede questa possibi-lità?No in questo momento no. Ancora non la intravedo.Durante l’incontro ha sottolineato

come abbia sentito una forte sensibilità da parte della gente comune...Sì, questo è vero. Il clima culturale è cam-biato e lo dicono i sondaggi. Ne sono un segnale anche tutte quelle persone che si stanno muovendo per avere nei comuni e nelle province la possibilità di lasciare le indicazioni terapeutiche nel caso ci si venisse a trovare “scoperti” nel dialogo medico-paziente. La gente comune credo si stia muovendo bene.Secondo lei perchè nessuno sottolinea adeguatamente la contraddizione tra le dichiarazioni di alcuni schieramenti politici che si ergono a difensori della vita oltre ogni limite e le azioni concrete poi intraprese dagli stessi? Penso ai ta-gli all’assistenza ai malati di SLA.Questo è preoccupante. L’ho detto: guai l’abbandono terapeutico. Hanno promes-so che nessuno verrà abbandonato. Ma certo, sono i cittadini che devono riven-dicare quello che a loro è stato promes-so. L’hanno attuato da una parte contro la volontà di qualcuno, come nel caso di Eluana. Lo devono attuare con chi ritiene giusto vivere così.Ritiene che i media di oggi possano rappresentare un mezzo per mantenere alta l’attenzione su questi temi?I media oscillano. Alle volte cavalcano queste cose, alle volte rimuovono anche loro più del dovuto, da una situazione in-vece a cui sarebbe necessario dare mag-giore rilievo. ■

- CENTRALINO COMUNALE-Driiiin....Driiiin...- “Comune di Monfalcone, desidera?”- “Si, sono Naci. Antonio Naci. Vorrei parlare con il parroco del comune”- “Mi scusi, questo è il centralino del mu-nicipio, per parlare con un prete dovrebbe provare a telefonare in canonica”- “Come? Non è mai stato assunto un parroco comunale? Vergognatevi, non è accettabile che il Comune di Monfalcone non tenga conto delle esigenze del mondo cattolico”

Vivaddio (espressione scelta non a caso) l’Italia è un paese laico. Le posi-zioni del mondo cattolico, chiaramente espresse nelle sedi ecclesiali più au-torevoli, vanno rispettate, ma non per forza ascoltate con riverenza e conside-rate “Verbo”. In fin dei conti gli omosessuali secondo me non sono anime perse o esseri con-tro natura e in certi paesi sarebbe me-glio incentivare l’utilizzo del preser-vativo per contrastare il contagio e la diffusione dell’AIDS. Ma si sa: siamo

quasi in primavera e in questa stagione le offensive dei talebani ricominciano a farsi sentire.Ultima escalation la “benedizione man-cata” che ha, più che mosso le coscienze, dato fiato a tromboni e riempito pagine sul quotidiano locale. Comunque, per fortuna c’è qualcuno che pensa e inter-preta il cattolicesimo come una fede illu-minata e aperta. Provare per credere, vi consiglio il Centro Balducci di Zugliano (Ud) e una chiacchierata con Don Pier-luigi di Piazza. ■

[di Giacomo Cuscunà]Monfy e la lotta agli infedeli

INCONTRIIncontri

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A Monfalcone ci si diverte a fare espe-rimenti. E’ un po’ tutto un esperi-mento in giro, ma qui a Monfalcone

siamo più convinti che altrove e poi quan-to a know-how non ci batte nessuno, sono cento anni buoni che qui si fanno espe-rimenti. La città sperimentale è sotto gli occhi di tutti. Ai tradizionalisti non piace, cioè a quelli che vagheggiano una vecchia Monfalcone probabilmente mai esistita e che comunque non hanno fatto in tempo a vedere. Monfalcone è un esperimento continuo perlomeno dalla fondazione del cantiere, una realtà che non si è mai as-sestata e che oggi è lontanissima da una qualsiasi sorta di assestamento. Diceva il vecchio Baudelaire che una città cambia più rapidamente del cuore di un uomo e Monfalcone cambia da un giorno all’altro. In giro non si vedono mai le stesse facce, e se non altro non ci si annoia. L’amministrazione comunale poi ci mette del suo modifi cando in continuazione la viabilità e que-sto contribuisce a disorientare il cittadino, ma anche il non cittadino, se si può parlare di non cittadini. Il nocciolo della questione è esattamente questo, le frotte di ragazze bengalesi dai vestiti sgargianti che capita d’incontrare per le strade alla chiusura delle scuole sono esempi di non cittadine? Sono non monfalconesi, o diversamente monfalco-nesi? E’ possibile che una ragazza nata a Monfalcone, o comunque cresciuta a Monfalcone, ma i cui antenati coltivavano il riso nel delta del Gange-Brahmaputra, poi di fatto non sia una monfalconese tan-to quanto un negoziante del centro, uno degli ultimi rimasti, i sopravvissuti alla metastatizzazione dei centri commerciali? Respira l’aria che respira il negoziante, e dicono non sia particolarmente salubre, cammina per le stesse strade, frequenta la stessa scuola frequentata dai nipotini del negoziante, anche se poi in classe la ragazza bengalese e il nipotino del nego-ziante non si rivolgono la parola e forse non si guardano neppure in faccia. Esiste un muro fra i due, fatto anche solo di timi-dezza, il grave è che questo muro se non lo si abbatte neppure in classe, ci sono po-che speranze che si riesca a farlo altrove.

Il muro di MonfalconeI monfalconesi, membri di una nuova comunità [di Maurizio Platania]

CITTÀCittà

Per la strada siamo tutti anonimi, tutti stranieri, quelli che vengono da fuori, per-ché Monfalcone somiglia poco a Napoli o a Mostar o a un villaggio qualsiasi del Bangladesh, quelli che l’incredibile vola-tilità demografi ca cittadina fa sembrare autoctoni, perché non riconoscono più la Monfalcone di ieri, letteralmente di ieri, e non riescono a farsene una ragione. Monfalcone è diventata una città di stra-nieri, anzi una città straniera, straniera a se stessa, straniera ai suoi abitanti e

nessuna città può permettersi a lungo un lusso del genere. Esiste per ciascuno di noi la vitale necessità di riconoscersi negli altri e nella città in cui si vive. Ai gloriosi tempi dell’indipendenza indiana Ghandi constatò che l’India era un paese irriducibilmente multiculturale e che ogni tentativo di omogeneizzazione sarebbe miseramente fallito. Era necessario che ciascuno restasse se stesso, l’indù, il mu-sulmano, il cristiano, il sikh, ma che nello stesso tempo conoscesse l’altro. Era ne-cessaria valorizzare le affi nità, piuttosto che le differenze, nella convinzione che al fondo di tutte le religioni, e di tutte le cul-ture, vi fossero delle fondamenta comuni.Ghandi in sostanza immaginava il futuro e lottava per costruire il futuro che immagi-nava. Ci si chiede molto di meno, cioè di considerare la comunità dei monfalcone-si, a prescindere dall’origine, membri di una nuova comunità, le cui regole di con-

vivenza sono in sostanza già state scritte dalla nostra costituzione. E’ un discorso di diritti e di doveri, molto più semplice in Italia che in India al tempo di Ghandi o anche adesso dove ad esempio in ambito induista non ci si è rassegnati alla parità giuridica dei dalit o intoccabili. Come tutti i discorsi esige le sue solide basi eco-nomico-giuridiche. E’ noto, ma mai ab-bastanza, il meccanismo che ha condotto genti di tutte le razze a convivere in una cittadina dell’Alto Adriatico. Il processo di esternalizzazione delle lavorazioni in cantiere, già avviato da decenni, ha subi-to un’accelerazione negli ultimi anni. E’ opinione non peregrina che l’obiettivo

fi nale del management Fincantieri sia una pressoché totale esternalizzazio-

ne dietro il pretesto della crisi, sotto il quale si nasconde la volontà di ottimizzare i profi tti. E’ un feno-meno globale, ne abbiamo nume-rosi esempi in Italia, ad esempio nel settore farmaceutico.Se queste sono le basi della convi-

venza, cioè lo sfruttamento di una manodopera spesso straniera, non

qualifi cata né tantomeno sindacalizzata, non c’è che dire, sono estremamente fra-gili e comunque dolorose. Dietro quella ragazzina bengalese che esce di scuola con lo zainetto in spalla c’è un padre che fa turni di notte in condizioni giudicate schiavili e di cui nessun sindacato fi nora si è fatto carico. Un padre che sarà odiato dai colleghi italiani, proprio perché si pre-sta a lavori schiavili. Temono di essere costretti ad imitarlo di qui a non molto, e forse già lo imitano, pur di portare soldi a casa.Non c’è da farsi troppe illusioni su solu-zioni indolori. La ricerca del profi tto e le necessità della convivenza, per non dire della ridefi nizione del concetto di citta-dinanza, seguono percorsi inconciliabili. Presto o tardi si dovrà intervenire sui pro-cessi di produzione, come già si dovrebbe fare anche solo attenendosi al diritto del lavoro.Intanto la ragazza è tornata a casa. Alla mamma racconta che a scuola è andato tutto bene. E’ un tipo intelligente, ha vi-sto quel muro in classe, ma non se ne è lasciata spaventare. ■

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Non era più mia intenzione tornare a scrivere alcunchè inerente al pro-blema amianto, dato che si è aperta

una grossa ferita ogni volta che l’ho fat-to.

Circa un anno fa, ho contribuito con la mia testimonianza nella stesura di un libro che uscirà a breve, sovvenziona-to dalle tre associazioni (SPYRAGLIO, AEA e LILT) ed anche in quella circo-stanza ho sofferto non poco nel leggere altre testimonianze di lavoratori che han-no prestato la loro opera lavorativa in Fincantieri/MO e che, poco tempo più in la, sono deceduti da mesotelioma (tumore della pleura).

Quello che mi ha fatto cambiare idea è stata una telefonata ricevuta recentemente da un mio ex collega di lavoro dove mi in-formava che l’avevano appena operato e che gli diagnosticavano un mesotelioma.

Si sta assistendo ad un’indifferenza generale su questa tragedia immane che si perpetua ormai da troppi anni. Mentre migliaia di lavoratori che hanno dato una vita di lavoro per mantenere le proprie fa-miglie e hanno contribuito al boom eco-nomico del nostro paese muoiono come cani rabbiosi soffocati dall’amianto.

Milioni di cittadini si sono scandaliz-

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Ancora a proposito di amianto [di Giacomo Ioan]

Lasciarono le loro case con i pochi averi che erano riu-sciti a recuperare chiusi in

grandi fagotti improvvisati con le lenzuola. Le chiavi di casa in ta-sca. Alcuni credevano di poter un giorno tornare. Altri ci speravano soltanto. In pochi immaginavano che quello era in realtà l’inizio di un esilio.

Scapparono per sottrarsi alle violenze che imperversavano sem-pre più intense sul territorio, ma i più furono costretti a partire dopo aver assistito alla distruzione del proprio villaggio e in molti casi all’uccisione dei propri cari. Così cominciò l’esodo che li avrebbe visti segregati in campi profughi. Dimenticati.

La guerra, che sul fi nire degli anni ‘40 del ‘900 per quasi tutti poteva dirsi conclusa, per altri, per loro, cominciava appena. L’area geografi ca che fece da palcosceni-co a questi fatti era stata da sempre terra di conquista per gli eserciti imperiali più importanti del conti-nente europeo ed asiatico. Regione piccola, racchiusa tra il mare e le colline, luogo di incontro (e a volte scontro) di culture e genti diverse. Da tutti voluta e rivendicata.

I profughi si ritrovarono così da un giorno all’altro senza una casa, senza una patria, vittime di una vera e propria pulizia etnica, che non risparmiò nessuno.

Ancora oggi conservano gelo-samente le loro chiavi, simbolo della loro catastrofe, nell’attesa di fare ritorno nella loro terra. In Pa-lestina. ❖

ELZEVIRO: il giorno del ricordo

[di Giacomo Cuscunà]

AMIANTOAmianto

zati ultimamente guardando un fi lmato in onda nei telegiornali, dove la camorra eseguiva un’esecuzione in pieno giorno in un bar di Napoli nell’indifferenza di tutti i presenti come se quanto accadeva fosse una normalità, ma sono in pochi però a scandalizzarsi quando un killer silenzioso come l’amianto ammazza mi-gliaia di persone e dove non si intravede ancora una fi ne.

Circa un anno fa, intervenne il capo dello stato presso le procure di Trieste e Gorizia sollecitando il riavvio dei proces-si “inceppati” da troppo tempo. Ma come sempre nulla cambia, si continua a rin-viare le sentenze da un’udienza all’altra.

Non parliamo delle forze politiche che su questo tema hanno legiferato circa un anno fa la prescrizione dopo dieci anni anche per i casi di morte d’amianto.

Il D. di legge che dorme già da diver-si anni in Parlamento e che prevede un risarcimento per le vittime dell’amianto continuerà a sonnecchiare visto che il Governo ha ben altre cose a cui pensare in questo momento.

Spero di sbagliarmi, ma ho l’impres-sione che anche l’opinione pubblica si stia assuefacendo a questo stillicidio di morti, senza chiedersi se qualcuno sia responsabile di questo disastro e magari si renda responsabile nel risarcire i danni procurati a tante famiglie. Forse si pensa che accompagnare il feretro in cimitero sia una specie di rassegnazione di fronte ad un destino che ormai non si può più cambiare, oggi a lui e domani a me.

Io personalmente invece non mi ras-segno poichè dentro di me provo una gran rabbia. Ogni volta che scopro un mio ex collega di lavoro che ha contrat-to il mesotelioma è come se avessi una bomba nello stomaco che stà per esplode-re. A questo punto ho ragione di credere che si giochi tutto sul tempo, lasciando il tutto inalterato, in uno stallo infernale, tanto penserà sempre il tempo a cancella-re i morti, i ricordi e gli affetti stroncati ai propri cari.

Per concludere, penso che sia legitti-mo chiedersi: ma quanto sangue ancora bisogna versare prima che si faccia giu-stizia sulle morti dall’esposizione al-l’amianto? ■

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Le Mie RiformeSeconda riforma: il voto sottrattivo [Il dottor Divago]

Ed eccoci alla seconda cruciale rifor-ma: la legge elettorale. Sì, perché una volta ottenuta la sua brava pa-

tente per votare (si ricorderà che nello scorso numero si auspicava l’introdu-zione di una patente -a punti- abilitante all’esercizio del diritto di voto), l’elet-tore di sinistra come quello di destra si troverà di fronte al solito attanagliante dilemma: “e ora che me ne faccio di sta patente dato che il mio bel partito stori-co ormai si è modernamente trasferito su posizioni tipiche della controparte e che da anni sono tentato di starmene a casa (o andare al mare) anziché recarmi alle urne? E perché mai io (dice l’elettore di destra) che sono per l’Ordine, la Legge e il Tricolore devo fare a baci in bocca con chi l’Italia me la vuole fare a tranci e con la bandiera ci si pulisce il lascia-mo stare, o con chi l’ordine e la legge se li cuce e scuce addosso ad personam per farsi i cavoli suoi, così tutti i peg-giori delinquenti se ne escono di galera o non ci vanno proprio? E perché mai io, allora (dice l’elettore di sinistra), che sono per i valori della Resistenza e del-la Costituzione, per la Pace nel Mondo e per la Distribuzione delle Risorse alla Robin Hood, devo ostinarmi a sostenere chi su quei valori tratta ogni giorno al ri-basso, sulla pace chiude un occhio bom-bardando la Serbia appena se ne presenta l’occasione e a Robin Hood preferisce la Robin Tax?”

Ma, dico io, è il sistema bipolare baby! Si sa! In tutto il mondo moderno è così! La gente è chiamata a scegliere tra il grigio chiaro e il grigio scuro e fini-sce che se ne sta a casa. In Amerrega, nel Regno Unito e negli altri Paesi Anglosas-soni Fari di Civiltà è così da sempre! Da sempre laggiù il primo partito è quello degli astensionisti. Gente con idee po-litiche disparate -ma precisissime- che, semplicemente non si sente rappresentata dai due partiti unici dominanti.

E che nessuno si permetta di chiama-re gli astenuti qualunquisti. I qualunqui-sti, semmai, nei suddetti moderni sistemi bipolari sono quelli che votano. Infatti, qualunque schieramento vinca, il sistema procede sempre sui medesimi binari.

Guardate che il problema è assolu-tamente molto serio. I governi vengono eletti dalla maggioranza (brogli a parte) dei votanti. Ma i votanti rappresentano sempre più una netta minoranza della po-polazione. Anche in Italia l’astensionismo è in crescita vertiginosa (pare sia già il se-condo o il terzo “partito”) e non ha ancora

raggiunto quote maggioritarie solo perché il belpaese è una new entry nel club dei bipolaristi. Ora, poi, che la lungimiranza democratica dei nostrani maggiori stra-teghi della sinistra e della destra storica ha realizzato leggi elettorali con soglie di sbarramento responsabili dell’epurazione parlamentare delle loro fasce più radicali (benché ormai, anche loro edulcorate da-gli anni e dalla Storia), l’astensionismo elettorale schizzerà alle stelle.

Però sul bipolarismo indietro non si torna, baby. Vi è piaciuto votare “sì” al referendum sul sistema maggioritario? Ecco, adesso tenetevelo, così imparate a votare senza patente (io ho votato per

il proporzionale, ma, come al solito, ho perso). Però adesso occorre recuperare al voto la sterminata schiera di astensio-nisti, la cui massiccia mancanza di par-tecipazione al gioco elettorale, induce a dubitare della stessa effettività del fonda-mento democratico dei governi che sorti-scono dalle urne.

E’ necessario ed urgente introdurre il voto contro, altrimenti detto voto sot-trattivo.

Funziona così: all’elettore amareggia-to e disorientato dalle suddette modernità dei partiti in cui prima si riconosceva e che da tempo non si reca più alle urne e, se ancora ci va, giura ogni volta che sarà l’ultima, bisogna dare un nuovo stimolo, una chance di esprimere l’unica certezza che ancora possiede anche quando non sa più “per” chi votare. Bisogna dargli l’op-zione di poter finalmente esprimere un voto “contro” qualcuno.

Riflettete: non è forse vero che sem-pre, ma proprio sempre, dal bel mezzo della fangosa palude di dubbi elettorali, in ciascuno di noi sorge e si staglia Ful-gida, Radiosa e Bella qual Venere botti-celliana, la certezza su chi sia, fra tutti, proprio il peggiore in assoluto? Quello da cui rifuggire ululando? Quello con-tro cui faremmo scudo col nostro corpo ai nostri bambini? Quello che “vinca chiunque, basta che lui no!!!”? Nel se-greto dell’urna, ognuno si sceglie il can-didato (o lo schieramento) più odiato. E gli vota contro!

Ovvio che bisogna scegliere: chi vota contro qualcuno (candidato o partito che sia) non può contemporaneamente vota-re anche a favore di qualcun altro, sennò la scheda, appositamente predisposta per l’alternativa sottrattiva, sarà nulla. Del resto questa riforma viene incontro solo a chi non gli è rimasto più nessuno (o quasi) per cui votare a favore. E siamo in tanti.

Alla fine si fa la conta e i voti “con-tro” si sottraggono dai voti a favore. Così si vede chi ha vinto veramente.

Grazie dell’attenzione e arrivederci alla prossima riforma (che si intitolerà: “Dalla Democrazia alla Monanarchia” sì monanarchia, non è un refuso). ■

IDEEIdee

èNECESSARIO ED URGENTE

INTRODURRE

Il voto contro

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E’ arrivato Luise lo scompigliatoreGli scenari apertisi nel centrodestra monfalconese dopo la scelta di Mi-

chele Luise, ex assessore della giunta Piz-zolitto, di candidarsi a sindaco contro il centrosinistra sono davvero affascinanti. Fino a qualche mese fa si credeva che la corsa alla candidatura di Giuseppe Nicoli - Pdl, ex Forza Italia - non avrebbe co-nosciuto ostacoli: la sua notevole perfor-mance alle ultime elezioni regionali, co-struita in anni di lavoro tenace e caparbio (e pure furbetto: vedi, al di là dell’esito, il referendum sulla raccolta differenziata dei rifiuti a Monfalcone, che Nicoli riuscì - con una certa abilità, va detto - a far pas-sare come una cosa ‘di tutti i monfalcone-si’ e non solo come una battaglia di Forza Italia), appariva decisamente un buon via-tico, per le comunali del 2011. E invece, Luise... Oh, la sua – com’è che si dice? - discesa in campo non ha stupito quasi nessuno: è dalla scorsa primavera che si sapeva (che molti sapevano...) che la stra-da dell’assessore allo sport, al personale

e alla Sicurezza (maiuscolo, ‘Sicurezza’, non vi sarà sfuggito) si sarebbe prima o poi separata da quella del centrosinistra. C’era stato persino qualcuno che aveva suggerito al sindaco in carica di farlo fuo-ri lui, dalla sua squadra, anticipandone le mosse: non consentendogli cioè di andar-sene facendo la vittima (con un copione peraltro scontatissimo: “i comunisti non mi fanno lavorare, ce l’hanno con me perché sono un moderato!”, capirai che novità). Ma il primo cittadino aveva fatto orecchie da mercante. Gianfranco Piz-zolitto, si sa, è uno di quegli uomini che non devono chiedere mai e un uomo che non deve chiedere mai 1) sa sempre esat-tamente qual è la propria linea del Piave e 2) non può mica accettare consigli da chicchessia sulla gestione politica dei propri collaboratori: eh, no! Ciò potreb-be suonare, infatti, come una deminutio, anzi come un vero e proprio commissa-riamento... E insomma, quando Luise ha mollato gli ormeggi, Pizzolitto gli ha pure fatto gli auguri e grazie, grazie, e ancora

grazie per la tua preziosa collaborazio-ne, amico mio: è stato bello! Il reprobo ha ovviamente disprezzato l’affettuosa pacca sulla spalla (non è mica scemo...) e ha quindi provveduto a strapazzare per benino il signor sindaco sul Piccolo: lui se ne stava andando arrabbiatissimo e sbat-tendo la porta, altro che auguri, altro che amicizia! Pizzolitto ci dev’essere rimasto malissimo se, a quel punto, ha tirato fuori un pistolotto niente affatto lusinghiero per il suo ex collaboratore (un collaboratore, lo ricordiamo volentieri, a cui era stata affidata una delega politicamente assai delicata come la Sicurezza): l’uomo che se ne stava andando, secondo il sindaco di Monfalcone, come assessore non era stato precisamente un fulmine di guerra, anzi... Ma mi accorgo che sto divagando. Luise se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato, dicevo. E dov’è che è andato a “riposi-zionarsi” - si dice in politichese – il gran-de amico di Pizzolitto? Ma tra i piedi del buon Nicoli, povero Nicoli. Che a questo punto immaginiamo incazzato come un

Il centrodestra monfalconesebolle e ribolle in vista del 2011 [di Stefano Piredda]

POLITICA Politica

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scenderà a imporre ai contendenti una pax politica che in questo momento non appare alle viste: tra Nicoli e Luise ades-so come adesso siamo ai materassi, si sarà capito... Volano stracci, insomma. E mica pochi. Ma la caduta di Monfalcone nelle mani del centrodestra è cosa trop-po importante, si sa, per lasciar fare solo ai ragazzi di qua e quindi, chissà? Ma-gari scoppierà presto l’amore, tra i due galli. Imposto dall’alto fi n che si vuole, ma comunque amore. Per il momento la mia solidarietà va tutta a Giuseppe Nico-li. Soprattutto in forza del famoso refe-rendum sulla raccolta differenziata: uno straordinario capolavoro di demagogia politicante, indimenticabile davvero. Ni-coli ci ha costruito un bel po’ di cose, su quella simpaticissima minchiata. E poi non ti arriva Michele Luise? Tieni duro, Giuseppe! Tieni duro. ■

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POLITICAPolitica

puma. Ma come? Anni di opposizione in consiglio comunale (gli ultimi sopportan-do pure Giorgio Pacor, un’esperienza che personalmente non augurerei neppure al mio peggior nemico), anni di sabati mat-tina passati a salutare le signore eleganti di passaggio davanti al bar De Pellegrin sfoggiando sorrisi assassini (bel mulo, il Nicoli), anni di raccolte di fi rme in piazza sulle peggiori corbellerie (perché il cen-trodestra cittadino fa mostra di odiare la piazza di Pizzolitto, ma ha imparato da tempo a tenerla, quella piazza: il centro-sinistra, invece, sembra non esserne più capace), anni di pubbliche relazioni, di strette di mano, di foto spaccaobiettivo sul compiacentissimo quotidiano loca-le ed ecco che ti arriva ‘sto Luise - che fi no a ieri se ne stava là, tutto pappa e ciccia con gli odiati compagni “buoni a nulla e capaci di tutto”, come direbbe il

papi della Patria – ‘sto impunito di Luise a proporsi urbi et orbi come federatore del centrodestra, uomo del destino del centro-destra, salvatore del centrodestra. Quello stesso Luise che – visti gli innumerevoli, spericolatissimi salti da destra e sinistra e da sinistra a destra della sua ormai lunga carriera politica – alcune carognacce, in privato, chiamano “Tarzan” (niente di ori-ginalissimo, in realtà: trattasi di citazione. “Tarzan” essendo il modo in cui il leggen-dario Franco Evangelisti soprannominò Enzo Scotti, per la di lui spiccata attitudine a librarsi sulla terribile giungla dello Scu-do Crociato usando le correnti come liane). Luise, che fi no a ieri era parte del problema e oggi pretenderebbe di essere non parte della soluzione ma la soluzione tout court, nientemeno! C’è di che rosicare, ammet-tiamolo. Come andrà a fi nire? Mah... Al-cuni dicono con un Deus ex machina che

Con la prossima riforma Gelmini si perderanno 25.000 posti di lavoro nella scuola - molti nella nostra re-

gione - e verranno tolte ore di insegnamen-to. Negli Istituti Tecnici salta nel biennio l’insegnamento della geografi a e un’ora di italiano: nell’epoca della globalizzazione ci sarà chi non sa individuare sulla car-ta geografi ca il Brasile e leggerà ancora stentatamente. E’ complicato riuscire a capire quale idea di istruzione abbia que-sto governo. Leggendo i programmi mini-steriali la defi nizione delle competenze è talmente generica da far sorgere il sospet-to che la scuola pubblica diventi al mas-simo un’istituzione psico assistenziale. Permane una frattura lacerante tra coloro che frequentano i licei, e che qualche co-noscenza in più ce l’hanno, anche grazie all’intervento delle famiglie, e coloro che frequentano altre scuole, spesso privi di una solida preparazione complessiva.

Forze politiche serie dovrebbero capi-re che la ripresa economica del paese è impossibile se non si qualifi ca cultural-mente la scuola, ridiscutendo i contenuti e gli insegnamenti alla luce di ragionamenti e di previsioni per il futuro.

Invece di approfondimenti serrati su ciò che è fondamentale insegnare nei programmi di storia dei licei per il quinto

anno, Gelmini afferma sul sito del ministe-ro che, nello studio del Novecento, “non possono essere tralasciati i seguenti nodi tematici: il nazismo, la Shoah e gli altri genocidi del XX secolo, la seconda guer-ra mondiale, la guerra fredda...” Quello che stupisce non è solo la rimozione della Resistenza, accorpata secondo il ministro nella seconda guerra mondiale, ma l’equi-parazione della Shoah con “altri genocidi del XX secolo”. Quali sono? Gelmini dice di lasciare ampia libertà alle scuole, così ci potrà essere chi parla delle foibe e chi dei curdi, come se l’individuazione di temi cruciali della storia debba essere lasciata alle inclinazioni del fai da te didattico di ogni insegnante. Attaccata politicamente sulla questione della Resistenza, Gelmini non ha diffi coltà a reinserire l’argomento nei “programmi” pochi giorni dopo. Ri-badisce comunque che il suo progetto è che “l’alunno conosca i momenti fonda-mentali della Storia italiana, dalle forme di insediamento e di potere medioevali alla formazione dello stato unitario, alla formazione della Repubblica”. Chiara e sintetica, Gelmini delinea così il suo eva-nescente asse culturale. Qui il problema non è tanto il revisionismo delle forze di governo, ma il nulla della loro proposta di-dattica. Siamo sicuri che in questo disinte-

resse ed abbandono culturale, i giovani si sentano bene o non è forse questa incuria che rafforza la convinzione di non contare proprio nulla in questo paese? Concludo con un’osservazione rivolta a chi si occu-pa con successo dell’identità dei territori. Mi piacerebbe conoscere quale è l’idea di identità che bisogna difendere. Si tratta solo di quella religiosa (ormai in declino) o è anche quella che deriva dalla storia di un territorio come il nostro? Se per identi-tà intendiamo il peculiare contesto storico ed umano che ci è stato lasciato in eredità, allora è necessario intraprendere una nuo-va e grande fase della ricerca storica nel monfalconese su almeno due questioni tipiche dell’identità locale:la capacità di assorbimento sociale degli immigrati me-ridionali richiamati dal Cantiere e degli esuli dopo la seconda guerra mondiale e la storia delle grandi famiglie antifasciste come quella dei Fontanot,convinti inter-nazionalisti capaci di combattere contro il nazismo e di morire in una patria di-versa da quella d’origine per diventare addirittura eroi della resistenza france-se. Senz’altro qualche segno di questo passato è presente ancor oggi e fa parte dell’identità storica e concreta della città, non di quella ideologica che molti voglio-no disegnare. ■

La scuola in degradoÈ complicato riuscire a capire quale idea di istruzione abbia questo governo

[di Anna Di Gianantonio]

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Si parla sempre dell’Antonio In-groia magistrato antimafia. Io ho ventidue anni e la domanda

mi sorge spontanea: com’era l’Antonio Ingroia ragazzo? Che aspirazioni ave-va? Era questo quello che voleva fare?No! Diciamo la verità. Nel senso che non avevo le idee chiare su quello che volevo fare, anche perchè, i magistrati venivano percepiti un po’ più distanti. E forse lo erano. Figure come Falcone e Borsellino sembravano modelli quasi inarrivabili. Non mi passava neppure per la testa di diventare un magistrato antimafia. Però il tema della lotta alla criminalità organiz-zata lo avevo cominciato ad affrontare e aveva iniziato ad appassionarmi da stu-dente di giurisprudenza, appena fu fatta la legge di introduzione del 416 bis e nel 1982 decisi di fare la mia tesi proprio sul quell’argomento.

Da ragazzo e da studente, già alle scuole medie superiori mi ero documen-tato e impegnato nel movimento studen-tesco sulla questione della mafia, poi questa cosa l’ho portata avanti all’univer-sità e poi, finita l’università, ero un po’ incerto se intraprendere la carriera giudi-ziaria o la carriera accademica. Sostan-zialmente pensavo di fare il ricercatore per approfondire il diritto penale, materia che mi piaceva molto.

Alla fine feci il concorso per la ma-gistratura, ma la vera svolta è stata la conoscenza con Paolo Borsellino. Fatto il concorso e avendolo vinto, avevo la possibilità di scegliere le sedi. Tra que-ste c’era quella di sostituto procuratore a Marsala dove sapevo c’era Borsellino. La scelsi, nonostante non avessi necessa-riamente l’inclinazione a fare il pubblico ministero. Anzi: ero incerto se fare il PM o il giudice, ma proseguii proprio perchè sapevo lì c’era Borsellino.

Conoscere Borsellino è stata un’espe-rienza sia sul piano professionale, che su quello umano, subito contagiosa. Lui era molto bravo, capace di coinvolgere i gio-vani. L’ufficio di Marsala era una picco-la procura, dove prevalevano i giovani:

eravamo tutti più o meno ragazzini e lui il procuratore anziano che faceva un po’ da chioccia a tutti noi. Da quel momen-to ho iniziato ad interessarmi ad indagi-ni sempre più importanti, Borsellino mi coinvolse anche nella prima indagine per fatti di mafia e da lì il mio impegno è de-collato.

I suoi rapporti con due grandi figure come Borsellino e Falcone com’erano? Come si misurava un giovane magistra-to con due uomini di tale spessore?Per la verità ho conosciuto Falcone prima di Borsellino. Ho avuto a che fare con lui quando iniziai il periodo di tirocinio al-l’università ed era ancora giudice istrut-tore.

Erano due personalità completamente diverse: Falcone era pieno di carattere, ma un po’ introverso; Borsellino invece era molto estroverso. Falcone era di po-che parole; a Borsellino piaceva raccon-tare le sue esperienze.

Proprio all’inizio il rapporto con Gio-vanni Falcone non fu facilissimo: lui era riservato, io un po’ intimidito da questa grande personalità, quindi ero in un ango-lino della sua stanza, con Falcone, questo

mostro sacro... però fu molto utile da un punto di vista professionale: ho assistito ad interrogatori di pentiti, di mafiosi...

E il passaggio dalla teoria dell’univer-sità alla pratica?Il passaggio dalla teoria alla pratica: beh, in effetti un abisso. Purtroppo questo è un difetto della nostra formazione universi-taria, che è soprattutto concentrata sui libri e non prevede nessun contatto con la pratica. Anche il periodo iniziale di ti-rocinio ti consente di conoscere solo un po’ il mondo dei magistrati e il loro modo di lavorare, ma non è sufficiente e il sal-to è forte. La formazione è certamente fondamentale: ho avuto la fortuna di ave-re avuto un ottimo professore di diritto penale, il professor Fiandaca, e questo è stato fondamentale, ma purtroppo, spe-cialmente per fare il pubblico ministero, c’è poco tempo per gli approfondimenti giuridici e bisogna avere una buona ossa-tura e preparazione da studente.

Con Borsellino poi è iniziata anche una grande esperienza di conoscenza indiretta. Come dicevo, era una persona a cui piaceva raccontare e molte storie del pull le ho apprese dalla viva voce di Borsellino che amava raccontare questi episodi.

Per come lo vive lei fare il magistrato è un lavoro come un altro oppure è una missione in cui bisogna essere coinvolti?Dipende. Di per sè può essere anche un lavoro come un altro. Se lo fai, senza nul-la togliere ai colleghi che fanno un lavo-ro importante, ma se lo fai, che ne so, ad Ancona o ad Imperia, è sempre un lavoro di pressione e responsabilità, perchè hai a che fare con la libertà dei cittadini, con decisioni importanti sulla vita delle per-sone; però da noi e nelle terre di mafia in generale, è qualcosa in più. Ci sono una serie di rischi in più, di responsabilità in più, di coinvolgimento anche sul piano emotivo ed emozionale in più. Lo puoi fare solo se hai una grande convinzione in quello che fai e la convinzione che

Vino rosso, caminetto acceso: quattro chiacchiere con Antonio IngroiaA Monfalcone il magistrato siciliano in prima linea contro la mafia.

[a cura di Giacomo Cuscunà]

INTERVISTA Intervista

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quello che fai possa servire a migliorare la società. In fondo molti di noi sono un po’ idealisti.

Rifarebbe tutto senza dubbi?Assolutamente sì.

Una domanda più legata al nostro ter-ritorio: qual’è la situazione del crimi-ne organizzato nel nord-est e nel Friuli Venezia-Giulia, anche in relazione alla presenza di grandi industrie come Fin-cantieri che fanno una largo utilizzo di ditte appaltatrici provenienti da molte zone d’Italia?Io naturalmente non so e non conosco nello specifico la situazione da queste parti. L’unica cosa che so è che la mafia negli ultimi anni, essendo in una fase di finanziarizzazione, cerca soprattutto zone dove poter investire il proprio denaro sporco: aree particolarmente ricche dove ci sono insediamenti industriali, produt-tivi. Quindi non mi sorprenderebbe una presenza e un condizionamento. Per altro il settore della cantieristica, ad esempio in Sicilia, è profondamente inquinato ed infiltrato dalla mafia e siccome ci sono interazioni tra le varie realtà economiche dello stesso tipo non lo escludo. Non ho comunque dati.Il modus operandi del crimine orga-

nizzato al nord e al sud è differente?No. E’ più o meno lo stesso. Sicuramente al sud prevale l’aspetto militare-territo-riale, al nord quello finanziario e di in-vestimento.

All’estero Italia e mafia sono concetti strettamente collegati e l’aggettivo ita-liano è quasi inseparabile dall’agget-tivo mafioso, quasi come Italia-pizza-mandolino. Alla base secondo lei vi è una effettiva “mentalità mafiosa” tutta nostra?Purtroppo qui è così. Però paradossal-mente succede una cosa strana: da una

parte questa mentalità si sta annacquan-do nelle sue regioni tradizionali, quindi al sud, dove vi è una maggiore sensibi-lità, ma ancora non ci è liberati del fe-nomeno mafioso; ma questa mentalità mafiosa annacquata si è diffusa nel resto d’Italia. Cioè, prima al nord si era mag-giormente immuni da un certo modo di pensare, mentre oggi si è più contagiati. Nel contempo al sud prima si era più con-dizionati, ora invece la cosa si è diluita. Insomma, l’Italia è diventata un po’ più omogenea, ma non necessariamente in senso positivo.

Per quanto riguarda i rapporti mafia-immigrazione?Su questo noi, per la verità, non abbiamo registrato una effettiva relazione, nel sen-so che il fenomeno dell’immigrazione è gestito da molte organizzazioni crimina-li, ma ad oggi, almeno per la Sicilia, non è registrata una relazione diretta tra esse e l’organizzazione mafiosa, cioè che ci sia la mafia dietro questo fenomeno.

Tra cani e gatti cosa sceglierebbe?Che domanda strana! Premesso che non ho grande dimestichezza con gli anima-li, infatti non tengo animali domestici in casa, i cani mi sono simpatici, però in ge-nere preferisco i gatti. ■

INTERVISTAIntervista

l’UNICA COSA CHE SO È CHE LA MAFIA

NEGLI ULTIMI ANNI

Ccerca soprattutto zone dove poter investire il proprio denaro sporco

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Monfalcone e il suo porto. Non solo la città delle gran-di navi da crociera ma anche

una città portuale, ricca di lavoro e di commercio, appesantita dal traffi-co ma ottimamente servita da colle-gamenti autostradali e ferroviari. Il porto più a nord del Mediterraneo, in posizione ottimale per il commercio e il transito delle merci verso l’Europa. Tutto questo ha significato ricchezza e lavoro, occupazione e crescita del mandamento e non solo. Oggi, final-mente, ci si accorge delle potenzia-lità del porto e imprenditori privati presentano un progetto integrato, che vede Monfalcone valorizzata e ben in-serita. Nulla da obiettare sull’Autori-tà unica e la direzione amministrativa a Trieste a patto, però, che si ricono-sca il ruolo del nostro scalo attraverso una reale progettualità, che concreta-mente valorizzi il porto di Monfalco-ne. Proprio in merito al nostro ruolo e all’economia ad esso collegata, mi preme sottolineare la preoccupazione

che il lavoro venga “perso” in attesa dell’esecuzione del progetto Unicre-dit. Monfalcone è un porto industriale ben conosciuto e apprezzato da anni, i 4.000.000 di tonnellate di merci scari-cate e imbarcate che fine faranno? Si tratta di lavoro, occupazione e milioni di euro che transitano in città, nulla in confronto alla manipolazione con-tainerizzata. Il container “unitizza” le merci, cioè i materiali “spariscono”; nei progetti non si parla più di tonnel-late ma di TEU (unità di misura in-dicante il singolo container), quindi il lavoro e la produttività viene indicata e valorizzata in termine di TEU/ora. Sappiamo che il progresso non si deve fermare, ma sicuramente nei processi di crescita e cambiamento, il lavoro e le persone che lo fanno devono ade-guare non solo i metodi ma anche la professionalità. In merito ai palesa-ti 1.500 nuovi posto di lavoro, quali sono le linee guida di professionaliz-zazione proposte? Quello che si nota ultimamente è una perdita di traffici e

posti di lavoro; certamente la crisi è un problema reale ma potrebbe anche essere “voluta” o funzionale al pro-getto. Non a caso i porti vicini si sono resi disponibili auspicando il trasfe-rimento dei traffici monfalconesi da loro. La preoccupazione è sostanzial-mente che, dopo la presentazione del piano, dopo le affermazioni di princi-pio, dopo le discussioni e le condivi-sioni, il progetto non parta nonostante il porto di Monfalcone sia pronto a concretizzarlo. Per il momento Trieste ha avviato unicamente una raccolta di investimenti, non per la portualità, ma per la città. Come ben indicato da Bo-niciolli, attuale presidente del porto di Trieste, potrebbe accadere che la città non usi il porto per crescere ma per mantenersi soffocandolo, come suc-cede da 50 anni. Monfalcone, il porto “del fare” e del lavoro di cui abbiamo vissuto e prosperato, può avere il suo ruolo solo se le politiche e le finalità progettuali sono realmente indirizzate allo sviluppo portuale. ❒

PORTOPorto

Il porto delle nebbieBrevi considerazioni sul futuro del nostro porto

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Una lingua è più importante di un dialetto? Sembrerebbe di sì per-ché molto spesso si sente dire:

“Noi non parliamo un dialetto. Noi par-liamo una lingua!” Non voglio fare ac-costamenti improbabili, ma mi è capitato di sentire questa affermazione soprattutto da Serbi e Friulani. Veramente! Niente di male, per carità. Tuttavia non mi pare af-fatto un azzardo scrivere che sia i Serbi di Bosnia che gli Autonomisti friulani han-no usato l’espediente della lingua per co-struire identità più o meno posticce su cui, successivamente, avanzare pretese che, in ultima analisi, sono sempre di carattere economico.Ora anche il dialetto bisiaco ha una sua bella legge di tutela. Sarà un bene? Non lo so. Sinceramente ho sempre saputo che la lingua a cui ricorro per pensare, con cui mi esprimo e grazie alla quale ho potuto dire le cose più importanti della mia vita, si chiama bisiaco. Però son venuti a frotte a rammentarmi che il bisiaco non è una lingua, che il bisiaco è un dialetto… A parte il fatto che il correttore automatico di windows sottolinea zigzagando “bisia-co” in rosso, mentre se scrivo friulano me la lascia così, bella nera su sfondo bianco, non riesco a capire se i segnalatori della distinzione ritengano che una lingua sia una cosa più importante di un dialetto. Io penso che tutti gli idiomi del mondo siano belli e che nessuno sia più impor-tante di un altro. Con buona pace degli autonomisti, dei poeti o sedicenti tali e dei politici sempre pronti ad usare ogni argo-mento che abbia una buona produttività di consenso. Infatti, lo scorso 10 febbraio, quando il triestino e il bisiaco sono diven-tati l’oggetto della tutela di una specifica legge, i consiglieri regionali più gongo-lanti sono stati: Federico Razzini della Lega Nord soddisfatto perché il bisiaco entrerà a scuola e nella toponomastica; Piero Colussi dei Cittadini raggiante per-ché “sono stati recepiti i principi previsti dalla Carta costituzionale e riconosciu-to nei dialetti un patrimonio di diversità di straordinario valore”; un altro Piero, questa volta Camber, di Forza Italia che esalta “la straordinaria valenza dei dialetti portatori culturali che attraversano la sto-ria. La loro tutela, assieme a quella delle parlate locali, significa garantire pari di-

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TERRITORIOTerritorio

gnità a una pluralità di forme espressive e al considerevole patrimonio culturale del-la regione”; e infine Roberto Antonaz che indulge sul filo della sua personalissima memoria e, contemporaneamente strizza l’occhio alle varie associazioni culturali bisiache con affermazioni “glocal” un po’ stucchevoli e brillanti per piaggeria, ec-cole qua: “le parlate locali rappresentano una testimonianza inestimabile dell’agire umano, delle relazioni, della cultura di una comunità, il cui impoverimento o addirit-tura la perdita sarebbero un danno per tutti e per di più irreversibile. Rispetto alla mia infanzia il bisiaco parlato oggi è molto più povero e asciutto. Espressioni e locuzio-ni di grande immediatezza sono sparite a causa di un’interpretazione poco intelli-gente del processo di modernizzazione, che prosciuga tutti i linguaggi. Compresi i nostro dialetti”. La legge è passata all’una-nimità, quindi devono averla votata anche quelli del Pd, benché non siano reperibili loro dichiarazioni in merito. Tuttavia pen-so sia abbastanza nota la sufficienza con cui diversi esponenti del Pd liquidano la questione “bisiaco”. Applicando la teoria della cultura leggera ai residenti, più o meno autoctoni del Ter-ritorio, si scopre che tutti possono essere bisiachi perché, per esserlo, è sufficiente pensare e parlare in bisiaco ed essere nati lontano o da venuti da lontano esser stati generati non conta nulla. È stato così per secoli, (perché a dar retta ai cultori del bi-siaco, qui i bisiachi ci sarebbero da secoli), ed ora tutto ciò sembra non andar più bene. Ora si vogliono operare delle distinzioni

Penso in bisiaco, parlo in bisiaco, sono bisiaco?

caricando di significati politici ed identitari un idioma che corrisponde ad un dato terri-torio; così si rischia di interrompere il mec-canismo che qui esisteva in natura, grazie al quale qualsiasi nuovo venuto poteva maturare in un quarto d’ora metaforico un senso d’appartenenza alla comunità soli-do e sincero. E guarda caso, rischia d’in-terrompersi proprio quando è arrivata una comunità da più lontano di qualsiasi altra venuta in precedenza, importata dal duce o no che fosse. Infatti è proprio quando una comunità diventa consapevole dei più si-gnificativi effetti della globalizzazione che tende a rifugiarsi nel locale; è proprio da questo rapporto di causa-effetto che la pro-duzione poetica s’impenna, che si raschia con il machete il fondo del barile della sto-ria locale e che si comincia a farneticare su presunte diversità.A scanso di equivoci preciso che ci sono alcuni poeti locali che scrivono versi stu-pendi, citerò per tutti Colussi, Crico e la Trevisan, ma aggiungo che costoro sareb-bero bravi poeti a prescindere dal bisiaco a cui ricorrono. Ma più di tutti apprezzo il rocker Claudio Marongiu che, alle centinaia di giovani che vanno ad assistere i suoi concerti, ri-volge un messaggio molto semplice e di-retto: penso in bisiaco e canto in bisiaco, perciò sono un bisiaco. Notevole davvero. Sono questi gli argomenti che dovrebbero cercare di capire sia i politici ed i poeti che cercano nel bisiaco pretese identità, sia gli intellettuali più o meno sinistri che parla-no in bisiaco tutto il giorno e poi, di sera, lo disprezzano in italiano. ■

[di Tiziano Pizzamiglio]

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PUNTI DI VISTA Punti di vista

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[Gianni Spizzo Mar 2010]

Se non hai esperienze di ambulato-ri veterinari la cosa che può col-pirti per prima visitandone uno è

l’odore, sì, come entri, nell’aria avverti un vago ma ineludibile mix di disinfet-tante + umori di ghiandole a secrezio-ne esterna. Tracce della paura anima-le, pensi, e ti vengono in mente tavoli operatori con gli annessi e connessi alla Bacon, sì non riescono a cancel-lare completamente l’adrenalina in so-spensione. Pensi. Non a caso la cagno-na che hai con te alza immediatamente il naso e sbarra gli occhi, infi lando la coda tra le gambe, si irrigidisce, tu lì subito a consolarla naturalmente, per accorgerti, a quel punto, che gli altri clienti in quella sala d’aspetto grosso modo fanno lo stesso coi rispettivi cani e gatti. Un’affettività uomo/animale riempie l’ambiente, diresti, sì proprio così e, inesorabilmente, quel clima tenero/struggente si traduce presto in affabilità tra padroni. Qualcosa di de-cisamente inusuale di questi tempi tra gli umani l’affabilità.

Una sorta di nana, corvina e con la faccia di luna piena, tiene il suo gatto nero nella cesta di vimini, due occhio-ni gialli sbucano dall’ombra, lei guarda la sua creatura e ti sorride. E tu le sor-ridi. Un ragazzone tatuato e imponente le sta seduto accanto, gratta il mento del suo barboncino bianco che tiene sulla pancia, e ti sorride. Gli sorridi. Come non sorridergli. Infi ne ti sorride una coppia di anziani smilzi e occhia-luti con coppia di chihuahua, uno per ciascuno in braccio. Emanano buoni sentimenti da ogni poro i chihuahua e i padroni, gli sorridi, non puoi non sor-ridergli. E, fi nita la carrellata, ti siedi anche tu, la cagnona tra le gambe. Che resta nervosa comunque, non vuole accucciarsi, poverina!, e pertanto ti chiedono di lei, razza anni cucciolate carattere, e tu lì a rispondere – come si fa a non rispondere – e così si passa al vortice delle confi denze sui problemi dei bobi e dei mici: salute parassitosi

profi lassi vaccinazioni, sì, assoluta-mente inevitabile. Altri cinque minuti e ti snocciolano i dettagli di quelle loro paternità e maternità putative, tu com-plice a palesare il tuo di amore per gli animali e tutte le nozioni di zoologia di cui disponi. Apprezzati gli aneddoti. Ovviamente.

Il paragone che ti viene in mente a quel punto è con una scena della tua infanzia: tu con tua madre dal pedia-tra, tutte quelle donne intorno con i rispettivi pargoli sulle ginocchia, in parte frignanti, in ogni caso decisa-mente più fastidiosi di questi animali – come per altro i bambini nello stu-dio del pediatra dove hai portato tua fi glia tanti anni dopo… Pensi. Stesse dinamiche, apparentemente. Ma no, non proprio le stesse, a ben guardare c’è maggiore confi denza tra quelli che si incontrano con al guinzaglio il pro-prio animale domestico piuttosto che tra quelli che s’incontrano tenendo in braccio o in carrozzella i propri fi gli. Con gli animali domestici, oltre che i genitori, possiamo fare i bambini, tor-nare bambini, regredire quel tanto che basta per staccarci di dosso la spocchia e la paura, tutta la grigia serietà che ci incattivisce. Pensi. Possiamo, come dire, tornare una punta leggeri stando con i nostri animali, calarci le brache e metterci in mutande e ciabatte, fare i perdigiorno per qualche ora con i nostri animali. La ricreazione. Pensi. Nostri compagni di giochi gli animali domestici, dopotutto.

Comunque sia, sembrano tutti più buoni gli esseri umani con allegato il rispettivo bobi o micio, non è retorica, sì, magari sembrano anche un po’ ri-sibili, volendo, o proprio fulminati, in certi casi, ma in genere sembrano de-cisamente più buoni. Pensi. Da simili illuminazioni puoi essere colto nella sala d’aspetto di un ambulatorio veteri-nario, immerso in un tenero avvolgen-te calore di mammiferi, per scoprirti poi a farneticare l’utopia di un mondo

con le piazze e le strade – anche quel-le di un buco di provincia tipo Monfy – trasformate in stanze e corridoi di un immenso ideale ambulatorio veteri-nario consociato pieno di animali, con donne e uomini che, portandoli a spas-so, anche si guardano amabilmente quando si incrociano per quelle stanze e corridoi, magari accompagnando lo sguardo con un sorriso, senza peraltro la sensazione di praticare in questo modo un’estrazione di midollo spina-le al malcapitato che hanno di fronte. Magari – visto che portare a passeggio mirabili cani cavalli cammelli e lama orsi gazzelle e unicorni li mette pro-prio in estro – tutti a invitarsi spes-so e volentieri a prendersi un caffè o un drinkino, si capisce, per parlare e riparlare di tutto con vera curiosità e vero gusto, facile allegria addirittura. Relax…

Ma la scena si interrompe, è uscito dalla porta in fondo un uomo in cami-ce bianco, le mani, dentro guanti di lat-tice celeste, tengono fogli e confezioni di medicinali. Un attimo di silenzio e poi, gentilissimo, chiama dei nomi. Così uno dopo l’altro gli astanti si al-zano per ricevere le rispettive ricette e preparati. Ognuno sembra avere di nuovo fretta dopo la lunga pausa, così, con un rapido saluto, alla chetichella escono tutti. Anche tu te la sbrighi alla svelta, si sta un attimo per le vaccina-zioni e i relativi timbri sul passaporto canino. Insopportabile l’idea di essere respinti a una frontiera perché il cane non è in regola. Devi partire domani, hai combinato tutto appena in tempo.

Fuori dall’ambulatorio la cagnona si rilassa, cammina tutta piena di sé, perfettamente indifferente al cañon di condomini di via 25 Aprile in cui pas-siamo. Sei tu e lei, e il vuoto crescente del mondo per la strada. I pochi che girano non hanno nessuna importanza per te, certamente neanche tu per loro. Magari non è poi così grave, magari non abbiamo bisogno di nessuno. ❒

Mediazione animaleTerzo reportage da mondi dietro l’angolo

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In questi giorni sono state portate al-l’attenzione della cittadinanza mon-falconese le nuove proposte proget-

tuali per il miglioramento della viabilità cittadina: nuovi assi di scorrimento, nuovi sottopassi, nuove rotatorie, tra cui quella del porticciuolo Nazario Sauro ecc.... Un bell’ardire, se non fosse che di progetti d’opere costose, ambiziose e tecnicamen-te di difficile esecuzione ce ne sia abbon-dante documentazione negli archivi del comune!

Chi ha seguito la vita amministrati-va degli ultimi trent’anni, non potrà non ricordarsi i progetti di massima giacenti in Comune del professionista Sebastiano Cacciaguerra, incaricato negli anni ottanta dal Comune per la stesura del piano della viabilità cittadina, che dedicò non poco del suo sapere alla ricerca di soluzioni praticabili per migliorare lo scorrimento del traffico.

Progetti che non convinsero, vuoi per il loro impatto vuoi per il costo, nonostan-te all’epoca non ci fossero gli impedimen-ti infrastrutturali oggi presenti.

In poche parole tra il viale e la statale 14, non c’era il collettore primario della fognatura che da via Verdi va lungo via Boito per servire tutto il lato nordest della città, non c’era la linea 132 kV sotterranea dell’ENEL e non c’era il cedimento strut-turale del ponte di viale Oscar Cosulich.

Sarà quindi interessante la sfida tec-nico-costruttiva, che sarà messa in atto nella realizzazione di un così importante cantiere nel bel centro di un nodo fon-damentale per la viabilità cittadina. Sarà interessante capire come sarà risolta la gestione del sottosuolo con una fognatu-ra che dovrà essere riposata in pratica a livello del mare. Sarà interessante, in oc-casione di tale intervento vedere come si procederà al rifacimento delle palancole di contenimento del lato a mare, presenti nel manufatto del viale e che negli ultimi anni stanno dando evidenti segni di cedi-mento. Prova ne sia il costante ricarico di materiale che il Comune fa sui marciapie-di del manufatto.

A questo andranno aggiunte le even-tuali osservazioni o imposizioni dell’En-te proprietario, qualora non mutato negli ultimi anni, essendo il tratto interessato opera del Demanio in concessione.

Superato il tutto sarà realizzabile e, una volta eseguito, i fautori del progetto

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[Lost]

VIABILITÁViabilità

Maxi-rotatoria o maxi-cazzata

P.S. Caro Nicoli non c’è

niente di scandaloso se la Regione interviene sulla viabilità di Monfalcone, rientra a pieno titolo nelle sue funzioni, come a Udine, Trieste, Gorizia, Pordenone, ecc...

vedranno rivivere il collegamento tra la città e Panzano... ma sarà poi vero?

Io credo che l’opera proposta sia in-vece l’ultimo tassello di una viabilità ad alto scorrimento che attraverserà la città dividendola ulteriormente, dal Viale a via Grado con le sue corsie e la barriera centrale (che tra l’altro rende difficoltoso l’accesso degli autoarticolati nelle attività esistenti) , per arrivare alla nuova bretella che collega la strada provinciale per Gra-do alla rotonda di Ronchi.

Si sta infatti ormai configurando un nuovo asse stradale d’attraversamen-to della città che già oggi, nonostante i divieti, sta purtroppo portando più traffico pesante in città. Quo-tidianamente infatti si assi-ste all’incolonnamento di autoarticolati che usano la bretella in costruzione per attraversare la città, favoriti da una segnaletica che li incanala in direzione del centro a cui si contrap-pone un unico cartello di di-vieto di transi-to per i mezzi pesanti, posto troppo a ridosso del centro cittadino, quindi inefficace..

La costruzione di rotonde in brevi spazi andrà poi a contrastare con i passaggi pedonali necessari a collegare in si-curezza gli istituti scolastici presenti in zona. Si dovrà quindi ricorrere a semafori pedonali che nelle ore di punta porteranno al blocco delle rotonde distanti pochi me-tri l’una dall’altra.

Si pensi poi agli attraversamenti pedo-nali e ciclabili, nei pressi del porto Naza-rio Sauro, che essendo posti al centro dei viali dovrà vedere il continuo passaggio di pedoni e ciclisti dai marciapiedi laterali al centro della carreggiata.

La triste realtà che invece si legge con questi progetti, ci riporta alla nostra atten-zione il definitivo abbandono da parte re-gionale e forse anche locale della proposta di liberalizzazione del tratto autostradale

Ronchi-Lisert, naturale circonvallazione per Monfalcone e Comuni limitrofi.

Saranno così contenti non solo gli au-totrasportatori di passaggio ma anche la comunità triestina che arriverà puntuale in spiaggia a Grado a godersi il bel sole, mentre nelle panchine del Viale Cosulich, da un lato i cittadini di Panzano e dall’al-tro la rimanente parte della città, li ve-dranno sfrecciare sorridenti per aver gua-dagnato cinque minuti di tempo libero....Ne varrà la pena? Forse sarebbe meglio pensare seriamente a nuovi semafori più intelligenti! ❒

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La trasformazione di Monfalcone, agli occhi di chi ci abita da sem-pre, risulta evidente soprattutto per come il suo territorio fisico è stato tagliato a pezzi, svuotato del senso che lo ha storicamente determina-to e riprogettato ad uso e consumo dei profitti privati e della gestione del potere in senso assoluto.

Si pensi alla vicenda della storica azienda monfalconese Ineos, a come è stata liquidata, abbattuta

e rimpiazzata con la nuova Mangiarotti s.p.a., guarda caso produttrice di com-ponenti per centrali nucleari nel preciso momento in cui si discute di costruirne una proprio a Monfalcone. Solo la crisi in atto e la litania dei posti di lavoro hanno evitato, per il momento, il volta-stomaco generale per questo epilogo.

Si pensi al centro cittadino tout court, sempre più svuotato dalle per-sone e continuamente sotto il controllo di occhi elettronici e volanti delle for-ze dell’ordine, con l’unico risultato di aver inculcato nella mente del “mon-falconese tipo” la paura di uscire di casa se non per andare al lavoro o al centro commerciale. Quando è evi-dente che l’unico modo per trasmette-re percezione di sicurezza nei cittadini è fare in modo che le vie e le piazze siano sempre piene di gente.

Si pensi al continuo stillicidio di esercizi commerciali che ha determi-nato l’insediamento delle stesse cate-ne di negozi in leasing e brand mul-tinazionali onnipresenti, rendendolo di fatto un territorio anonimo e uguale a qualsiasi altra città globalizzata.

Sarebbe interessante anche sapere che fine ha fatto l’unico progetto sociale di una certa rilevanza che l’amministra-zione ha messo in campo per mitigare la tensione abitativa, l’autoristruttura-

zione di un condominio ex Solvay, per il momento ancora sulla carta.

Si pensi alla ristrutturazione dei grossi edifici storici come l’albergo impiegati e quello operai. A come si è tentato, maldestramente, di sottrarre il territorio pubblico del parco di via Cellottini per trasformarlo in un par-cheggio. Quell’albergo impiegati che in tempi recenti almeno una funzione sociale l’ha avuta quando, per pochi giorni, è diventato rifugio di qualche decina di richiedenti asilo politico sot-to il nome di Hotel Esilio.

Non è un caso che un piccolo terri-torio come quello di Officina Sociale sia continuamente sotto attacco perché probabilmente resta l’unico ancora in grado, in tutta la città, di esprimere e mettere in pratica una visione diversa, e in quanto tale scomoda, della realtà.

A partire dalle celebrazioni del cen-tenario del cantiere nel 2008 non può sfuggire quello che è il problema di fondo di tutte le questioni sociali aper-te, ovvero il rapporto tra la città e la grande fabbrica navale. Dove il termi-ne “rapporto” diventa sempre più si-nonimo di “conquista”, di tentativo di trasformare il territorio stesso ad uso e consumo dei profitti del cantiere.

Non sono misteri questi in città ov-viamente, se ne è discusso in abbon-danza. Con il risultato di rendere palese l’assoluta volontà, da parte della quasi totalità della classe politica attuale, di non voler affrontare i problemi e, so-prattutto, di non voler in alcun modo porre elementi di critica nei confron-ti di una realtà economica sempre più avida ed ingombrante.

A ben vedere, tutte le questioni che riguardano la casa, il reddito, l’uso del territorio, ecc. sono diretta conseguen-za del cantiere. Non sarebbe il caso di iniziare un ragionamento che ponga il cantiere navale alla stregua di una componente sociale con tutta una serie di doveri nei confronti della città inve-ce delle sempre più vaghe e strumenta-li leggi di mercato?

É quanto meno necessario quindi introdurre un terzo livello di contratta-zione, oltre a quella nazionale e quel-la aziendale, che si potrebbe definire come “territoriale” e che abbia lo sco-po di obbligare l’azienda a concedere una serie di risarcimenti per le proble-matiche di natura sociale che causa al territorio sul quale insiste.

Evidentemente gli attori sociali di questo livello contrattuale non posso-no che essere le organizzazioni di cit-tadini che già operano nel settore e che hanno sviluppato competenze e prati-che da quando Fincantieri ha adottato il modello produttivo per appalti agli inizi degli anni novanta.

Non serve molta immaginazione per capire l’importanza di un badget da fonte Fincantieri ad integrazione del sostegno all’affitto o del reddi-to sempre precario di certi lavoratori dell’appalto in un processo produttivo caratterizzato da una marcata ciclicità dei carichi di lavoro nell’arco dell’an-no. Tanto più nel caso di lavoratori per cui non sono previsti, o sono difficili da ottenere, servizi di sostegno come la cassa integrazione ordinaria. O per i lavoratori migranti per cui il venir meno di un rapporto di lavoro equiva-le a dire la decadenza del permesso di soggiorno.

Ripensare il territorio da un punto di vista sociale e non solo economico è la grossa sfida che la città deve co-minciare ad affrontare in tutte le sue declinazioni, a partire da quella am-ministrativa, per invertire un trend che proprio il questore ha definito al “limi-te della militarizzazione”.

Un territorio che assume sempre più le caratteristiche di una prigione a cielo aperto. E poiché le cose non succedono mai per pura coincidenza, ecco Fincantieri che elabora una pro-posta già presentata al ministero degli Interni per un nuovo modello di car-cere galleggiante da costruire, guarda caso, proprio nel suo cantiere di Mon-falcone. ❒

Monfalcone si trasforma... [di Mauro Bussani]

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VARIETÀVarietà

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[di Rudi Fumolo]

Come da previsioni, almeno quelle più realistiche, la centrale elettrica di Monfalcone non verrà riconver-

tita. Quello che sembra evidente nelle ultime dichiarazioni di A2A, la società proprietaria della centrale elettrica è che invece venga riproposto ad anni di distan-za quanto già presentao da ENDESA, a suo tempo proprietaria delle centrale di Monfralcone, cioè il TUTTO CARBONE PER MONFALCONE.

La ragione di questa scelta è molto semplice: dopo anni che i vari governi che si sono succeduti hanno raccontato favole incredibili sulla cultura del fare e del superamento dei NO dei territori nella costruzione di nuove centrali elettriche, ci ritroviamo, cosa che peraltro era già stata preannunciata dalle associazioni ambien-taliste ad aver tappezzato il territorio na-zionale di centrali elettriche che restano sottoutilizzate, in quanto comunque la materia prima principale è il gas, il cui prezzo segue in linea di massima quello del petrolio.

In pratica i notevoli investimenti che sono stati fatti nella costruzione di centra-li elettriche si stanno rivelando un pessi-mo affare fi nanziario che non verrà certo salvato dall’importazione di gas tramite rigasifi catori, poichè se è vero che con i rigasifi catori si possono diversifi care i paesi di approvigionamento (meno di quanto si creda comunque poichè nor-malmente i rigasifi catori sono legati ai paesi produttori tramite contratti a lungo termine), non è sicuramente vero in linea generale che l’importazione di gas trami-te rigasifi catori sia economicamente van-taggiosa rispetto le importazioni tramite gasdotto.

In questo quadro di costo elevato del gas e di obsolescenza tecnologica per l’olio combustibile, la fonte più a buon mercato è il carbone.

A differenza del gas tuttavia solo po-chi posti in Italia permettono la costruzio-ne di centrali a carbone.

Il requisito principale è la presenza di un porto in grado di scaricare il carbone.

Sembra un requisito banale, tuttavia non lo è, in quanto il trasporto via treno in Italia (negli USA le condizioni sono mol-

to differenti) è praticamente impossibile. Per questo motivo le aree come Monfal-cone sono una ghiotta preda per la produ-zione di elettricità dal carbone.

E’ certo che nei prossimi mesi assi-steremo ad un progressivo succedersi di offerte con queste caratteristiche :

A) Il progetto della nuova centrale a carbone va a sostituore i 2 vecchi gruppi a carbone attualmente esistenti.

B) Con la centrale a carbone lavore-ranno molte persone.

C) Promesse di contributi economici vari.

A tutto ciò si può rispondere in modo molto semplice osservando che sicura-mente i vecchi gruppi a carbone continue-ranno a funzionare quando verrò costruita la nuova centrale a carbone e che non vi è nessuna garanzia sul fatto che i due vecchi gruppi esistenti vengano “rottamati”. C’è quindi il rischio di tenersi il “vecchio” carbone oltre al “nuovo”, in quanto alla

promessa di nuovi posti di lavoro bisogna anche capire da chi verranno coperti oltre al fatto che l’utilità di un progetto indu-striale si misura sulle prospettive di svi-luppo, sull’indotto che riesce a muovere e sulla qualità tecnologica di ciò che viene proposto, più su un numero di occupati comunque molto ridotto.

Inoltre c’è un altro fatto su cui è bene far mente locale ciòè che il progetto del carbone non è sostitutivo del nucleare. Paradossalmente se passasse il progetto del carbone si aprirebbe la porta ad un progetto di nucleare (si picchia sempre nelle parti molli). Di siti idonei ad ospi-tare una centrale nucleare in Italia ce ne sono pochi e molti presidenti di regione anche di centrodestra si sono espressi contro. Il Friuli Venezia Giulia è una delle poche Regioni disposta ad ospitarle, per questo motivo dimostrare “mollezza” sui progetti di A2A può essere estremamente pericoloso. ❒

ENERGIAEnergia

Ancora carbone per MonfalconeCaro Babbo Natale forse che siamo stati cattivi?

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aprile 2010 • • 27M T

Giorgio masticava pezzi di carta, Giulio si grattava nelle mutande, Paolo fi ssava un punto nel muro,

Victor mangiava di nascosto. Fulvio, il mister, disegnava formule sulla lavagna, era come stare a scuola, ma era domenica e nessuno faceva fi nta di ascoltare.

Dal campo pieno di polvere nuvolosa si vedeva la sagoma della “Queen of the Stars” in costruzione al Cantiere, dove gli operai battevano le lamiere anche quel giorno.

Sfi davamo Doberdò, che aveva undici ragazzini grossi come bestie. “Zdravo!” urlarono a metàcampo, prima dell’inizio. Guardandoli, qualcuno dei nostri si cagò addosso. Erano secondi in classifi ca. Il più temuto, baffi e capelli da futuro biker, era Milovan Princic, capocannoniere del girone con 29 gol in 11 partite.

Eravamo nei bassifondi, si lottava per la salvezza, anche se in quei campionati non c’erano retrocessioni. Nessuno ci di-ceva nulla quando perdevamo, i dirigenti erano sempre in chiosco, l’allenatore li seguiva durante gli allenamenti, in partita non poteva per regolamento.

“Cambia gioco, cambia gioco!!”- ur-lava. Sedeva in panca con un paio di oc-chiali a specchio stile Arrigo Sacchi. Ful-vio era milanista fi ssato, voleva inculcarci zona, sovrapposizioni, ripartenze, pres-sing, diagonali. Vicino a lui una specie di massaggiatore, poi l’unica riserva fi ssa e due bimbi degli Esordienti imbacuccati in una coperta sporca.

In attacco non eravamo male, però la palla non arrivava mai alle due punte, Lu-cio ed Ezio. Lucio, un “macho” di tredici anni, beveva e fumava e aveva storie con tutte le ragazze del quartiere. Il giorno pri-ma della partita con un pugno aveva sfon-dato la porta della palestra della scuola. Tutti avevano paura di lui: aveva la testa a forma di pannocchia e in spogliatoio esi-biva orgoglioso il suo affare: in primavera saltava fuori dallo stanzone e lo mostrava alle stranite mammine che venivano ad aspettare i fi gli.

Ezio, un tipo tranquillo, grande amico di Lucio, aveva scatto e tecnica, ma pre-feriva baciarsi con qualche ragazzina al cinema invece di allenarsi.

RACCONTIRacconti

“Ezio, un tipo tranquillo, grande amico di Lucio, aveva scatto e tecnica, ma preferiva baciarsi con qualche ragazzina al cinema invece di allenarsi.”

Per farsi invidiare, durante l’allena-mento del giovedì, se ne stava dietro la porta: noi calciavamo a rete senza con-vinzione, lui tirava linguate a certe tipe più grandi di noi. Fulvio non gli diceva niente, poi la domenica giocava, perchè se la cavava e perchè non c’era nessuno da buttar dentro.

Pensavo di dover beccarne sette nel primo tempo, invece era ancora 0-0: noi tutti dietro a coprire il portiere: aveva una maglia gialla da cui spuntava uno scan-daloso dolcevita verde jugoslavo, rubato alla mamma in qualche cassettone mentre cercava altro.

Al 21’ la stranezza: mi arriva la palla, mi giro, sparo un lancio, la sfera arriva a Lucio che stoppando il pallone un po’ con la mano, un po’ con il destro, scat-ta carambolando fra due avversari, che stende di forza, presentandosi davanti al portiere. Lucio era un disastro, sapevamo che avrebbe sparato verso la nave, però con un tocco impercettibile e involonta-rio aveva superato il portiere, fi nendo in porta lui, il pallone, il suo affare e tutto quanto nello stesso istante: 1-0.

Aveva esultato per tre minuti ber-ciando come un bongo, facendo gestacci e noi lì prima a guardarlo, poi a corrergli dietro per abbracciarlo, cercando nel-la mischia di tirargli qualche pedata di

nascosto. Il gol li mandò in crisi. “Ma come facciamo a perdere con questi bab-buini?”-dicevano.

La domanda era la risposta allo svan-taggio, avevano sottovalutato, giustamen-te, una squadra senza gioco e senza tatti-ca. Avevamo paura, perchè sapevamo che se quelli l’avessero buttata su qualsiasi aspetto che non fosse stata la disperazione calcistica, sarebbe stato impossibile uscir-ne. Ci eravamo messi ancora di più a far barriera in area, Fulvio sbraitava ma nes-suno lo ascoltava, avevamo le orecchie gonfi e di freddo e sudore. Faceva un fred-do boia e la derelitta squadra di periferia stava battendo la seconda della classifi ca. Laurencic, il loro regista e faro, ci guarda-va senza capirci nulla, Vitez buttava pallo-ni in mezzo, Gergolet bestemmiava come un archimandrita. Ma non passavano.

A furia di girar a vuoto loro si erano cotti da soli e alcuni dei miei perdevano tempo buttandosi in terra, mentre loro ci insultavano in sloveno. Ad un minuto dal-la fi ne uno mi strattona in corsa, l’arbitro non fi schia, io mando a cagare il mediano e quello mi tira giù un mezzo destro in faccia. Cado, mi fa male. Casino incre-dibile, i pochi genitori dalla tribuna vo-gliono saltare in campo, in panchina urla e minacce.

“Slavi di merda!Terroni!Titini!Fascisti! Ladri! Ti aspetto fuori!” I soliti suoni.

L’arbitro cacciò il mediano, mentre sulla tribuna arrugginita la gente si stava calmando: in fondo ad essere stato colpito ero solo io, non qualche idolo della curva come Lucio o Ezio. “Ecco! Un vero ca-pitano ci rimette la faccia e anche il resto per la squadra”- mi disse il massaggiato-re, e fu la mia medaglia..

Dopo il caos arrivò il triplice fi-schio, avevamo vinto, loro superincaz-zati, noi a far festa, io sulla linea latera-le a tenermi la faccia, poi tutti sotto la doccia, tranne me.

All’una tornai a casa, con la borsa del ghiaccio sul muso. Mia madre mi vide e disse che non sarei andato più a giocare a calcio, non voleva gente rotta in casa.

“Per rovinarti la testa hai ancora 70 anni di tempo!”- mi stroncò.

Me ne sono bastati molti di meno. ❒

Uno a zero [di Enrico Colussi]

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[email protected] | blog: http://monfalconeterritorio.org

:El Gaucho (da Monfalcone a Salta, dal Manzanarre al Reno)

Una Poesia Su Pizzolitto In Argentina

Corre el gaucho nella pampa l'orizzonte si spalanca batte il cuore sotto il poncho dal Comune Dios lo scampa.

Sanza posa, sanza tosa, sanza shopping né dinero sempre in sella al suo destriero sempre al trotto el gaucho va.

Sta pensando al suo futuro: “Non sarà certo l’ospisio! Adelante, mio caballo, adelante con juicio.”

Picchia il sole sulla pampa e negato gli è il diletto di pranzare con i cracker, il suo cibo prediletto.

Picchia il sole e lui galoppa anelando alla frescura dondolando sulla groppa della sua cavalcatura.

“Il futuro non è scritto!”, pensa el gaucho en Argentina: sulla pampa sconfinata picchia il sole, la mattina.

Stefano Piredda

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