Milano, Centro Tool, 1971 - creditovaltellinese.it · dei segni e dei semi: questa è l’anomalia...

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10 E. Isgrò con l’opera Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, Milano, Centro Tool, 1971

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E. Isgrò con l’opera Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, Milano, Centro Tool, 1971

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Anch’io sono Emilio Isgrò (“...io sono Spartaco!... no, io sono Spartaco!...no, io sono Spartaco!”, dicevano orgogliosamente gli schiavi ribelli nel film Spartacus di Stanley Kubrick).

Cogliere anche l’ironia nelle opere di Emilio Isgrò significa comprenderle.

Cogliere solo l’ironia nelle opere di Emilio Isgrò significa non comprenderle.L’opera Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, del 1971, mostra l’artista nella stessa posizione in cui, pochi anni più tardi,

verranno fotografati i sequestrati dalle Brigate Rosse, col giornale spiegato davanti per identificare il giorno in cui è stata presa l’immagine. L’artista è stato sequestrato dalla sua opera.

Conoscendo Emilio Isgrò e la sua maniacale attitudine alla revisione del testo, talora si ha l’impressione che la sua cancellatura sia davvero il risultato di una revisione ripetuta.

Bisogna coprire per vedere, come suggerisce Emilio Isgrò? Un vecchio gallerista mi raccontava che se vuoi vendere un quadro, devi metterlo girato contro la parete, mentre tutti gli altri sono ben appesi sui muri. Il primo venduto è quello.

Bisogna cancellare per capire? Anche senza considerare le opere di Emilio Isgrò, basta guardare un qualsiasi libro di testo di uno studente universitario.

Emilio Isgrò ama la figura di Marinetti, ma non la segue: è un Marinetti solitario, il che è una contraddizione in termini.

La capacità di Emilio Isgrò di avvicinare immagini improbabili, alla maniera surrealista – Torquemada che cammina sulla rugiada, Attila che cammina sul velluto, Paolo e Francesca che non si incontrano mai... -, e la sua contemporanea abilità di far vedere nella mente l’immagine risultante dal suo inverosimile accostamento, ci porta a pensare che la pipa di Magritte sia davvero una pipa.

Qualcuno potrebbe accostare le mappe geografiche cancellate di Emilio Isgrò alle mappe geografiche mute che si usavano un tempo nelle

Quarantanove aforismi su isgrò e un’intervista con emilioMarco Meneguzzo

E. Isgrò (al centro) con J. F. Kennedy alla Casa Bianca (Washington), 1963

Titolo di giornale, 1962 33x57 cm carta fotografica montata su legno. Collezione Reale, Milano

Cancellatura, 1965 65x50 cm carta fotografica Archivio Isgrò, Milano

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scuole. Nulla di più lontano, anzi, opposto: a scuola si dava la parola al luogo, qui la si toglie.

L’operazione che Emilio Isgrò compie ingrandendo a dismisura i particolari di certi personaggi noti – Mao-Tse Tung ingrandito 915 volte, Jacqueline Onassis 34 volte, Elisabetta d’Inghilterra 624 volte...- in un certo senso assomiglia all’operazione di Andy Warhol rivolta a personaggi simili (talora gli stessi, come Jacqueline e Mao): il personaggio scompare.

Cos’è più forte, l’icona o la memoria? Ripensando al confronto Emilio Isgrò/Andy Warhol sui personaggi celebri (celebri nel momento in cui venivano “prelevati” dall’artista per essere posti all’interno di un’opera), vien da chiedersi se Mao sia più forte per la sua icona (Warhol) o per la sua memoria (Isgrò).

La memoria è il basso continuo o, se volete, il rumore di fondo di tutte le opere di Emilio Isgrò.La memoria non è un elemento intrinseco alla logica linguistica, all’analisi del linguaggio, perché riguarda il significato, il contenuto dei segni e dei semi: questa è l’anomalia concettuale dell’opera di Emilio Isgrò.

Se guardo la Mappa degli Stati Uniti dipinta da Jasper Johns vedo una bandiera, se guardo la mappa cancellata The United States (1982) di Emilio Isgrò vedo un libro.

Emilio Isgrò ha talmente connaturata nella sua opera la forma-libro – cioè il vero e proprio oggetto, oltre che il concetto – che c’è anche quando non c’è.

L’opera di Emilio Isgrò Biografia di uno scarafaggio (1980), composta da più pannelli, mi ha richiamato alla mente il dipinto a

tempera di William Blake Fantasma di una pulce (1819-20). Non c’è nulla che li accomuna, se non la scelta del soggetto, un essere ripugnante. O forse una cosa c’è: che si tratti di uno scarafaggio e di un pulce lo sappiamo per entrambi solo dal titolo.

Al contrario di tanta arte concettuale (non diciamo tutta, perché continuiamo a pensare che anche Isgrò vi abbia fatto parte), ogni opera di Emilio Isgrò ha bisogno di uno spettatore dalla “memoria condivisa”, di un pubblico, cioè, che ritrovi nell’opera il proprio vissuto e non solo le basi analitiche del proprio comunicare.

La cancellatura è la cifra di Emilio Isgrò, come l’IKB lo è per Klein, lo specchio per Pistoletto e Marilyn Monroe per Warhol: trovare in questi esempi quello semanticamente meno omogeneo.

Certe volte penso che Emilio Isgrò sia l’equivalente di un grande “pittore di storia”,

Corrono corrono, 1965 60x130 cmcarta fotografica montata su legno.Collezione privata, Messina

Provino del film cancellato La jena più ne ha più ne vuole, 1969

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così come venivano definiti gerarchicamente gli artisti nei secoli passati, a seconda della loro specializzazione: in fondo lui ama narrare.

Anche la cancellatura ha vissuto gli sviluppi tipici di ogni avanguardia: appena inventata è una dichiarazione di guerra, poi diventa un trattato sulla guerra, infine un racconto di guerra pieno di chiaroscuri e di

storie parallele. Lo si vede dalla decisione con cui Emilio Isgrò cancellava i primi testi, per arrivare alla raffinatezza di questi ultimi, dove si continua a cancellare, ma poi si lascia intravedere, si occulta a metà, si fa emergere la parola di sotto al nero o al bianco che la cancella.

Ogni volta che vedo le formiche di Emilio Isgrò

annerire una statua con la loro presenza, mi viene in mente Gabriel García Márquez che, in Cent’anni di solitudine, descrive come le formiche ricoprono il corpo di un neonato nella culla. Ogni volta mi vengono i brividi.

Le formiche per Emilio Isgrò sono una cancellatura mobile.

Emilio Isgrò è un retore, nel senso classico del termine, oppure nel senso che della

retorica ha dato Hans Georg Gadamer, per il quale ogni relazione umana è governata dalla retorica, cioè dagli strumenti del convincimento.

La cancellatura di Emilio Isgrò è una minaccia di sparizione e al contempo una epifania.

Contro l’eccesso analitico: le macroscopie di Emilio

Storia rossa, 1977 85x85 cm acrilico su tela. Collezione privata, Courtesy Erica Fiorentini Arte Contemporanea, Roma

S dalla parola Montedison, 1972 97x90 cm tela emulsionata. Collezione privata, Padova

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Isgrò – i “particolari ingranditi n volte” – fanno sparire l’oggetto dell’analisi per eccesso di approfondimento.

“Emilio Isgro’ (sotto l’albero) medita sul destino del Vecchio Continente” è il testo verbale di un’opera del 1969: dall’inizio della sua avventura non ha fatto altro che stare sotto quell’albero.

Un semiologo usa la parola cercando di definirne esattamente gli ambiti, un poeta usa la parola in modo che sfugga ai suoi ambiti: Emilio Isgrò è un poeta.

L’ansia di definire porta alla tautologia dell’”A uguale ad A”. Per il timore di arrivarci, Emilio Isgrò non ci si avvicina nemmeno.

A volte penso che l’opera di Emilio Isgrò, basata sulla verbalità, tragga la sua forza da tutti gli elementi non verbali presenti nel suo contesto.

Il principale elemento non verbale presente in tutta l’opera di Emilio Isgrò è la memoria.

La parola è popolare, la cancellatura è popolare, l’immagine è popolare: perché le opere di Emilio Isgrò non lo sono?

Se si pensa ai luoghi comuni dell’Arte Concettuale, si direbbe che l’attitudine analitica non può coincidere con una vocazione profetica: l’opera di Emilio Isgrò è lì a smentire questa credenza.

Quando la parola si allontana “troppo” dalla

cosa, il rischio è la vuota astrazione: Emilio Isgrò evita questo pericolo grazie all’immagine mnemonica che si crea sempre in ogni sua opera.

L’immagine corroborata dalla memoria è il territorio abitato dall’opera di Emilio Isgrò.

La parola corroborata dalla memoria è il territorio abitato da Emilio Isgrò.

Perché il Seme d’arancia di Emilio Isgrò (1997-98) dovrebbe essere un’operazione concettuale piuttosto che plastica? Per il cortocircuito che si crea nella mente pensando a un vero seme e al suo sviluppo: da embrione piccolissimo si trasforma in qualcosa di grande e di molto diverso, mentre qui non si trasforma altro che in se stesso ingigantito a dismisura. Il modo migliore per far pensare alla funzione del seme, alla sua idea e non alla sua forma.

Ancora sul Seme d’arancia di Emilio Isgrò: a dispetto di quanto si dice e si pensa – anche di ciò che ho appena detto, e che purtuttavia mantiene la sua giustificazione critica – l’opera non è solo un lavoro concettuale, ma anche formale. Ci sono semi più “belli” di altri, esattamente come prediligiamo certe opere di Duchamp – la ruota di bicicletta

E. Isgrò alla mostra Contemporanea, Roma, Parcheggio di Villa Borghese, 1973

Il nome di Dio, 1996 cm 180x95acrilico su tela montata su legno. Courtesy collezione Ambra Gaudenzi, Genova

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sullo scolabottiglie, sulla “fontana” o viceversa... - per la loro forma e non per la loro valenza concettuale, sostanzialmente simile o uguale.

La cancellatura di Emilio Isgrò è un invito alla riscoperta dei piaceri dell’epigrafia?

La cancellatura di Emilio Isgrò è la nostalgia della letteratura? Semmai è la nostalgia del futuro della parola.

A volte Emilio Isgrò tira in ballo l’onnipotenza di Dio per affermare che anche questa deve fermarsi sulla soglia dell’ineluttabilità della parola e dell’immagine: “Dio Nostro

Signore apre questo occhio ma non riesce a chiuderlo” e “Dio Nostro Signore crea questo braccio ma non riesce a muoverlo” sono testi verbali di sue opere che portano alle estreme conseguenze il “C’est ci n’est pas un pipe”.

Un tempo la “damnatio memoriae” coincideva con la cancellatura del nome - del faraone, del re, dell’imperatore... - da tutti i monumenti. Oggi la cancellatura di Emilio Isgrò è piuttosto una “damnatio oblivionis”.

Il rapporto tra parola e immagine nell’opera di Emilio Isgrò non tende a distinguere i due territori linguistici (il terzo territorio è

quello della “cosa”...) ma a integrarli.

L’elemento più evocativo della memoria nelle opere di Emilio Isgrò è la didascalia.

Che le acque circondino le terre e non viceversa lo si vede chiaramente dall’andamento delle cancellature delle scritte che si trovano sul mare, nelle mappe cancellate di Emilio Isgrò.

Chissà perché cancellare l’immagine di un quadro proponendola come arte è stato previsto sin dal “Capolavoro sconosciuto” di Honoré de Balzac, e poi messo in pratica da tanti artisti, mentre cancellare le parole, come ha fatto con pervicacia singolare e unica Emilio Isgrò, suona ancora così sacrilego?

L’integrazione linguistica tra parola e immagine nelle opere di Emilio Isgrò assomiglia all’operazione compiuta dal matematico Mandelstam con i frattali, che tendono a eliminare il concetto di incomunicabilità tra le dimensioni geometriche.

Non è vero che Emilio Isgrò porta all’estremo limite le possibilità della parola: al contrario gli piace navigare in mezzo alla ricchezza della parola. All’estremo limite c’è solo la tautologia.

Anch’io non sono Emilio Isgrò.

Agamènnuni. L’Orestea di Gibellina di Emilio Isgrò da Eschilo, prefazione di P: Volponi, Milano, Feltrinelli, 1983

Polifemo, Milano, Mondadori, 1989

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E. Isgrò al tavolo di lavoro, 1990 (foto Giovanna Borgese)

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milano, 12 luglio 2008archivio isgrò.

m.m.Con l’idea di una lunga intervista partiamo veramente dall’inizio. Ho letto una tua biografia in cui: bambino, con una certa attitudine alle lettere, poi a Milano, l’incontro con una serie di intellettuali - intellettuali siciliani e no che stavano nella città lombarda -, che mi sembra ti fornissero una sorta di viatico che partendo dalla Sicilia arrivava fino a Milano… Un’ ambiente letterario diciamo in qualche modo tradizionale, a parte l’incontro con Elio Pagliarani. È così o no?

e.i.Si era un’ ambiente letterario che contava allora. Non so se posso definire tradizionale Montale, il termine è certo riduttivo nei suoi confronti. Però certamente non erano degli apostoli di quella che poi si chiamerà Avanguardia, e che verrà almeno otto/dieci anni dopo. Io da questa società fui accolto benevolmente. Il mio primo libro fu pubblicato da Schwarz, che era già un editore, e già mezzo mercante d’arte, ancora non aveva cominciato lavorando molto attivamente. Assorbii da un lato la cultura più avanzata dell’epoca, seppure senza possedere necessariamente le stigmate dell’avanguardia, e contemporaneamente, continuavo invece ad assorbire l’impronta dell’avanguardia che avevo conosciuto già in Sicilia, avendo vissuto in un ambiente molto sensibile culturalmente. Per esempio, i Futuristi venivano spesso in Sicilia dal barone Iannelli, che era amico di Marinetti e lui stesso un futurista.

m.m.Stiamo parlando di fine anni Quaranta inizio anni Cinquanta?

e.i.Anni Trenta, Quaranta, forse anche Venti. C’era stato questo futurista, che si chiamava appunto Guglielmo Iannelli che ha fatto un manifesto per la distruzione del teatro di Siracusa. Manifesto futurista. Chiaramente sulle orme della distruzione del Canal Grande, patrocinata da Marinetti: testimonianza comunque di un ambiente culturalmente non inerte.

m.m.Ma scusa… tu sei nato nel 1937: in che senso hai vissuto quel periodo?

e.i.Perché in famiglia mi si raccontava tutto questo. Conoscevo il nipote del barone Iannelli, che una volta mi portò nella villa dello zio e mi mostrò dei quadri di Depero e di Balla. E lì, in mezzo a tanti quadri futuristi, vidi un laghetto alpino con le montagne che si specchiavano nell’acqua, mi pare che ci fossero anche delle ochette, con una stranissima luce. Allora ho detto “che opera è questa?”. Era un’opera di Balla che, siccome non vendeva niente, si illudeva di commercializzare il proprio lavoro scegliendo un tema scemo. Però evidentemente c’era dentro la luce che si è poi vista nel miglior Balla. Quindi il quadro era effettivamente suo. Sono quindi cresciuto in un ambiente molto avvertito culturalmente. Non ho avuto difficoltà. In famiglia si faceva musica, mio padre era anche un compositore quasi professionista. Componeva musica, aveva un’orchestrina da ballo e suonava in tutte le contrade siciliane e io lo seguivo spesso nei suoi viaggi. Avevo uno zio pittore che mi introdusse all’uso dei pennelli. Quindi avevo un’educazione mista. Facevo il liceo, ero sollecitato da mille cose. Ma diciamo che la mia prima vocazione è stata quella letteraria, se non altro perché non avevo nessuna voglia di sporcarmi le mani, come invece dovevano fare i pittori e gli scultori. Ahimè: ho iniziato a sporcarmele sempre di più, e ci sono rimasto. Spero di non essermele sporcate però fino al punto da non poter tornare più indietro.

m.m.In questo senso quindi la tua passione è una passione eminentemente letteraria…

e.i.A quell’età non avevo problemi di feeling, né di musica. Cioè studiavo la musica, ma per il fatto stesso che fosse un’imposizione paterna sfuggivo sempre. La pittura c’era già in famiglia…ma sfuggivo a tutto questo. Avevo un’educazione artistica a 360 gradi, ma trovavo più comodo per me esprimermi scrivendo poesie. Vinsi un premio da giovanissimo, avevo quindici anni. Poi quando arrivai a Milano nel ’57 mi iscrissi all’Università. Avevo finito il liceo classico. Incontrai Schwarz, incontrai Crovi. In quegli anni conobbi anche Piero Manzoni che mi fece conoscere la mia prima moglie, Brigitte…

m.m.Però non è che uno scende dal treno a Milano e incontra Arturo Schwarz...

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e.i.No, Schwarz lo conobbi perché un mio compagno di scuola all’Università era Raffaele Crovi. Raffaele Crovi era l’assistente di Elio Vittorini, e aveva letto le mie poesie, che gli avevo spedito grazie a un amico in comune prima di partire dalla Sicilia. Quando le lesse - aveva tre o quattro anni più di me, era un po’una specie di fratello maggiore, molto generoso intellettualmente -, gli piacquero e mi portò da Schwarz, perché curava assieme a lui una collana di poesie. Schwarz le lesse, piacquero anche a lui e mi pubblicarono: così arrivai a Milano nel ’56 contemporaneamente all’uscita del mio libro. Subito. Fu un colpo fortunato, molto fortunato. Perché trovai subito spazio. Li dopo incontrai da Pasolini, per dirne uno, a Montale, da Quasimodo, a Vittorio Sereni che volle conoscermi, a tutto quello che allora si chiamava establishment. Pubblicai tre poesie su Il Verri, perché me le chiese Nanni Balestrini. Se nella vita poi purtroppo mi sono fatto dei nemici, devo dire che ho fatto di tutto per crearmeli, perché mai nessuno ha avuto un’amarezza programmatica nei miei confronti, almeno a quell’età. Anzi, piacevo alle persone. Forse ero un po’ noioso perché parlavo sempre di poesie e di arte, ma per quello purtroppo non c’è niente da fare. Infatti sono rimasto noioso, se uno non mi vuol bene…Nel ’56 pubblicai questo libro e contemporaneamente cominciai a pubblicare le mie poesie sul Verri, con Franceschi attraverso Balestrini: ancora non c’erano

le Neoavanguardie, e in particolare il gruppo ’63, che sorgerà appunto sette anni dopo, però conobbi tutte le persone che avrebbero fatto l’avanguardia, come lo stesso Pagliarani.Non vivo e non vivevo una vita d’artista, ma allora ero giovane e con questi miei amici un po’ di vita comunitaria comunque la facevo, non ero completamente isolato. Pubblicai delle poesie sul Menabò, incontrai Vittorini che mi volle conoscere, scrivevo e contemporaneamente mi ero iscritto all’Università, dove studiavo scienze politiche, anche se sostanzialmente frequentavo le lezioni di storia del teatro. Quindi diciamo che coltivavo quella vocazione artistica a 360 gradi di cui parlavamo, anche se ancora non mi ero cimentato con le arti visive vere e proprie

E. Isgrò (a sinistra) con A. Zanzotto, 1965

Dibattito presso la Libreria Feltrinelli di Milano, 9 Marzo 1966, in occasione della mostra Poesia visiva. Da sinistra L. Tola, E. Isgrò, G. Dorfles, E.R. Sampietro, L. Pignotti, A. Bueno

Milano, 1966. Isgrò organizza e promuove con l’editore Sampietro una mostra di Poesia Visiva alla Libreria Feltrinelli. A destra, l’invito alla manifestazione

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(tranne due quadretti che avevo dipinto in Sicilia, usando malissimo i colori direttamente dal tubetto, perché evidentemente non li sapevo diluire: il risultato era una sorta di tristezza espressionista dovuta alla mia incapacità. Uno l’ho fatto vedere recentemente e nessuno mi ha mai detto che è un’infamia, ma in effetti è un’infamia!).

m.m.Tutto questo è una specie di lungo apprendistato, in cui si evidenziano già della caratteristiche che saranno tue proprie, come il frequentare diversi territori linguistici, che sono poi la caratteristica della poesia visiva, cui il tuo nome è stato legato. Ma qual è stato il momento di passaggio da artista verbale ad artista visivo? Come sei approdato alla poesia visiva?

e.i.Guarda io sono approdato all’esperienza di poeta visivo perché, pur essendo un poeta lineare, verbale, abbastanza interessante anche per le avanguardie, mi dava da pensare l’atteggiamento un po’ perentorio del Gruppo ’63, nel quale contavo degli amici, ma del quale non facevo parte. Mi sembravano troppo decisamente professori: non è un mistero che Sanguineti doveva fare delle cose da museo (cosa che poi, detto fra noi, ha fatto anche Celant)! L’arte può finire al museo, ma parlando di una forma d’arte d’avanguardia mi sembrava il tradimento di quelle che erano gli statuti delle Avanguardie del Novecento. Anche se io capivo benissimo cosa voleva dire Sanguineti, non potevo logicamente

accettarlo. Quindi mi tenni sempre fuori, e cominciai a fare delle poesie visive, tipo la Volkswagen, in cui volevo misurarmi con i problemi che la mia epoca poneva, che erano principalmente il superamento del linguaggio. A quell’età si competeva sanamente, anarchicamente: non si competeva certo per il mercato, perché semplicemente non c’era, o a noi era precluso (eravamo troppo giovani oltretutto), però si competeva molto intellettualmente. Io volevo dire la mia. E per questo mi trovai a dare una definizione di arte generale del segno, cioè un’arte in cui la parola, ormai sfiancata dalla comunicazione verbale secolare, si univa all’immagine per creare nuove metafore. Quindi una comunicazione diversa da quella tradizionalmente verbale.

m.m.A questo proposito, hanno avuto un qualche peso certe esperienze milanesi come il Mac pubblicava nei documenti d’arte oggi delle cose di Porta, di Pagliarani, di Monnet che ormai erano già quasi poesia visiva,o le contemporanee riviste romane

Fiere del Sud, Milano, Schwarz Editore, 1956

Venezia, 1964: una delle prime cancellature. Courtesy Archivio Isgrò

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come L’Esperienza Moderna, la rivista di Novelli e di Perilli, che indagava il segno in rapporto alla scrittura, grande tema degli anni Cinquanta ?

e.i.Se devo essere brutale e sincero io ho scoperto la bellezza di certe opere di Novelli molto tardi: da giovane Novelli non mi interessava, l’ho scoperto dopo, vedendo certe opere in casa di amici, specialmente dei grandi quadri con segni di matita. Li preferisco a Twombly, avrà fatto pochi pezzi, ma è più grande lui, perché effettivamente lui il problema della verbalità e della scrittura se lo pone anche come carico di memoria, e lì ci trovo una vicinanza, quanto meno di intenzioni. Però allora non le conoscevo. E il bello, e il paradosso è che molti che poi scoprirò fratelli, non mi piacevano. Avevo un pregiudizio. Ce l’avevo sul tutto il Gruppo ’63. Mi erano proprio antipatici. Per questo sognavo un’arte in grado di fare a meno di loro. Per questo mi sono tenuto distante da loro. Il fatto è che poi ho visto che con altri artisti – spesso dei poeti - avevo più punti di coincidenza. Devo dire che io quella del Gruppo ’63 non l’ho mai considerata una poesia visiva degna di questo nome: non era tale, era un’esperienza minoritaria. Con tutto il rispetto che io ho per Villa - amo molto la sua traduzione dell’Odissea e certi scritti teorici -, credo che la sua attività propriamente creativa sia minore: al massimo i

poeti del Gruppo ’63 arrivavano a qualche esperienza di poesia concreta. Non amavo molto, delle loro esperienze, il legame che avevano con l’informale. Erano troppo legati all’Informale. Io mi preoccupai della mia dichiarazione, allontanandomi da tutto quel mondo: così la mia posizione diventava per forza polemica. Era una posizione polemica perché volevo che il rapporto tra l’immagine e la parola non si riducesse a un magma che portasse come traccia l’espressività informale, quindi l’efficacia espansiva, ma si risolvesse in un disegno che potenziasse la comunicazione.

m.m.L’aspetto della poesia visiva. Come è nata? Perché si è chiamata così?

e.i.La poesia visiva si è chiamata così per un motivo molto semplice: molti di noi, i cosiddetti poeti visivi, venivano da aree letterarie, e il convergere verso esperienze di tipo visuale certamente derivava da una certa tradizione novecentesca, e tardo ottocentesca, da Mallarmè in poi. Quindi la chiamammo “poesia visiva” semplicemente per questo motivo.

m.m.C’ è un coniatore di questo termine o si perde nel ricordo?

E. Isgrò (al centro) con G. Lollobrigida a Venezia durante la XXVII Mostra internazionale d’arte cinematrografica, 1966

Venezia, 1965È l’anno di Jacqueline, una risposta concettualmente europea allo strapotere mediatico della Pop Art. Courtesy Archivio Isgrò

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e.i.Il termine poesia visiva fu coniato da me e altri, sostanzialmente dal Gruppo ’70. In un libro di Renato Barilli si dice che l’accezione che gli do io è diversa da quella tradizionale.Un coniatore preciso non c’è. Però le aree dell’avanguardia più o meno usavano questo termine. Non è come l’Arte Povera o la Transavanguardia che hanno un’etichetta precisa e un inventore identificato.

m.m.La differenza tra poesia visiva e poesia concreta?

e.i.La poesia concreta era un’esperienza monosegnica, nel

senso che si usava soltanto la parola. Avveniva all’interno della verbalità. Non c’era un’immagine. A meno che le stesse immagini non diventassero forme visive. Se tu leggi certi miei testi si trovano le differenze. Fui io a introdurre il distacco dalla poesia concreta definendo la poesia visiva come un’arte generale del segno. Un campo aperto dove potessero coesistere segni iconici e segni verbali.Bisognava distaccarla dalla poesia visiva. E io l’ho fatto in una chiave polemica. Allora si polemizzava molto, anche con gli artisti amici. Specialmente con gli epigoni italiani della poesia concreta. Da un lato introdussi però una concezione della poesia non come collage, che utilizza materiali di scarto, ma come progetto visivo che parte dall’ essere novecentesco. Comunque la definizione di poesia visiva come arte

Venezia, 1964. È l’anno della Volkswagen: la casa automobilistica tedesca diffida l’artista dall’uso del marchio. L’artista risponde: “Ritirerò la mia opera quando voi ritirerete le vostre automobili”.Courtesy Archivio Isgrò

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generale del segno è mia. Prima non c’era. È chiaro che poi ci fu un adeguamento da parte anche di altri artisti.

m.m.Vi trovavate, avevate fatto un gruppo?

e.i.C’era il Gruppo ’70 a Firenze, con il quale ad un certo punto ci incontrammo. Venivano a trovarmi loro a Venezia, Pignotti e Miccini. A volte andavo io a Firenze. Ma questo durò pochi mesi. Poi c’era un gruppo a Genova, che si riuniva intorno alla galleria la Garabaga. C’erano vari gruppi e vari individui. Vi era una forte guerra contro la poesia concreta da parte di tutti. Quasi tutti. Infatti nell’antologia della poesia visiva di Pignotti la poesia concreta non è neppure contemplata: ci sono

però alcuni artisti che venivano dal Gruppo ’63, come Novelli. Immodestamente io capii immediatamente la portata di quel discorso. Gli stessi fiorentini, secondo me, non avevano capito. Quello che avevo capito era che noi, se fossimo entrati nell’ambito del visivo, avremmo dovuto risolvere problemi che erano di tipo visivo. Non letterario. Loro si connotavano come letterati.

m.m.Però il gruppo ’70 gravitava già nell’ambito del sistema dell’arte.

e.i.Non in quanto poesia visiva. Loro si consideravano letterari. C’era Antonio Bueno, con il quale collaborai

scrivendogli un testo. C’era Sylvano Bussotti, il musicista. C’era Giuseppe Chiari, il musicista fluxus. C’erano dei pittori che operavano nella loro area.

m.m.Quello che mi domando è questo: mentre voi vi siete definiti tutti come letterati, in realtà tutte le manifestazioni gravitavano in un altro ambito. Quali erano le manifestazioni che facevate da letterati?

e.i.La verità è che quello connotato sul piano letterario ero io. Avevo pubblicato da Einaudi, il menabò di Vittorini. Avevo pubblicato da Schwarz delle poesie. Da Mondadori un altro libro di poesie. Per gli altri la poesia visiva era un modo per fare dell’avanguardia letteraria. Mentre per me era

Cartolina per un Natale, 1965 cm 50x65carta fotografica montata su legno. Archivio Isgrò, Milano

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un modo per affrontare un campo diverso. Avevo fortuna come poeta. Feci un sacrificio di me stesso in nome di una causa. Mi immolai, perché avevo delle capacità verbali assolute. Pignotti, Micini, ancora oggi pubblicano delle poesie. Io ho vissuto questa esperienza in maniera totale.

m.m.Di fatto, durante la Modernità – intesa come insieme di progetti ideologici sulla realtà -, questo attraversamento dei territori è sempre stato guardato con diffidenza, così come lo stare nei territori di confine: di solito una persona sta dentro una disciplina o fuori da questa. Voi eravate nel mezzo.

e.i.No. Mi rifiutati di stare in mezzo. Mi assunsi tutte le responsabilità che la scelta comportava. Se dovevo fare delle mostre nelle gallerie, agivo visivamente. Sapevo perfettamente che l’elemento verbale avrebbe introdotto una dimensione come minimo di inquietudine comunicazionale, o linguistica. Però rifiutai, cercai, capii che si trattava di un nuovo medium che nasceva dalla contemporaneità. Dal fatto che la parola non veniva più staccata dall’immagine. Puntai tutto sulla parola. Quando la cancellai, anche se l’esperienza della cancellatura è un’esperienza a latere rispetto alla poesia visiva, mi accorsi che il risultato era visivo. Che ciò che coprivo aveva importanza in sé. Sia quando coprivo le parole, sia quando più tardi coprivo le immagini. Allora mi accorsi che diventavo ciò che strenuamente non volevo essere.

m.m.Cosa volevi essere? Un’artista?

e.i.C’è un certo equivoco sul termine. Io per dieci anni circa sono stato considerato un po’ il leader del movimento. Ero l’amministratore unico di una società che non esisteva. Soprattutto io chiamavo poesia visiva qualcosa che era arte concettuale di fatto.

m.m.La definizione di arte concettuale ancora non c’era.

e.i.Non esisteva.

m.m.Fabro diceva che si parlava di “arte mentale”. La parola concettuale non la usava nessuno.

Il Corriere della Sera annuncia l’uscita del “romanzo elementare” Il Cristo cancellatore, Milano, 1968

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e.i.Io che venivo dalla letteratura non avevo bisogno di usare il termine mentale. Mi sforzavo di dare all’immagine la stessa mobilità della parola. Ti dirò che non conoscevo neanche Matisse. Lo devo confessare. Ma quando vidi Matisse, fu da lui che venni ispirato. Quando Filiberto Menna mi fece la prefazione per la mostra a Parma, fui io a suggerirgli di guardare Matisse per il mio lavoro. Trovo Matisse molto intrigante per

il rapporto tra immagine e parola…Comunque nella poesia visiva, le due esplorazioni che volevo fare erano quelle della verbalità. Da un lato la cancellatura: mi accorsi che la parola cancellata diventava a sua volta un segno quasi iconico. Aveva un impatto visuale. Basta pensare alla pittura segnica di quegli anni dove si ritrovano delle suggestioni. Non da parte mia, che ero completamente ignorante di arte visiva.

m.m.Certo che se uno parla di segno, icona, parola, e lo collega cronologicamente e culturalmente alla fine degli anni Cinquanta/inizio dei Sessanta diventa quasi automatico pemsare a questo grande melting pot, a questo grande crogiuolo dove tutto, tutti i linguaggi si confondono. Il tuo problema era, al contrario, la definizione.

e.i.Dipanare la materia. Infatti facevo appello alla Gestalt – forse era un po’ banale -, per poter trarre poi tre righe di ragionamento che facessero al mio caso. Certo, il mio discorso era vedere i limiti di quel discorso percettivo e psicologico, che pure era un discorso importantissimo, interessantissimo. Solo oggi posso dire che quel discorso era importante: lo posso dire perché non c’è più conflittualità. Ripeto, sarà anche per un fatto di gusti, caratteriale, ma col Gruppo ’63, nonostante l’amicizia di Pagliarani, non c’era feeling, agivo veramente da solo. Quando cominciai a fare le mie poesie visive mi ritrovai a fianco il gruppo tecnologico fiorentino, Pignotti, Miccini, che faceva dei collages.

Londra, 1969. Il Daily Mirror, tabloid londinese, annuncia l’inizio delle riprese del film cancellato La jena più ne ha e più ne vuole, presentato in conferenza stampa a Milano con la protagonista Paola Pitagora. Courtesy Archivio Isgrò

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Il grosso shock, più ancora che l’Informale, Lucio Fontana, e Piero Manzoni, che avevo conosciuto quando stava a Milano, me lo diede la Pop. Quando abitavo a Venezia, nel 1964, vidi lo sbarco della Pop, uno sbarco in forze: non avevo mai trovato nulla di così formidabilmente potente sul piano della proposta visiva. Mi prese. Mi prese Rauschenberg, e il New Dada…

m.m.Tuttavia nella Pop il problema era tutto nell’immagine.

e.i.Esatto. A quel punto è chiaro che le mie ambizioni di artista

crescevano. Non mi accontentavo di ciò che facevano gli altri, perché ero cresciuto in una famiglia dove mio padre predicava la differenza tra gli artisti come un valore assoluto. Mi ricordo che lui era un uomo che cercava di essere diverso dagli altri. Ce l’avevo nel cromosoma. Allora capii che quel discorso era potente e possente e ne vidi però anche i pericoli. Allora facevo le pagine culturali de “Il Gazzettino”, per cui seguivo la faccenda: invasero l’Europa in una stagione, tanto che non si poteva più parlare della Germania, o della Francia e naturalmente neppure dell’Italia. L’Italia è un paese in questo senso molto fragile, queste cose le sappiamo. Fu proprio in relazione alla Pop che avvenne il mio passaggio tra parola e immagine.

Fotogramma cancellato del film La jena più ne ha e più ne vuole, 1969

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m.m.…In polemica con la Pop?

e.i.Era un tentativo di costruire un discorso diverso, una concettualizzazione diversa, così come la mia Jacqueline è un’opera concettuale. Il legame con quel mondo è nella tematica: volevo dare una risposta a tutto questo. Lo dico con coscienza tranquilla, lo feci contro la Pop. Per non fare l’artista americano. Anche se avevo amato molto la Pop, ne vidi il pericolo: capii che cominciava il grande protettorato per noi europei. Io avevo una cultura europea, avevo studiato a scuola tedesco, e avevo studiato tedesco perché a tutti gli allievi ribelli lo facevano studiare, perché era la nazione che aveva perso la guerra. Le signorine

di buona famiglia studiavano il francese, i ragazzi più sofisticati l’inglese, mentre Quelli che erano un po’ ribelli all’ambiente, quelli che non provenivano da famiglie decisamente benestanti finivano a studiare il tedesco. Però, attraverso lo studio del tedesco, che poi io non ho mai imparato del resto, conobbi la letteratura tedesca, e una moglie tedesca. Conobbi la grande forza dell’Europa. Andò così. Non so se conviene dire che era un atteggiamento polemico, ma forse lo era.

m.m.Ti chiedo questo proprio perché questa parola – “polemica” -, evidentemente è un bel motore.

e.i.Quando uscì il mio primo libro di poesie Piede del Sud, la rivista Belfagor di Luigi Russo, che allora era il massimo, fece una segnalazione in cui si concludeva così: “l’autore

non manca di ingegno e, soprattutto di vis-polemica”. Si una vis-polemica c’era nel mio lavoro. E allora, da giovane, era intenzionale, perché era l’epoca in cui la polemica, che non era aggressiva, significava difformità. Poi, con l’andare del tempo, è diventata talora purtroppo preterintenzionale, cioè al di là delle mie intenzioni, per cui se, ad esempio, io vado in chiesa a pregare magari qualcuno pensa che sto facendo della polemica contro qualcuno, mentre sto semplicemente pregando. Adesso me ne guardo bene, perché c’è un tempo per tutto: in gioventù è giusto cercare una collocazione nel mondo che sia omogenea al tuo carattere, al tuo modo di sentire, e quindi rompere con le abitudini.

Milano, 1970. Cancellazione dell’Enciclopedia Treccani: l’opera viene installata nella Galleria Schwarz, suscitando scandalo e polemiche. (Courtesy Archivio Isgrò)

Parete cancellata per una stanza da letto, 1968, cancellatura-enviroment per la Casa Museo Brindisi, Lido di Spina (Ferrara)

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Quindi sì, avevo questo atteggiamento polemico, che mi viene da mio padre, che non era mai allineato con niente. Era una famiglia intellettuale la mia. Era una famiglia di gente non ricca, ma era piena di libri la mia casa. In casa mia non si faceva altro che dipingere e studiare, fare musica. Quindi io sono un figlio d’arte da questo punto di vista. E la polemica l’avevo acquisita nel fatto che, come ti dicevo, quella era la terra dove c’erano tanti futuristi quanti a Milano. Quando incominciai per esempio a scrivere poesie in cui non sfruttavo più la metrica italiana, mio padre, che me l’aveva insegnata, mi chiese “Ma che vuoi fare il futurista?”. Quindi c’era sempre questa reattività a ciò che accadeva in fondo a me, e ti devo dire che purtroppo, o per fortuna, è rimasta ancora oggi. Io ancora oggi non sono indifferente a quello che accade. A volte me ne pento anche, perché sono costretto a mutare giudizio nel

giro di due o tre anni, su situazioni che magari li per li non mi sono piaciute e per cui magari reagivo male, mentre poi, conoscendole meglio, capisco di aver avuto torto. D’altra parte l’ingiustizia perpetrata ai danni della conoscenza al momento dell’insorgere di certe esperienze mi ha portato ad inventare qualche altra cosa. Devo dire però che talvolta ho lo stesso atteggiamento di ripulsa anche per situazioni molto belle, molto soddisfacenti, che però sotto sotto mi spingono a fare qualche altra cosa, per superarle, per innovarle o per inventare situazioni nuove, e ciò accade anche rispetto a me stesso, al lavoro che faccio. Io sono uno che si critica continuamente. E ho avuto bisogno della critica, che non ho mai avuto purtroppo, e che finalmente è arrivata anche attorno a me. Prima ero molto fazioso. A volte non riconoscevo certe situazioni. Ma allora, nelle Avanguardie e nelle neoavanguardie, si usava…

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m.m.L’autoriflessione, o, meglio, l’autocritica non è una caratteristica fondamentale per gli artisti. Certe volte potrebbe essere controproducente. Però, torniamo a quegli anni: nel ’64 la Pop arriva a Venezia. Tu eri a Venezia per altre questioni. La Pop è lo shock, anche se tu avevi già conosciuto personaggi come Piero Manzoni, che oggi riteniamo shockanti ma che forse allora non erano presi in considerazione… in quel momento la provocazione massima veniva invece da quest’immagine altra, che era la Pop.

e.i.Secondo me tu vedi bene. Perché le provocazioni manzoniane non erano prese come tali. Non

funzionavano a livello di dibattito culturale. A torto o a ragione, il povero Piero Manzoni nessuno lo prendeva sul serio. E quando lui parlava, gonfiava i palloncini d’aria, non è che il discorso fosse poi così affascinante. Il personaggio di quell’epoca sostanzialmente era Lucio Fontana. Era quello che aveva dato a noi giovani quello shock salutare, apparentemente in chiave italiana,a molti di noi. Era lui, non era Piero Manzoni, perché effettivamente allora – e lo penso ancora oggi - una parte di Lucio Fontana, o almeno certe sue opere, erano più nuove. Apparivano più nuove. Per lo meno quelle coi buchi purissimi, quelli sono capolavori. Quella audacia forse l’avrà avuta il primo Boccioni scultore nel Novecento italiano. E poi mi è sempre molto piaciuto il Fontana che ad un certo punto smentiva se stesso caricando di pietre e pietruzze i suoi oli bucati. Mi

Milano, 1971. In primo piano, Emilio Isgrò tra le braccia di Christian Stein all’inaugurazione della mostra di gruppo Proletarismo e dittatura della poesia, curata dallo stesso artista per la Galleria Sant’Andrea. In secondo piano, il gallerista Gianfranco Bellora. Courtesy Archivio Isgrò

Carta P72, 1972Courtesy Archivio Isgrò

Come le farfalle notturne, libro cancellato, 1972Courtesy Andrea Manzitti

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piaceva. Dicevo “ci vuole un bel coraggio”. Un artista che ha la forza di raggiungere l’estremo limite, ma che ha anche l’intelligenza creativa di tornare indietro. Sai perché lo dico? Perché anch’io agisco così. Quindi è un maestro. Il vero maestro è lui. Fontana per noi era un coetaneo, andava ad incoraggiare i giovani, comprando loro qualche opera: a me comprò una versione della Volswagen. E poi, mi ha fatto conoscere Brigitte.Manzoni, come dicevo, non veniva preso molto sul serio. Però lui non faceva niente per farsi prendere sul serio, se non si era dotati di buona volontà. Ma questo lo capisco perché gli artisti spesso sono masochisti: io stesso lo sono stato in altre epoche. Perché allora il gioco dell’incomprensione era una lotta alla borghesia. Era la borghesia a non capirti. La borghesia non era in grado di capire i migliori valori che essa stessa a volte poteva esprimere, visto che lo stesso Manzoni era un aristocratico borghese, che io avevo una cultura borghese, che facevo l’Università…E poi va detto che la borghesia italiana non era quella francese. Non aveva il culto dell’irregolarità e dell’irregolare. L’artista ubriacone dava fastidio. Invece Fontana vestiva con quei grandi vestiti, elegantissimo, con il gessato. Era lui il grande mito della nostra generazione. Manzoni guadagnerà in prospettiva dopo, perché con l’insorgere delle tematiche e delle tecniche concettuali è stato possibile rileggere il suo lavoro in una chiave un po’ diversa. Io per esempio non ammiro tanto di Manzoni la Merda d’artista, però certamente la Linea Infinita è un’opera formidabile, forse la più concettuale delle sue opere, mentre le altre sono riferibili più a una mentalità Dada, ma un Dada meno legato all’alchimismo duchampiano. Più facile. Fatto di boutades.

m.m.Quando tu dici “per la nostra generazione era Fontana”. A chi ti riferisci? Tutti i tuoi coetanei avevano questo mito di Fontana?

e.i.Con la nostra generazione mi riferisco semplicemente ai miei coetanei. A quelli che oggi hanno la mia stessa età. Diciamo che in quegli anni in cui gli altri, da Castellani,a Dadamaino e altri compagni stavano con Manzoni, io sostanzialmente mi occupavo di letteratura. Non ero ancora venuto fuori allo scoperto, anche se già cominciavo a combinare delle cose, e il mio punto di riferimento era Milano, pur abitando io dal 1960 a Venezia.La verità era che in quegli anni io mi rendevo conto dei

limiti dell’avanguardia grazie ai Manzoni, e non grazie ai Fontana. La forza creativa di Fontana era tale che accettai pure che fosse un autore legato al Novecento, mentre nella forza creativa di Manzoni, essendo diversa e indirizzata a linguaggi solo d’avanguardia, riconoscevo proprio i suoi limiti avanguardistici, che non gli perdonavo. Io almeno li vedevo come dei limiti. Allora capii che bisognava scendere sul terreno dell’avanguardia con qualcosa di irrevocabile. Nel mio caso fu la cancellatura. Certo, da un lato la razionalizzazione del rapporto immagine/parola scorreva come un filo sotterraneo per tutto il Novecento, ma non credo si fosse posto in maniera così chiara, verbale e iconica, tranne forse per Magritte in alcuni momenti. In fondo, se qualcuno citasse in tal senso i Calligrammes di Apollinaire risponderei che sono materiale verbale. C’è un tentennare in essi e in tutto il periodo.Credo dunque che la mia fortuna fu di pormi chiaramente questo problema, che era latente. Poi da lì esce l’”arte generale del segno”: in fondo, quando l’immagine della Jacqueline sparisce sotto le righe nere, è già una cancellazione. Io creo un’altra icona: la freccia, il campo grigio retinato, la scritta. La Jaqueline è una composizione. A tutti gli effetti. Come saranno le Storie Rosse.

m.m.Si. Le si percepisce molto chiaramente come composizione…

e.i.…Poi c’è il rapporto con la fotografia. Qualcuno che legge le mie Storie Rosse fa un appello a Malevic, tanti anni fa qualcuno l’ha fatto a El Lissitsky. Può darsi che tutto questo ci sia. Però in effetti il rosso è un’immagine cancellata. C’è sotto una fotografia. L’intento quantomeno è diverso. Se poi echeggiano altre cose è meglio, perché io credo che l’arte debba sempre riecheggiare il passato. Non so se tu sei d’accordo su questo.

m.m.La tua arte echeggia altra arte passata in modo particolare. C’è veramente un chiaro riferimento, quasi una dichiarazione, un appello. Non formale però, non nelle forme visibili, e neppure nella composizione, ma nel tuo ricorrere alla memoria, che deve essere condivisa con il tuo interlocutore.

e.i.La parola è legata alla memoria. L’arte è figlia della memoria, ma soprattutto la poesia. Un’altra cosa che mi dava fastidio di certe avanguardie

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era l’eccesso di formalismo. Quando affronto il problema della comunicazione, io affronto il problema di un’arte in grado di andare se non presso tutti, presso molti:, “quest’arte è per molti ma non per tutti” diceva Nietzsche. Io non ho mai rifiutato il discorso della comunicazione, come invece facevano altri artisti della mia generazione, apparentemente. Io cercavo la comunicazione. Questo perché ero cresciuto in terra futurista, ma in questo almeno andavo contro gli americani. E quando vennero i concettuali io fui felice, perché vedevo una conferma ai miei discorsi: loro combattevano un’altra battaglia rispetto alla comunicazione pop.

m.m.Prima ci siamo chiesti, pensando al tuo lavoro, “come si è entrati nel territorio dell’arte?”; adesso ti faccio una domanda apparentemente molto simile ma con un connotato sociale diverso, derivato anche da questa tua iniziale appartenenza a un movimento riconosciuto, come quello dell’arte concettuale: “come sei entrato nel sistema dell’arte?”

e.i.Sono entrato nel sistema dell’arte quando feci le tre poesie visive iniziali, nel tentativo di rinnovare la vecchia parola della poesia occidentale, entrata in crisi e in lutto a causa di una comunicazione mediatica che ora vediamo in tutta la sua virulenza (paradossalmente, è triste pensare che si comunica per sms…); poi c’era l’incipiente il lutto mediatico della televisione; poi sentivamo il sottofondo degli inglesi dappertutto e

capivamo che per un poeta che parla la lingua italiana era finita. Si diceva in fin dei conti che la parola stessa era finita.. Allora io cercai di rendere più comunicazionale la poesia fondendola coi segni iconici. E tuttavia, proprio grazie alla Pop, mi accorsi che anche il segno iconico diventava ridondante, e quindi produceva poca comunicazione. Allora il mio sottrarre l’immagine alla vista - cioè in pratica il mio cancellare -, mi fece capire che non solo bisognava cancellare le immagini e le parole, ma anche il segno iconico. Quanto meno renderlo non integro in modo che tutti insieme si incastrassero come nelle giunture di un mobile, in cui un pezzo entra robustamente nell’altro. In questo modo crei dei vuoti nell’immagine e delle punte nella parola in modo che il discorso diventi organico.Ho affrontato due problemi fondamentali. Affrontando

il problema del rapporto parola/immagine capivo perfettamente che le vecchie categorie saltavano. Era un problema specifico, non affrontavo un problema inerente di arte totale di wagneriana memoria. Mi proposi di risolvere il problema del rapporto immagine/parola. Jaqueline: la scritta è monca, l’immagine è monca. La scritta con il linguaggio della didascalia è finta, non è una vera didascalia. È perché scatti in rapporto all’immagine cancellata, che non c’è. Questa è una cosa importante, che l’avanguardia non aveva esplorato fino a quei livelli, l’avevano solo accennato. Questo fu quello che avevo impostato: la poesia come arte del segno. Per me la grande svolta fu la cancellatura. Mi consentì di dare un taglio netto con le avanguardie. Le prime cancellature sono del ’64. Mi accorsi ad un certo punto

Milano, 1972. L’avventurosa vita di Emilio Isgrò nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini, installazione presentata per la prima volta allo Studio Sant’Andrea di Milano. Courtesy Csac, Parma

Edizioni Il Formichiere, Milano, 1975

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che cancellando, o coprendo e sostituendo con il grigio la fotografia, che c’era questa interazione tra verbalità e icona. Tanto è vero che avevo ricevuto una lettera da un giovane critico, che diceva che il mio era il contributo più coerente allo sviluppo di queste esperienze dopo il futurismo. Mi fece molto piacere. A volte il rapporto parola/immagine si intersecava con la cancellatura. Non era sempre possibile dare un taglio netto. Però ho capito che quando tu copri un’immagine, per esempio, o una verbalità, da un lato liberi l’immagine da una necessità di figurare, di rappresentare alcunché. Però c’è una traccia della rappresentazione. L’immagine è coperta, quindi salta il rapporto figurativo astratto. Di più, tu hai appena parlato della dimensione della memoria. Io parlo di linguaggio. Sono sempre stato tradito da questo: non sono mai riuscito a fare l’opera che intendevo. Da giovane perché non avevo i mezzi, ho sempre avuto un solo colpo in canna. E piuttosto che per uccidermi lo usavo per sgominare un certo

modo di pensare e di vedere. Non certo per uccidere. E purtroppo anche adesso, da vecchio, mi tocca sempre averne uno. La cancellatura comunque è il mio autoritratto più compiuto, per questo resiste al tempo e si carica di drammaticità.

m.m.In più c’è l’aspetto vero e proprio della definizione della didascalia.

e.i.Il linguaggio notarile che a volte adottavo stabilì un rapporto di sproporzione fra il particolare rappresentato, ingrandito ecc. e la scritta. La scritta era notarile. Ma l’immagine era completamente incontrollabile, quindi la scritta non serviva a niente. Si creava una specie di corto circuito sul piano della comunicazione. Si creava un’apertura per l’immaginazione. Il contrario del tautologismo concettuale. D’altra parte credo che

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queste esperienze scrittorie non avrebbero avuto questo sviluppo se non insorgeva il concettuale americano, anglosassone. Il nostro lavoro, che era catacombale, confinato in Italia, assunse un peso mondiale di colpo. Gli esperti magari lo sapevano già.Tutto questo, dunque, ha molto a che vedere con l’arte concettuale.

m.m.La rarefazione di cui tu parli che è una chiave di lettura degli inizi…

e.i.È la dematerializzazione. Io non ho mai fatto scelte puramente formali. Ma partendo come poeta verbale, per me il bianco e il nero e la possibilità di stampare più volte la stessa opera, come a me è successo, era un fatto normale. È la tecnica del libro che si stampa in più esemplari.

Allora come sono diventato artista visivo pittorico? Perché mi resi conto che questo non lo facevano ne in poesia, ne nel contesto concettuale. Mi resi conto che se volevi effettivamente comunicare in un contesto di nuovo tipo, attraverso lo spazio delle gallerie, pubbliche o private, dovevi farlo in campo visivo. Non bastava trasformare la parola in un’icona, come hanno fatto in pratica i concettuali, certi concettuali. Poiché li c’è molta confusione. In fondo si potrebbe dire che anche questo è un procedimento Pop come gli altri. Bisognava creare in un contesto globale dove la nuova icona si avvalesse di una parola che coesistesse

Milano, 1972. Emilio Isgrò conversa con Christian Boltanski allo Studio Sant’Andrea in occasione della mostra L’avventurosa vita di Emilio Isgrò nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini. Courtesy Archivio Isgrò

Dittico Marx – Engels, 1974Courtesy Archivio Isgrò

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almeno virtualmente anche con altri segni. E che fosse soprattutto un fatto autonomo ed organico anche a livello visivo. In pratica una manifestazione estetica e organica.

m.m.In realtà in fondo la tua è sempre stata una posizione critica nei confronti del concettualismo che fa della parola un’icona, o un feticcio, così come sei sempre stato critico – e in certi casi forse anche vittima – di certe strategie di comportamento, miranti alla definizione di una “purezza” concettuale cui si doveva tendere e appartenere.

e.i.Io ero molto attento alla comunicazione: nei limiti del possibile ho sempre cercato di dialogare con tutti. C’era però discrepanza tra me e quello che mi accadeva intorno. Ho fatto sempre un’arte programmaticamente elitaria, riservata a pochi. In fondo potevo pensare che la stessa cancellatura potesse diventare un gesto popolare arrivando persino al livello del plagio, del “contagio”. Non lo dico come un vanto. Devo dire che forse fu la mia sola astuzia. Prevedevo che si sarebbe dato importanza alla cancellatura, proprio per la sua apparente ovvietà. a quel punto cominciai ad “incassare”: Libri cancellati, Madonne cancellatrici… non volevo saturare il mercato, visto che ancora non l’avevo, ma il mercato delle idee. Ho cercato sempre col mio lavoro di creare dei nodi

stradali dove chiunque doveva passare. Come fa un’artista a non cancellare, visto che è il gesto più naturale del mondo? È come dire che non devi bere acqua.

m.m.Parliamo ancora della poesia visiva. Tu hai fatto un discorso di comunicazione e in qualche maniera anche di unità, di sintesi tra le discipline linguistiche, in nome di una comunicazione in fondo più semplice. Quasi popolare. Hai usato tu questo termine.

e.i.Perché io non me ne vergognavo. Ero convinto che la cancellatura dovesse essere un gesto popolarissimo, visto che tutti sono in grado di eseguirlo. È chiaro che estremizzo, parlo per paradosso: praticarla bene la cancellatura è difficilissimo.

m.m.In tutti i tuoi lavori c’era un aspetto volutamente popolare: nella poesia visiva ritagliare pezzi di giornale…non solo tu. Più da parte di altri che da parte tua.

e.i.La mia poesia visiva più tipica è la Jacqueline.In effetti qui c’è stato un equivoco. Io mi staccai subito dalla poesia visiva, benché, se guardi i giornali, per circa dieci anni ero io la poesia visiva. Fui io a portare avanti il discorso, perché in effetti alcuni si vergognavano di diventare pittori, ci tenevano molto ad essere degli scrittori. Per gli italiani poi c’è un pregiudizio…

m.m.Perché la parola scritta sembra fare aggio sull’immagine…

e.i.La parola produce ideologia. Allora io presi le distanze da loro. Presi anche le distanze dalla poesia concreta. La definizione di arte generale della parola era mia, non era mai esistita. Come prima, che non si era mai parlato di cancellatura nell’arte del Novecento: fino a quel momento li non se ne era mai parlato.

m.m.Magari qualcuno l’aveva fatto, ma…

e.i.…Non se ne era neppure accorto. Comunque non esisteva. Non se ne era davvero mai parlato. La mia

Particolare, 1972(Courtesy Archivio Isgrò)

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creatività è la mia cancellatura. Per molti anni mi portai questo peso. Per me la poesia visiva era Jacqueline. Tanto è vero che la chiamavano Poesia Jaqueline, o Poesia Volkswagen.

m.m.Era quello che genericamente si pensava meno come poesia. Perché non c’era la poesia.

e.i.Meno male che l’ho fatta. Almeno era diversa, per esempio dalle tematiche tecnologiche di Firenze. Loro facevano i collages, io il collage non lo volevo, perché non accettavo l’ancoraggio alla Pop. Io volevo fare qualcosa diverso dalla Pop.

m.m.Ma mentre in Jacqueline questo è evidente, nella Volkswagen meno.

e.i.È evidente nel fatto che formalmente c’è il bianco, il nero, non c’è nessun colore. Il testo e l’immagine interagiscono. Non è una cosa pop, ma certamente è più legata a quel tipo di immaginario. La Jacqueline no.La Volkswagen è del ’64, la Jacqueline del ’65: Non c’era stato Kosuth, non c’era stato niente. Quei titoli di giornale sono anche loro ‘64/’65. Le cancellature sono anche loro del ’64… Il mio destino fu veramente curioso. Ero nato per fare un’arte popolare, odiando tutti gli artisti aristocratici, o che avevano pretese di aristocraticità. Non ho mai voluto essere un’artista per pochi. Però è andata così, e adesso ci ho preso gusto. Il mio destino era questo. Speriamo che non succeda fino in fondo perché a questo punto non ho più l’età. Ma hai capito qual è il paradosso? Io non ho mai cercato di essere Emilio Isgrò.

m.m.È il problema della comunicazione: hai sempre detto che non volevi fare la Pop, che avevi visto il pericolo della Pop…

e.i.Ho vissuto gli anni Sessanta e Settanta. Adesso si lamentano tutti dell’invasione mediatica americana. Io vedevo schiere di artisti imbecilli che marciavano con il passo dell’oca.

m.m.Però questo appello estremo alla comunicazione non assomiglia un po’ anche a questa specie di immediatezza della comunicazione che la Pop metteva in atto?

e.i.In un primo momento ho accettato la comunicazione e i problemi ad essa connessi così come venivano evidenziati dalla Pop, poi mi son reso conto col tempo che il mio discorso era diverso. Insomma mi sono trasformato in un artista aristocratico, senza volerlo essere.

m.m.Si potrebbe dire che tu fai un discorso sulla comunicazione, mentre la Pop fa un discorso di comunicazione.

e.i.Loro fanno un discorso di comunicazione, io ho fatto un discorso per una comunicazione più alta.

m.m.Di fatto per fare questo bisogna svelare i meccanismi del linguaggio. Cosa che invece la Pop assolutamente non faceva. Però il problema è che la comunicazione rimane la base di tutto. Una comunicazione in fondo globale, e la tua vuole esserlo.

e.i.La Pop faceva comunicazione gareggiando con la società mediatica. Io non gareggio con la società mediatica.

m.m.Torniamo sulla tuo volontà di essere popolare e di sfuggire all’aristocraticismo…

e.i.Il mio modo di fare arte doveva comunque essere passibile di una divulgazione ampia. Però, da buon europeo, non ho mai abbandonato l’idea che essa doveva crescere con me. Anche con e attraverso la mia formazione politica.

m.m.A 27/28 anni, cioè nel 1964-65 la tua formazione politica era già sviluppata?

e.i.Si. Avevo una posizione politica. Lavoravo al Gazzettino che era un giornale non certo conservatore. Ero considerato comunista, senza esserlo poi. Non sono mai stato iscritto al PCI, ma ero considerato una specie di sovversivo. Poi avevo un amico di Trieste, che abitava vicino a Venezia, un poeta ebreo triestino, che mi fece leggere Marx, mostrandomene anche i limiti. Però diciamo che sono sempre stato quello che col tempo

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si sarebbe definito un liberal. Un liberal chiaramente non attivissimo sul piano politico, ma sufficientemente attento anche alla polemica e al piano culturale. La verità è questa: io pensavo di fare la rivoluzione con l’arte. Allora era lecito questo. Questo volevo fare con la cancellatura. Ora non è più lecito.

m.m.In quegli anni c’erano per esempio l’Arte Cinetica e l’Arte Programmata, che per risolvere quello stesso problema, cioè fare la rivoluzione attraverso l’arte, oppure attraverso il design...proponevano l’arte per tutti, moltiplicata, numericamente per tutti. La moltiplicazione degli oggetti, il multiplo su scala industriale.

e.i.Io non ci sono mai arrivato a questo. Neppure nel tempo del mio trimestrale rapporto con la mia officina. Non ci ho mai creduto fino in fondo. Ho pensato a un’arte potenzialmente per molti, non sono mai stato per un’arte che esclude.

m.m.Questo in realtà non voleva escludere. Diceva “mettiamo un’opera d’arte moltiplicata in ogni casa”.

e.i.Non sono mai arrivato a quelle cose li, ma a un certo punto ho commesso l’errore di pensare che potesse essere così.

m.m.…La provocazione di Beuys “la rivoluzione siamo noi”?

e.i.Ma si! Tutto questo a volte lo dicevo persino io, però i miei comportamenti a livello creativo non sono stati sempre vistosamente conseguenti rispetto a questo piano di intenti.Alla fine chi mi aveva accusato di eccessi di aristocraticità non aveva in fondo tutti i torti. Io mi incavolavo molto. C’erano certi artisti bravissimi che a volte mi davano fastidio perché venivano considerati troppo aristocratici. E io ero felice di non esserlo. Ma c’è stato un equivoco da parte mia: io pensavo che la finta ovvietà, e il finto modo nel quale io mi adoperavo, dovessero funzionare. Giocavo con la comunicazione in questo senso. Andy Warhol ti “mostra” la Campbell, ti “mostra” la Jacqueline, io no. Allora è più potente il meccanismo di far vedere le cose o di non farle vedere? Si tratta di due retoriche diverse.

m.m.Sono due retoriche diverse di cui però una è più facilmente divulgabile, fa leva su determinate caratteristiche visive, emotive, dall’altra parte ci sono caratteristiche mentali più mediate.

e.i.Ma se tu pensi alla pubblicità, le cancellature hanno fatto poi la pubblicità, come è avvenuto per l’enciclopedia Treccani cancellata.

m.m.Si tratta sempre di pubblicità di alto livello,indirizzata a chi si voleva comprare la Treccani, non di chi automaticamente comprava la Campbell al supermercato… Comunque, nel ‘64/’65 eri già dentro il sistema dell’arte? Come lo vedevi? Com’era?

e.i.L’ho visto per molto tempo considerandomi un poeta, anche quando già era evidente che non ero più soltanto un poeta nel senso tradizionale del termine. Io nel sistema dell’arte c’ero già in pieno. Quando poi ci fu l’avvento dell’arte concettuale è chiaro che le mie premesse furono confermate, al di la delle polemiche che si sono fatte da una parte e dall’altra. Però c’era una cosa che mi divideva profondamente dagli artisti e dalle gallerie d’arte: io non sapevo neppure che il lavoro di un artista si potesse vendere.

m.m.…la purezza dell’arte? Non ti ci vedo.

e.i.Non perché ero buono, perché non ci pensavo.

m.m.Se però conoscevi Fontana, sapevi anche che le opere si vendevano, eccome!

e.i.Ma io no. Poi mi comprarono le prime cose Schwarz e Peppino Palazzoli. Per la Treccani cancellata Schwarz volle l’esclusiva per tutto il mondo. Però non avevo quella mentalità. Non avevo bisogno di soldi per vivere, perché facevo il giornalista: per molti anni - fino al 1970/ 71 – sono stato giornalista professionista, e i giornalisti guadagnavano abbastanza bene. Tutti i soldi che guadagnavo li spendevo per le mie opere. A un certo punto ho venduto le mie opere a Palazzoli perché cominciavo a capire che le gallerie erano utili,

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potevo fare le mostre. Contemporaneamente percepivo una forte voglia di fare quello che allora si chiamava l’impegno politico, ma non nell’accezione in cui dicevi prima, a proposito dell’impegno dell’arte programmata a risolvere i problemi di un mondo percettivamente migliore.

m.m.Lì l’impegno politico si è risolto in una specie di fallimento: il connubio arte/industria non ha funzionato, allora si è deciso di fare la rivoluzione. Il tuo problema era il circuito mentalità/percezione del mondo/arte, che avrebbe fatto scattare un diverso concetto del mondo. Anche questo non ha funzionato.

e.i.…E quando la cosa non ha funzionato non è che mi sono coperto il capo di cenere.

m.m.Cioè non hai fatto autocritica, come si diceva allora, e non hai smesso di fare l’artista, come qualcuno – pochi, per la verità – ha fatto.

e.i.Ho continuato perché ero convinto che l’arte si basasse su tempi lunghi. Poi sono rimasto conservatore: l’artista deve essere solo, nella sua cameretta, deve frequentare certi ambienti il meno possibile.

m.m.Vorrei che in questa parte della nostra chiacchierata parlassimo più diffusamente di quanto abbiamo già fatto di quella che era l’atmosfera a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta: non l’atmosfera politica, di cui abbiamo anche parlato, ma l’atmosfera per così dire linguistica, quella con cui ti sei misurato…le persone che sentivi più vicine, le esperienze che sentivi più stimolanti come confronto.

e.i.Evidentemente il clima prevalente era quello delle neoavanguardie più o meno istituzionali, più o meno istituzionalizzate. Il clima prevalente era quello del Gruppo 63, che fu una avanguardia eminentemente letteraria, ma che trasborda anche nelle arti visive. Attorno al Gruppo 63 c’erano delle avanguardie magari meno conosciute, ma ugualmente agguerrite, come il Gruppo 70 di Firenze. Ti sto parlando del

‘64/’66. È in quel clima che nasce un’esperienza come la poesia visiva. Gli incontri, poi, erano abbastanza casuali. Ad esempio, in quel periodo, quando facevo le prime poesie visive, ero amico di Adriano Spatola, che faceva una poesia un po’ concretista, un po’ post surrealista. Spatola lavorava per l’editore San Pietro di Bologna. Quando gli feci vedere i Titoli di giornale, lui mi disse di fare un libro e di farlo pubblicare da San Pietro. La parola poesia visiva già circolava nell’aria, ma molti ancora la confondevano con la

Torino, 1973. La mostra Arte Italiana alla Galleria d’Arte Moderna: un grande libro cancellato e altre opere di Isgrò alle pareti. (Courtesy Galleria d’Arte Moderna, Torino)

Napoli, 1974. Telex, libri cancellati, carte fotografiche e poesie visive alla Galleria Lia Rumma. (Courtesy Lia Rumma)

Pagina a fianco:La ‘q’ di Hegel, 1972(Courtesy Galerie der Stats Stuttgart)

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poesia concreta. C’era un po’ di confusione. Anche se i concreti erano contro il collage novecentesco e facevano eccezione per me. Ognuno agiva per conto propri. Non c’era un gruppo. C’era il gruppo ’70, gli Isgrò, Ketty la Rocca, che poi fu scomunicata dal Gruppo ’70 perché era troppo vicina alle mie posizioni. Io naturalmente volevo smantellare l’idea del collage novecentesco perché mi sembrava troppo vicino alla pop, pur ammirandone certe cose. Capivo che il mio linguaggio doveva essere distante dal loro. Ancora a quel tempo c’era l’idea che in qualche modo la singolarità di un’artista consisteva anche nella capacità di formulare certi discorsi in anticipo sugli altri. A volte era un po’ fasullo, altre vote era necessario. Dunque in quell’occasione, tramite San Pietro, conoscemmo Pignotti, che mi venne a cercare a Venezia con Miccini.

Voleva che entrassi nel gruppo ’70. In effetti partecipai a un paio di manifestazioni.Il clima era anche quello del Pop Art americana che si travasava in Europa, e che incominciava ad essere conosciuta anche dagli europei. In Italia specialmente emerge la Scuola Romana con personaggi come Schifano, Angeli…c’era un grande fervore sperimentale: non importava tanto di che cosa parlavi, anche se per un movimento come la Pop questo contava. Poteva anche essere un’analisi sociologica della società.

m.m.Questo per quanto riguarda il versante europeo, o comunque italiano della Pop, che secondo me è stato travisato perché la Pop americana non aveva nessun aspetto di denuncia sociale. Era la definizione di quello che c’era, l’ostensione dell’esistente.

Enzo Paci. Nota per Isgrò in catalogo della mostra Antologica, Università degli Studi di Parma-CSAC, Scuderie della Pilotta, Parma, 1976 (manoscritto originale)

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e.i.Questo è un interrogativo aperto. E l’interrogativo è questo: se l’apprendista stregone alla fine non ci lascia le penne. Cosa voglio dire: la società americana, l’artista americano e l’opera, hanno lasciato all’epoca un grosso punto interrogativo, non ci hanno mai detto fino in fondo, e forse come artisti non potevamo pretendere che loro ce lo dicessero, se volevano cantare le lodi del supermercato, o in qualche modo denunciarne la valenza omologante.

m.m.C’era anche la terza via. Vale a dire l’indicazione del “esiste il supermercato”. Non schierarsi né a favore, nell’esaltazione, né nella denuncia. Una semplice constatazione di realtà. Un condensato di realtà.

e.i.Non c’è dubbio che per me suonano più opere di denuncia. Io trovo che Pollock denunci di più di Warhol. Ma se lo vado a dire in giro mi ammazzano. Trovo che sia molto più eversivo Rothko di Rauschenberg. Credo che quello fu il tentativo di dare distacco alla vecchia Europa che evidentemente era in crisi: avendo gli americani vinto la seconda guerra mondiale, volevano tentare anche nuove strade dell’arte. Niente di strano, tutte le potenze lo fanno. Domani sarà la Cina, dopodomani l’India.

m.m.Da quello che mi hai appena detto ci sono due aspetti che

emergono chiaramente dalle tue frasi: il primo è la tua derivazione eminentemente letteraria, molto accentuata se si pensa al territorio linguistico e di sistema dove si è sviluppato poi il tuo lavoro. E questa è la prima cosa…

e.i.Sì, ma è una tendenza, tendo a precisare subito, che è insita nelle avanguardie del Novecento, perché in fondo le grandi rivoluzioni artistiche cominciarono con personaggi che si chiamavano Marinetti, letterato, Breton, letterato… Senza Marinetti non sarebbero esistiti né Balla, né Depero, né Boccioni probabilmente, sono i letterati che danno l’input. Il cubismo viene buona parte definito almeno criticamente da un personaggio come Apollinaire. I letterati sono stati molto presenti, e se poi pensi anche a Breton, o Tristan Tzara, dove l’arte alla fine diventa scrittura, dove, dopo un lungo transito, ci si accosta a

Milano, 1977. A un vernissage con il critico Pierre Réstany. (Courtesy Archivio Isgrò)

Milano, 1979. L’installazione Chopin, partitura per 15 pianoforti, alla Rotonda di Via Besana. (Foto Antonia Mulas)

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un’esperienza nuova… L’arte concettuale nasce tutto sommato da quello, dall’attitudine a considerare la pittura anche scrittura. Ritengo che l’arte concettuale abbia creato un gusto per la verbalità nel quadro, l’abbia rafforzato.

m.m.Il secondo elemento è appunto il tuo concetto di eversione linguistica. Quando tu dici “Pollock denuncia molto di più, ed

è più eversivo di Andy Warhol “, è perché cerca un linguaggio nuovo, mentre Warhol no. Magari cerca un soggetto nuovo, mentre gli altri cercano un linguaggio nuovo…

e.i.…E lo trovano sostanzialmente proprio con quello stesso procedimento di ingrandimento che apparentemente è una prerogativa della Pop. Si potrebbe dire che l’Informale americano di quel periodo è una dilatazione di un certo Informale europeo. Però l’arte americana, fino a quando è una costola della grande arte occidentale (non dico dell’arte europea, ché sarebbe capzioso e riduttivo), è un’arte che interessa. Diventa meno interessante quando diventa troppo locale, troppo americana, allora perde stimoli, anche se è chiaro che non possiamo non dare peso al pragmatismo che si manifesta con la Pop Art, alla voglia di dire magari cose ovvie, alla voglia di dire la “caduta”, per cui arrivo anche a capire il desiderio di mercantilizzare certi prodotti: non c’è dubbio infatti che c’è una stretta alleanza tra mercato e cultura in quel caso. Ma questo era accaduto anche nella Francia di Picasso e di Braque.

m.m.Non si sfugge a questa deriva mercantile, e alla fine non vedo neppure perché vi si dovrebbe sfuggire ...

e.i.La realtà è quella che è. Basta guardarla in faccia e sapere. Poi è chiaro che ci sono delle forme ideologiche che nella vecchia Europa erano appunto ancorate a una visione marxistico rivoluzionaria, chiamiamola così, nei confronti della realtà. Differentemente, negli Stati Uniti dalla Pop Art in poi, fino alla Minimal e poi su fino alla Conceptual Art, abbiamo un’arte sostanzialmente ancorata a un positivismo logico viennese che, attraverso l’Inghilterra, aveva varcato l’Oceano. La Pop è stata a Londra per un certo periodo della sua vita. Ripeto, chiamare le cose con il loro nome è sempre un pregio, però diventa poco pregevole l’indifferenza dei discorsi veicolati. Cosa voglio dire: finché c’è un margine di ambiguità la Campbell dipinta è diversa da quella che vedo al supermercato, e l’opera di Andy Warhol mi interessa. Quando cade questo margine che attiene anche alla stessa capacità di informare esteticamente - basta guardare le teorie informazionali di quegli anni che andavano per la maggiore -, allora io comincio ad essere indifferente anche alla Pop Art.

Milano, 1984. L’artista nel suo studio mentre lavora all’installazione multimediale La veglia di Bach su commisione del Teatro alla Scala. Courtesy Teatro alla Scala

Milano, 1985. Un’immagine dell’installazione La veglia di Bach con il tipico manifesto scaligero all’ingresso. Courtesy Teatro alla Scala

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Perché se uno fa l’apprendista stregone, a forza di mimare i processi del supermercato ci cade dentro. Non voglio fare un discorso moralistico. È una mia sensazione. Ma era fatale arrivare a Jeff Koons.Con questo non nego che Andy Warhol sia stato sicuramente un artista importante come lo è stato Rauschenberg. Tuttavia, ho molti amici che si sono abbeverati alle fonti di quest’arte e che si lamentano del successo che ha un’artista come Jeff Koons: in questo frangente è proprio il caso di dire”chi la fa l’apetti”. Ma l’arte è anche pendolarità di opinioni. Divergenza di opinioni. Per quanto io veda i limiti del modello americano, non posso non riconoscerne l’importanza. Ciononostante, non vedo perché gli americani debbano essere la guida delle arti nel mondo, visto che ormai hanno perso lo slancio che hanno avuto fino al ‘64 /‘65. (ti prego, però, queste affermazioni maneggiamole con prudenza estrema, che sennò sembra che faccia l’antiamericano…).

m.m.Torniamo a te. Abbiamo già parlato della poesia visiva, da cui tu in qualche maniera ti stacchi. Mi pare che il tuo modo di agire, se vogliamo definirlo in qualche maniera, sia più riferito all’arte concettuale. Ma chi erano i tuoi interlocutori? Ad esempio, ti sei confrontato, scontrato, affrontato con persone, movimenti…? Erano ad esempio gli anni dell’Arte Povera…

e.i.Diciamo che l’Arte Povera comincia due anni dopo le mie prime mosse in pubblico.La mia Volkswagen è del ’64, ma appare pubblicata nel ‘65. Le mie cancellature sono più o meno del ‘64 /’65. L’Arte Povera fa la sua comparsa nel ‘67. Quindi eravamo quasi coevi. E io personalmente non sono mai minimamente entrato in conflitto con l’Arte Povera. Mi è sempre sembrato un fenomeno da guardare con interesse.

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È ovvio che guardai con interesse ancora più vivo l’arte concettuale, perché vi ritrovavo gli elementi che io stesso avevo attraversato con opere come Jacqueline. L’usare la dematerializzazione assoluta - pensa alle mie carte fotografiche -, dove praticamente la definizione sostituisce l’oggetto! ...non ci vuole un manuale di semiologia per capire questo, basta una cultura anche media!Quindi vidi nell’arte concettuale una conferma dei miei interessi. Purtroppo però lo scivolare nel tautologismo di alcuni artisti concettuali l’ ho vissuto come una presa di distanza dalla possibilità di intervenire sui fatti del mondo, dicendola volgarmente. Ora è chiaro che l’artista non nomina i governi, che l’arte non cambia la società, ma nessun artista della mia epoca si augurava che questo fosse vero. In fondo,

che l’arte fosse impotente non è che ci bloccava molto, anche se io dicevo qualche volta “ si l’arte non può niente, chi se ne frega, chi se ne infischia..”. Però era più un esorcismo, che una realtà. Mentre un‘arte con presunzione di autosufficienza totale quale stava diventando l’arte concettuale, è quella che paradossalmente aprirà le porte alla gestione dell’arte come puro fatto finanziario e mercantilistico, perché se l’arte non può niente neppure Koons può niente. Tutto è innocuo, o nocivo.

Credo che adesso siamo ancora in una posizione concettuale di questo tipo. Anche i Young British Artists sono ancora in una ideologia perfettamente concettuale. Quella fine della storia che l’America non è più riuscita ad imporre alle potenze come la Cina e l’India, le ha imposte sul piano dell’ideologia artistica.

m.m.La fine della storia non è riuscita a imporla magari perché qualcuno ha sequestrato degli aerei ed è andato addosso a due torri: accanto alla tragedia, è anche il segnale che il mondo non può essere gestito da un solo potere e che la storia esiste.

e.i.Però è chiaro che sul piano dell’arte impera

un’ideologia americana. Oggi un’artista cinese non è meno americano di un artista che vive a NY.

m.m.Da queste affermazioni emerge un fatto: in fondo tu pensi e auspichi che l’arte debba prendere altre posizioni: la posizione dell’arte dovrebbe essere dunque quella della consapevolezza di non nominare i governi, ma d’altro canto anche della consapevolezza che qualcosa possa essere cambiato, o per lo meno che si debba lavorare per quello.

Comune, 1983cm 68x51 acrilico su libro in box di legno e plexiglass. Collezione privata, Sondrio

Il verme, un volume tratto dal ciclo “Guglielmo Tell” presentato nel 1993 alla XLV Biennale di Venezia. (Courtesy Kunstmuseum Bonn, Bonn)

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e.i.Io negli anni che tu hai menzionato sono stato uno dei prototipi, diciamo, del modello dell’artista impegnato, te lo ricordi bene, per le mie opere. Tanto è vero Marco Bazzini ,pensando alla mia mostra al Museo Pecci di Prato, voleva presentarmi come l’artista del ’68. io però non ho voluto. Non ho voluto perché sarebbe stato mettermi una camicia di forza. E poi non era del tutto vero perché il ‘68 ha dei lati che ancora vanno ridiscussi, esplorati, quindi chiudermi in una cifra non mi andava. Non ho mai creduto che il mondo potesse essere cambiato dall’arte, o dall’oggi al domani, però mi sono sempre comportato come se potesse essere cambiato e se il mutamento fosse un fatto biofisiologico. Cioè, ho sempre avuto un sano scetticismo unito a una sana voglia di godermi i frutti quanto meno di un’utopia possibile. Non mi sono mai fatto illusioni, questo no, sono troppo lucido da questo punto di vista, ma non mi sono mai comportato con l’idea che l’arte dovesse per forza stare al suo posto, per non uscire di casa e buscarsi il raffreddore. L’amore per i grandi rivolgimenti, essendo nato in un’area politicamente e culturalmente progressista, era sempre presente in me: il primo libro che lessi arrivato a Milano fu di Trotzsky. Tutti pensavano che io fossi trotskysta. Non lo ero. Ma, come il rivoluzionario russo concepiva una rivoluzione sociale permanente, anch’io concepivo l’arte come una rivoluzione permanente, e il mio modello ispiratore sotterraneo era Picasso. Più di Duchamp. Anche se senza di lui sicuramente alcune esperienze non sarebbero

neppure esistite. Quando ho fatto le Storie Rosse davvero pensavo di fare la rivoluzione. Ma il linguaggio mi ha tradito, per fortuna.

m.m.Ma quelle opere come le Storie Rosse e le Storie Gialle allora avevano un certo significato. L’aspetto ironico che c’era dietro a queste opere lo vedevi di più allora, o di meno? Lo inserivi?

e.i.Nel mio caso quella che tu chiami ironia è sempre preterintenzionale. Nel senso che io l’ironia la esercito mio malgrado. È il linguaggio che mi salva, che mi tradisce. Voglio sempre dire delle cose serie.

m.m.In questo senso tu hai un’enorme fiducia nel linguaggio dell’arte.

e.i.Assoluta. Ed è per questo che ho dei dubbi, perché il modo di agire che ha l’arte è quello di incidere sul

Rettangolo forsennato, 1987 cm 63x88 tecnica mista su alluminio.Courtesy Archivio Isgrò

Venezia,1993. Le attrici Francesca Benedetti e Anna Nogara recitano la Preghiera ecumenica per la salvezza dell’arte e della cultura scritta dall’artista per l’inaugurazione della XLV. Courtesy Archivio Isgrò

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linguaggio. Quando non incide più sul linguaggio, - perché oggi, parliamoci chiaro, assistiamo a un’arte puramente mimetica, siamo tornando alla mimesis -, non è più interessante: al contrario, io vengo da una scuola, che credo bisognerebbe ristudiare, dove è il modo che conta, non la cosa. La cosa viene dopo. Non credo nella fiducia assoluta che le avanguardie hanno nel mutamento, come non credevo, come nessuno crederebbe oggi, per fare un traslato politico, in un comunismo o socialismo assoluto, che cambia il mondo, ma certamente il bisogno di novità è un bisogno fisiologico, non è un bisogno ideologico, e semmai il limite delle avanguardie di allora è stato quello di averlo fatto diventare un fenomeno ideologico. Il decennio di mutamento non finisce con la fine delle avanguardie, è connaturato all’uomo, come il bisogno di giustizia non finisce col crollo delle utopie comuniste o socialiste.

m.m.Non c’è una contraddizione con la frase che hai appena detto, per cui ciò che importa in arte “non è il cosa, ma è il modo”, cioè il come si affrontano i problemi?

e.i.Sono le teorie dei formalisti che possono tornare utili ancora oggi, mentre il “come” si riduce allo straniamento duchampiano, che alla fine è ben poca cosa. Al contrario di quanto avevano fatto allora, adesso prima di decontestualizzare bisogna contestualizzare, è il contesto dell’ arte che manca, cioè il contesto culturale. Perché il contesto dell’arte oggi è puramente finanziario.

m.m.Questo era appunto quello a cui volevo arrivare. Questa affermazione, non corretta da ulteriori affermazioni, quelle che stai facendo tu adesso, potrebbe portare effettivamente all’aspetto tautologico dell’arte concettuale.

e.i.No. Tu hai ragione nel pormi questo dubbio. Io ho cercato di evitare sia il rischio della tautologia, sia il rischio di un impegno che fosse pura sudditanza verso ideologie di tipo politico o mercatista, come si dice con un neologismo.

m.m.Come si fa a fare questo? Se da una parte c’è una specie di tautologia, un punto d’arrivo per molti (non è soltanto Kosuth, ma Sol Lewitt ecc…), far sì che la parola rimanga

nella sua assoluta immunità, e nella sua assolutezza,quasi un Minimalismo della parola, mentre dall’altra rimane il mondo, la “cosa”, come si fa a non essere presi dalle regole del linguaggio, oppure a non essere catturati totalmente dall’osservazione della realtà? È una questione di equilibrio, ovviamente.

e.i.Hai detto bene. È una questione di equilibrio, di sistema nervoso dell’artista, anche di intelligenza degli interlocutori, e di contesto sociale. Il gioco dell’arte è sempre un gioco di intelligenze. Quando io ero più giovane me la prendevo coi critici, come tutti gli artisti della mia generazione. Poi sono stato il primo a capire che la critica è importante. Me la prendevo per il mercato, per una questione di stile, perché la nostra era una posizione ideologica. Ma me la prendevo relativamente perché avevo avuto mercanti come Palazzoli, mercante a tutti gli effetti, era un capitalista all’antica molto amante degli artisti e dell’arte, me le faceva sparare grosse e si divertiva. L’ho capito poi retrospettivamente. Non era un benefattore, ma era un borghese intelligente, aperto.È una questione di grande equilibrio. Io ho dovuto sempre mantenermi con equilibrio. Pensa a come ho gestito la mia cancellatura. L’aspetto prevalente era quello della distruzione, anche se fin dall’inizio c’era la compresenza della ricostruzione del linguaggio. Però io l’ho gestita per quarant’anni facendo credere praticamente che l’opera che compivo sulla Treccani o sulla Divina Commedia era un’opera di devozione quasi mariana rispetto al linguaggio. Ma un conto è un’ambiguità che si mantiene all’interno dello stesso linguaggio e che si legge poi nel contesto sociale, un conto è sorridere e non dire niente.

m.m.Dunque si potrebbe dire che è la capacità intuitiva, e non solo questa, che hai avuto nella cancellatura per com-prendere, per prendere dentro e trattenere a lungo la tua azione linguistica, la tua poetica. Hai scelto un luogo ambiguo, con un’ambiguità linguisticamente duratura.

e.i.Un luogo ambiguo che oggettivamente si presenta ad un lettore. Ma non è un’ambiguità di tipo sociologico, è un’ambiguità di tipo estetico. Quindi agisco all’interno del linguaggio, ma sapendo che dietro al linguaggio c’è il mondo. Agire sul mondo direttamente, come

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pretendevano molti artisti, che pensavano che per aver fatto un’opera il giorno dopo sarebbe scoppiata una nuova Rivoluzione Francese, non mi è mai appartenuto. Tanto è vero che sono sempre stato un uomo tutto sommato prudente. Come artista. Anche se ho fatto delle innovazioni, o almeno così le considero, che esigevano un certo coraggio. Ma sono sempre stato un uomo molto cauto. Tu guarda il percorso del mio lavoro. Ho una cosa e ne inseguo un’altra con conseguenza assoluta. Ti dirò di più. Quella rivoluzione permanente che molti predicavano al tempo delle barricate sessantottesche, che non era possibile nell’azione politica, era possibile però nel mondo dell’arte, come specchio di una realtà mutevole. Quindi come rappresentazione. Lì si che andava bene. Picasso ce ne aveva dato un grande esempio. Per questo io mi sono sempre nutrito di una certa struttura, di certi modi linguistici che venivano dalle grandi lezioni delle avanguardie. Però ho sempre considerato il grande Picasso capace di resistere al mercato attraverso l’aiuto del mercante Kahnweiler. In questo è stato superbo. Non so se Andy Warhol sia riuscito a fare altrettanto.

m.m.Forse il suo scopo non era quello. Non aveva questa intenzione. Non è che uno fallisce nel suo intento o non fallisce. Probabilmente il suo scopo era un’altra faccenda. Non possiamo giudicare Warhol secondo i nostri metri.

e.i.Non mi riferisco a Warhol stesso, che indubbiamente è stato un’artista di carattere. Mi riferisco ad una lettura che ne è stata data anche negli Stati Uniti. È un’altra cosa. Sono realtà divergenti, come sono divergenti gli Stati Uniti e l’Europa. Noi europei bene o male ad un certo punto siamo sempre costretti ad incrociare Kant.

m.m.Tu vedi sempre tanto questa differenza tra Europa e America…

e.i.Io non la vedo tanto. Me la auguro, perché la storia non finisca. Ma in parte c’è. Io lavoro contro quel modello unico.

m.m.È però vero che entrambe queste cose fanno parte della cosiddetta “arte occidentale”. Quindi evidentemente una matrice comune esiste.

e.i.Certo che esiste. Il problema è questo: come gli Stati Uniti si sono intellettualmente distaccati dall’Europa, dopo avere imparato dall’Europa. Pensa a tutti gli artisti americani che vivevano a Parigi negli anni ‘20, così adesso l’Europa sarà forse costretta a distaccarsi dalla matrice americana dopo però averne imparato la lezione più importante, che è quella di una visione meno ideologica dell’arte, che noi europei abbiamo invece avuto. Non dimentichiamo infine una cosa: i movimenti sono una cosa, poi ci sono le individualità degli artisti. Cioè, ci sarà poi un’arte americana, o un’arte europea davvero? Ci sono invece degli individui artisti che ti dicono di non pensare che l’individuo conti in un’epoca in cui i grandi capitali della finanza planetaria si connotano come individui, sia pure nascosti dietro ai computer. Pensa alla figura di Bill Gates.

m.m.Quindi tu hai ancora fiducia in questa idea dell’individuo?

e.i.Assoluta, assoluta! Non saranno gli europei a far naufragare il mondo, o i cinesi, o gli Stati Uniti. Saranno gli individui che faranno o non faranno certe cose.

m.m.Hai spesso usato, spesso si usa, e tu lo usi, il termine “ideologico” ed “ideologia” nei confronti della tua arte, della tua poetica. Dici “Ho avuto un atteggiamento ideologico, l’arte europea ha un atteggiamento più ideologico, quella americana meno ideologico”…vogliamo focalizzare questo termine e tentarne una definizione attuale?

e.i.È chiaro che non ho mai avuto un atteggiamento ideologico nel mio fare arte. Basta guardare le opere e si vede che non c’è questo atteggiamento. Però certamente ho sposato in certi anni delle posizioni politiche: ero di sinistra, credevo nel mutamento. Non ero un sessantottino, però i sessantottini mi consideravano uno dei loro. Mi invitavano spesso alle sfilate e io qualche volta ci andavo pure. Mi sono ritrovato in due o tre. Certamente ho condiviso meno l’atteggiamento incline alla violenza che ad un certo punto è stato indotto da certi personaggi del ‘68, giusto o sbagliato, a ragione o torto, non lo so… Ma si è avuta questa sensazione. Io penso che l’arte è violenza allo stato puro, che annulla ogni altra violenza, cioè credo al potere catartico, aristotelico

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dell’arte. Quindi non c’è bisogno della bella morte reale, quando questa può essere ottenuta con altri mezzi. È questo che deve fare un’artista. Tu sai che la categoria dell’impegno è una categoria anche essa ambigua. Non è detto che l’impegno sia tutto a sinistra. Giovanni Gentile è stato un impegnato ed era uno di destra.

m.m.Infatti ideologico non significa di fatto di sinistra.

e.i.Credo che l’impegno sia più di sinistra in Italia, perché abbiamo avuto Gramsci, che del resto era uno che

leggeva benissimo Gentile. C’era una certa confusione. Non credo nell’ intellettuale organico, né durante le dittature, né nelle democrazie. Io credo che oggi ci sia un’abbondanza di intellettuali organici.

m.m.Abbiamo parlato tanto degli inizi. Abbiamo toccato il momento di massima sintonia del tuo lavoro con l’intero sistema espressivo che potrebbero essere gli anni Settanta, in cui bene o male il tuo lavoro veniva assimilato a quello dell’Arte Concettuale. Gli anni Settanta sono cioè gli anni della sintonia col contesto generale dell’arte: Il lavoro individuale di Emilio Isgrò è perfettamente in sintonia con quello che è l’aspetto della

Competition is competition, 1999. Courtesy Erica Fiorentini

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rarefazione, della definizione, del catalogo, tutte caratteristiche dell’arte concettuale di quel decennio.

e.i.Io non voglio smentire un critico, ma devo farlo. Non sono mai stato in sintonia con il concettuale, per il fatto stesso che il concettuale non era in sintonia con me. E da me tutti i concettuali prendevano le distanze, e si affannavano a dire che io non ero un concettuale. Questo perché avevo fatto le Storie Rosse, per esempio, e questa veniva considerata una stravaganza, in un ambito dove dovevano dominare il nero, il grigio e le nuances bianco su bianco. Veniva considerata una

stravaganza, quasi una follia. In effetti io ho usato il rosso, dunque il colore, un elemento di devianza. Il rosso corposo delle Storie Rosse, o il giallo qualche volta, proprio perché volevo dimostrare che non era una certa tipologia artistica che ti portava in qualche modo in ambito concettuale, ma l’uso che tu fai del linguaggio. Quindi anche nelle mie opere apparentemente colorate, il colore viene usato con una funzione puramente segnico-simbolica. Non ha un valore pittorico. È poi vero che io sono un uomo creativamente ansioso. Sapevo perfettamente che il rosso avrebbe avuto un impatto gestaltico di notevole portata, e non mi pareva vero uscire da quelle che erano le battute d’arresto

Un Libro cancellato del 1972 esposto negli anni Novanta alla Biblioteca Braidense di Milano. Courtesy Archivio Isgrò

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del concettuale. Adesso non voglio tornare su vecchie polemiche, siamo tutti cresciuti e non è il caso. Ma come ti ho detto il concettuale, abbassando la soglia di vigilanza della realtà umana, e accontentandosi di un’arte priva di porte e di finestre, quindi cercando la propria autosufficienza, ha abbassato la soglia di attenzione di molti critici e collezionisti, che ad un certo punto si sono abituati ad accettare tutto e il contrario di tutto in nome del concettuale. Perché tanto conta l’intenzione: ora l’intenzione processuale dell’opera, ora quella ideologica, ora le intenzioni economiche del

sistema. L’opera non conta più. Conta così poco l’opera che adesso si accetta tutto. Questa soglia l’ha abbassata il concettuale. Ha aperto le porte al mercato e, non voglio essere polemico come ero negli anni Sessanta e Settanta contro gli americani (figuriamoci se uno può essere polemico con gli Stati Uniti in questo momento…), al mercato americano. Però questo ha anche aperto le porte ad un mercato nuovo, facendone le spese. Non sono per un’arte ideologizzata, politicizzata, ma un’arte autosufficiente, cioè che non si apra all’esistenza degli altri luoghi, è un’arte destinata a fallire. Destinata ad

aprire soltanto le porte al mercantilismo: questa è un’arte puramente commerciale.

m.m.Così, il concettualismo che si è sempre presentato come l’antitesi del mercato sarebbe per te il grimaldello con cui il mercato è entrato da padrone nell’arte? Di più, il tuo secondo paradosso è quello per cui il concettuale in realtà avrebbe abbassato la soglia di attenzione invece di innalzare il livello di raffinatezza dell’arte?

e.i.Sì, è stata l’apertura al mercato americanizzato, alla visione americana del mercato. E poiha aperto le porte alla volgarità che è venuta dopo. Perché è esso stesso volgare, non certo concettuale, nelle sue attestazioni di autosufficienza. È banale ed è ovvio. Questo lo dico con il massimo rispetto per quegli artisti che hanno ottenuto dei risultati. Per di più, una parte del mio lavoro viene considerata concettuale, dunque posso criticare me stesso?

m.m.Terzo paradosso: tu affermi che gli artisti concettuali non ti ritenevano tale perché usavi strumenti eterodossi, come il colore. Poi però aggiungi che il tuo uso del colore è un uso semantico, è un uso perfettamente cosciente di quello che avrebbe suscitato…allora non sei tu che non sei concettuale. Sono i concettuali che non hanno capito il tuo concettualismo.

e.i.Allora sono i concettuali che non sono concettuali. In fondo ogni artista ha la sua storia, sono fatti ormai storicizzati. Ci sono artisti concettuali che io apprezzo moltissimo, ma qui parliamo dei movimenti…

m.m.…Anche delle atmosfere. Concetto ancora più vago di movimento.

e.i.Certo. Quando io cominciai, per esempio, ad agire nel mondo dell’arte, ad agire su carta fotografica, fino a quel momento mai nessuno aveva fotografato un progetto dicendo “questa è la mia opera”: arrivavo in quel modo ad una dematerializzazione perché avevo interessi diversi da quelli pittorici. Avevo interessi già concettuali. Quindi ciò che mi accomuna al concettuale è la dematerializzazione del linguaggio. Se è solo per questo io allora sono un concettuale in alcune mie opere.

Barcellona di Sicilia, 1998. Emilio Isgrò esamina un seme d’arancia con la lente d’ingrandimento nel giardino della sua casa siciliana. La fotografia è di Ferdinando Scianna, come l’immagine del Tir che ha trasportato il seme per tutta l’Europa. Courtesy Archivio Isgrò

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m.m.Sai, Emilio, è importante pensare in prospettiva storica, perché la prospettiva storica prende gli assunti generali di infiniti episodi particolari, e con quelli e di quelli costruisce una visione del periodo, trascurando le distinzioni sottili che magari, nel momento in cui venivano, assumevano per i protagonisti caratteristiche di vita o di morte. Tralasciando i motivi personali contingenti – rivalità, passioni, concorrenza tra artisti - credo sia accaduto questo, in quegli anni: i movimenti, tra cui il concettuale, come tutte le cose in quel momento, miravano ad essere sempre più puri, cioè a raggiungere un’idea di purezza assoluta, a qualsiasi costo (come Robespierre per il quale “la virtù passa attraverso il terrore”…)

e.i.Questo è vero. Infatti uno dei contestatori del concettuale, un poeta visivo, ha detto una volta: “l’arte concettuale è una forma di poesia visiva depurata,

sterilizzata”. Non so se questo è vero, ma in parte lo sforzo di qualche concettuale è stato questo. La poesia visiva tendeva a riversarsi al di fuori del proprio ambito dedicato all’opera, mentre l’arte concettuale, forse per distinguersi dalla poesia visiva, portava avanti un discorso tautologico. Verso la fine ci sono state esperienze concettuali che erano poesie visive tali e quali.

m.m.Di fatto, da parte loro i concettuali avevano individuato bene le differenze tra te – e qualcuno con te, come Ketty La Rocca – e quell’idea tautologica di purezza: tu non sei tautologico, non sei autoreferenziale, e la parola e il suo uso per te è una finestra sulla realtà.

e.i.È chiaro che loro da me e da altri dovevano cercare una differenza. Se non altro per il fatto che io venivo

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prima di loro. Giustamente gli artisti cercavano di differenziarsi. Però c’erano delle tangenze. Con questo non voglio dire che il concettuale non sia stato un movimento interessante. Voglio soltanto dire che cosa mi differenziava da loro. A proposito di prodotti artistici apparentemente simili, per farti un esempio, io non potrei fare a meno di Mondrian però posso fare benissimo a meno di Max Bill. Uno che predica la tautologia mi è cordialmente antipatico. È un fatto di simpatia tra gli artisti. In passato io ero antipatico ai concettuali, al di la di ogni valutazione teorico-critica.

m.m.Il discrimine teorico-critico viene fuori da questa elemento: il senso di purezza che uno vuole cercare di raggiungere, alla fine diventa sempre una chiusura. Al contrario, tu hai sempre usato la parola come finestra di interpretazione sul mondo.

e.i.Ma anche di rilettura dell’immagine e di arricchimento della parola.

m.m.Adesso parliamo di questo rapporto in funzione di quello che è il tuo lavoro attuale, a partire dagli anni Ottanta, in cui l’aspetto oggettuale, installativo, di immagine, quasi pittorico in certi casi, diventa più importante, attenuando il rigore ideologico iniziale.

e.i.Le cancellature, i libri cancellati, la Treccani, sono già delle installazioni di fatto. I libri grandi o piccoli hanno già un percorso installativo. Gli anni Ottanta. Io devo dire che mi sono ritirato formalmente da ogni competizione artistica, per competere soltanto con me stesso, dal 1975. Sono stato travolto da fatti extra artistici. Quando ho visto che quelli che erano i sogni della mia gioventù, i sogni di riscatto, riscatto umano, esistenziale, sociale, erano finiti in assassinii di persone che non c’entravano, in nome di una rivoluzione in cui credevo, ma che per me aveva connotazioni eminentemente culturali e non di sangue e distruzione. Mi sono venuti i brividi, e il momento di non ritorno fu quando la gente cominciò a sparare così facilmente. Quando vidi la crisi del petrolio capii che cambiava anche il discorso sull’arte: ci si chiudeva in casa, nessuno usciva più. Anch’io mi rintanai a lavorare. Non certo per paura del mondo. Ma per paura di un mondo che in qualche modo aveva rinunciato, prima in nome di un discorso ideologico troppo stretto, poi in nome dell’interesse petrolifero, a quel tanto di umanità che rendeva accettabile il colloquio tra le persone. La morte di Moro, per esempio, la vissi malissimo. Anche se certo non ero un simpatizzante. Ebbi un sussulto. Mi chiamò il Corriere della Sera per una dichiarazione. Dissi: “tutto questo accade quando la cultura è morta”. La cultura era morta in quel momento, e non si è più risollevata. Neanche le spinte liberiste hanno riattivato il discorso culturale. Perché non può essere quello di riproduzione di cose esistenti. Ma il discorso culturale è quello di produzione di cose inesistenti e di nuove energie. Stiamo andando dalla produzione alla riproduzione. Per questo oggi ci troviamo alle crisi bancarie ecc…L’arte non è certo responsabile da sola per tutto questo. Quando gli artisti perdono la consapevolezza della loro vita, e diventano essi stessi agenti di finanza, la perdono tutti gli uomini. Perché gli uomini non hanno più confronto. L’artista in fondo dovrebbe esprimere il massimo di umanità. Il massimo di fragilità umana che si autoriscatta. Mentre qui l’artista vuole fare vedere che è potente, che è più abile nella finanza di una banca, e fa la fine dell’apprendista stregone. Ma c’è una situazione in cui il mondo ha paura. E purtroppo la principale funzione dell’arte oggi sembra quella di far da megafono a questa paura. Ma torniamo a noi: qual è stato il transito tra gli

L’allestimento della mostra di Emilio Isgrò alla Galleria Erica Fiorentini Arte Contemporanea di Roma nel 2007

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Settanta e gli Ottanta…, praticamente io ho continuato a lavorare, però mi sono dato al teatro. Sono andato a Gibellina. Ho fatto delle opere per quella cittadina terremotata: sculture, opere visive, una è li al museo… E mi sono dedicato al teatro. Li a Gibellina mi fu dato l’incarico di fare l’Orestea, e scelsi come spazio dell’opera, per il rapporto parola-immagine, lo spazio del terremoto. L’Orestea è una grande poesia visiva. Chiamai a collaborare Arnaldo Pomodoro. Lo chiamai io poiché avevo carta bianca. Feci teatro. Feci spettacoli dove io stesso mi occupavo della scenografia.

m.m.Ti sei dato al teatro per quale motivo? Nel teatro trovavi un ambiente più ampio di quello dell’arte?

e.i.Perché a Gibellina trovavo un ambiente più favorevole. E se qualcuno mi avesse chiesto di fare il calzolaio in Irlanda in quel momento, io sarei andato a fare il calzolaio in Irlanda.

m.m.A Gibellina si viveva ancora quell’aspetto utopico – la ricostruzione di una città ideale da parte degli artisti - che tu non avevi più trovato a partire dalla metà degli anni Settanta…

e.i.Hai detto qualcosa di vero. È così. A Milano non trovavo più stimoli. Non mi riconoscevo più nel mondo in cui

Padula (Salerno), 2004. L’installazione Il padrenostro delle formiche realizzata nella Certosa di San Lorenzo

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mi ero formato intellettualmente. Mi aveva stancato, mi aveva stufato, e per questo, non sono uscito tanto dal mondo dell’arte, ma ho finto di uscirne. Tant’è vero che quando ci sono rientrato, l’ho fatto in maniera decisa e convinta. Per me è stata una necessità vitale prendere le distanze dal mondo dell’arte. Purtroppo adesso non ho più l’età per prenderle ulteriormente, ma se ne fossi costretto lo farei ancora.

m.m.Parliamo delle tue opere di quel momento. Quando tu mi dicevi che in fondo anche la Treccani era già un’installazione. La Treccani era la Treccani, in carne e ossa, in pagine e rilegatura. Quest’opera che vedo qui, le pagine aperte su un

oggetto a forma di libro, coperte di formiche, non è un libro. È la simulazione, la rappresentazione di un libro. È la forma-libro, ma non è libro.

e.i.Credo ci sia una certa confusione sulla nozione di libro d’artista. Per una ragione anche di piccolo mercato. In effetti, ciò che io ho voluto adottare, è stato il libro come icona. Come i santi ce l’avevano nelle vecchie chiese rinascimentali o medievali a volte. Tenevano il libro in mano come segno di una santità non più possibile. Di una verità non più possibile. Sentivo che il libro stava per tramontare come oggetto di trasmissione culturale. Quindi l’ho

Copertina del volume “Emilio Isgrò.La cancellatura e altre soluzioni”, Skira, Milano, 2008

Copertina del catalogo della mostra “Dichiaro di essere Emilio Isgrò” a cura di Achille Bonito Oliva, tenutasi presso il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2007

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usato in tutti i modi. Anche come supporto. Come supporto in cui ripartivo lo spazio tra l’immagine e la parola. Così a volte faccio nelle opere più pittoriche. Dividevo lo spazio facendo interagire le due parti. Ho usato la forma libro proprio come un’icona della modernità. Della modernità che tramonta. Che passa. Da qui tutti i discorsi sulla parola. Rapporto parola/immagine. È per questo che io a volte trovo una certa approssimazione quando si parla di libro d’artista, di arte concettuale. Perché si fa di ogni erba un fascio. Non si sarebbe arrivati a queste esperienze se fin dalla fine dell’Ottocento non ci fosse stato già nell’aria un tentativo di commistione del linguaggio. Wagner si preparava i libretti da solo per le opere. C’era dunque

questo tentativo. Pensa a Manzoni. Sono tutte forme di azzeramento. Io lavoravo già su un terreno dove l’azzeramento era d’obbligo. È chiaro che a questo punto io aggiunsi una dimensione in più, che è la dimensione di un riscatto del linguaggio verbale, o non verbale, attraverso uno pseudo-azzeramento. Non ho mai odiato l’immagine. Non ho mai odiato la comunicazione. Ho semplicemente cercato di rafforzarla con altri strumenti. Questo mi fa figlio della mia epoca. Non posso essere diverso.

m.m.Nessuno nega che il rapporto parola/immagine ci sia sempre nel tuo lavoro, da sempre, e ne sia l’elemento portante…

Milano, 2006. Una pagina tratta da I cinque Isgrò, libro d’artista realizzato per i Cento Amici del Libro. (Foto Andrea Valentini)

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e.i.…C’è anche quando manca la parola. È un problema centrale ma ci tengo a ribadirlo, perché questo mi pone in sintonia da un lato con alcune correnti del Novecento che avevano già accennato questi discorsi, da un lato è chiaro che non mi rendo estraneo a certe attitudini concettuali. Non voglio avere un atteggiamento sprezzante.

m.m.Tuttavia, non sto facendo un discorso sul tuo rapporto con il concettualismo, ma sto facendo un discorso sul tuo rapporto con la rappresentazione. Prima tu “presentavi” il libro, ora lo “rappresenti”, lo citi.

e.i.Certo, diventa anche la rappresentazione del libro…

m.m.Si, ma il solo uso di questa parola – “rappresentazione” - è fortemente connotativo di un rapporto con la pittura nato negli anni Ottanta.Per di più una pittura di stampo tradizionale. È “rappresentazione”: questa parola, che negli anni Settanta e fine Sessanta nessuno poteva più pronunciare, adesso si pronuncia.

e.i.A volte mi rendo conto che le persone hanno una certa difficoltà a inquadrarmi. Il primo a pagare un prezzo di un inquadramento faticoso sono stato io. Sono cose che in termini di accettazione presso il pubblico si pagano. Il pubblico vuole cose semplici. Non vuole complicazioni. Vuole subito sapere, capire. Se ci fu qualche sconfinamento pittorico in quel periodo, non ho nulla di cui pentirmi, perché lo sapevo perfettamente. Era attraverso la cancellatura - penso

Isgrò ritratto da Ferdinando Scianna, 1998

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alle cancellature bianche di certi periodi, che sono delle immagini vere e proprie - che io arrivavo alla pittura. E nel momento in cui c’era una riscoperta della pittura, siccome io avevo la nostalgia di non potermi chiamare pittore, non mi parve vero di poter attingere alle forze pittoriche attraverso un gesto apparentemente negativo come la cancellatura. Perché quello che rimane sotto la cancellatura è pur sempre un’immagine. È un’immagine pittorica. Si possono ottenere addirittura degli effetti materici. A volte l’ho fatto, altre no. Lo rifarò forse. Quindi io non ho nessun pentimento pittorico, perché il mio dramma non è quello di assomigliare a un concettuale puro. Il mio problema è fare quello che la mia coscienza di artista mi detta di fare. Alcuni critici, quando mi hanno scoperto, quando hanno visto le prime cose, erano stupiti di questa mia svolta. E io lo prendevo come un complimento, poiché erano sinceramente stupiti. Non credo che nell’arte ci sia un regresso o un progresso. È il senso delle cose che conta, è come arrivi alle cose. Io non sono arrivato a queste soluzioni pittoriche, chiamiamole così, se non in via concettuale. Volevo scoprire una cosa, ma ne scoprivo poi un’altra. Non sono il tipo che torna indietro.

m.m.A rigor di logica non potresti e non dovresti nemmeno parlare di sconfinamento pittorico. Se ti sei tenuto aperto tutte le possibilità, non c’è modo di sconfinare. Non c’è nessun tipo di sconfinamento, perché tutti i territori sono tuoi.

e.i.I risultati pittorici, questo mio bisogno di pittura, mi sembrava che il concettuale non potesse darmeli. Sentivo il bisogno di un’arte più felice. Non amo la pitturaccia, la banalità. Ma l’arte concettuale per me era prevedibile. Probabilmente nessuno ammetterà mai di avere imparato qualcosa da me. Ma io ho imparato un po’ da tutti. Come una spugna.

m.m.Pensando a te come una sorta di monolite alla Kubrick ( perché non si può non identificarti come una specie di cifra), parliamo di qualcosa di apparentemente lontanissimo da tutto ciò come la tua scultura.

e.i.Anche quella è stata una cosa preterintenzionale. Volevo ottenere una cosa, ne ottenni un’altra.

m.m.Volevi fare un disegno materico e ti è uscita una scultura?

e.i.No. Fu uno stato di necessità. L’idea della scultura è nata così: nella mia città avevano dei problemi. Mi dissero di fare qualcosa. Pensai di fare un quadro. Mi chiesero invece di fare qualcosa all’aperto, che potesse dare un segnale di riscossa dai problemi. Mi chiesi cosa fare. Io non ero uno scultore. Hanno insistito. Decisi allora: a Barcellona di Sicilia, dove sono nato, c’è la piazza della vecchia stazione, da cui partivano i treni per Parigi, Londra, Milano, carichi di essenze per i profumieri. Era ancora una terra di produttori, di agrumai. Le donne andavano a lavorare di notte per loro. Cavavano le essenze dalla buccia. Era un paese florido per l’epoca. Pensai ad un segnale di riscossa. Mi è venuta l’idea del seme d’arancia. Ho preso un seme d’arancia e decisi di farlo in grande. La cosa ha funzionato. Non c’erano intenti estetici. Ma ha funzionato. Fui molto sorpreso quando sul giornale lessi dello “scultore Isgrò”.Tuttavia, a Barcellona persi credibilità. Finché ero un professore, uno che scriveva, al massimo un pittore ero rispettato. Come scultore non so. Mi sono accorto però che nel mio lavoro c’erano valenze scultoree.

m.m.Che differenza c’è tra il tuo fuori scala e il fuori scala per esempio americano di Oldenburg?

e.i.Che il risultato è formalmente diverso. È quello che conta. Tutti gli artisti ingrandiscono, rimpiccioliscono. Non ho trasformato in una teoria l’ingrandimento del seme. In quel caso ho mirato al sodo. Sono uscito per una volta dall’arte. Dall’arte intesa come tecnica. Il risultato formale è diverso, come formalmente è diverso il particolare ingrandito.

m.m.Hai usato molte volte questo termine: “formalmente”…

e.i.Nell’arte non conta la processualità. Conta il risultato. Aveva ragione Picasso quando diceva: “io non cerco, trovo”. Le buone intenzioni non mi interessano. Mi interessa il risultato.