Missionarie coraggiose

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Da “L’Osservatore Romano” del 31 maggio 2014 Missionarie coraggiose · Barbara Staley eletta superiora generale delle cabriniane · 30 maggio 2014 Madre Barbara Staley è stata eletta nona su- periora generale delle missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondate da Francesca Saverio Cabrini, la santa proclamata patrona degli emigranti nel 1950. Nata a Buffalo (New York) l’8 gennaio 1958, laureata in scienze sociali alla New York University, madre Bar- bara è un esempio vero e forte di missionaria: dopo un primo apostolato in alcune comunità del Guatemala per lo sviluppo e la promozio- ne umana, ha lavorato con gli immigrati clandestini a Chicago, ma soprattutto per die- ci anni è stata al servizio dei malati di Aids, di tubercolosi e degli orfani, vittime di queste pandemie, ospitati nella missione di Saint Philip nello Swaziland. È stata un’esperienza eroica e coraggiosa quella di madre Barbara: con il solo aiuto di un’altra missionaria, suor Diane, ha combattuto per anni con- tro l’epidemia di Aids in un Paese che è al primo posto nel mondo per l’infezione da Hiv, cercando di contrastarne la diffusione, di curare i malati e soprattutto di seguire la schiera di orfani che rischiavano di morire perché nessuno se ne occupava. L’epidemia infatti ha distrutto tutte le forme tradi- zionali di aiuto comunitario, che non hanno retto alla vertiginosa serie di

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Barbara Staley eletta superiora generale delle cabriniane. Da “L’Osservatore Romano” del 31 maggio 2014

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Da “L’Osservatore Romano” del 31 maggio 2014

Missionarie coraggiose

· Barbara Staley eletta superiora generale delle cabriniane ·

30 maggio 2014

Madre Barbara Staley è stata eletta nona su-periora generale delle missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondate da Francesca Saverio Cabrini, la santa proclamata patrona degli emigranti nel 1950. Nata a Buffalo (New York) l’8 gennaio 1958, laureata in scienze sociali alla New York University, madre Bar-bara è un esempio vero e forte di missionaria: dopo un primo apostolato in alcune comunità del Guatemala per lo sviluppo e la promozio-ne umana, ha lavorato con gli immigrati clandestini a Chicago, ma soprattutto per die-ci anni è stata al servizio dei malati di Aids, di tubercolosi e degli orfani, vittime di queste pandemie, ospitati nella missione di Saint Philip nello Swaziland.

È stata un’esperienza eroica e coraggiosa quella di madre Barbara: con il solo aiuto di un’altra missionaria, suor Diane, ha combattuto per anni con-tro l’epidemia di Aids in un Paese che è al primo posto nel mondo per l’infezione da Hiv, cercando di contrastarne la diffusione, di curare i malati e soprattutto di seguire la schiera di orfani che rischiavano di morire perché nessuno se ne occupava. L’epidemia infatti ha distrutto tutte le forme tradi-zionali di aiuto comunitario, che non hanno retto alla vertiginosa serie di

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morti, al punto che i bambini — spesso anch’essi malati — si trovavano a lottare da soli per la sopravvivenza.

La missione doveva così allevare bambini senza genitori e tutti dicevano alle missionarie che il problema era impossibile da risolvere, senza sapere che sono donne preparate a non arrendersi mai, soprattutto quando la gente muore davanti a loro. Ogni giorno dovevano trovare il cibo per i bambini dell’orfanotrofio in crescita costante, dovevano assistere i malati girando con un vecchio e malandato furgone per tutto il Paese, cercando di convin-cerli a fare l’analisi del sangue e a prendere le medicine, quando c’erano.

Barbara ha pianto per la morte di bambini che non si potevano curare — all’Aids si aggiungeva quasi sempre la tubercolosi e i corpi denutriti non potevano opporre resistenza — e che erano amati uno per uno. La religiosa ha anche cercato di cambiare la cultura tradizionale per la quale il sesso è un diritto insindacabile degli uomini, cultura che è all’origine della diffu-sione incontrollata del virus. La loro missione non era di convertire, ma di assistere con l’amore cristiano questo popolo sofferente che conosceva Ge-sù attraverso i loro occhi e le loro mani pietose.

A raccontare la vicenda di questa eroica missione è stato, nel libro Love and Death in the Kingdom of Swaziland (New London Librarium, 2012), un laico, Glenn Alan Cheney, che ha vissuto con le due suore, assistendo alle loro lotte quotidiane con i serpenti velenosi, alla generosità dimostrata nell’esaudire un ultimo desiderio di un moribondo anche se costava tempo e denaro: «Semplicemente — scrive Cheney — dispensavano amore come meglio potevano e nella speranza che la gente avrebbe capito che quel tipo cristiano di amore poteva sconfiggere la malattia prodotta dal tipo di amore degli Swazi».

Le due missionarie sono riuscite così a far costruire un sistema decente di irrigazione, ad ampliare l’ambulatorio medico (arrivato a trattare fino a ot-tocento malati al giorno) e il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità che opera nello Swaziland sostiene che il Cabrini Ministries è un modello per il resto del Paese proprio per il suo programma originale, che tiene insieme diagnosi, cura ed educazione seguendo attivamente i pazienti, uno per uno, secondo il motto della missione («Ripristinare la vita, riaccen-dere la speranza»).

Arrivando dalla difficile missione nello Swaziland alla guida della congre-

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gazione, madre Staley saprà portare coraggio ed entusiasmo, amore e tena-cia, non solo alle cabriniane. È senza dubbio una di quelle donne che do-vrebbero essere ascoltate quando viene pensato il futuro della Chiesa. E al-trettanto si può dire della nuova assistente generale per l’Europa, madre Maria Regina Canale, da vent’anni responsabile di una coraggiosa missione a Dubbo, nel sud dell’Etiopia. Con l’elezione di madre Barbara e di madre Maria Regina le cabriniane riportano con forza l’attenzione — tante volte richiamata da Papa Francesco — sulle periferie del mondo e sui più deboli, linea portante del loro programma futuro.

di Lucetta Scaraffia