Mod 2 mancini_cognigni

62
Modulo 2 La Comunicazione Interculturale Edith Cognigni e Daniela Mancini 1 Università di Macerata 1 Sebbene il modulo sia stato concepito insieme, la stesura dei paragrafi 2.0, 2.1, 2.4 è opera di Daniela Mancini, mentre la stesura dei paragrafi 2.2, 2.3, 2.5, 2.6 è opera di Edith Cognigni. La guida bibliografica nel par. 2.7 è stata curata da Edith Cognigni. Per quanto concerne la guida sitografica, Edith Cognigni ha fornito i link a-i e Daniela Mancini i link j,k. 1

Transcript of Mod 2 mancini_cognigni

Page 1: Mod 2 mancini_cognigni

Modulo 2 La Comunicazione Interculturale Edith Cognigni e Daniela Mancini1

Università di Macerata

1 Sebbene il modulo sia stato concepito insieme, la stesura dei paragrafi 2.0, 2.1, 2.4 è opera di Daniela Mancini, mentre la stesura dei paragrafi 2.2, 2.3, 2.5, 2.6 è opera di Edith Cognigni. La guida bibliografica nel par. 2.7 è stata curata da Edith Cognigni. Per quanto concerne la guida sitografica, Edith Cognigni ha fornito i link a-i e Daniela Mancini i link j,k.

1

Page 2: Mod 2 mancini_cognigni

Indice: 2.0 Guida al modulo 2.1 Introduzione alla comunicazione interculturale

2.1.1 Aspetti e condizioni della comunicazione 2.1.2 Concetti di cultura 2.1.3 Dal multiculturalismo all’interculturalità 2.1.4 Lingua, contesto e comunicazione interculturale

2.2 La competenza comunicativa interculturale

2.2.1 Decostruire gli stereotipi2.2.2 Sapere, saper essere, saper comunicare

2.3 Norme e valori sottesi

2.3.1 Il tempo e lo spazio2.3.2 I rapporti a/simmetrici: status e gerarchia2.3.3 La religione e le pratiche culturali2.3.4 I tabù

2.4 La comunicazione non verbale

2.4.1 Cinesica2.4.1.1 Volto e sguardo2.4.1.2 Gesti2.4.1.3 Contatto2.4.1.4 Postura

2.4.2 Prossemica2.4.3 Vestiti e oggetti2.4.4 Odori e rumori

2.5 La comunicazione verbale

2.5.1 Alcune regole conversazionali 2.5.2 La voce2.5.3 Il silenzio2.5.4 Registro: formale/informale2.5.5 Scelte lessicali e alterità nel linguaggio2.5.6 Retoriche del “testo”

2.6 Conclusioni 2.7 Guida bibliografica e sitografica

2

Page 3: Mod 2 mancini_cognigni

2.0 Guida al modulo Il modulo sulla comunicazione interculturale cerca di offrire degli spunti di riflessione su alcuni aspetti che sottostanno ai concetti di comunicazione e di interculturalità. Ogni scheda si focalizza su un determinato aspetto, non ha la pretesa di dare delle informazioni sulle caratteristiche delle varie culture quanto di problematizzare e di approfondire concetti che l’uso comune ha banalizzato. Abbiamo distinto tra comunicazione non verbale e verbale per il semplice scopo strumentale, comune tra gli studiosi, di tentare di delimitare il campo d’indagine e di analizzare il fenomeno comunicativo dalle due prospettive. Siamo tuttavia consapevoli che nella pragmatica della comunicazione, e in particolare in quella interculturale che attraversa e supera le culture, gli aspetti non verbali e verbali, gli atteggiamenti psicologici ed emotivi, le aspettative e le presupposizioni costituiscono una rete di fili comunicativi interrelati, interdipendenti e, talvolta, anche inconsci. Gli argomenti trattati sono i seguenti: Introduzione alla comunicazione interculturale La competenza comunicativa interculturale Norme e valori sottesi La comunicazione non verbale La comunicazione verbale

3

Page 4: Mod 2 mancini_cognigni

2.1 Introduzione alla comunicazione interculturale Comunicare, nell’accezione comune, significa stabilire un contatto con un’altra persona e implica il trasferimento di un messaggio da una persona ad un’altra. È un termine che attraversa tutte le relazioni e che più di ogni altra parola si presta ad abusi e confusione. Qualificato dall’aggettivo interculturale, il termine si connota di ulteriori dimensioni, di immagini di popoli diversi, di rappresentazioni simboliche contrastanti, di modelli di vita a noi estranei. Indagare, allora, il processo comunicativo e le implicazioni della interculturalità diventa, per chi ricerca, il primo passo per poter arrivare ad una reale interazione. Il valore della comunicazione tra le culture (2.1.2) risiede, a nostro parere, nella ricerca creativa di modi e di strategie adeguate per comunicare. Anche se c’è chiarezza relativamente agli aspetti costitutivi della comunicazione (2.1.1), affrontati da più prospettive, questi approcci analitici (semiotici, conversazionali e discorsivi) non risolvono i problemi della comunicazione pragmatica: 1) la differenza di contesto, percepita dai partecipanti al processo della comunicazione; 2) la diversità esperienziale di mondi personali non condivisi, talvolta così diversi dai modi usuali da sembrare non condivisibili. Coloro che vivono da tempo in uno stesso luogo e che sostengono gli stessi sistemi di valori (2.3), possono esprimere a volte reazioni non mediate, stereotipate (2.2.1) e viscerali nei confronti di chi proviene da realtà estranee. Un’educazione alla comunicazione interculturale, nell’accezione più funzionale di trasversalità, può aiutare ad evidenziare gli automatismi culturali, a esplorare le differenze, a sciogliere i nodi dell’incomprensione radicati nelle singole persone, interagendo con la diversità, ripercorrendo il processo della costruzione individuale della conoscenza e relativizzando l’esperienza personale. Nello scambio comunicativo, un ruolo importante è quello degli elementi del mondo fisico-biologico dei partecipanti, che fanno parte della comunicazione non verbale (CNV) (2.4). Sono i movimenti del corpo e i gesti, che inconsciamente anticipano, sottolineano, seguono le parole e che apparentemente riportano la comunicazione al periodo pre-fasico, alle strutture primarie della relazione tra esseri viventi: alla dimensione più genuina, non contaminata da codici linguistici, culturali e sociali. Ma non è così, perché anche i segnali del corpo sottostanno alle codificazioni che i contesti culturali impongono spazialmente e temporalmente (2.3.1). La competenza comunicativa interculturale richiede allora una serie di conoscenze che vanno da quelle più analitico-razionali degli elementi che costituiscono il processo comunicativo, a quelle più olistiche che riguardano l’acquisizione di pratiche dinamiche interattive. Abbiamo bisogno di stabilire una connessione con l’altro, che è una persona prima di essere un membro di una entità culturale, attraverso un genuino ascolto attivo.

4

Page 5: Mod 2 mancini_cognigni

2.1.1 Aspetti e condizioni della comunicazione Gli aspetti costitutivi della comunicazione, soprattutto in relazione con la teoria dell’informazione, sono stati trattati da molti studiosi, che, in un dialogo “interteorico,” hanno di volta in volta aggiunto qualcosa di nuovo ai risultati raggiunti dai predecessori. Un’importante progenitura può essere attribuita a Lasswell, il cui schema di cinque punti (emittente, contenuto di quello che si dice, canale, ricevente, effetti) ha orientato le successive ricerche. McQuail integra questo schema, che rimanda ad una comunicazione unidirezionale, con le nozioni di feedback, variabili, presupposti, contesto. Le domande alle quali si dovrebbe rispondere per capire l’atto comunicativo dovrebbero quindi essere: “Chi comunica con chi?; Perché si comunica?; Come avviene la comunicazione?; Su quali temi?; Quali sono le conseguenze della comunicazione? Un ulteriore schema riassuntivo è stato elaborato da Hymes che raggruppa gli elementi in otto categorie, riassunte nell’acronimo SPEAKING: Setting (elementi contestuali in senso lato), Partecipants (i partecipanti), Ends (gli obiettivi e gli esiti raggiunti), Art characteristics (le forme e i contenuti), Key (il modo in cui l’atto è compiuto), Instruments (il canale e il codice), Norms (le norme interattive e interpretative), Genres (le categorie degli atti comunicativi). Il quadro dell’atto comunicativo si configura così in modo molto complesso e lo diventa ancora di più, se consideriamo le ricerche che si sono sviluppate nei singoli ambiti. Nella prospettiva della semiotica, il modello della Situazione Comunicativa di Petöfi (in stampa) ci aiuta a descrivere in modo chiaro gli elementi costitutivi che si intrecciano nel processo della comunicazione. In pratica, nelle situazioni di vita quotidiana, la comunicazione tra le persone si colloca in uno specifico contesto e si orienta secondo le forze locutoria, illocutoria e perlocutoria di quello che si comunica. La conoscenza dei fattori della comunicazione non garantisce tuttavia il successo della comunicazione stessa. Le condizioni per il suo successo non possono essere ricercate in schemi astratti, ma negli atteggiamenti di disponibilità al dialogo condivisi dai partecipanti. Nel caso di rapporti interpersonali, e ancor più con membri di culture differenti, è necessario rimuovere alcuni ostacoli:

1) il primo riguarda la carenza di informazioni relativa ai due mondi che vengono in contatto (il mondo dell’immigrato e quello dell’autoctono);

2) il secondo, interfaccia del primo, è la serie di presupposizioni, di cui non si ha consapevolezza, che derivano dalle varie concezioni del mondo e dalle costruzioni simboliche (miti) negli universi mentali degli individui;

3) il terzo può essere rappresentato dallo squilibrio tra le intenzioni comunicative dei partecipanti, uno interessato a risolvere problemi primari, quali trovare un lavoro, una casa e il soddisfacimento di bisogni quotidiani, l’altro più o meno desideroso di stabilire un contatto per varie motivazioni.

5

Page 6: Mod 2 mancini_cognigni

2.1.2 Concetti di cultura Il titolo sottolinea la difficoltà di definire la nozione di cultura e l’esistenza di varie concettualizzazioni della stessa in ambiti e periodi differenti. Per introdurre il problema facciamo riferimento ai tre ambiti che Raymond Williams (Keywords. A vocabulary of culture and society, Fontana Press, Londra, 1976 [rist. 1988], pag. 90) individua nell’uso della parola “cultura”. Essa è intesa come:

1. termine astratto che descrive il progresso intellettuale, spirituale ed estetico (dal XVIII secolo);

2. termine che indica un particolare modo di vita, sia di un popolo, di un periodo, di un gruppo di persone o dell’umanità in generale (da Herder e Klemm);

3. termine astratto che descrive i prodotti e le pratiche dell’attività intellettuale ed artistica, per cui la cultura comprende la musica, la letteratura, la pittura e la scultura, il teatro e il cinema. Questo è il senso più ampiamente usato oggi, a cui si rapportano le attività del Ministero della Cultura.

Il termine possiede una storia complessa e ancora in evoluzione, il che ci induce a pensare che i riferimenti stessi della definizione di “cultura” si rinnovino continuamente. In merito alle culture occidentali o alla nostra cultura si preferiscono solitamente i sensi 1 e 3 (per cui la nostra è una cultura che progredisce, che produce, sia in senso materiale che spirituale), mentre per parlare delle culture dei migranti si utilizza il secondo, riprendendo posizioni etno-/eurocentriche che sono state superate anche dalla stessa antropologia culturale (vedi etnologia come frutto della colonizzazione). Questo concetto di cultura è dunque afflitto dal determinismo e vede la società come un’ipostasi. Il concetto di cultura è stato uno strumento teorico, un oggetto culturale che è servito per studiare il fenomeno, per distanziare l’oggetto di studio dallo studioso, ma che attraverso l’azione di antropologi e sociologi ha inglobato progressivamente elementi della sfera sociale, liberando il concetto dall’impasse descrittivo-tassonomico e dalla corrispondenza quasi automatica di cultura=etnia=razza. Molte sono state le concettualizzazioni antropologiche di cultura (nel 1952, Kroeber e Kluckhohn registrarono circa trecento definizioni), ma, come sottolinea Rivera, non si risolve l’ambiguità del termine (A. Rivera, “Etnia-etnicità” in R. Galissot, M. Kilani, A. Rivera (a cura di), L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Edizioni Dedalo, Bari, 2001). Se si sostiene che la cultura costituisce una realtà/entità diversa, con stratificazioni e strutturazioni del senso, tipiche e peculiari, generalizzate, si incorre nel pericolo di enfatizzare la differenza e di creare recinti in cui gli stessi membri si sentono costretti. L’idea che la cultura sia un blocco monolitico, unico, contrasta con la realtà che si arricchisce di nuove forme sociali e culturali e propone comportamenti e atteggiamenti discontinui e variegati. Nella circolazione planetaria delle merci e dei modi di vita, nel pericolo d’uniformazione culturale e di cancellazione delle differenze, si assiste, in questi ultimi tempi nei paesi di immigrazione, alla ricomposizione di culture terze, culture di diaspora, anche se in forma più frammentata e meticcia, che si formano come difesa contro la marginalizzazione. Al concetto di cultura, che divide e che inevitabilmente porta alla frantumazione della società in gruppi di persone in lotta tra di loro, alcuni propongono l’atteggiamento di universalismo critico che sostiene “una visione della storia aperta, in cui la coesistenza e il métissage fra le culture sono la regola” (M. Kilani, “L’ideologia dell’esclusione. Note su alcuni concetti chiave”, in R. Galissot , M. Kilani, A. Rivera (a cura di), op. cit.).

6

Page 7: Mod 2 mancini_cognigni

2.1.3 Dal multiculturalismo all’interculturalità Il termine multiculturale ha origine statunitense ed è stato usato in tale contesto per sostituire il termine melting pot inefficace ormai a descrivere la società americana. Le rivolte dei ghetti neri, del radicalismo black (Black Panthers), i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, resero possibile la crescita di movimenti di rivendicazione “etnica,” di valorizzazione del pluralismo culturale, che comunque non poneva fine alla gerarchizzazione sociale, all’accesso ineguale alle risorse e al potere, e alle reazioni razziste. Le antiche potenze coloniali europee hanno dovuto accogliere numerosi individui provenienti dalle colonie e, per gestire l’etereogeneità, hanno seguito tre principali modelli:

- il modello integrazionista (Svezia, Olanda, Regno Unito) che riconosce alle minoranze il diritto di espressione della propria cultura di origine nella sfera pubblica;

- il modello assimilazionista, monoculturale in cui i gruppi minoritari tendono ad inglobarsi nella società d’accoglienza (per esempio, in Francia in cui si riconoscono diritti individuali universali e si favorisce l’assimilazione della popolazione immigrata).;

- il modello multiculturale, delle azioni positive (affirmative action), che cerca di superare le due posizioni, presenta delle accezioni diversificate, come ad esempio negli Stati Uniti. La politica multiculturale, di tutela delle identità non è riuscita, comunque, nell’intento di garantire a tutti gli stessi diritti: le minoranze (nera, nativa, messicana, portoricana) continuano a vivere in condizioni di indigenza, ad abitare zone degradate, ad avere un’istruzione scadente e a costituire una buona parte della popolazione carceraria degli Stati Uniti.

I primi due modelli presentano risvolti insoddisfacenti. Il primo favorisce la radicalizzazione dei conflitti, la segregazione e la marginalizzazione, il secondo, pur avendo assicurato l’integrazione ad un certo numero di immigrati nel passato, non riesce più a garantire loro l’inserimento sociale e la tutela dei diritti universali. (A. Rivera, “Etnia-etnicità” in R. Galissot, M. Kilani, A. Rivera (a cura di), L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Edizioni Dedalo, Bari, 2001). La società multiculturale si trova ad affrontare il problema di conciliare il bene collettivo con quello individuale e deve trovare una via d’uscita tra l’omogeneizzazione di un universalismo astratto e la difesa del particolarismo che oppone gli uni agli altri. È necessario un approccio diverso. L’interculturalismo introduce un concetto più universalistico, definisce i termini dell’incontro, della negoziazione ed è capace di riconoscere le migliaia di assimilazioni che hanno luogo ogni giorno in un discorso che rende possibile lo scambio e la contaminazione e sancisce le identità meticce e l’ibridazione culturale. L’approccio interculturale è una scelta pragmatica in una società multiculturale per superare le barriere e costruire uno spazio di interazione, di reciprocità e di vera solidarietà.

7

Page 8: Mod 2 mancini_cognigni

2.1.4 Lingua, contesto e comunicazione interculturale La lingua intesa come fonte di identità nazionale, e generalmente fondata sui testi sacri, esprime la speranza messianica in un destino nazionale. Per esempio, l’arabo, non l’arabo come lingua parlata quotidianamente, ma la lingua sacra del Corano e dell’universalità dei credenti, veicola il sentimento di appartenenza alla Nazione araba ed è inteso come il baluardo contro l’alienazione culturale ed economica proveniente dall’esterno e specialmente dall’Occidente. La stessa sacralità della lingua si ritrova nella lingua ebraica, biblica e rinnovata, che Elizer Ben Yehouda scelse come cemento per le popolazioni eterogenee, provenienti da tutte le parti del mondo e invitate a fondersi nello Stato di Israele. Il serbo-croato, la fusione tra la lingua serba e quella croata, fu il puntello per la nascita della Jugoslavia dopo la Prima guerra mondiale. Più recentemente, nel 1983, la Catalogna ha normalizzato l’uso del catalano, in attesa di diventare lingua ufficiale della regione. L’idea della purezza della lingua non è un fenomeno (e un atteggiamento) isolato. Gli ambiti (costruiti ideologicamente) in cui la nozione di purismo può essere applicata, sono molti: la religione, la cultura, la razza, l’etnia; ma l’atteggiamento di fondo, in tutti questi contesti, è generato dal senso di difesa dal nuovo, dall’ansia verso ciò che è estraneo, dal timore della destabilizzazione. Nella situazione italiana, il tentativo “purista”, di difendere la lingua da invasioni di parole straniere, si confronta sia con le costruzioni mediatiche sia con la ricchezza di parole, gesti, profumi e colori che arrivano da tutte le parti del mondo tramite i nuovi “messaggeri” con grande possibilità di dilatazione della lingua italiana. La lingua viva, parlata e vissuta, ha un carattere mercuriale, sfuggente a ogni regola sistematica, aperta al conio di nuove parole, e all’assimilazione di regionalismi e di termini da altre lingue, allorché non è possibile trovare il corrispettivo concettuale e simbolico nella nuova lingua. Le parole che vengono mantenute in originale ci conducono così verso la comprensione di dimensioni nuove e verso un arricchimento sia culturale che linguistico. La lingua smette di essere un luogo di omogeneità, di chiusura e diventa fucina di diversità, di racconti e di esperienze che si incontrano in una reciprocità narrativa interculturale. La possibilità comunicativa richiede allora scelte metodologiche nuove e contesti allargati in cui costruire relazioni. Le istituzioni scolastiche che da tempo hanno attivato corsi di alfabetizzazione per adulti hanno individuato nell’orientamento narrativo un metodo di lavoro, che attraverso la narrazione del sé, delle proprie storie permette una relazione più autentica tra i parlanti. Ma è necessario individuare, creare altri contesti, al di là di quelli scolastici e istituzionali, per stare insieme e comunicare. Contesti più autentici, più naturali, incontri, feste, passeggiate in cui tutti i linguaggi umani, da quello corporeo a quello musicale vengano utilizzati appieno, al fine di rendere sempre più pregnante e ricca l'interazione tra le persone. Se la fondamentale necessità dei nuovi cittadini è quella del soddisfacimento di bisogni primari, quella più essenziale alla comunicazione vera è la possibilità di scambiare i linguaggi e i simboli che sono parte del mondo esperienziale, immaginario e concreto, degli abitanti del mondo.

8

Page 9: Mod 2 mancini_cognigni

2.2 La competenza comunicativa interculturale

Il concetto di competenza comunicativa elaborato in ambito sociolinguistico negli anni Settanta, ha dato vita a vari approcci comunicativi all’insegnamento delle lingue straniere. Basandosi sulla tradizionale distinzione tra parlante nativo e parlante non nativo, tali approcci hanno cercato in varia misura di definire quali abilità fossero necessarie per interagire in modo efficace con un madrelingua. In anni più recenti, tuttavia, l’indiscussa nozione di parlante nativo di trenta anni fa è diventata molto più instabile e complessa. In un’epoca in cui le migrazioni internazionali e i contatti transnazionali e transculturali rappresentano la norma, in cui le classi scolastiche sono eterogenee per provenienza geografica, background culturale e linguistico, è bene chiedersi se il modello monolinguistico (e monoculturale) del parlante nativo abbia ancora ragione di esistere come asse di riferimento, e non solo nell’insegnamento linguistico. Se da un lato è vero che l’immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente rispetto ad altre parti del mondo (es. gli USA o la Francia), è pur ragionevole affermare che il paradigma “una lingua, un popolo, una nazione” era già inadeguato per la realtà scolastica italiana di pochi decenni fa, quando l’italiano era quasi una lingua straniera per molti bambini provenienti da aree fortemente dialettofone. Molti studiosi (per una rassegna vedi C. Kramsch, “The privilege of the intercultural speaker”, in M. Byram e M. Fleming (a cura di), Language Learning in Intercultural Perspective, CUP, Cambridge, 1998, pgg. 16-31) hanno proposto di sostituire la nozione di parlante nativo con quella di “parlante interculturale”, questione non puramente terminologica se si pensa che ognuno di noi possiede molte identità sociali, “culture” e “lingue” (lingue straniere, dialetti, varietà regionali, lingue-culture di gruppo, ecc.).

Chi è allora il parlante nativo? Poiché nell’atto di comunicare ogni partecipante veicola uno specifico repertorio di identità, posizioni e aspettative formate attraverso relazioni complesse con la propria cultura o con culture altre, ogni comunicazione può dirsi intrinsecamente interculturale. Il parlante interculturale dovrebbe quindi essere cosciente delle numerose identità presenti nell’interazione ed essere in grado di mediare, di stabilire cioè delle relazioni tra la propria cultura e quella degli altri sulla base di una competenza comunicativa interculturale. Essere sensibili alla natura interculturale di ogni comunicazione significa, in primo luogo, combattere atteggiamenti resistenti alla diversità e alla differenza, decostruendo gli stereotipi (2.2.1) e accettando una nozione più ampia di identità personale. Divenire parlanti in grado di mediare culturalmente e linguisticamente vuol dire inoltre acquisire conoscenze e abilità che permettano di interagire in modo critico e creativo con parlanti, nativi o meno, di una data lingua (2.2.2).

9

Page 10: Mod 2 mancini_cognigni

2.2.1 Decostruire gli stereotipi Come ci fa notare la psicologia, lo stereotipo rappresenta una categoria cognitiva necessaria alla semplificazione della realtà e rispondente al bisogno di nutrire delle aspettative circa le persone e lo sviluppo degli eventi (per approfondire vedi B. M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino, 1997). In quanto cliché che cristallizza l’altro in immagini fisse, docili al controllo e alla manipolazione, lo stereotipo aiuta a filtrare la realtà circostante e a relazionarsi con l’incerto e l’inatteso. La presa di coscienza di questa “economia della mente” e l’osservazione critica dei fenomeni costituiscono il primo passo da affrontare per poter giungere all’eventuale messa in discussione di rappresentazioni preconfezionate, basate spesso più sul senso comune che sull’esperienza diretta. Una comunicazione interculturale efficace non avrebbe modo di realizzarsi se non si operasse nel senso di un decentramento cognitivo che ci consenta di rimettere in discussione la nostra soggettività e il nostro sistema di valori (per una proposta applicativa clicca qui). Tuttavia ci chiediamo se decostruire o smascherare lo stereotipo (capirne le ragioni storiche e culturali che ne sono alla base e prendere coscienza del fatto che si tratti di un processo “naturale”) sia sufficiente per liberarsi da certi automatismi cognitivi. Non si rischia forse, per paura di divenire noi stessi preda di questo male diffuso, di sostituire semplificazioni costrittive (“tutti gli islamici sono fanatici”) con altre semplificazioni (“il fanatismo islamico non esiste”)? La vera sfida, per l’insegnante come per il parlante interculturale, sarà allora quella di essere in grado di costruire, all’interno della relazione con l’altro, “rappresentazioni intersoggettive negoziabili” (M. De Carlo, L’interculturel, CLE International, Paris, 1998, pag. 87) nelle quali ci si possa riconoscere vicendevolmente. Il dialogo tra identità e alterità deve quindi potersi realizzare nei due sensi, anche se può spesso essere difficile sopportare lo spettacolo della nostra immagine riflessa nello specchio che ci porgono gli altri. In relazione di continuità rispetto a percorsi già tracciati, l’ipotesi di riflessione ulteriore che qui proponiamo è che lo stereotipo sia, oltre che immagine dell’alterità, un elemento costitutivo dell’identità di ciascuno (M. De Carlo, op. cit., pag. 88). Se infatti per identità personale intendiamo l’idea che ognuno si fa di sé, esiste un legame stretto tra noi e gli altri: la nostra identità dipende al contempo da come noi ci vediamo e da come gli altri ci vedono. Il concetto stesso di identità non avrebbe infatti modo di esistere al di fuori di una dialettica con l’altro, sia esso il simile o il diverso. Viviamo dunque il paradosso secondo il quale per affermare il nostro “io” si deve riconoscere la presenza del “non-io”, al contempo condizione necessaria e minaccia alla nostra esistenza. La presa di coscienza di questa intrinseca natura dialogica di ogni soggetto è, a nostro parere, antecedente ad ogni discorso interculturalmente fondato.

10

Page 11: Mod 2 mancini_cognigni

2.2.2 Sapere, saper essere, saper comunicare Il modello di competenza comunicativa interculturale di M. Byram (Teaching and Assessing Intercultural Communicative Competence, Multilingual Matters, Clevedon, 1997, pgg. 58-63) suggerisce che, per realizzare una interazione interculturale riuscita, sia necessario tenere in considerazione le seguenti dimensioni:

- Atteggiamenti (savoir être): curiosità ed apertura, disponibilità ad abbandonare atteggiamenti etnocentrici. - Conoscenze (savoirs): circa i gruppi sociali e le loro culture, presenti nel proprio paese e in quello dell’interlocutore; circa i processi generali di interazione sociale e individuale. - Abilità di interpretare e di mettere in relazione (savoir apprendre): abilità di interpretare un documento o un evento di un’altra cultura, di spiegarlo e di metterlo in relazione con documenti ed eventi della propria. - Abilità di scoperta e di interazione (savoir faire): abilità di acquisire nuove conoscenze circa una cultura e le sue pratiche culturali; abilità di gestire le tre dimensioni precedenti nella comunicazione e nell’interazione in tempo reale. - Consapevolezza culturale critica (savoir s’engager): abilità di valutare criticamente, e sulla base di criteri espliciti, punti di vista e pratiche della propria e dell’altrui cultura.

In particolare, il saper essere di un parlante interculturale consiste nell’abilità affettiva di superare il malessere derivante dal confronto (incontro, ma talvolta scontro) di due sistemi culturali e, quindi, di due punti di vista non sempre convergenti. Esso implica la capacità di distanziarsi dal proprio sistema di valori, in modo che la percezione della diversità non sia falsificata da un punto di vista esclusivamente monoculturale. Ogni comunità linguistica possiede inoltre dei saperi (impliciti o espliciti) più o meno condivisi e giudicati evidenti dai suoi membri. E’ pertanto importante conoscere, ad esempio, come ci si saluta o si ringrazia in una lingua-cultura diversa dalla propria (2.5.1), ma è altrettanto importante essere coscienti di quei saperi, inevitabilmente impliciti, che sottendono le differenti maniere di comunicare, ovvero di quelle norme e valori di cui tratteremo più avanti (2.3). Nella realtà scolastica italiana la promozione degli aspetti sopra indicati non dovrebbe essere appannaggio dei soli docenti di lingua, materna o straniera che sia, ma responsabilità di ogni singolo attore scolastico coinvolto nel processo educativo. In tale ottica l’incontro con la diversità si traduce non tanto in una immersione tout-court del parlante non nativo nel sistema linguistico e valoriale del paese d’immigrazione o nella sua folklorizzazione, ma nella creazione di uno “spazio terzo” costruito dallo sforzo congiunto di insegnanti, allievi italiani e allievi stranieri.

11

Page 12: Mod 2 mancini_cognigni

2.3 Norme e valori sottesi

Sin dalla prima infanzia, attraverso il processo di socializzazione in un determinato contesto socioculturale, l’individuo acquisisce norme, valori e modelli comportamentali caratteristici di una comunità culturale. Poiché appresi e non innati, questi modelli sono dunque suscettibili di giudizio, ma valutarli unicamente attraverso le lenti della propria cultura non può che produrne un’immagine distorta che si cristallizza facilmente in stereotipi e pregiudizi. La realtà osservabile dei comportamenti e delle pratiche culturali (lingua, rituali, abitudini alimentari, abbigliamento, ecc.) andrebbe interpretata anche alla luce delle norme e dei valori ad essi sottesi. Essi non vanno però letti come condizioni ineluttabili che generano dei comportamenti, ma piuttosto come dei condizionamenti che permettono ad un individuo di riconoscersi in una determinata comunità culturale, fornendogli al contempo un quadro di riferimento per l’elaborazione di orientamenti soggettivi.

Le norme si sviluppano sia a livello formale, in forma di leggi codificate, sia a livello informale, come strumenti di controllo sociale. Come suggerisce F. Trompenaars (Riding the Waves of Culture, The Economist Books, Londra, 1993), esse possono essere considerate come il senso comune che una comunità culturale possiede circa ciò che è “giusto” o “sbagliato”. Rientrano in questo ambito aspetti come i diritti e i doveri, le tradizioni, le relazioni interpersonali e familiari, le gerarchie, le aree tabuizzate, ecc.

I valori, che influenzano atteggiamenti, criteri di giudizio e di scelta, sostanziano la definizione di ciò che è ritenuto “buono” o “cattivo” e possono essere visti come ideali positivi che generano un desiderio. Rientrano in questo ambito le credenze religiose, i concetti di solidarietà e di libertà individuale, la concezione del tempo e dello spazio, il rapporto con la natura, ecc.

Nei paragrafi a seguire analizzeremo alcuni di questi aspetti, scelti tra quelli ritenuti più idonei ad una riflessione critica in ambito formativo e necessari per un decentramento dal proprio sistema di valori. In particolare:

- tempo e spazio; - status e gerarchia; - religione e pratiche culturali; - tabù

12

Page 13: Mod 2 mancini_cognigni

2.3.1 Il tempo e lo spazio

Il rapporto con le categorie di tempo e di spazio è multiforme e varia a seconda delle diverse comunità culturali. Abituati alla rappresentazione del tempo proposta dalla storia tradizionale - una successione lineare e cronologica di avvenimenti - si dimentica spesso che il tempo, a seconda delle comunità culturali, ha un’infinità di modi d’uso. Il tempo può infatti essere percepito come lineare o circolare, per dirla con il noto storico delle religioni M. Eliade, ma anche senza contrapporre pensiero occidentale e pensiero delle civiltà orali, è ugualmente possibile rendersi conto di quanto e come la percezione del tempo sia diversificata nelle culture contemporanee. Si pensi, ad esempio, al diverso valore che può avere la puntualità per un nord-europeo o per un latino. Secondo la cultura, ma anche il genere dell’incontro e il rapporto con la persona che facciamo attendere, il nostro ritardo può essere interpretato come un insulto, un segno di irresponsabilità, o addirittura come un gesto appropriato. Il tempo come risorsa da organizzare e monetizzare, il tempo libero dei passatempi e del consumo, o il tempo della formazione, strutturato e programmato in funzione di obiettivi futuri e progetti da realizzare, saranno ugualmente concetti cangianti alla luce della variazione culturale. E’ plausibile quindi, come sostiene E. T. Hall, che una concezione diversa dello scorrere del tempo influenzi i comportamenti soggettivi, le relazioni interetniche e la comunicazione verbale (2.5) tra persone di culture diverse. Lo spazio, come il tempo, non può essere l’oggetto di una lettura univoca poiché la sua interpretazione s’iscrive in una molteplicità di visioni del mondo. Ogni comunità demarca il proprio spazio trasformandolo in “luoghi”, mutando cioè lo spazio geografico in spazio socioculturale. Se dunque il concetto di spazio è influenzato, più che determinato, dagli schemi che interiorizziamo attraverso uno o più specifici contesti culturali, i concetti di distanza interpersonale (2.4.2), di uso e rispetto dello spazio pubblico e di quello privato (es. la “casa” e i suoi rituali di accesso) o di ciò che è considerato vicino/lontano, grande/piccolo ecc. non saranno universalmente validi. Anche la scuola, in quanto spazio organizzato, può essere intesa come espressione di una particolare visione del mondo: la disposizione di banchi e cattedra nell’aula italiana tradizionale trasmette una specifica cultura scolastica, retaggio di una mentalità educativa in cui gerarchia e disciplina erano valori ancora molto forti. Riflettere su gestioni differenti dello spazio scolastico e delle strutture mobili dell’aula, magari sperimentando in classe quelle di paesi lontani, potrebbe permettere ad insegnante ed allievi di percepire e vivere lo spazio non come semplice aggregato di tratti fisici, ma per la sua dimensione di territorio simbolicamente e culturalmente delimitato (per una proposta applicativa clicca qui).

13

Page 14: Mod 2 mancini_cognigni

2.3.2 I rapporti a/simmetrici: status e gerarchia Stratificazioni e differenze sociali esistono in tutte le società, per cui in una stessa cultura la comunicazione interpersonale è spesso caratterizzata da relazioni asimmetriche legate ad una diversa distribuzione del potere. Varia tuttavia da cultura a cultura il modo di percepire, tollerare e rendere esplicita la distanza gerarchica che ne deriva, sia attraverso la scelta di determinati registri verbali (2.5.4) che nell’uso di vestiti e oggetti (2.4.3) come simboli di status. Nelle culture in cui il concetto di gerarchia è molto forte, come quelle africane o asiatiche, la consapevolezza circa il proprio ruolo nella società e nella famiglia informa di sé l’intera sfera delle relazioni interpersonali. Pertanto, anche nell’incontro con un individuo di cultura diversa si avrà la tendenza ad esplicitare sin da subito la propria posizione sociale ed economica, cosa che può creare imbarazzo o irritazione se l’interlocutore percepisce status e gerarchia in maniera differente. Infatti, nelle culture in cui la distanza gerarchica è debole (es. quella nord-americana o nord-europea), in quanto uguaglianza e rispetto del singolo sono ritenuti prioritari, l’ostentazione di simboli di prestigio o di privilegi tramite titoli e appellativi è di solito mal tollerata. La questione diventa particolarmente delicata in ambito formativo, in cui l’interazione tra insegnante e studenti o tra insegnante e genitori ingenera l’incontro di tradizioni educative e percezioni gerarchiche reciproche spesso molto diverse (vedi anche 4.5. Stili partecipativi e culture diverse). Il concetto di gerarchia si fonda su quello di status che, nelle varie culture, può essere attribuito o ottenuto a seconda di nascita, età, sesso, livello di istruzione, appartenenza familiare, occupazione, potere economico, ruolo sociale, ecc. In molti paesi africani e asiatici, ad esempio, l’età è simbolo di saggezza e di alto prestigio sociale, pertanto i rapporti familiari e sociali sono regolati da precise scelte linguistiche oltre che da norme comportamentali: in cinese, ad esempio, non si può fare riferimento ad uno zio paterno senza indicare contemporaneamente se è un fratello maggiore o minore del padre. In quanto all’attribuzione di status legato alle differenze di genere, il contesto religioso ha certamente il suo peso: nei paesi arabo-musulmani, ad esempio, alla donna viene attribuito lo status particolare di credente, sposa e madre per sottolinearne il ruolo di portatrice di valori religiosi e preservatrice delle tradizioni, escludendola però spesso dalla vita pubblica di pertinenza dell’uomo. Ad un’attenta analisi del Corano si scopre tuttavia che non tutto è attribuibile a questioni puramente religiose, ma che la concezione della donna nel mondo arabo-islamico è anche il frutto di un lungo processo storico in cui la religione si è fatta codice espressivo di rapporti di forza prevalenti (per approfondire clicca qui).

14

Page 15: Mod 2 mancini_cognigni

2.3.3 La religione e le pratiche culturali

Interrogarsi sulle norme e sui valori di altre comunità culturali significa anche riflettere sul ruolo che la religione riveste nella definizione sia di comportamenti rituali socialmente condivisi che di scelte e posizioni soggettive. La sua funzione di conservazione della sfera simbolica rende la religione un meccanismo coagulante di appartenenza ad un’identità collettiva: chiese e moschee sono luoghi della condivisione e dell’incontro e, quindi, di appartenenza ad un gruppo, oltre che emblemi di una professione di fede. Parallelamente, i testi sacri (Bibbia, Corano, Talmud, ecc.) costituiscono referenti importanti per orientare vissuti individuali e collettivi, anche oltre le frontiere nazionali. Come è noto, può esistere un generale consenso tra popolazioni musulmane maghrebine, pachistane o senegalesi su come alimentarsi, abbigliarsi, educare i propri figli ecc. Tuttavia, vale la pena sottolineare che le religioni sono anche dei referenti instabili e provvisori che, come le stesse “culture”, sono soggetti al mutamento. Esse vanno pertanto lette alla luce dei diverse contesti storico-culturali in cui si sono formate, dei percorsi biografici e degli universi socioculturali dei migranti che le rappresentano ai nostri occhi, dell’ibridazione che subiscono nell’incontro con la società italiana. Si scopre così che anche tra popolazioni con una religione “totalizzante” come l’Islam esistono persone alle quali la religione interessa poco o per niente, come succede spesso in Italia o nel resto dell’Occidente; che esistono tante e tali sfumature all’interno del “mondo musulmano” per cui non ci si deve sorprendere se un pachistano accetta un bicchiere di vino o se una tunisina non indossa il chador. Questo ci porta a concludere che, nell’incontro interculturale, è necessario operare con cautela prima di considerare - solo per fare un esempio tra i più diffusi - l’Islam come blocco indifferenziato e di ascrivere a prescrizioni coraniche comportamenti visibili (dal modo di abbigliarsi alla relazione tra i sessi) che spesso dipendono da specifiche pratiche culturali locali. Non considerare queste diversità, inerenti al singolo migrante o alla comunità culturale da cui proviene, può comportare il rischio che certi simboli identitari (chador, turbante sikh, ecc.) siano stigmatizzati come catalizzatori di differenze interreligiose irrimediabili e, dunque, dell’impossibilità di trovare punti in comune su cui fondare una comunicazione efficace. Come rilevato da alcune ricerche sociologiche, sono talvolta gli stessi migranti a rivendicare determinati simboli come tratti peculiari della propria religione: il loro recupero in terra di migrazione si arricchisce di nuovo senso e diventa un modo per enfatizzare un’appartenenza identitaria che si sente minacciata (per approfondire clicca qui).

15

Page 16: Mod 2 mancini_cognigni

2.3.4 I tabù

Derivante dal polinesiano ‘ta-pu’ - nel quale indicava il sacro e, quindi, l’inibito - nelle società moderne il termine tabù indica ciò che è proibito per tradizione morale e sociale, il quale può essere o meno interdetto dalla giurisdizione formale. Sebbene esistano tabù comuni a gran parte delle culture (relativi, ad esempio, a sessualità, morte, malattia, funzioni e umori corporali, ecc.), ve ne sono molti che variano considerevolmente da cultura a cultura, come ad esempio i tabù legati all’uso dei gesti, del vestiario o del cibo, ma anche ad aspetti apparentemente superficiali come animali, numeri e colori. Trattandosi di costruzioni sociali, i canoni che determinano il grado di inaccettabilità di un tabù sono legati allo specifico contesto socioculturale e storico in cui sono stati creati. Si pensi a quanto poteva essere tabù la nudità nella nostra società di qualche decennio fa e a quanto lo è oggi o all’insorgere di tabù “moderni” come quelli legati alla sfera delle cure psicologiche o della pedofilia. Dal punto di vista più strettamente verbale, i tabù possono riguardare:

- parole o nomi, come il divieto di nominare il nome di Dio nella religione ebraica o all’uso, diffuso in più lingue, di eufemismi, metafore e vocaboli specialistici per dissimulare il concetto tabuizzato (es. “trapasso/decesso” per morte, “bisogni fisiologici/deiezioni” per escrementi, “persona della terza età/anziano” per vecchio, ecc.); - argomenti di conversazione: parlare del proprio reddito è per noi italiani alquanto innaturale, mentre se ne discute con più disinvoltura in America, in Oriente o in molti paesi emergenti in cui l’esibizione del denaro è accettata e ricercata (P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999, pag. 67); informarsi circa l’età, lo stato civile, il credo religioso o politico dell’interlocutore al primo contatto è spesso considerato indiscreto nelle culture occidentali, mentre in Cina e in altre culture asiatiche è un modo per stabilire un rapporto di fiducia con l’altro.

In quanto specifici di una determinata cultura e non sempre codificati, i tabù rappresentano dunque un aspetto delicato nell’interazione interculturale. La loro inconscia violazione da parte di uno dei partecipanti e il blocco comunicativo che ne può derivare sono spesso l’unico modo per diventarne consapevoli. Nella classe multietnica, sarebbe pertanto indicato avviare un “discorso sul tabù” (H. Schröder “Recherche interculturelle sur le tabou - un défi aux sciences culturelles”, in Etudes culturelles internationales, Section VII, INST, 1999) al fine di sensibilizzare gli studenti circa gli argomenti, gli oggetti e le azioni tabuizzate nelle varie culture presenti in classe, nel rispetto dei reciproci contesti culturali e comunicativi. A tal fine sarà utile facilitare l’apprendimento di un vocabolario adeguato (eufemismi, metafore, circonlocuzioni, ecc.), di strategie verbali e non verbali, di strategie metacomunicative di riparazione atte alla gestione dei domini tabuizzati.

16

Page 17: Mod 2 mancini_cognigni

2.4 La comunicazione non verbale Se nella discussione sugli aspetti costitutivi della comunicazione (2.1.1), il focus dell’analisi è costituito dalla parte verbale e dall’atteggiamento psicologico alla comunicazione, dobbiamo ora considerare altri elementi che hanno la possibilità di influenzare o ostacolare l’atto comunicativo: gli elementi della comunicazione non verbale, la cui analisi può esserci di aiuto soprattutto nell’iterazione tra esperienze culturali diverse. Questi segni, che condividiamo con i membri del mondo animale, ci riportano a periodi antichi. Se il linguaggio si è sviluppato più di cinquantamila anni fa e la scrittura solo da seimila anni, i gesti della comunicazione sono molto più stratificati e raggiungono i livelli della pre-umanità. Molti significati sono stati analizzati: le espressioni facciali, lo sguardo, (2.4.1.1) i gesti e i movimenti del corpo (2.4.1.2), il contatto fisico (2.4.1.3), la postura (2.4.1.4), il comportamento spaziale (2.4.2), l’abbigliamento (2.4.3), l’odore, le vocalizzazioni non verbali (2.4.1.4). Quello che dobbiamo considerare, tuttavia, è la possibilità di incomprensione che insorge quando persone di culture differenti si incontrano. Gesti che nel nostro paese sono di cortesia, possono comunicare ostilità o offesa in altri e viceversa. Per una effettiva ed efficace comunicazione interculturale bisogna allora sviluppare, partendo dall’autocoscienza di quelli propri, un’attenzione critica, un’osservazione attenta ai segni, anche quelli apparentemente insignificanti, dei comportamenti della socialità. Non che tutti dobbiamo diventare degli antropologi/etnologi, ma alcuni strumenti di queste discipline, quali griglie di osservazione, video registrazioni, possono rivelarsi preziosi anche per il nostro lavoro. Ci sono, comunque, delle considerazioni da fare: la prima sulla genuinità dei comportamenti. Gli elementi che fanno parte di un modello culturale sono il risultato di mediazioni e di adattamenti che i singoli individui sperimentano e che mettono in atto come strategie di compensazione in situazioni di disparità, per cui trovare comportamenti autentici è quindi difficilissimo; la seconda sulla rilevanza della disponibilità al dialogo nei rapporti interpersonali. Dobbiamo certamente conoscere i vari segni con cui una particolare “cultura” esprime la sua esperienza del mondo, ma è necessario sempre tener presente che nei rapporti interculturali siamo di fronte a delle persone, che come tali reagiscono in modo individuale, saltano gli steccati delle regole e delle tradizioni, si adattano alle nuove situazioni. La conoscenza del loro background, sociale e culturale, è certamente importante, ma la mancanza di comunicazione non dipende dalle incomprensioni riguardo ad un gesto o ad un comportamento, quanto dalla mancata disponibilità a tenere aperta la comunicazione, se qualche incomprensione dovesse sorgere. Poiché è impensabile offrire una panoramica esauriente delle varietà dei segni, in ogni scheda successiva verranno riportati solo alcuni esempi illustrativi.

17

Page 18: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.1 Cinesica Si intende per cinesica l’insieme dei gesti, o delle sequenze di gesti, significativi che realizzano funzioni di interazione nelle situazioni comunicative interpersonali. Questi segni riguardano il volto e sguardo (2.4.1.1), i gesti (2.4.1.2), il contatto (2.4.1.3) e la postura (2.4.1.4). La manifestazione fisica di una persona segnala dei significati, la cui decodificazione permette una comprensione maggiore di quello che sta avvenendo in un atto comunicativo. Che cosa si comunica con il corpo?

- emozioni, soprattutto attraverso il viso, il corpo e la voce; - atteggiamenti di relazione, attraverso cenni che segnalano la volontà di interagire, come il

contatto, lo sguardo e l’espressione del volto; - desiderio di mantenere aperto il canale comunicativo, con cenni del capo, sguardi e

elementi prosodici sincronizzati con le parole; - l’immagine che si ha di sé, attraverso il vestiario e l’aspetto esteriore; - rituali sociali, ovvero i segnali non verbali che giocano un ruolo preminente nei saluti e in

altre azioni rituali. Questo tipo di comunicazione rivela l’affettività delle persone coinvolte nell’interazione secondo gradi differenti di automatismo o di consapevolezza. Infatti fino a che punto certe manifestazioni sono consapevoli, dettate da interesse e da convinzioni, o inconsapevoli, dovute a spinte automatiche inscritte nella tradizione genetica dei gruppi culturali? Argyle (M. Argyle, Bodily Communication, Methuen, Londra, 1975; trad. it. Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna, 1975, p.5) schematizza gli atteggiamenti di consapevolezza o di inconsapevolezza nel modo seguente:

emittente ricevente 1 consapevole consapevole comunicazione verbale, alcuni gesti, per

esempio indicare 2 prevalentemente

inconsapevole prevalentemente consapevole

gran parte della comunicazione non verbale

3 inconsapevole inconsapevole, eppure ha un effetto

dilatazione delle pupille, cambiamenti di sguardo ed altri piccoli segnali non verbali

4 consapevole inconsapevole l’emittente è educato all’uso, per esempio del comportamento spaziale

5 inconsapevole consapevole il ricevente è addestrato all’interpretazione per esempio delle posizioni del corpo

Quello che a noi interessa sono i punti in cui si evidenzia il divario di consapevolezza tra l’emittente e il ricevente che sottolinea la disomogeneità della comunicazione e il rischio di fraintendimenti. Nella comunicazione verbale questo rischio è molto basso in quanto esiste consapevolezza da entrambi i lati, ma nelle restanti situazioni, che riguardano la comunicazione non verbale, è necessaria un’educazione alle differenze che inconsapevolmente ostacolano il rapporto con gli altri. Ciò è di grandissima importanza nel contesto multiculturale in cui il grado di condivisione dei segni e il numero dei segni stessi possono variare enormemente. Di conseguenza è importante riflettere, pur con le dovute considerazioni, sulle varianti che caratterizzano i vari modi in cui si manifestato le diversità culturali.

18

Page 19: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.1.1 Volto e sguardo Il volto è la principale area della comunicazione non verbale sia umana che animale. Quando si comunica si ha bisogno di vedere in faccia il nostro interlocutore. L'espressione del volto è una macro categoria che include la posizione degli occhi, del naso, della bocca, delle sopracciglia, dei muscoli facciali, della sudorazione frontale e muta col mutare della loro posizione. Tali mutamenti sono segnali che comunicano atteggiamenti ed emozioni e di solito accadono, in entrambi gli interlocutori, in stretta combinazione con il linguaggio verbale. In questo caso sono elementi ridondanti di comunicazione. Gli antropologi sono tutti concordi nell’ammettere che i movimenti dei muscoli facciali, tipici per ciascuno stato emozionale primario, sono movimenti innati, cioè non appresi, trasmissibili per via ereditaria. Si possono individuare sette emozioni primarie: felicità, sorpresa, paura, tristezza, collera, disgusto, interesse. Sono espresse in tutte le culture nello stesso modo? Gli esperimenti condotti da Ekman e collaboratori hanno dimostrato che la felicità, la tristezza e la collera sono espresse per la maggior parte allo stesso modo. Alcuni gesti illustrativi: Mostrare la lingua: un gesto che si ritrova nei primati, nei bambini, ma anche negli adulti di varie culture esprime differenti significati: in Australia significa “Non mi infastidire ora”, in Tibet e nella Cina meridionale si usa per dire “Non intendevo ciò” (D. Morris , Bodytalk. A world guide to gestures, Cape, Londra, 1994). In genere significa incredulità o incertezza. Se accompagna le parole “sì, sono d’accordo” contraddice l’affermazione o segnala un’incertezza. Il movimento delle sopracciglia: se sono abbassate significa contentezza in Kenya, ma irritazione in Cina; se sono sollevate indica infelicità in Tailandia; gli Afroamericani manifestano irritazione stropicciandole. Anche lo sguardo svolge un ruolo molto importante nel comunicare atteggiamenti interpersonali e per instaurare relazioni di diverso tipo. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza che esiste una correlazione fra tratti della personalità e l'uso di questo segnale non verbale: le persone estroverse ne fanno un uso maggiore in frequenza e durata; gli introversi guardano invece molto poco e quasi mai direttamente. Sguardi più lunghi sono quasi sempre indice di un interesse vivace per l'altra persona, in senso affiliativo, sessuale, aggressivo e competitivo. In Giappone, in cui vige una norma comportamentale che vieta di mostrare emozioni (2.5.3) il contatto visivo è intenzionalmente evitato. Nelle conferenze gli ascoltatori giapponesi guardano il collo del relatore per evitare di guardarne gli occhi, mentre nel mondo occidentale è norma di buona educazione l’opposto. Altri studi confermano un’intensa interazione visiva in differenti culture. Per esempio, nelle popolazioni mediterranee, sudamericane e arabe, lo sguardo reciproco è molto importante e non guardare in modo abbastanza diretto è considerata maleducazione.

19

Page 20: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.1.2 Gesti

La gestualità, l’insieme dei gesti che utilizziamo per sottolineare il discorso o per esprimere emozioni e sentimenti lontano dalla parola, è l’elemento che più di altri assume forme differenti a seconda delle culture, anche se ci sono posizioni universaliste, che sostengono l’universalità di alcuni gesti. Mentre il segno verbale è artificiale e costruito, il gesto è automatico, naturale, autoreferenziale e metonimico. I gesti che hanno un alto grado di condivisibilità sono stati elencati da Argyle (M. Argyle, Bodily Communication, Methuen, Londra, 1975; trad. it. Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna,1975) e si basano sugli studi di Creider relativi a quattro culture dell’Africa orientale, e di Saitz e Cervenka (R Saitz., E. J. Cervenka., Handbook of Gestures: Colombia and the United States, in T.A.Seabock (a cura di), Approaches to Semiotics, The Hague, Mouton,1972), che hanno comparato Stati Uniti e Colombia. Il 65% dei gesti riscontrati in Nordamerica e il 75% di quelli individuati in Sudamerica sono comuni anche nei quattro paesi africani. I più condivisi sono i seguenti:

- additare, far segno di fermarsi, stringersi nelle spalla, colpetto sulla spalla, cenno con la testa, pollice verso, battere le mani, profilo del corpo femminile, cenno di richiamo, inclinare il capo poggiandolo sul palmo della mano piatto (sonno), salutare con la mano, indicare l’altezza di un bambino tenendo la mano orizzontale.

Alcuni gesti risalgono ad una causa biologica, ma molti sono legati a situazioni culturali. Il gesto di incrociare le braccia può essere una protezione psicologica in momenti di nervosismo e ricorda il gesto di difesa contro antichi pericoli. Analogamente i gesti di reazione sono movimenti di fuga per evitare un pericolo, come ad esempio flettere il collo e proteggere la testa. Sono gesti che rintracciamo e condividiamo con gli animali. Nei mammiferi la risposta difensiva più primitiva è quella di allontanare la testa e il collo dal pericolo. I gesti che esprimono la felicità sono condivisi dalla maggior parte dell’umanità anche se con differenze di grado. Prendiamo l’esempio di una vittoria di calcio. Tutti i giocatori, da qualunque cultura provengano, esprimono la loro gioia saltando, alzando le braccia, slanciandosi verso l’alto in una direzione verticale. Metaforizzando la realtà possiamo parafrasare Lakoff e dire che FELICE è SU (G. Lakoff ,L. Johnson, Metaphors We Live By, Chicago University Press, Chicago,1980). Nel nostro contesto, con la forza dei mezzi massmediali, alcuni gesti nuovi possono essere introdotti nel bagaglio gestuale di tutti (si pensi al gesto ormai universale di batti un cinque). Il movimento verticale, “su e giù,” della testa è usato per assentire, per mostrare approvazione e comprensione in quasi in tutto il mondo, nello Sri Lanka significa il contrario. Altri considerano lo stesso movimento del capo una forma di sottomissione, un inchino in miniatura (D. Morris, Bodytalk. A world guide to gestures, Cape, Londra, 1994).

20

Page 21: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.1.3 Contatto Per contatto intendiamo il contatto fisico che costituisce la forma più ancestrale di azione sociale. Si riferisce alle numerose parti del corpo e si realizza in forme diverse: dai contatti di aggressività, quali morsi, spinte, urti, ai segnali di amicizia che generalmente esprimono l'intenzione e il desiderio di instaurare un legame di tipo sessuale o amicale, o l'intenzione pacifica di interessamento e di sottomissione. Alcuni studiosi sostengono che il contatto fisico derivi dal bisogno infantile di cercare protezione e sicurezza presso la madre in situazioni che provocano nel soggetto paura o angoscia: in questi casi, infatti il contatto con la madre ha carattere rassicurante. In quasi tutte le culture il contatto fisico è molto utilizzato all'interno del nucleo familiare, fra moglie e marito, fra genitori e figli. In questo caso, però, esistono delle rigide restrizioni che stabiliscono quali parti del corpo possono essere toccate e da parte di chi può essere effettuato questo tipo di contatto. Sono state individuate culture in cui il contatto fisico avviene con frequenza, le cosiddette “culture di contatto”, per esempio, in Francia, in America Latina e in Arabia Saudita, e le “culture di non contatto”, per esempio, in Germania e nell’America del Nord. Nella cultura occidentale si può toccare un estraneo solo nel momento delle presentazioni o nel congedo. In alcune parti dell’ India e in Giappone, tuttavia, la forma più comune di saluto non implica il contatto e lo stesso accade anche in Inghilterra per i saluti quotidiani. In culture come quelle giapponese e inglese le restrizioni sono molto rigide, ma nelle culture africana e araba il contatto fisico viene usato in molte circostanze. Alcuni popoli indiani, in segno di saluto, strofinano le labbra sulla guancia del partner con movimenti laterali del capo, oppure esibiscono un altro contatto fisico amichevole che consiste nella confricazione nasale. Questo tipo di segnale si ritrova anche in altri popoli quali gli esquimesi. I tipi di contatto fisico amichevoli sono i saluti, che sono espressi comunemente dall'abbraccio, dalla carezza, dal bacio e dalla stretta di mano. In Giappone, nei luoghi pubblici si osserva poco contatto fisico, nemmeno una stretta di mano, ma su treni e autobus affollati il contatto è accettato, e si possono vedere persone addormentate che si appoggiano le une alle altre. Questa situazione verrebbe considerata, in generale e con le dovute eccezioni, intollerabile ad un inglese, secondo le osservazioni di Brosnahan (L. Brosnahan., Japanese and English Gesture. Contrastive Nonverbal Communication, Taishukan, Tokyo, 1990), per il quale la differenza tra il mondo anglosassone e quello giapponese si evidenzia anche riguardo ai contatti che esistono all’interno dei rapporti familiari. I bambini giapponesi, infatti, sono accarezzati e coccolati più a lungo rispetto ai bambini inglesi e per questo motivo i genitori inglesi vengono considerati più freddi dagli orientali.

21

Page 22: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.1.4 Postura

Un movimento del corpo mantenuto più di due secondi, quale per esempio la testa piegata, può essere considerato una postura. Le posture esprimono atteggiamenti, sentimenti ed umori più efficacemente dei gesti. Questi segnali non-verbali sono involontari e difficilmente controllabili coscientemente. La postura è influenzata notevolmente dallo stato emotivo del soggetto che la esibisce lungo la dimensione rilassamento-tensione. A questo proposito gli studi di Elkamn e Friesen (P. Elkman, W.V. Friesen, The Repertoire of Non Verbal Behaviour, in “Semiotica”, n.1, 1969, pgg. 49-98) sono particolarmente utili perché mettono in evidenza come avviene la comunicazione di atteggiamenti (valutazione e gradimento) in rapporto allo status sociale (potenza e controllo sociale), attraverso le esibizioni posturali.

Ogni cultura ha elaborato diversi modi possibili di stare distesi, seduti o in piedi. I tipi di postura sono molti, circa un migliaio, anche se alcuni, tra i quali l’inginocchiarsi, avvengono di rado e solo in particolari momenti (chiedere in sposa una persona), o in particolari luoghi (di solito i luoghi del culto religioso). I cambiamenti di postura variano con il ruolo e l'atteggiamento interpersonale in rapporto alla variabile culturale: si riscontrano, per esempio, variazioni tra le posture dell'uomo e della donna. Altri studi hanno tenuto in considerazione la variabile situazione e una stretta dipendenza dal contesto sociale. All'interno di alcuni contesti specifici regole precise governano le posture che devono essere assunte, cioè definiscono quali posture sono approvate e quali invece devono essere bandite dal comportamento individuale. Ci sono anche posture speciali per i rituali. Le posture che definiscono i rapporti di potere sono il portamento eretto, la testa reclinata all'indietro e le mani posate sui fianchi che sottolineano il desiderio di dominare; chi occupa uno status elevato, inoltre, solitamente siede eretto in posizione centrale di fronte agli altri.

Brosnahan (L. Brosnahan., Japanese and English Gesture. Contrastive Nonverbal Communication, Taishukan, Tokyo, 1990) confronta le posizioni che gli inglesi e i giapponesi assumono quando sono in piedi. I primi seguono un ideale militare e atletico con la testa alta, le spalle indietro, il petto in fuori, che si differenzia notevolmente da quello giapponese che presenta una testa più inclinata, petto e spalle più rilassate. Un altro contrasto è quello tra la posizione eretta con le mani sui fianchi, che è abbastanza neutro nel contesto britannico, ma che sembra temeraria al giapponese che tradizionalmente tende ad essere meno visibile.

Un’ultima osservazione riguarda il fenomeno dell’eco posturalità che si determina quando in un contesto rilassato e informale, gli interlocutori assumono, in modo automatico, posture specularmente simili, abbandonando posizioni di superiorità e di dominanza e cercando di aderire in una forma di inconscio cameratismo alla posizione dell’altro.

22

Page 23: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.2 Prossemica

Secondo il suo fondatore, Edward T. Hall, la prossemica è lo studio della percezione e dell’uso che un essere umano fa dello spazio (E. T. Hall, The Hidden Dimension, Doubleday, Garden City (NY), 1969). Lo spazio personale che ogni individuo occupa è considerato come una zona cuscinetto o di difesa che gli altri individui non possono invadere senza causare disagio nell'altro. Si può considerare questa area cuscinetto come una bolla o una sfera protettiva che un organismo mantiene fra sé e gli altri. Come per i movimenti del volto, i gesti e la postura, lo spazio segnala informazioni, secondo delle regole ben precise che variano in rapporto alla situazione, al tipo di relazione instaurata con il partner o più partners (intima o formale), oltre alle relazioni gerarchiche che si sono stabilite dalla cultura del gruppo di appartenenza e dall'ambiente sociale. Il concetto di distanza implica anche il senso di territorialità, lo spazio vitale di cui l’individuo ha bisogno per sviluppare la sua autonomia e in cui sentirsi libero quando stabilisce rapporti con gli altri. La distanza che adotterà nei confronti di un'altra persona sarà proporzionale al rapporto o ai legami che vorrà stabilire nell'interazione.

La prima norma dello spazio prossemico è che non ci si può muovere in ogni parte come si vuole: ci sono, ovunque, norme culturali e biologiche, esplicite ed implicite, e limiti da osservare. Hall identificò, nel modo di posizionarsi degli uomini, quattro tipi di distanza: intima (da 0 a 18 pollici), personale-informale (da 1.5 a 4 piedi), sociale-consultiva (da 4 a 10 piedi), e pubblica (da 10 piedi in poi). Hall notò anche che ogni cultura applica norme distintive di vicinanza, per esempio, in relazione alla conversazione, alle situazioni d’affari e al corteggiamento e che lo stare troppo vicini o troppo lontani può provocare incomprensioni e persino uno shock culturale. Esistono anche delle notevoli differenze a livello individuale. Le persone che presentano disturbi del comportamento, per esempio, preferiscono mantenersi più lontane spazialmente nei loro rapporti interpersonali, innalzando una invisibile barriera protettiva tra se stesse e il mondo.

Le forme culturali di questo segnale non verbale sono numerose e assumono dimensioni che variano da cultura a cultura. Queste distanze, oltre ad essere specificamente legate alla cultura, vengono apprese informalmente e inconsciamente e sono quindi fonte di incomprensioni. Complessivamente le distanze nel mondo giapponese sono più ravvicinate di quelle inglesi. Ugualmente la distanza mantenuta dalle persone durante una conversazione è molto più ridotta nelle popolazione dell'Europa del sud che negli Stati Uniti o nell'Europa del nord. In molte culture mediterranee, come anche in quelle arabe e nelle zone rurali dell’oriente, i maschi si prendono a braccetto tra di loro per manifestare amicizia, come il turco che mettendo la mano sulla spalla di uno straniero è come se gli dicesse “Caro ospite lascia che ti guidi” (Celentin).

23

Page 24: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.3 Vestiti e oggetti

In ogni cultura il coprirsi il corpo con i vestiti ha avuto, otre alla funzione di proteggersi dalle variazioni climatiche, anche lo scopo di ornare il corpo e di comunicare ruoli e significati. Il vestito è stato anche strumento del pudore per coprire le parti del corpo considerate “indecenti”, come testimoniano alcuni tentativi dei missionari occidentali nei confronti dei nativi (P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999). Le alterazioni del corpo nelle società primitive, sia con tatuaggi che con vari oggetti di abbigliamento, rispondevano alla necessità di distinguere ruoli sociali e di esprimere ideali estetici: una pratica che si è tramandata in tutte le culture di tutti i tempi. Se da un lato si riscontrano modelli di comportamento omogenei di isoprassi, dall’altra, generalmente, l’individuo ama ostentare la sua importanza e superiorità sugli altri attraverso l’esibizioni di oggetti di status symbol. Anche ai nostri giorni, nelle nostra cultura, notiamo che gli abiti usati nei contesti religiosi e giudiziari differiscono dall’abbigliamento comune per sottolineare la superiorità e distanza gerarchica. Nel contesto interculturale l’abito è un elemento comunicativo importante, una forma attraverso la quale gli immigrati veicolano la propria identità e stabiliscono un filo di contatto con il paese di origine; rappresenta, inoltre, la volontà di rendere visibile un’appartenenza a tradizioni e ad una terra, generalmente misconosciute, e quindi non esistenti, nell’immaginario degli autoctoni. Nelle città con alta presenza di immigrati da ogni parte del mondo, si registra una trasformazione dell’immagine urbana, che rimanda sempre di più alla varietà di pratiche inconsuete, quali nuovi negozi di abbigliamento, indiano, cinese, africano, sudamericano, e tanti altri, che introducono nuovi abbinamenti di colori e di tessuti nell’universo visivo occidentale. Nel nuovo contesto del paese di immigrazione, l’abito “etnico”, da un lato, si semiotizza, diventa segno distintivo di orgoglio nazionale e di identità dietro al quale riunirsi e proteggersi, dall’altro, si folklorizza ed è esibito come oggetto esotico e decorativo nelle feste interculturali. Il costume etnico diventa un oggetto decontestualizzato, da esibire per esigenze turistico-commerciali e costruito acrititicamente, come si nota in questa promozione di un viaggio in Tailandia tra il popolo Akha: “ I loro abiti vistosi, in particolare i copricapi ornati con le sterline dell'impero britannico (!!?), non sono sintomo di ricchezza ma esprimono la loro dignità di popolo libero e indipendente” (per approfondire clicca qui). Oltre ai vestiti anche gli oggetti parlano di modi di vita diversi, perché insieme alle popolazioni anche gli oggetti sono emigrati. Fare un elenco dei nuovi oggetti che sono entrati, o a breve entreranno nell’universo degli strumenti a servizio dell’uomo, è arduo ed inutile. Potrebbero costituire il tema di progetti da fare interdisciplinarmente con l’apporto delle differenti esperienze dei migranti.

24

Page 25: Mod 2 mancini_cognigni

2.4.4 Odori e rumori Nella comunicazione interculturale dovremmo includere i due aspetti dei nuovi odori e dei suoni/rumori che accompagnano le migrazioni dei popoli. Le culture si caratterizzano anche per l’insieme di odori che si respirano lungo le vie delle città. Sono gli odori degli uomini e delle donne che popolano le strade, odore di umanità misto anche ai profumi che provengono dai mercati all’aperto, dai negozi i e dai luoghi di ristorazione. Sono i segni della presenza degli aromi e sapori di modi alimentari diversi: l'aroma di cardamomo, curcuma, cannella, coriandolo, dell'olio di cocco e delle verdure, delle banane fritte e dei masala, del kebab, degli involtini primavera e del maiale all’agrodolce. I cartelli indicanti cucina cinese, turca, egiziana, ecc, si trovano sempre più frequentemente sulla porta di molti ristoranti etnici sparsi sul territorio. In alcune macellerie si trova la carne halal, macellata secondo il rito islamico e sulle vetrine delle panetterie leggiamo scritte in arabo per il pane egiziano o del Maghreb. Nei supermercati, accanto alle merci tradizionali, troviamo nuovi tipi di frutta, verdure mai viste e spezie nuove. Per non parlare dei nuovi profumi, gli incensi, le essenze provenienti da tutto il mondo che hanno allargato la gamma delle percezioni olfattive. I nuovi odori riempiono l’aria e poiché non siamo abituati ad essi alcuni possono essere fastidiosi ed invadenti. Nell’ambito delle percezioni olfattive, possiamo includere anche gli odori corporali che vengono più o meno controllati a seconda delle varie pratiche igieniche individuali o culturali e che possono interferire nella comunicazione. Nel mondo occidentale, l’uniformità delle pratiche igieniche è pressoché sanzionata dalla pubblicità degli innumerevoli prodotti per l’igiene della persona, ma questo “conformismo” non si rintraccia automaticamente nel microcosmo della classe, in cui i bambini immigrati, ma anche i bambini italiani, emanano odori che possono risultare fastidiosi ad un olfatto trasformato da prodotti chimici. È un argomento che può essere imbarazzante se affrontato apertamente. Attività didattiche, quali i giochi di ruolo, le simulazioni e l’analisi della pubblicità, potranno servire per prospettare problemi e ricercare soluzioni. Lo stesso imbarazzo si prova per i rumori corporali che vengono considerati in maniera diversa a seconda delle culture e delle situazioni A questo proposito rimandiamo ad alcuni esempi tratti dal libro di P. E. Balboni, in particolare al sottocapitolo 3.1.7, che fa riferimento alle norme che variano nei differenti contesti culturali. Possiamo aggiungere che, per quanto queste regole possano più o meno essere condivise all’interno del gruppo, esse sono comunque soggette alle trasformazioni e agli adattamenti dovuti al contatto con altri modi di vivere.

25

Page 26: Mod 2 mancini_cognigni

2.5 La comunicazione verbale L’acquisizione delle abilità comunicative interculturali è intimamente connessa all’apprendimento linguistico, in quanto la lingua è il mezzo privilegiato attraverso il quale il sistema di credenze, norme e valori di una comunità viene codificato. Tuttavia, quando uno dei due parlanti non padroneggia la lingua-cultura dell’interazione, non tutti i problemi di intercomprensione possono essere ricondotti ad una conoscenza imperfetta di lessico, grammatica o pronuncia, sebbene questi problemi esistano. Asimmetrie nella comunicazione verbale possono manifestarsi anche nella non condivisione di determinate regole conversazionali (2.5.1) e di altri codici la cui interpretazione è legata ai diversi contesti culturali all’interno dei quali i parlanti sono stati socializzati. La lingua, come abbiamo visto a proposito della comunicazione non verbale (2.4), si accompagna infatti ad altri codici che differiscono a seconda della cultura presa in esame: dal codice paralinguistico che orienta l’uso della voce (2.5.2) e la diversa interpretazione di pause e silenzio (2.5.3), fino ai codici retorici con cui strutturiamo testi orali o scritti (2.5.6). Una interpretazione unilaterale di questi elementi può dar adito a malintesi culturali, laddove non si tenga presente che certe norme comunicative non sono necessariamente universali. Quando sopraggiungono queste difficoltà, esse vengono generalmente attribuite agli atteggiamenti, alle caratteristiche personali, al livello di generale competenza o, nei casi peggiori, all’intelligenza dello straniero piuttosto che ad effettive differenze socioculturali. Un parlante interculturale, sia esso l’autoctono o lo straniero, dovrebbe pertanto essere cosciente di quelle aree della comunicazione verbale più sensibili alla variazione e che possono essere motivo di asincronia nella comunicazione. Tuttavia, dal momento che non è sempre possibile conoscere la lingua-cultura del nostro interlocutore, è in primo luogo necessario accettare che c’è dell’incerto e del vago nell’incontro con l’altro e che la nozione di codifica/decodica del messaggio è un processo dinamico e co-costruito nell’interazione stessa. Diventa pertanto essenziale affinare i propri mezzi espressivi in modo da sviluppare un atteggiamento positivo e trasferibile ad ogni situazione interculturale: piuttosto che reagire emotivamente ad un evento comunicativo incerto, bisogna essere capaci di analizzarne gli elementi costitutivi, elaborare le informazioni e creare un quadro di riferimento in cui sia possibile agire nel rispetto dell’altro senza rinunciare a se stessi.

26

Page 27: Mod 2 mancini_cognigni

2.5.1 Alcune regole conversazionali L’interazione verbale può essere interpretata come un continuum suddiviso in turni, per cui, in linea generale, parlanti distinti prendono la parola l’uno dopo l’altro. Il turno di parola può essere dato all’interlocutore attraverso espliciti segnali discorsivi (“no?”, “che ne pensi?”, ecc.), ma il suo passaggio è spesso segnalato in modo implicito (cambiamento nel tono di voce, termine di un’unità sintattica, silenzio momentaneo, ecc.). Si tratta tuttavia di aspetti che variano a seconda della diversa etichetta sociale, ovvero di quelle regole conversazionali che vengono acquisite da bambini e che di solito trasferiamo anche in altre lingue. La nostra tendenziale percezione “policronica” del tempo ci porta, ad esempio, a trattare più argomenti allo stesso tempo e ad essere generalmente tolleranti nei confronti di sovrapposizioni ed interruzioni. Laddove però queste modalità interattive si incontrano con quelle di individui socializzati in culture differenti (vedi percezione monocronica del tempo), esse possono creare irritazione nell’interlocutore. Sebbene sovrapposizioni momentanee siano generalmente tollerate, le interruzioni rappresentano un aspetto più delicato, sia nella comunicazione interculturale che in quella intraculturale. Lo stesso concetto di “sovrapposizione” non è univoco e trasparente: sovrapposizioni reiterate o prolungate possono essere interpretate come un tentativo di usurpazione del turno di parola, al pari di un’interruzione. A tale proposito, D. Tannen (Conversational Style: Analyzing Talk Among Friends, Ablex, Norwood, NJ, 1984) rileva che nell’interazione faccia a faccia i newyorkesi prediligono la sovrapposizione cooperativa come strategia per mostrare entusiasmo e interesse per l’interlocutore, strategia non sempre condivisa ed apprezzata da altri anglofoni. Mentre il partecipante “veloce” pensa che l’altro non abbia niente da dire e continua il suo turno, il partecipante più “lento” avverte che non gli viene fornita l’occasione per prendere la parola. Questo “stile ad alto coinvolgimento”, caratterizzato da un rapido scambio di turni, velocità d’elocuzione sostenuta, evitamento di pause ed ascolto partecipe, può definirsi genericamente valido anche per gli italiani, che sono talvolta stigmatizzati come chiassosi ed invadenti. Un tipo particolare di presa del turno è rappresentato dalle coppie adiacenti, ovvero da quelle routine conversazionali tipiche della comunicazione quotidiana (salutare/rispondere; ringraziare/rispondere; scusarsi/minimizzare; offrire/accettare, ecc.). In quanto strettamente correlate al contesto socioculturale in cui sono prodotte, la loro realizzazione varia non solo da lingua a lingua, ma anche all’interno delle varietà di una stessa lingua. Come si nota dagli esempi, ciò che è naturale e apprezzato in una lingua, può divenire bizzarro e fastidioso se trasferito in un’altra. Non è detto che queste differenze linguistico-culturali diano sempre luogo a fraintendimenti o a conflitti interculturali, ma giudicarle semplicemente come idiosincrasie del parlante non nativo dà sicuramente origine a visioni riduttive che pongono un limite alla comprensione reciproca.

27

Page 28: Mod 2 mancini_cognigni

2.5.2 La voce Nell’interazione faccia a faccia elementi prosodici come l'intonazione, l’accentuazione, il volume o la velocità d’elocuzione possono risultare importanti per risolvere casi di ambiguità linguistica o per modulare le nostre intenzioni comunicative. In contesto interculturale, la percezione di alcune di queste caratteristiche della voce consente spesso all’interlocutore non nativo di cogliere il significato globale di un enunciato anche quando le sue conoscenze linguistiche non gli permettono di distinguerne ogni singola unità verbale. Specifiche scelte prosodiche, accompagnate da eventuali segnali non verbali, possono pertanto facilitare la comprensione reciproca quando le parole non sono sufficienti. Bisogna però tener presente che la nostra generale tendenza a parlare con un volume di voce piuttosto alto può dare ad alcuni stranieri l’impressione di assistere ad una discussione concitata, anche quando stanno semplicemente ascoltando una normale conversazione. Nelle classi italiane, la situazione è aggravata dal fatto che l’insegnante deve spesso aumentare ulteriormente il tono di voce per mantenere la disciplina: soprattutto se proviene da un paese orientale, l’allievo straniero potrebbe avere l’impressione di essere verbalmente aggredito piuttosto che semplicemente chiamato in causa. E’ noto che, in italiano come in tutte le altre lingue, la stessa stringa di parole può assumere significati differenti a seconda dell’intonazione che le diamo (frase interrogativa, dichiarativa, ecc.). Nelle situazioni in cui la comunicazione si focalizza più sul contenuto che sulla forma della lingua, queste differenze non sono però sempre così nette. Parlanti non nativi possono avere difficoltà a cogliere queste sfumature e, quindi, a decidere in quale contesto interazionale debbano muoversi (“era una domanda o un’affermazione?”), tanto più se a complicare le cose sopraggiungono inflessioni regionali e dialettali - fonologiche e prosodiche - di cui non siamo sempre pienamente coscienti e che creano confusione in chi cerca di orientarsi tra tante varietà socioculturali ed espressive. Un altro aspetto da non dimenticare è la velocità d’elocuzione: sebbene sia ovvio che ad una bassa competenza linguistica possa corrispondere la percezione che il madrelingua parli troppo rapidamente, è pur vero che abbiamo la generale tendenza a parlare con un ritmo sostenuto rispetto a parlanti di lingue diverse. In ambito formativo questo è un aspetto piuttosto delicato dal punto di vista sia cognitivo che psicologico: parlare ad una velocità accettabile e in modo chiaro può facilitare la comprensione, ma è necessario non sconfinare in quello che viene generalmente definito foreigner talk (6.6.2). Piuttosto che facilitare la comprensione, questo linguaggio semplificato e rallentato toglie allo straniero la possibilità di apprendere un italiano autentico, quando non è addirittura percepito come una forma di razzismo comunicativo.

28

Page 29: Mod 2 mancini_cognigni

2.5.3 Il silenzio Abbiamo accennato, a proposito delle regole conversazionali (2.5.1), che culture differenti possono avere una percezione diversa di quanto una pausa debba essere lunga per segnalare che il parlante ha terminato il suo turno o meno. Coloro che sono abituati a pause brevi tra un turno e l’altro potrebbero interpretare la non immediata reazione verbale dell’interlocutore come un diritto a continuare il proprio turno, soprattutto se nella loro cultura pause prolungate in una interazione creano imbarazzo. Questo può dirsi vero per gran parte delle culture occidentali, in cui il “parlato” è vissuto come un modo per ottenere comprensione reciproca e per esprimere la propria individualità, tanto che, in casi estremi, la sua assenza può essere correlata ad un tentativo di controllare sentimenti di ostilità. In molte società orientali, in cui vengono enfatizzati gli scopi del gruppo piuttosto che del singolo, il silenzio nell’interazione interpersonale è spesso vissuto come manifestazione di armonia o di solidarietà. In Cina, ad esempio, tacere è del tutto normale in caso di argomenti delicati o ambigui. In Giappone, si ha la tendenza a ritenere che i sentimenti non possano essere sempre veicolati dalle parole e che, non appena un’esperienza viene resa verbalmente, la sua reale essenza si dissolva. C. Goddard e A. Wierzbicka (“Discourse and Culture”, in T. A. van Dijk (a cura di), Discourse as Social Interaction, Sage Publications, Londra, 1997, pgg. 237-240) attribuiscono questa sfiducia nella parola all’ideale giapponese dell’ enryo (riservatezza o moderazione) che implica un certo controllo anche nell’espressione dei propri desideri ed opinioni. E’ così possibile che nei momenti di particolare intensità emotiva, nella pedagogia tradizionale come nel rapporto madre-figlio, il silenzio sia preferito alla verbalizzazione del proprio stato emotivo. Questi esempi dovrebbero suggerire che è importante non interpretare il “silenzio” come categoria descrittiva dall’unica prospettiva della propria cultura, ma è anche essenziale chiedersi se le pause discorsive possano essere sempre lette attraverso il filtro culturale. Parlanti non esperti possono certamente aver bisogno di più tempo per esprimersi, con la conseguenza che il loro comportamento verbale sarà punteggiato da un maggior numero di “pause cognitive”. Pertanto, componenti contestuali come l’evento comunicativo, l’argomento e la funzione dell’interazione dal punto di vista di entrambi i partecipanti (quindi, anche eventuali discrepanze nella percezione reciproca) vanno sempre tenute in considerazione se non ci si vuole accontentare di rappresentazioni riduttive come l’ “orientale silenzioso” o l’ “italiano chiacchierone”.

Per approfondire questa tematica vedi K. Knapp, Metaphorical and Interactional Uses of Silence

29

Page 30: Mod 2 mancini_cognigni

2.5.4 Registro: formale/informale

La lingua italiana prevede un ampio repertorio di varietà espressive, appartenenti a differenti livelli di ricercatezza o registri. Un diverso grado di (in)formalità viene pertanto espresso attraverso varie scelte lessicali e sintattiche (nonché prosodiche, cinesiche, ecc.) sulla base di un giudizio di appropriatezza che tenga conto del tipo di relazione con l’interlocutore, dei reciproci ruoli e del contesto comunicativo. Il più evidente riflesso di questo processo di codifica dei ruoli nel linguaggio si ha nella scelta dei pronomi allocutivi tu e Lei, parte di un sistema più ampio che prevede specifiche formule di saluto e un congruo uso dei vocativi (ciao Mario, ma Buongiorno Sig. Rossi). La non osservanza di questi meccanismi routinari della lingua, dei quali gli stranieri vengono spesso a conoscenza per prove ed errori, può dar luogo a spiacevoli stigmatizzazioni reciproche. Ad esempio, l’uso sempre più diffuso del tu con cui intendiamo ridurre la distanza reciproca o con cui spesso ci rivolgiamo all’immigrato può essere frainteso come un modo per sminuire l’interlocutore, se questi non condivide le nostre stesse intenzioni comunicative. Inoltre, sebbene in molte lingue esistano sistemi allocutivi simili al tu/Lei dell’italiano (fr. tu/vous, ted. du/Sie, sp. tu/Usted, rus. ty/Vy, ecc.), ciò non implica che vengano usati nella stessa maniera. In russo, ad esempio, il passaggio dal ty (tu) al Vy (Lei) è molto meno naturale che in italiano, tanto che relazioni parentali o amicali in cui c’è disparità sociale o differenza di età sono più spesso governate da un registro formale. In molte società orientali il modo di rivolgersi all’altro è ben più articolato: in giapponese, il sistema del keigo o “linguaggio onorifico” è così complesso che una stessa frase può essere espressa in più di venti modi, a seconda del rapporto tra i partecipanti. Ogni lingua possiede dunque strumenti diversi per esprimere formalità ed informalità e non è sempre possibile, nella comunicazione interculturale, essere al corrente delle norme comunicative della lingua dell’altro. Si possono tuttavia mettere in atto strategie interazionali di adattamento reciproco che promuovano l’ascolto attivo e la negoziazione dei significati, evitando i pericoli di un’eccessiva semplificazione. Infatti, mediare linguisticamente non significa necessariamente ricorrere a parafrasi colloquiali, che lo straniero può ugualmente non comprendere: essi fanno parte di sottocodici socioculturali a cui il migrante può non essere stato esposto, se il suo contatto con l’italiano si è limitato all’apprendimento guidato o alla fruizione televisiva. Parallelamente, coloro che hanno imparato l’italiano in modo spontaneo, attraverso il contatto con i coetanei o con i colleghi, avranno difficoltà nella gestione di codici alti e settoriali (es. quelli dei libri di testo e, talvolta, dell’interazione insegnante-allievo). L’uso di codici troppo colloquiali o troppo ricercati può quindi ingenerare spiacevoli meccanismi di esclusione, analoghi a quelli del foreigner talk prima accennati (2.5.2).

30

Page 31: Mod 2 mancini_cognigni

2.5.5 Scelte lessicali e alterità nel linguaggio Nella comunicazione interculturale è importante essere coscienti di quegli automatismi linguistici che possono creare fenomeni di inconsapevole ma non innocuo razzismo comunicativo. Non si tratta di condurre un’astratta opera di epurazione del linguaggio, sebbene l’uso di nomi e aggettivi non offensivi (es. “di colore”/”nero” piuttosto che “negro”) sia certamente da incentivare. Ciò che qui auspichiamo è piuttosto un’analisi del lessico dell’alterità che renda noi e i nostri allievi consapevoli della visione del mondo che il linguaggio veicola. Nessuna parola è infatti del tutto neutra: anche le parole più diffuse in ambito giornalistico o giuridico (extra-comunitario, immigrato, clandestino ecc.), e che pertanto ci appaiono legittimate dall’uso, possono celare ideologie dominanti o atteggiamenti xenofobi. Ad esempio, nell’analizzare la parola immigrato, Balibar ne sottolinea il carattere di categoria di amalgama che combina criteri etnici e di classe, riservata a molti stranieri ma non a tutti. Solitamente si definisce straniero (non immigrato o extra-comunitario) l’americano, il giapponese, l’australiano, ecc. ovvero chi proviene da un paese con alto prestigio socioeconomico e politico, proprio per differenziarlo dalle categorie immigrazione/immigrato. Nasce dunque, nel linguaggio come negli atteggiamenti, quello che Balibar definisce il paradosso delle categorie unificatrici e differenzianti.

Un’altra scelta lessicale che può creare distanza psico-affettiva nell’interazione interetnica è la diffusa tendenza a normalizzare il nome straniero o addirittura a “ribattezzare” l’altro con nomi italiani, sulla base della presupposizione (o presunzione?) che non trattandosi di un nome familiare, non c’è nulla di male nel manipolarlo. Il principio con il quale ci auto-legittimiamo a trasformare il diverso, nel tentativo di rimuoverne l’estraneità, può essere interpretato come sintomo di disimpegno nella comunicazione interculturale e di un atteggiamento etnocentrico. Il nome è infatti di per sé un’attribuzione d’identità, tanto più forte quanto più connotata religiosamente e culturalmente (si pensi a nomi come Mohamed o Abdullah nella religione islamica: per un approfondimento dei significati dei nomi stranieri clicca qui. Il sentirsi chiamare con un nome storpiato, tradotto o non sentirsi chiamare che di rado rappresenta una forma di negazione del soggetto, oltre che della sua realtà culturale, che viene presto interiorizzata e considerata “normale” anche dagli stessi stranieri. Questa forma di mimetismo, sia essa imposta o indotta, non facilita la continuità psichica negli allievi bilingui più giovani e, dunque, uno sviluppo dell’identità che non miri all’assimilazione del diverso.

31

Page 32: Mod 2 mancini_cognigni

2.5.6 Retoriche del “testo” Per retoriche del “testo” intendiamo qui, a parità di genere, le diverse maniere di organizzare un elaborato scritto o di strutturare un’esposizione orale. Ciò che rende un “testo” significativo e strutturato in modo logico dipende in prima istanza dagli scopi comunicativi e dai lettori/ascoltatori cui si rivolge e varia, pertanto, a seconda della lingua-cultura considerata. Sulla scorta di queste differenze, Kaplan suggerisce che ogni cultura possiede una determinata struttura del paragrafo (espositivo nella sua analisi), postulando l’esistenza di modelli culturali di pensiero che influenzano le modalità espositive anche in una lingua diversa dalla propria. Sebbene i diagrammi di Kaplan siano stati molto criticati in quanto partono da un’ottica anglocentrica che assume come “normale” il solo modello inglese, ci paiono utili per riflettere sia sui pericoli di una prospettiva etnocentrica, sia su quelli di una visione che tende a ipostatizzare le culture. Infatti, interpretando le differenze retoriche come puramente determinate dalle differenze linguistiche o culturali si rischia di rinforzare gli stereotipi piuttosto che sensibilizzare alla diversità culturale. E’ dunque lecito chiedersi se sia la lingua in sé e non piuttosto il sistema educativo – inteso come cultura scolastica – a decidere che cosa conta come “paragrafo” (espositivo o d’altro genere) e quali devono esserne le caratteristiche (vedi C. Kramsch, “Language, Thought and Culture”, in A. Davies e C. Elder (a cura di), The Handbook of Applied Linguistics, Blackwell, Oxford, 2003). Dal momento che un soggetto scolarizzato nel proprio paese di provenienza ha la naturale tendenza a trasferire nella L2 le convenzioni retoriche note, può essere utile prevedere una esplicita riflessione sulle diverse organizzazioni del “testo”. In tal modo l’imposizione implicita di una visione retorica e il corrispondente sradicamento di possibili interferenze lasceranno spazio al confronto interculturale e all’arricchimento del repertorio di scelte a disposizione dello studente straniero. A tale proposito, C. Kramsch (“Stylistic choice and cultural awareness”, in L. Bredella e W. Delanoy (a cura di), Challenges for Pedagogy: Literary Texts in the Foreign Language Classroom, Gunter Narr, Tübingen, 1996, pgg. 162-184) suggerisce di usare il riassunto di un racconto come strumento che permetta agli studenti di riflettere sulle scelte operate nella selezione e presentazione dei contenuti. Attraverso l’esplicito confronto degli elaborati in classe, gli studenti hanno così l’occasione di scoprire quanto ognuno di loro ha costruito il senso della propria storia in base ad esperienze personali, appartenenza etnica, retroterra socioeconomico, atteggiamenti e credenze.

32

Page 33: Mod 2 mancini_cognigni

2.6 Conclusioni Come abbiamo cercato di evidenziare in questo modulo, nell’attuale società plurilingue e multiculturale una comunicazione interculturale efficace è ormai condizione irrinunciabile per una relazione consapevole tra le persone e i loro mondi. La maniera migliore di scoprire una “cultura” nella sua contemporaneità non è semplicemente – come abbiamo notato a più riprese – quella di considerarla unicamente come entità omogenea e conoscibile: le culture, come le persone, non sono dei libri aperti, ma delle “opere” perennemente incompiute e talvolta sfuggenti. Poiché le culture, non più circoscrivibili nei confini delle nazioni, sono diventate movibili e trasportabili (v. globalizzazione, transmigrazioni, Internet ...), esse sono diventate sempre più strettamente connesse alla lingua e alle parole che usiamo. E’ forse la lingua, e dunque la comunicazione, ad essere diventata la “realtà” culturale più preziosa e conoscibile. Se la cultura è dunque il risultato dell’attività linguistica e comunicativa, l’accento dovrebbe essere posto non tanto sulle culture in sé, quanto sugli individui che la rendono possibile. Parafrasando Marc Augé (Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2000) si potrebbe infatti affermare che la migliore etnografia non comporta semplicemente una raccolta di informazioni su temi generali, ma l’osservazione di pratiche individuali e collettive, la raccolta di discorsi che non sono opinioni o informazioni sulle società in generale, ma sono quelle su una vita individuale nell’atto stesso di essere vissuta. A questo punto, più che chiederci che cosa dobbiamo conoscere degli altri e delle loro culture per poter comunicare efficacemente, è piuttosto il caso di domandarsi come gli individui utilizzino le culture o, meglio, tracce di esse – delle proprie o di quelle altrui – al fine di comunicare (M. Abdallah-Pretceille, “Intercultural Communication: Elements for a Curricular Approach”, in M. Kelly et al. (a cura di), Third Level, Third Space: Intercultural Communication and Language in European Higher Education, Bern, Peter Lang SA, Éditions Scientifiques Européennes, 2001, pag. 141). Questo comporta non solo farsi osservatori attenti della complessità culturale (contenuti), ma essere soprattutto in grado di attivare competenze discorsive e relazionali utili alla mediazione interculturale (procedure). In ambito educativo, in particolare, ciò non può realizzarsi soltanto sul piano delle buone intenzioni o dei buoni sentimenti: è necessario interpretare criticamente valori, stili di vita e comportamenti propri e altrui; ripensare gli strumenti concettuali e didattici per creare uno spazio in cui la diversità possa essere vissuta come uno dei tanti punti di vista possibili, piuttosto che come elemento esotico o come problema da risolvere. Alla luce dei cambiamenti in atto, i luoghi della formazione sono pertanto chiamati a contribuire alla creazione di nuovi linguaggi della relazione interculturale, così come un tempo hanno partecipato alla formazione dell’identità nazionale.

33

Page 34: Mod 2 mancini_cognigni

2.7 Guida bibliografica e sitografica Suggeriamo in questa sezione alcuni testi utili all’approfondimento delle tematiche trattate nel modulo o ad una loro applicazione didattica. Per visualizzarne le descrizioni2, clicca sulla parte del titolo che è stata evidenziata. P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999.

G. Bolaffi, S. Gindro, T. Tentori (a cura di), Dizionario della diversità. Le parole dell'immigrazione, del razzismo e della xenofobia, Liberal Libri, Firenze, 1998. M. Callari Galli, Antropologia per insegnare. Teorie e pratiche dell’analisi culturale, Bruno Mondatori, Milano, 2000. S. Dal Negro, P. Molinelli (a cura di), Comunicare nella torre di Babele. Repertori plurilingui in Italia oggi, Carocci, Roma, 2002. A. De Benedetti, F. Gatti, Routine e rituali nella comunicazione, Paravia Scriptorium, Torino, 1999.

P. Diadori, Senza parole. 100 gesti degli Italiani, Bonacci, Roma, 1999.

E. A. A. Garcea, La comunicazione interculturale. Teoria e pratica, Armando Editore Roma, 1996.

Per un ulteriore approfondimento, si veda la guida sitografica ad alcuni dei numerosi siti correlati alle tematiche del modulo.

2 Se non diversamente specificato, gli abstract dei testi sono quelli predisposti dalle relative case editrici.

34

Page 35: Mod 2 mancini_cognigni

L’ascolto attivo supera l’atteggiamento autoritario etnocentrico dell’ “io ho ragione, tu hai torto”, per comprendere che l’interlocutore ha un suo sistema di ragionamento che determina comportamenti e azioni che sono per lui totalmente razionali, anche se per noi sono completamente irragionevoli. (M. Sclavi, Etnografia urbana e arte di ascoltare, Milano, Politecnico, 2000.) Per un ulteriore approfondimento clicca qui.

Torna al paragrafo 2.1

35

Page 36: Mod 2 mancini_cognigni

Figura 1.: Il modello di Situazione Comunicativa

…… Si Co …… < tprd, sprd > < trcp, srcp >

C1 Prd

[ X ]

Spiegazione del modello

<…, B, …>

Il modello mostra che in un dato te(Prd), ha un’intenzione dominanteAttraverso l’elaborazione nella bmanifestazione fisica (Ve). La manifestazione fisica del comprodotta (Ve) o nella forma assunt(Int). Attraverso un canale (uditivo, vistrasformato dal ricevente/interpretedel comunicato di Prd si trasformadi Rcp . Anche nel settore del ricedi tempo (trcp,) e di luogo/sede (squello del produttore). Il riceventeinterpretativo, e in questo caso protal caso assegna una o più interpret Le attività didattiche che si possonetichetta/elemento permette di prepstudenti-obiettivo. Per esempio, pedelle attività che aiutino gli student(1) ad individuare/analizzare il mosi manifestano in diversi contesti cu(2) a comparare/manipolare queriferimento ai contesti culturali in c

ID

/

Ve

Ve

Ve' Int

mpo (tprd,) e in un d (ID) e una configu

ase (B) (si produce

unicato può esserea (Ve’) allorché sia s

ivo o percettivo) (c (Rcp). Sul versante con l’aiuto dell’elab

vente individuiamo urcp), (che nella comu può reagire in due duce effetti [=Ve-effazioni [=Ve-int e/o V

o fare in riferimentoarare una serie di eser studenti di un primi: do e la forma in cui ilturali; ste manifestazioni pui i comunicati si att

36

ID

Rcp C2

Ve-eff Ve'-eff

c o Ve-int

ato luograzione un com

considtata tras

), quest del riceorazionena intennicazionmodi al e/o Ve'e'-int] a

a questorcizi diffo livello

comuni

er valuualizzan

<…, B,

>

Ve'-int

o/sede (sprd), l’emittente/produttore di stati di cose X da comunicare. unicato (C1), che ha una sua

erata nella forma originariamente formata da un interprete/mediatore

o comunicato viene interpretato e vente, la manifestazione fisica (Ve) nella base (B) in comunicato (C2)

zione dominante (ID) e un contesto e orale può o meno coincidere con vehiculum ricevuto: in modo non--eff], o in modo interpretativo, e in l vehiculum dato.

modello sono innumerevoli. Ogni erenziati a seconda del livello degli , per l’etichetta Ve possiamo creare

cati (parole, suoni, gesti, immagini)

tarne l’efficacia comunicativa in o.

Torna al paragrafo 2.1.1

Page 37: Mod 2 mancini_cognigni

La Base è un’unità che contiene diversi settori: a) un settore delle conoscenze; b) un settore delle ipotesi; c) un settore delle preferenze/ motivazioni; d) un settore delle disposizioni psico-fisiche in atto nel momento della comunicazione.

Torna alla figura 1

37

Page 38: Mod 2 mancini_cognigni

Un comunicato è quello che il produttore comunica e quello che il ricevente percepisce come oggetto comunicato

Torna alla figura 1

38

Page 39: Mod 2 mancini_cognigni

Ve (Vehiculum) : La manifestazione fisica di un testo è l’immagine che si percepisce di un testo verbale/suono/segno grafico prima che sia analizzata nei suoi componenti.

Torna alla figura 1

39

Page 40: Mod 2 mancini_cognigni

Le forze locutorie, illocutorie e perlocutorie fanno riferimento alla teoria di J.L.Austin che distingue nell’atto linguistico tre componenti: - l’atto locutorio, che riguarda l’enunciazione: es. Chiudi la finestra! - l’atto illocutorio, che riguarda l’intenzione di quello che si dice: es. “Chiudi la finestra” può essere un comando o un suggerimento. - l’atto perlocutorio, che riguarda l’effetto di quello che si dice: es. la chiusura della finestra.

Torna al paragrafo 2.1.1

40

Page 41: Mod 2 mancini_cognigni

La metafora/mito del melting pot, del crogiuolo in cui tutte le razze dovevano fondersi (melting) secondo il modello dei WASPs (White Anglo-Saxon Protestants), dei protestanti bianchi anglosassoni, non riguardava i neri e i nativi, ma solo gli immigrati provenienti dall’Europa.

Torna al paragrafo 2.1.3

41

Page 42: Mod 2 mancini_cognigni

Le diverse accezioni possono essere raggruppate in quattro altri modelli: 1) il modello della cittadinanza multiculturale, che riconosce l’importanza dell’identità etnica e accetta di integrarla purché non destabilizzi l’ordine sociale; 2) il modello massimalista, che rifiuta l’idea di un nucleo di valori condivisi e reclama completa autonomia; 3) il modello del culturalismo corporativo, la cui maggiore preoccupazione è l’ordine economico e che produce delle differenze funzionali per l’internazionalizzazione dei mercati; 4) il modello del multiculturalismo culturale, che sostiene una negoziazione continua tra i diversi gruppi in vista di uno spazio comune.

Torna al paragrafo 2.1.3

42

Page 43: Mod 2 mancini_cognigni

Secondo E. T. Hall (The Hidden Dimension, Doubleday, Garden City (NY), 1969), il tempo può essere percepito nelle diverse culture come monocronico o policronico: - il tempo monocronico è lineare, tangibile (“il tempo è denaro”: può essere “guadagnato”, “sprecato”, “perso”, ecc.) e divisibile (organizzabile in segmenti strutturati), pertanto gli individui monocronici avrebbero la tendenza ad un trattamento dissociato di compiti e argomenti, a rispettare orari e programmi prestabiliti e a subordinare le relazioni interpersonali al valore del tempo (tra gli esempi classici: nord-americani, nord-europei, svizzeri); - il tempo policronico è più flessibile e meno strutturato, pertanto gli individui policronici avrebbero la tendenza ad un trattamento simultaneo di più compiti, a modificare più facilmente orari e programmi prestabiliti e a subordinare il valore del tempo alle relazioni interpersonali (es. latino-americani, medio-orientali e, in misura minore, italiani e francesi). Seppur costrittivo come ogni modello, riprendiamo la categorizzazione di Hall per suggerire una presa di distanza da rappresentazioni universali della variabile tempo, spesso alla base di numerose visioni stereotipate dell’altro. Secondo J. M. Ulijin e J. B. Strother (Communicating in Business and Technology: From Psycholinguistic Theory to International Practice, Peter Lang, Frankfurt, 1995, pag. 201), infatti, la persona monocronica avrebbe la tendenza a percepire il policronico come ritardatario cronico, digressivo, fumoso e scortese, perché “fa perdere tempo”, mentre la persona policronica tenderebbe a percepire il monocronico come rude, eccessivamente diretto e, quindi, ugualmente scortese perché non interessato alle relazioni interpersonali.

Torna al paragrafo 2.3.1

43

Page 44: Mod 2 mancini_cognigni

Riportiamo di seguito le differenze nell’interazione tra insegnante e studenti sulla base della distinzione di G. Hofstede (“Cultural Differences in Teaching and Learning”, in International Journal of Intercultural Relations, Vol. 10, No. 3, 1986, pgg. 301-320) tra società a distanza gerarchica forte e società a distanza gerarchica debole. Non è superfluo notare che, nelle stesse intenzioni dell’autore, il quadro descritto presenta due realtà estreme e che la maggioranza delle società, pertanto, non si riconoscerebbero perfettamente in nessuna delle due categorie. Può quindi accadere che paesi come l’America o Israele, trovino più punti di contatto con il modello delle società a distanza gerarchica debole, mentre altri come il Messico o la Cina, si sentano più rappresentate dal secondo, mentre altre ancora, come l’Italia o la Spagna, si riconoscano parzialmente in entrambe. Si tratta dunque di uno strumento utile ad un confronto tra tendenze abbastanza generali piuttosto che di dati volti a stereotipare comportamenti individuali, i quali vanno sempre tenuti in dovuto conto.

Società a distanza gerarchica debole Società a distanza gerarchica forte • L’ insegnante rispetta l’indipendenza dei propri studenti • L’iniziativa degli studenti è molto importante (educazione centrata sullo studente) • Gli studenti iniziano la comunicazione

• Gli insegnanti si aspettano che gli studenti trovino da soli la via da seguire • Gli studenti sono incoraggiati a prendere la parola spontaneamente • Agli studenti è permesso di esprimere la propria opinione • La qualità dell’apprendimento è frutto della bravura dell’allievo e dell’insegnante • Nei conflitti tra insegnante e studente, i genitori prendono le difese del figlio • Gli insegnanti vengono trattati come pari fuori dalla classe • Gli insegnanti giovani sono più apprezzati di quelli anziani

• L’insegnate ha diritto al rispetto da parte degli studenti • L’ordine in classe è molto importante (educazione centrata sull’insegnante)

• Gli studenti aspettano che sia l’insegnante ad iniziare la comunicazione • Gli studenti si aspettano che l’insegnante mostri loro la via da seguire • Gli studenti prendono la parola solo se interpellati dall’insegnante • Gli studenti accettano sempre ciò che dice l’insegnante • La qualità dell’apprendimento è frutto della bravura dell’insegnante • Nei conflitti tra insegnante e studente, i genitori danno ragione all’insegnante • Gli insegnanti vengono rispettati anche fuori dalla classe • Gli insegnanti anziani sono più rispettati di quelli giovani

Torna al paragrafo 2.3.2

44

Page 45: Mod 2 mancini_cognigni

Mark Cook (M. Cook, Interpersonal Perception, Penguin, Harmondsworth, 1971) individua i segnali coinvolti nella comunicazione non verbale, distinti in aspetti statici e aspetti dinamici. Michael Argyle (M. Argyle , The Psychology of Interpersonal Behaviour, Penguin, Harmondsworth, 1972) distingue invece 10 segnali. Nella figura 1 riportiamo la classificazione di questi due Autori. Figura 1

Torna al paragrafo 2.4

45

Page 46: Mod 2 mancini_cognigni

L’esperimento consisteva nel sottoporre una serie di foto a un gruppo di studenti di un college americano e ad un altro gruppo di studenti dell'Università Nazionale di Brasilia; compito di questi giudici era quello di associare ogni foto ad un elenco di 8 stati d'animo che veniva fornito con le consegne. Nel maggior numero dei casi gli stessi stati d'animo furono associati alle stesse espressioni del volto indicato dalle foto. In questo modo si pervenne ad ammettere, con una certa cautela, l'esistenza di somiglianze interculturali nei movimenti dei muscoli facciali, che esprimono le emozioni primarie. Si contestò infatti che gli studenti avevano sì diversi retroterra culturali, ma appartenevano sostanzialmente alla stessa civiltà fondata sui mass-media per la trasmissione dei valori culturali. Per questo motivo furono scelti nuovi campioni di popolazione. Un gruppo di individui della Nuova Guinea, alcuni alfabetizzati, altri no. I soggetti riconoscevano le espressioni del volto associandole nella maggior parte dei casi alle stesse emozioni.

Torna al paragrafo 2.4.1.1

46

Page 47: Mod 2 mancini_cognigni

La mano è la parte del corpo umano che può esprimere una gamma molto svariata di significati: la stretta può essere più o meno prolungata, la carezza può essere innocente o audace, può trasmettere sostegno o conforto. La mano può guidare, può dare pacche sulle spalle come incoraggiamento, può dare pizzicotti, anche questi interpretabili a seconda del partner e a seconda del contesto.

Torna al paragrafo 2.4.1.3

47

Page 48: Mod 2 mancini_cognigni

La parola isopraxis fu introdotta dal neuro-anatomista Paul D. MacLean, che la usò per la prima volta in un suo scritto pubblicato nel 1975. Definisce un comportamento neurale non acquisito in cui i membri di una specie agiscono tutti allo stesso modo

Torna al paragrafo 2.4.3

48

Page 49: Mod 2 mancini_cognigni

Per co-costruzione si fa riferimento alla nozione elaborata da S. Jacoby e E. Ochs (Co-costruction. An introduction, in S. Jacoby e E. Ochs (a cura di), Special Issue on Co-Costruction, in “Research on Language and Social Interaction”, 28 (3), pgg. 171-183) per rendere conto dello sforzo congiunto dei partecipanti che è alla base di ogni processo interattivo. Più in dettaglio, “con il prefisso co- nel termine co-costruzione si intende coprire una quantità di processi interazionali, fra cui la collaborazione, la cooperazione, e la coordinazione. Tuttavia, la co-costruzione non implica necessariamente interazioni in cui si stabilisce un rapporto di alleanza [e] di solidarietà. Anche una lite, in cui le parti sono in disaccordo, è purtuttavia co-costruita” (S. Jacoby e E. Ochs, op. cit., pag. 171: citato da F. Orletti, La conversazione diseguale. Potere e interazione, Carocci Editore, Roma, 2000, pag. 116).

Torna al paragrafo 2.5

49

Page 50: Mod 2 mancini_cognigni

- Salutare/rispondere al saluto: nella lingua Wolof (Senegal) scambiarsi saluti è una routine altamente strutturata: le formule di saluto, che comprendono lodi al divino, domande e risposte sullo stato di salute dei familiari, sottendono complesse presupposizioni culturali circa il rango sociale dei partecipanti e il comportamento appropriato da tenere con una persona di diverso status. - Offrire/accettare: in Giappone ad un ospite non viene generalmente data la possibilità di scegliere tra più opzioni di cibo o bevande come può avvenire in Italia (es. “Che cosa ti/Le posso offrire?”), perché è responsabilità di colui che lo ospita prevedere che cosa gli farà maggiormente piacere. - Complimentarsi/ringraziare: mentre in italiano è naturale dire “Congratulazioni!” per lieti eventi come un matrimonio o una nascita, o “Bravo!” a chi ha vinto una gara o passato un esame, nella lingua Ewe (Ghana e Togo) le espressioni corrispondenti non implicano tanto la responsabilità dell’interlocutore nella buona riuscita dell’evento, ma sottolineano piuttosto la volontà divina o degli antenati che ne hanno permesso l’esito positivo (“Máwú è potente”, “gli antenati sono potenti”, ecc.). Esempi adattati da C. Goddard e A. Wierzbicka, “Discourse and Culture”, in T. A. van Dijk (a cura di), Discourse as Social Interaction, Sage Publications, Londra, 1997, pgg. 231-257.

Torna al paragrafo 2.5.1

50

Page 51: Mod 2 mancini_cognigni

Riportiamo di seguito alcuni estratti da testi letterari della migrazione (L. Menna, “Il tallone di Achille, la leva di Archimede: la questione della lingua nei testi letterari dell’immigrazione”, in M. Barni e A. Villarini (a cura di), La questione della lingua per gli immigrati stranieri. Insegnare, valutare e certificare l’italiano L2, Franco Angeli, Milano, 2001, pgg. 209-231) che possono delucidare il concetto di razzismo comunicativo, inteso come disuguaglianza sociale simboleggiata dalla parola: - Hello! America? Risposi con dignitoso silenzio.

- Capire italiano? Feci “sì” con la testa ma non riuscii a scoraggiarlo.

- Africa? Feci di nuovo “sì” pazientemente con la testa, e lui prendendo la mia apparente rassegnazione come un tacito consenso proseguì con la sua inquisizione:

- Tu da che paese di Africa venire? Sentii la mia voce rispondere:

- Togo […] - Ah Togo! Nel tuo dialetto forse dire “Togo”, ma noi in italiano dire “Congo”. Tu capire? Congo!!

K. Komla-Ebri, Imbarazzismi: Quotidiani imbarazzi in bianco e nero, Edizioni dell’Arco-Marna, Milano/Barzago, 2002. «Appena arrivata in Italia, mi sembrava che gli italiani fossero tutti sordi. Quando mi capitava di chiedere indicazioni per una via, oppure qualcosa in un negozio, la gente mi rispondeva parlando ad alta voce, coniugando tutti i verbi all’infinito malgrado li avessi interpellati in perfetto italiano e poi gesticolavano ripetendo parecchie volte la stessa informazione». Sh. Fazel Ramzanali, Lontano da Mogadiscio, Datanews, Roma, 1994. «Da quando ho capito che la mia discreta conoscenza dell’italiano, invece di facilitare le cose, le complica, ho preso a parlare come ci si aspetta parli un vu’ cumpra’. Negli ostelli e nelle mense dico: “Amico incontrato stazione dire venire qua. Rubare me passaporto e soldi”. Pare che questo linguaggio elementare tranquillizzi molto impiegati delle strutture per l’accoglienza degli immigrati […] Dico anch’io “mila”, invece di mille, perché ormai sono convinto che la gente si aspetti che un vu’ comprà parli così. Così tutti i vu’ comprà dicono “mila lire”» S. Methnani e M. Fortunato, Immigrato, Theoria, Roma-Napoli, 1990.

Torna al paragrafo 2.5.2

51

Page 52: Mod 2 mancini_cognigni

Le categorie immigrazione/immigrato «assimilano in un’unica situazione e in un unico tipo “popolazioni”, profondamente eterogenee per provenienza geografica, passato storico […], condizioni di entrata nello spazio nazionale e statuti giuridici» e allo stesso tempo operano «una precisa gerarchizzazione all’interno dell’insieme, apparentemente “neutro”, degli stranieri […]: un portoghese sarà più immigrato di uno spagnolo (a Parigi), meno di un arabo o di un nero; un inglese o un tedesco non lo saranno di certo, un greco, forse» (E. Balibar, Lo stesso o l’altro? Per un’analisi del razzismo contemporaneo, in «La Critica Sociologica», n. 89, 1989) . Per approfondire questa tematica vedi:

- Av.Vv., Glossario del Centro Interculturale - Città di Torino - G. Bolaffi et al. (a cura di), Dizionario della diversità. Le parole dell'immigrazione, del

razzismo e della xenofobia, Firenze, Liberal Libri, 1998. - M. Clementi, Parole migranti, CRES Strumenti, n. 28, 2001.

Torna al paragrafo 2.5.5

52

Page 53: Mod 2 mancini_cognigni

Secondo D. Lévy (“Quand une langue dit plusieurs cultures, quand une culture s’exprime en plusieurs langues: unification et stratification en situations de contiguïté”, in E. Arcaini, M. Fourment - Berni Canani, D. Lévy–Mongelli (a cura di), Analisi comparativa Francese / Italiano: Lingue e culture a confronto, S.I.L.T.A., anno XXIII, n.3, Pacini, Pisa, 1994) il mimetismo è uno dei tre atteggiamenti possibili in situazione di stratificazione o “polifonia linguistico-culturale”: 1) trasposizione: di una cultura A in una lingua B; 2) mimetismo: di una cultura B in una lingua B e reciprocamente per un soggetto di lingua d’origine A; trasposizione e mimetismo possono essere involontari e/o occasionali, e/o necessarie, e/o funzionali, ma talvolta pericolosi e spesso dolorosi se non sono propedeutici ad un terzo atteggiamento: 3) integrazione: dove sono dosati in maniera variabile l’identificazione, l’introiezione e l’incorporazione. Per ulteriori approfondimenti vedi anche J. Amanti Mehler, S. Argenteri, J. Canestri, La babele dell’inconscio: lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990.

Torna al paragrafo 2.5.5

53

Page 54: Mod 2 mancini_cognigni

Immagine adattata da R. Kaplan, “Cultural Thought Patterns in Intercultural Education”, in S. McKay (a cura di), Composing in a Second Language, Newbury House, Rowley (MA), 1984, pgg. 43-62. Come si evince dai diagrammi, il paragrafo inglese predilige uno stile deduttivo e diretto, in cui l’argomento del discorso o topic viene immediatamente esplicitato. Dal punto di vista anglo-americano, il paragrafo Romanzo (quindi anche quello italiano), con le sue ampie introduzioni, il suo stile digressivo e ricco di precisazioni, apparirà dunque disorganizzato o intellettualmente debole. Quello in lingua inglese, per converso, può dare ad un italiano l’impressione di essere eccessivamente stringato e semplicistico, dato che ogni paragrafo contiene generalmente una sola idea. Allo stesso modo, il paragrafo Russo potrà sembrare dettato da strategie nascoste, in quanto le numerose digressioni non sono sempre chiaramente legate al topic. Quello Orientale (qui cinese e coreano), infine, può apparire tortuoso e inconcludente all’occhio occidentale, in quanto predilige un approccio induttivo che si avvicina al punto centrale in maniera progressiva, ma mai troppo esplicita e diretta per non offendere il lettore. Con il suo stile ornato, ricco di strutture coordinative, ripetizioni e parallelismi, il paragrafo Semitico può infine apparire ridondante ed eccessivamente fiorito.

Torna al paragrafo 2.5.6

54

Page 55: Mod 2 mancini_cognigni

P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999.

Parole chiave: comunicazione interculturale, linguaggi verbali e non verbali.

Abstract: Saper valutare cosa sia formale o amichevole, aggressivo o cortese, utile o superfluo in una comunicazione con persone di lingua e cultura differente dalla nostra è oggi diventato un problema sempre più assillante. Manager, accademici, professionisti, diplomatici si trovano nelle condizioni di dover utilizzare, talvolta senza conoscerli, non solo una lingua franca come l’inglese ma anche comportamenti, gesti, mosse relazionali che stabiliscano gerarchie, sanciscano modelli di comportamento, consentano negoziati e trattative. Nell’epoca della mondializzazione, la comunicazione interculturale è diventata un tema di fondamentale rilevanza che in questo libro viene affrontato attraverso l’analisi di situazioni precise, quali sono i criteri e i modelli di una "competenza comunicativa".

Torna al paragrafo 2.7

55

Page 56: Mod 2 mancini_cognigni

G. Bolaffi, S. Gindro, T. Tentori (a cura di), Dizionario della diversità. Le parole dell'immigrazione, del razzismo e della xenofobia, Liberal Libri, Firenze, 1998. Parole chiave: diversità, immigrazione, razzismo comunicativo. Abstract: Questo strumento tende ad evidenziare accanto alle parole del rifiuto anche quelle dell'incontro possibile e della comprensione culturale. Il linguaggio è diventato uno dei problemi cruciali nell'incontro fra genti lontane perché dalla comprensione e dal controllo del linguaggio dipenderà in gran parte il modo con cui convivremo. Alla realizzazione di questo strumento hanno concorso antropologi, biologi, filosofi, sociologi psicologi tra i più impegnati nel panorama italiano. http://www.goethe.de/it/nea/inter/itrass.htm

Torna al paragrafo 2.7

56

Page 57: Mod 2 mancini_cognigni

M. Callari Galli, Antropologia per insegnare. Teorie e pratiche dell’analisi culturale, Bruno Mondatori, Milano, 2000. Parole chiave: antropologia culturale, analisi culturale della contemporaneità, métissage. Abstract: I processi culturali, politici ed economici che rendono oggi il nostro pianeta un tessuto aggrovigliato di immagini, migrazioni, contatti, conflitti, contaminazioni veloci e cangianti hanno creato il bisogno di nuovi modelli interpretativi che forniscano a tutti noi abitanti dei “mondi contemporanei” – e in particolare a insegnanti e operatori sociali, impegnati in professioni prefiguranti la mediazione culturale – chiavi di lettura che consentano tanto la decodifica della complessità che caratterizza le nostre società quanto l’esercizio di un controllo democratico sulle mutazioni in corso. Percorrendo gli spazi virtuali del piccolo teleschermo e i terreni quanto mai reali delle scuole, delle città e delle società segnate dal conflitto, la storia delle discipline antropologiche e i possibili campi delle loro applicazioni, l’autrice ci propone un’analisi di ampio respiro teorico e metodologico – lucida, rigorosa e al contempo appassionata – dei meccanismi di trasmissione culturale e del farsi delle identità e delle culture all’incrocio tra “locale” e “globale”.

Torna al paragrafo 2.7

57

Page 58: Mod 2 mancini_cognigni

S. Dal Negro, P. Molinelli (a cura di): Comunicare nella torre di Babele. Repertori plurilingui in Italia oggi, Carocci, Roma, 2002. Parole chiave: comunicazione, plurilinguismo, repertori linguistici Abstract: Oltre a richiamare i temi centrali relativi al plurilinguismo, il volume esplora diverse situazioni concrete della realtà italiana contemporanea, spaziando dalle minoranze storico-territoriali, all’immigrazione, all’interazione in classe (tra insegnanti e ragazzi italiani e stranieri) caratterizzate dall’incontro di individui appartenenti a gruppi etnico-linguistici diversi. I livelli d’analisi comprendono lo studio del repertorio linguistico, quello dei reticoli sociali, l’analisi della conversazione e i parametri della comunicazione. Ricco di esempi e di materiali, il volume si presta anche come testo introduttivo sull’argomento. http://culturitalia.uibk.ac.at/sli/soci/SOCI1_2003.htm

Torna al paragrafo 2.7

58

Page 59: Mod 2 mancini_cognigni

A. De Benedetti, F. Gatti, Routine e rituali nella comunicazione, Paravia Scriptorium, Torino, 1999. Parole chiave:routine linguistiche, comunicazione quotidiana, insegnamento italiano LS/L2 Abstract: Nell’apprendimento di una lingua straniera, accanto allo studio del lessico e delle strutture grammaticali, è importante anche imparare a riconoscere e a utilizzare quella serie di formule e locuzioni fisse che rendono più scorrevole la comunicazione. Tali espressioni, denominate routine, sono argomento del presente volume, che analizza le forme ritualizzate più diffuse nella lingua italiana e il loro ambito d’uso. Alla sezione descrittiva si affiancano proposte di esercizi.

Torna al paragrafo 2.7

59

Page 60: Mod 2 mancini_cognigni

P. Diadori, Senza parole. 100 gesti degli Italiani, Bonacci, Roma, 1999. Parole chiave: gestualità italiana, insegnamento dell’italiano LS/L2 Abstract: Il volume affronta la gestualità italiana in un’ottica di educazione linguistica, rivolgendosi sia ai docenti, sia agli studenti di italiano come lingua madre o come lingua straniera. Nella comunicazione faccia a faccia, i gesti rivestono un ruolo particolarmente importante, soprattutto nella ricchissima mimica degli italiani: per questo la conoscenza della loro gestualità è una prerogativa importante per raggiungere una reale competenza comunicativa dell’italiano senza incorrere in equivoci o incomprensioni. Nella prima parte del libro vengono presentati 100 gesti, fra quelli più tipici e significativi diffusi in tutta Italia, accompagnati da un’immagine, da una breve definizione e dalle più comuni espressioni linguistiche corrispondenti al loro significato. Nella seconda parte sono raccolte invece varie attività didattiche, da svolgere sia in classe sia individualmente, fra cui alcune basate su “documenti autentici”: immagini di gesti nella pubblicità, foto di gesti nei giornali, descrizioni di gesti in articoli e in brani letterari. Il libro costituisce pertanto un interessante strumento di lavoro per l’insegnamento dell’italiano come lingua straniera.

Torna al paragrafo 2.7

60

Page 61: Mod 2 mancini_cognigni

E. A. A. Garcea, La comunicazione interculturale. Teoria e pratica, Armando Editore, Roma, 1996.

Parole chiave: comunicazione interculturale, interdisciplinarità.

Abstract: il testo propone una lettura antropologica delle relazioni interculturali, tenendo presente le varie discipline che vanno dalla pedagogia alla psicologia sociale, dalla sociologia alla filosofia del linguaggio, dalla semiotica dell’epistemologia, dalle scienze della comunicazione alle tecniche di presentazione, dall’antropologia organizzativa alla gestione aziendale. Ogni capitolo si conclude con un caso di studio.

http://www.comune.roma.it/dipscuola/intermundianews/interm3/libri1.htm

Torna al paragrafo 2.7

61

Page 62: Mod 2 mancini_cognigni

Guida sitografica: (ultima consultazione: gennaio 2004) a. [http://www.comune.torino.it/cultura/intercultura/11/11a3.html]

S. Allievi, I giovani musulmani in Europa. Tra identità tradizionale e mutamento culturale. Problemi e ruolo dei giovani musulmani migranti attraverso il loro rapporto con cultura, religione e identità.

b. [http://host.uniroma3.it/docenti/boylan/text/boylan13.htm] P. Boylan, La comunicazione interculturale nella scuola multietnica. Proposte e commenti da un laboratorio di aggiornamento per vivere lo spazio della classe come ambiente interculturale.

c. [http://www.manitese.it/cres/stru28/clementi.htm]

M. Clementi, Parole migranti, CRES Strumenti, n. 28. Interessante soprattutto per la riflessione proposta su origine e uso delle parole con cui si designa il diverso.

d. [http://www.educational.rai.it/ioparloitaliano/doc/gestire_le_relazioni_in_classe.rtf]

G. Favaro, Capirsi diversi: gestire le relazioni in classe. Saggio, ricco di esempi, su comunicazione interculturale e formazione degli adulti.

e. [http://www.federicozanettin.net/unistrapg/]

F. Zanettin, Comunicazione Interculturale. Portale sulla comunicazione interculturale ricco di altri link sull’educazione interculturale, l’antropologia e l’analisi conversazionale.

f. [http://www.comune.torino.it/cultura/intercultura/index2.html]

Centro Interculturale - Città di Torino: con un ampio glossario che spiega i termini legati alle tematiche interculturali.

g. [http://www.culturalstudies.it/index_it.html]

Dizionario degli studi culturali: con una sezione dedicata alla comunicazione interculturale. h. [http://www.tolerance.kataweb.it/ita/]

Accettare la diversità: da un’idea di Umberto Eco, Furio Colombo e Jacques Le Goff, realizzata sotto l’egida dell’Académie Universelle des Cultures. L’opera si propone come un manuale interattivo del sapere con l’obiettivo di educare alla differenza per saper affrontare il “meticciato del terzo millennio”.

i. [http://www.aliceworld.it/diete/cultura.html]

Alimentazione e società: sui tabù alimentari nelle diverse religioni. j. [www.italiacina.org]

Sito Web dell’Associazione Italia-Cina. La sezione “Conoscere la Cina” offre alcuni spunti di riflessione sull'interpretazione della cultura cinese.

k. [http://www.click.vi.it/sistemieculture/] Sistemi e culture: portale dedicato allo studio della comunicazione umana, dei sistemi sociali e dell'interculturalità, con molti link e schede di approfondimento.

Torna al paragrafo 2.7

62