Molare e molecolare. Il rapporto tra soggettività e ... · PDF fileTesto tratto da: M....

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Testo tratto da: M. Lazzarato, Molare e molecolare. Il rapporto tra soggettività e cattura nell'arte, in A.A.V.V., L'arte della sovversione, a cura di Marco Baravalle, Manifestolibri, Roma, 2009, pp. 58-61. […] Esisterebbero, allora, una dimensione molecolare e una dimensione molare dell'arte. Cosa intendo per dimensione molare? La dimensione molare dell'arte è organizzata da tre elementi. Primo, la distribuzione di funzioni e di ruoli specifici: l'artista, l'opera, il pubblico, il critico, il curatore. Secondo, i dispositivi: il museo, il festival, il teatro, l'esposizione. Terzo, i criteri di valutazione che mostrano e dicono l'arte come un'attività specifica e separata. Un'attività esercitata da artisti ed esperti in direzione del pubblico, che, fondamentalmente, va coltivato. Dunque la dimensione molare definisce le modalità di enunciazione, di visibilità, di funzioni, di ruoli e di dispositivi artistici. Questo modo di enunciazione, che noi abbiamo utilizzato, viene in realtà dalla Rivoluzione Francese, più precisamente, dalle due rivoluzioni: la Rivoluzione Americana e quella Francese. Marcel Duchamp lo ricorda in maniera molto sintetica, dice: “fino alla Rivoluzione Francese l'artista praticamente non esisteva da un punto di vista sociale, esistevano solo gli artigiani”. Questa affermazione è forse esagerata, però rende precisamente l'idea della rottura avvenuta al momento della Rivoluzione Francese, rottura che non ha definito solo il ruolo sociale, ma soprattutto la parte patrimoniale, cioè i diritti d'autore e il copyright. Elementi, questi, che restano dispositivi fondamentali per definire il problema della proprietà, problema assolutamente centrale. La Rivoluzione Francese stabilisce una divisione, una classificazione che è ancora la stessa delle istituzioni culturali contemporanee. Ha trasformato quelle che erano le “arti del fare”, eredità del Rinascimento, in discipline proprie della modernità: arte, mestiere e scienza, ciascuno con la propria istituzione. […] Questa è la dimensione molare dell'arte, a mio parere ancora attuale, quella della distribuzione delle funzioni e delle loro modalità operative. C'è, invece, una dimensione molecolare dell'arte (delle pratiche artistiche più che dell'arte) che funziona in maniera differente, funziona sotto, vicino, a fianco di questa dimensione molare ed è organizzata tanto dalle imprese o dallo Stato, quanto dagli artisti stessi. Fondamentalmente ci riferiamo a tecniche che, da trent'anni a questa parte, le pratiche artistiche utilizzano per sfuggire, per sottrarsi alle separazioni e alle classificazioni, cioè al contesto molare. A partire dal XX secolo, tutte le pratiche, o meglio, le pratiche più interessanti, sono state quelle che hanno messo in discussione queste separazioni, queste classificazioni, questa distribuzione di ruoli e di funzioni: artista, pubblico, ecc... La dimensione molare è assimilabile alla divisione disciplinare che distribuisce ruoli e funzioni secondo una logica dialettica:arte non arte, artista non artista, opera o merce. La dimensione molecolare, invece, è assimilabile ad una gestione differenziale delle libertà, delle eterogeneità, delle soggettività. Cioè, in questi spazi, in queste pratiche molecolari, esistono quelle che Guattari definiva libertà parziali, coefficienti di libertà. Si tratta di libertà differenziali che sono messe in gioco. Il problema è capire che rapporto c'è tra queste due dimensioni, la dimensione molecolare dell'arte (che è utilizzata tanto dall'impresa quanto dagli artisti) e la dimensione molare. Questi due concetti, che mutuo da Deleuze e Guattari, dovrebbero funzionare insieme, anzi il molecolare dovrebbe avere la capacità di trasformare la dimensione molare. […] Ciò che è evidente, pensiamo a quanto successo a Duchamp, è che tutti questi processi, queste dinamiche che cercano di sottrarsi alla dimensione molare, non riescono a trasformarla, a trasformare le modalità di enunciazione e di visibilità dell'istituzione arte. Cioè, ciò che continuiamo a trovarci di fronte è, fondamentalmente, sempre l'istituzione arte che riesce ad imporsi. In definitiva, assistiamo alla traduzione e alla chiusura della molteplicità, delle innovazioni e degli esperimenti di queste libertà micro, di queste eterogeneità, catturate nella figura dell'artista, dell'opera, del museo, del pubblico. Duchamp è la figura più emblematica: sebbene rappresenti una personalità decisamente proiettata altrove nella sua ricerca estetica, è stata recuperata, resa visibile e fruibile nei musei. Queste pratiche molecolari non soltanto arrivano a mettere in discussione le divisioni disciplinari dell'arte e

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Testo tratto da: M. Lazzarato, Molare e molecolare. Il rapporto tra soggettività e cattura nell'arte, in A.A.V.V., L'arte della sovversione, a cura di Marco Baravalle, Manifestolibri, Roma, 2009, pp. 58-61.

[…] Esisterebbero, allora, una dimensione molecolare e una dimensione molare dell'arte. Cosa intendo per dimensione molare? La dimensione molare dell'arte è organizzata da tre elementi. Primo, la distribuzione di funzioni e di ruoli specifici: l'artista, l'opera, il pubblico, il critico, il curatore. Secondo, i dispositivi: il museo, il festival, il teatro, l'esposizione. Terzo, i criteri di valutazione che mostrano e dicono l'arte come un'attività specifica e separata. Un'attività esercitata da artisti ed esperti in direzione del pubblico, che, fondamentalmente, va coltivato.Dunque la dimensione molare definisce le modalità di enunciazione, di visibilità, di funzioni, di ruoli e di dispositivi artistici. Questo modo di enunciazione, che noi abbiamo utilizzato, viene in realtà dalla Rivoluzione Francese, più precisamente, dalle due rivoluzioni: la Rivoluzione Americana e quella Francese. Marcel Duchamp lo ricorda in maniera molto sintetica, dice: “fino alla Rivoluzione Francese l'artista praticamente non esisteva da un punto di vista sociale, esistevano solo gli artigiani”. Questa affermazione è forse esagerata, però rende precisamente l'idea della rottura avvenuta al momento della Rivoluzione Francese, rottura che non ha definito solo il ruolo sociale, ma soprattutto la parte patrimoniale, cioè i diritti d'autore e il copyright. Elementi, questi, che restano dispositivi fondamentali per definire il problema della proprietà, problema assolutamente centrale.La Rivoluzione Francese stabilisce una divisione, una classificazione che è ancora la stessa delle istituzioni culturali contemporanee. Ha trasformato quelle che erano le “arti del fare”, eredità del Rinascimento, in discipline proprie della modernità: arte, mestiere e scienza, ciascuno con la propria istituzione. […]Questa è la dimensione molare dell'arte, a mio parere ancora attuale, quella della distribuzione delle funzioni e delle loro modalità operative.C'è, invece, una dimensione molecolare dell'arte (delle pratiche artistiche più che dell'arte) che funziona in maniera differente, funziona sotto, vicino, a fianco di questa dimensione molare ed è organizzata tanto dalle imprese o dallo Stato, quanto dagli artisti stessi.Fondamentalmente ci riferiamo a tecniche che, da trent'anni a questa parte, le pratiche artistiche utilizzano per sfuggire, per sottrarsi alle separazioni e alle classificazioni, cioè al contesto molare. A partire dal XX secolo, tutte le pratiche, o meglio, le pratiche più interessanti, sono state quelle che hanno messo in discussione queste separazioni, queste classificazioni, questa distribuzione di ruoli e di funzioni: artista, pubblico, ecc...La dimensione molare è assimilabile alla divisione disciplinare che distribuisce ruoli e funzioni secondo una logica dialettica:arte non arte, artista non artista, opera o merce. La dimensione molecolare, invece, è assimilabile ad una gestione differenziale delle libertà, delle eterogeneità, delle soggettività. Cioè, in questi spazi, in queste pratiche molecolari, esistono quelle che Guattari definiva libertà parziali, coefficienti di libertà. Si tratta di libertà differenziali che sono messe in gioco. Il problema è capire che rapporto c'è tra queste due dimensioni, la dimensione molecolare dell'arte (che è utilizzata tanto dall'impresa quanto dagli artisti) e la dimensione molare. Questi due concetti, che mutuo da Deleuze e Guattari, dovrebbero funzionare insieme, anzi il molecolare dovrebbe avere la capacità di trasformare la dimensione molare.[…]Ciò che è evidente, pensiamo a quanto successo a Duchamp, è che tutti questi processi, queste dinamiche che cercano di sottrarsi alla dimensione molare, non riescono a trasformarla, a trasformare le modalità di enunciazione e di visibilità dell'istituzione arte. Cioè, ciò che continuiamo a trovarci di fronte è, fondamentalmente, sempre l'istituzione arte che riesce ad imporsi. In definitiva, assistiamo alla traduzione e alla chiusura della molteplicità, delle innovazioni e degli esperimenti di queste libertà micro, di queste eterogeneità, catturate nella figura dell'artista, dell'opera, del museo, del pubblico. Duchamp è la figura più emblematica: sebbene rappresenti una personalità decisamente proiettata altrove nella sua ricerca estetica, è stata recuperata, resa visibile e fruibile nei musei. Queste pratiche molecolari non soltanto arrivano a mettere in discussione le divisioni disciplinari dell'arte e

dell'artista, ma sono catturate da processi di valorizzazione capitalista e questa è una novità fondamentale che è emersa a partire dalla fine degli anni Sessanta, dopo il Sessantotto.Le imprese e lo Stato, anche senza “toccare” la potenzialità critica dell'opera, senza “toccare” la capacità di trasformazione della soggettività propria delle pratiche a cui ci riferiamo, le utilizzano per alimentare l'industria del turismo e del tempo libero, per costruire dei territori-museo come Bilbao, delle città-museo come Venezia, dei quartieri-museo come Vienna, delle città-esposizione come Kassel o delle città-festival come Avignone.[…]Esse [le pratiche artistiche] costituiscono anche il motore dell'industria del lusso, industria che sfrutta le ricadute di questi esperimenti per vendere stili di vita ai nuovi milionari della globalizzazione. La valorizzazione capitalistica ha la capacità di intrecciare, all'interno di una fitta rete di produzioni di beni materiali e immateriali, le forme, le innovazioni semantiche, le sperimentazioni di nuove materie d'espressione e di modalità inedite di enunciazione.[…]

Testo tratto da: A. Fumagalli, Mercato dell'arte, bioeconomia e finanza, in A.A.V.V. L'arte della sovversione (a cura di Marco Baravalle), Manifestolibri, Roma 2009, pp. 143-146.

Nell'analisi economica da una decina di anni vi è una nuova disciplina. Si chiama Economia Politica dell'Arte. Numerosi saggi sono apparsi sulle riviste specializzate, soprattutto mainstream. In modo molto semplificato, si sostiene che si è sviluppato un nuovo mercato, in cui opera una sorta di homo oeconomicus. Esso agisce in modo perfettamente razionale. Il suo intento è speculare, con l'obiettivo di trarre il massimo guadagno, sul valore futuro atteso dell'opera d'arte. Compra oggi opere di sconosciuti che non hanno ancora ottenuto una fama tale da essere quotati sul mercato ufficiale dell'arte ad un basso prezzo, scommettendo sul fatto che, una volta divenuti famosi, le loro opere verranno valorizzate. Le tecniche di analisi sono le stesse che vengono adoperate dagli analisti finanziari per quanto riguarda il valore atteso dei titoli azionari. Di fatto, si ipotizza un comportamento che assimila un'opera artistica ad un'attività finanziaria. È la tristezza dell'economia (non a caso la “dismailed science”, secondo la famosa definizione di Carlyle), ovvero quel processo secondo cui tutto è riducibile a merce che ha un valore di scambio e il comportamento umano è riducibile quasi esclusivamente ad una scelta (supposta sempre possibile) in termini di costi e benefici.Lo scopo è quello di fornire una teoria della formazione del prezzo dell'opera d'arte, utilizzando gli assiomi comportamentali che vengono utilizzati nell'analisi di mercato: comportamento utilitaristico e massimizzante in presenza di asimmetrie informative dovute ad incertezza.Fino agli anni '80, tale impostazione metodologica (scelta razionale tra fini alternativi) era la base della teoria dei mercati finanziari. La decisione se acquistare o meno un titolo finanziario in condizione di incertezza era, in primo luogo, una scelta individuale (non influenzabile da altri comportamenti) sulla base delle aspettative esistenti (premonizioni “razionali” di conoscenza del futuro → teoria delle aspettative razionali) e della propensione al rischio (in misura correlata alla possibilità o meno di formulare aspettative).Nel campo della teoria dei mercati finanziari, l'ipotesi di comportamento razionale non ha retto la prova dei fatti nel momento in cui si è attivato il processo di finanziarizzazione e il ruolo dei mercati finanziari si è strutturalmente modificato, trasformandosi da quello di semplice allocazione più o meno efficiente del risparmio a motore della crescita economica e strumento di creazione del valore d'impresa.Nel campo dell'economia politica dell'arte, invece, l'ipotesi di razionalità persiste in modo quasi incontrastato. Eppure il mercato delle opere d'arte presenta delle anomalie che mal si prestano a un'analisi prettamente utilitaristica (alla Bentham) in grado di consentire scelte tra fini alternativi.Già gli economisti classici e fisiocrati (ad esempio David Hume e Adam Smith) avevano evidenziato come il mercato delle opere d'arte fosse caratterizzato già a quei tempi da:

a. presenza del gusto e del piacere esteticob. la persistenza di “mode”c. un forte dualismo tra l'esperto (critico) e il semplice usufruitore.Il primo punto pone la questione della misurabilità del valore di un'opera artistica. Il piacere ha un valore definibile in termini mercantili e soprattutto può avere una misura del valore che sia applicabile a tutti. Si tratta dell'annoso tema delle “preferenze”, ovvero dei gusti degli agenti economici, che nella teoria mainstream vengono supposti esogeni e dati così da evitare qualsiasi impaccio. Ma nell'opera d'arte, la variabile del gusto, ovvero dell'estetica (“il bello”) non può essere eliminata perché connaturata all'essenza stessa dell'arte come produzione estetica.Il secondo punto mette in crisi la possibilità che le scelte siano perfettamente razionali e individuali, ovvero scevre da qualsiasi condizionamento esterno. Nel campo dell'arte, lo sviluppo di mode veicola i gusti e l'estetica e quindi influenza in modo determinante il successo o meno di un'opera artistica e quindi il suo prezzo. La razionalità prevalente è dunque quella cosiddetta “mimetica”, ovvero che si basa su scelte influenzate da processi imitativi (“sociali”) piuttosto che individuali.Soprattutto con riferimento all'arte moderna, infine, il valore di un'opera d'arte è sempre più determinato da come la critica accoglie l'opera stessa. La critica è l'espressione della conoscenza, è il connoisseur (“intenditore”), termine usato per indicare l'esperto e lo scopritore di talenti artistici che si muoveva negli anni passati all'interno delle gallerie d'arte. Il connoisseur non era mosso da intenti speculativi di guadagno, ma piuttosto dal piacere dell'arte. Famoso è il caso di Peggy Guggenheim che acquista agli inizi del secolo scorso alcune tele di Kandinsky su consigli dei connoisseurs e consente grazie alle esposizioni di dare risalto e valore all'opera dello stesso Kandinsky. L'asimmetria informativa è molto elevata e il ruolo della critica è determinante nell'influenzare il valore di un'opera.Nel contesto bioeconomico attuale, il condizionamento del gusto e la sua manipolazione diventa elemento di valorizzazione mercantile immediata. L'elemento estetico viene sempre più piegato all'esigenza della speculazione artistica. Da questo punto di vista si assiste ad una trasformazione del mercato dell'arte che converge per modalità comportamentali verso i nuovi mercati finanziari. Ciò avviene però in presenza di ipotesi e comportamenti che negano in modo assoluto le teorie mainstream dei mercati concorrenziali come ambito di perfetta concorrenza e razionalità comportamentale.

Il meccanismo potrebbe essere il seguente:

1. tra “imprenditore-speculatore” dell'arte e “esperto-connoisseur” vi è sempre più convergenza identitaria e di scopo, sino a costituire un coagulo di interessi e spesso uno stesso agire economico. La gestione delle grandi aste, dei musei e delle mostre è sempre più legata e interdipendente. Si attua così un meccanismo “virtuoso” di pubblicizzazione e valorizzazione. Un museo espone un autore nuovo, anche in seguito ad una politica di ristrutturazione e ridefinizione delle strategie espositive (tra l'altro finalizzate a valorizzare il patrimonio territoriale metropolitano: esempio la New Tate Gallery a Londra). Le opere dell'artista aumentano immediatamente grazie all'esposizione e le sue quotazioni crescono. Ciò consente alla Casa d'Aste, che magari siede nel Consiglio di Amministrazione del Museo, in qualità di connoisseur, di capitalizzare in poco tempo un ottimo guadagno. Il conflitto di interesse è dunque prevalente rispetto al riconoscimento della qualità artistica.

2. Il successo di un autore piuttosto che di un altro può originare un fattore “moda”, ovvero una sorta di “convenzione” comportamentale, che porta alcuni stili artistici ad ampi riconoscimenti e a forti capacità di speculazione economica sull'arte.

L'investimento nell'arte tende quindi ad avere delle analogie con l'investimento finanziario. Nel periodo fordista l'investimento finanziario era finalizzato ad avere ogni anno un certo dividendo e le azioni rimanevano nelle mani dello stesso proprietario-risparmiatore per molto tempo. Specularmente, l'investimento artistico aveva come scopo essenziale il piacere di possedere

esclusivamente un'opera artistica, che, infatti, raramente passava di mano. Insomma, il dividendo stava al titolo finanziario, come il piacere del possesso (e la possibilità di mostrarla) stava all'opera d'arte.Nel periodo del capitalismo cognitivo, la dinamica di valorizzazione dei mercati finanziari è fortemente influenzata dalle scelte di un'oligarchia di grandi società finanziarie, le cui strategie causando comportamenti imitativi definiscono di volta in volta delle “convenzioni finanziarie” che guidano gli indici azionari. Nel mercato dell'arte, un'oligarchia di gestori e di promotori del mercato dell'arte (Case d'Aste, Musei, ecc.) sono in grado di influenzare le quotazioni delle opere d'arte sulla base di convenzioni artistiche da loro stessi promosse. Ciò consente di attivare un processo di valorizzazione che si attua non più nel piacere del possesso ma nell'atto della vendita.Se per i mercati finanziari, ciò che conta sono i capital gains, lo stesso si può affermare per le opere artistiche.Il mercato dell'arte oggi è quindi un esempio di come la base di accumulazione e di valorizzazione capitalistica si sia orizzontalmente esteso sino a inglobare e sussumere l'attività artistica, rendendola produttrice di “valore di scambio”. La mercificazione dell'arte è un esempio della mercificazione complessiva della vita, ovvero è bioeconomia.Ma, a differenza di quanto sostiene l'economia politica mainstream dell'arte, ciò non avviene in un'ottica di libero mercato, né può essere analizzato in termini di libera scelta razionale. La mercificazione dell'arte è sempre più espressione di potere e gerarchia sociale all'interno di meccanismi di controllo dei cervelli e dei corpi degli esseri umani: l'estetica come nuova frontiera di manipolazione della comunicazione e della vita.

Testo tratto da: A. Vettese, Tavola rotonda su arte e mercato, in A.A.V.V., L'arte della sovversione, a cura di Marco Baravalle, Manifestolibri, Roma 2009, pp. 159-164.

Direi […] che il mio ruolo qui è quello di mettere in chiaro perché parlare di sabotaggio è oggi pressoché impossibile. Vorrei descrivere le forze che si oppongono a questo sabotaggio.Cominciamo con il mercato dell'arte, giusto per dare un'esemplificazione di cosa succede quando si mettono in atto tentativi di sabotaggio, cosa che moltissimi movimenti hanno tentato di fare. Per esempio il movimento dell'Arte Concettuale tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, per esempio l'Arte Povera nello stesso periodo e moltissimi altri artisti. Artisti che hanno lavorato su quella che Lucy Lippard ha chiamato la “dematerializzazione dell'arte” e su ciò che Harold Rosenberg ha definito l' “oggetto ansioso”, cioè quell'oggetto d'arte che non ha più una definizione precisa in termini di oggetto fatto di materia e fatto con certe regole. Allora, tutta questa disgregazione dell'opera d'arte in quanto oggetto con delle prevedibilità: in termini di materia, di buona fattura, di rappresentatività nel senso di rappresentazione del mondo; tutto ciò ha, per un certo periodo, effettivamente bloccato il mercato dell'arte. Pensiamo ad un caso abbastanza estremo: i certificato di Joseph Kosuth. Questi considerava arte quelle porzioni di giornale in cui faceva pubblicare un pezzo del Thesaurus, ad esempio, la parola “purple” estrapolata dal Thesaurus, piuttosto che la parola “copy” o la parola “art”.L'opera d'arte consiste in quel pezzetto del Thesaurus o in quell'annuncio specifico? Vediamo come il tempo ha risposto a questa domanda. Oggi, trenta o quaranta anni dopo, il mercato dell'arte si è “mangiato” quell'atto sovversivo e seppure l'opera d'arte resta quel pezzo di carta, esso è stato rinominato. Non si chiama più “opera”, ma viene chiamato “certificato” e le case d'asta vendono un oggetto che è, più o meno, una scritta bianca su fondo nero con delle caratteristiche ripetibili, delle regole di resa, di trasformazione in opera di quel primo semplice accumulo di righe e di parole. […] vendere nelle aste significa far apparire l'opera nella pagina giusta, nel catalogo giusto, con la datazione giusta, metterla paradossalmente in scena con tutto il suo pedigree. Quindi avere un certificato che risalga ai primissimi anni di questa sua pratica, avere un certificato che ribadisca il proprio carattere di sabotaggio del mercato dell'arte, significa avere tra le mani un elemento paradossale di valorizzazione mercantile.

Allora, più l'opera nasce nel tentativo di sabotare il mercato dell'arte, più, oggi, nel caso specifico che sto descrivendo, ha una sua valenza mercantile. Il mercato è, veramente, una sorta di bidone aspiratutto, come ho mostrato in questo esempio, ma possiamo trovarne altri che riguardano le pratiche più radicali. Come ad esempio i travestimenti, le fotografie scattate da Nan Goldin alle drag queens in fin di vita a causa dell'Aids. Quindi il massimo della tragedia umana, unita al massimo della voluta imperizia tecnica. Goldin stessa afferma che vorrebbe fotografare attraverso un battito di palpebre, dunque non le interessa assolutamente fare “belle” fotografie, vuole solo testimoniare un dramma umano.Ecco, tutto ciò è lentamente entrato nel mercato dell'arte e, contrariamente a quanto si pensa, gli artisti sono del tutto complici. Entro un certo lasso di tempo diventano complici di questa gentrification dell'opera. Il motivo è che gli artisti sanno che la capacità di un'opera di entrare nelle pagine di storia dell'arte, sarà conseguente alla sua capacità di penetrazione nel mercato.[…]Ribadisco la mia bruta espressione: il mercato è un bidone aspiratutto di cui, però, gli artisti, a un certo punto, diventano complici orgogliosi. Voi mi direte: questo non accade a tutti...Io non ne sarei tanto certa. Qui si può aprire un lungo dibattito, poiché spesso succede che solo chi non è riuscito ad avere un mercato forte non è orgoglioso del mercato, al contrario, tutti gli altri sono orgogliosissimi di “avercela fatta”. Dovremmo fare una ricerca sul campo. Io non ho mai incontrato un artista che non fosse orgoglioso di avere un mercato forte, comprese queste personalità estreme, come Marina Abramovic, ad esempio, che incominciava la sua carriera artistica mostrando se stessa e il suo compagno, nudi, di fronte alla soglia della Galleria di Arte Moderna di Bologna. Un esordio che pare il grado zero della forma artistica, quindi vendibilità zero.Ho sempre incontrato artisti felicissimi di aver raggiunto un alto livelli di mercificabilità del loro lavoro. C'è, per dirla con Zizek, una trasformazione del godimento come fattore politico. Assistiamo ad una progressiva trasformazione dell'artista stesso in colui che diventa attore del godimento, ma anche attore di un altro aspetto e cioè della dimostrazione della liberalità.[…] credo si possa affermare che l'arte contemporanea, in definitiva, si presta bene a fornire un ambito di dissenso, perché non tocca davvero nessuno, anzi, tende a lasciare le cose come stanno. Fa gridare allo scandalo, ma non cambia molto nelle relazioni interpersonali. O meglio, le cambia nel tempo. Io sono convinta che quella Marina Abramovic nuda o quel Vito Acconci che si masturba sotto una pedana o quella Ana Mendieta che si nasconde nel fango, in realtà, abbiano messo in evidenza un cambiamento dei costumi e lo abbiano, lentamente, spinto a far parte delle nostre coscienze. Però non è un processo che si dà dall'oggi al domani, non è un atto politico di cui si può avere immediatamente un riscontro. È un'azione molto lenta quella che l'arte dispiega all'interno della società e della politica. Se io presento presento al mondo uno squalo morto o una vacca squartata, ottengo una grossa visibilità sui giornali e produco la sensazione che il paese in cui tutto ciò viene mostrato sia un paese liberale. A Pechino, nel momento in cui si cercava di avere le Olimpiadi, non a caso sono state avviate mostre di arte contemporanea. Si tratta, infatti, di occasioni abbastanza gratuite di scandalo che dimostrano la liberalità di un luogo. Gratuite perché non influiscono sulle reali strutture di potere e perché accadono all'interno di nicchie minoritarie.[…]Infine, dopo aver teorizzato la difficoltà del sabotaggio, vorrei concludere dicendo che in realtà, io credo che l'atto di sabotaggio artistico sia un atto, molto lento, ma esistente. […] Io penso che, in fondo, esista un potenziale sovversivo nell'arte visiva. Ad esempio: cosa accade quando si portano, nella casa di un collezionista, le mani di una ragazza morta di Aids (una famosissima fotografia di Andres Serrano)? Queste mani, di cui si intuisce la giovane età e la morte, una volta appese sopra un divano, diventano un atto di sovversione. Non è così assorbibile. Noi crediamo di poter assorbire la presenza di immagini “cattive”, di poter vivere a prescindere da quelle immagini. In realtà, le immagini che l'arte produce (quindi dobbiamo tornare dentro al lavoro, non al suo funzionamento) sono spesso (e credo che qui vada cercato il vero valore dell'arte) immagini che cambiano la nostra coscienza collettiva. Queste immagini sono pochissime, ma voglio sperare che esistano.