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Migrazioni e sviluppo. Sintesi dei concetti e dei nodi critici principali per la cooperazione. Luca Piazzi, IPSIA Abstract Il nesso fra migrazioni e sviluppo assume progressivamente un ruolo sempre più centrale nei discorsi e nelle retoriche legate alla cooperazione internazionale. A fronte del diffondersi di policies ed esperienze che si richiamano a tale binomio, ed al concetto ad esso corelato di co-sviluppo, gli operatori della cooperazione si interrogano sulle potenzialità e le criticità di tale apporccio. Le migrazioni presentano evidenti caratteri di opportunità in merito allo sviluppo economico e sociale dei paesi di origine delle diaspore, attraverso i flussi finanziari delle rimesse, il reinvestimento di competenze professionali, la creazione di reti transnazionali. Questi stessi elementi presentano però caratteri ancora ambigui e controversi circa i possibili effetti ed il reale impatto sui paesi in questione. Il paradigma stesso che lega migrazioni e sviluppo si presta inoltre facilmente a strumentalizzazioni da parte di politiche restrittive nei confronti dei diritti di movimento e tutela dei migranti. Il coinvolgimento attivo di associazioni di migranti in progetti di cooperazione decentrata, attraverso iniziative di co-sviluppo, rappresenta uno stimolante esempio di attivazione dal basso di sinergie transnazionali, con impatti significativi a livello locale. Tali iniziative presentano caratteri peculiari a seconda delle comunità e delle zone geografiche coinvolte, tanto nei paesi di origine quanto in quelli di adozione. La generalizzazione di tali esperienze rischia di creare negli attori coinvolti aspettative poco realistiche e conseguenti disillusioni, in particolare sulle tematiche chiave della canalizzazione delle rimesse, della circolarità migratoria, e sul ruolo dell'associazionismo dei migranti. Le linee di lavoro proposte combinano un lavoro macro di riduzione dei vincoli legislativi e burocratici che minano le potenzialità dell'esperienza migratoria in termini di sviluppo, e un lavoro micro di valorizzazione delle esperienze di co-sviluppo in atto, anche attraverso la creazione di reti e la collaborazione con le autorità locali. Introduzione: nessi e collegamenti Nonostante le connessioni esistenti fra il pensiero sullo sviluppo ed il pensiero sulle migrazioni, il nesso tra questi due termini entra nel discorso politico e operativo della cooperazione soltanto negli ultimi venti anni, e in tempi ancora più recenti per quanto riguarda l'ambito italiano. Prima di analizzare la storia di quello che spesso viene presentato come un paradigma, un modo di intendere in generale la cooperazione, vale quindi la pena soffermarsi su questi nessi che ne precedono il riconoscimento. Il collegamento più immediato fra migrazioni e sviluppo, almeno per il senso comune, è quello istituito dalla teoria classica delle migrazioni, che riconduce le motivazioni degli spostamenti umani a fattori di spinta e attrazione – push e pull factors – essenzialmente di tipo economico. La differenza di "sviluppo" economico fra due luoghi sarebbe quindi il fattore motivazionale principale per le migrazioni. Una declinazione di tale modello può quindi leggere le migrazioni come conseguenza dei differenziali geografici nella domanda e offerta di lavoro, in base alla scelta razionale del migrante di massimizzare i propri benefici economici attraverso la ricerca di lavoro in un contesto diverso dal proprio. Benchè attualmente tale modello di analisi sia riconosciuto come eccessivamente riduttivo sotto diversi aspetti 1 , esso coglie sicuramente una dimensione centrale nella motivazione allo 1 Si considerano limitazioni del modello push-pull la focalizzazione eccessiva sulle dinamiche economiche, che tende ad ignorare altri fattori motivazionali di carattere socio-culturale, e soprattutto l'idea del migrante come agente razionale isolato. La migrazione è considerata invece da altre teorie l'esito di processi decisionali collettivi, che

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Migrazioni e sviluppo. Sintesi dei concetti e dei nodi critici principali per la cooperazione.

Luca Piazzi, IPSIA

Abstract

Il nesso fra migrazioni e sviluppo assume progressivamente un ruolo sempre più centrale nei discorsi e nelle retoriche legate alla cooperazione internazionale. A fronte del diffondersi di policies ed esperienze che si richiamano a tale binomio, ed al concetto ad esso corelato di co-sviluppo, gli operatori della cooperazione si interrogano sulle potenzialità e le criticità di tale apporccio. Le migrazioni presentano evidenti caratteri di opportunità in merito allo sviluppo economico e sociale dei paesi di origine delle diaspore, attraverso i flussi finanziari delle rimesse, il reinvestimento di competenze professionali, la creazione di reti transnazionali. Questi stessi elementi presentano però caratteri ancora ambigui e controversi circa i possibili effetti ed il reale impatto sui paesi in questione. Il paradigma stesso che lega migrazioni e sviluppo si presta inoltre facilmente a strumentalizzazioni da parte di politiche restrittive nei confronti dei diritti di movimento e tutela dei migranti. Il coinvolgimento attivo di associazioni di migranti in progetti di cooperazione decentrata, attraverso iniziative di co-sviluppo, rappresenta uno stimolante esempio di attivazione dal basso di sinergie transnazionali, con impatti significativi a livello locale. Tali iniziative presentano caratteri peculiari a seconda delle comunità e delle zone geografiche coinvolte, tanto nei paesi di origine quanto in quelli di adozione. La generalizzazione di tali esperienze rischia di creare negli attori coinvolti aspettative poco realistiche e conseguenti disillusioni, in particolare sulle tematiche chiave della canalizzazione delle rimesse, della circolarità migratoria, e sul ruolo dell'associazionismo dei migranti. Le linee di lavoro proposte combinano un lavoro macro di riduzione dei vincoli legislativi e burocratici che minano le potenzialità dell'esperienza migratoria in termini di sviluppo, e un lavoro micro di valorizzazione delle esperienze di co-sviluppo in atto, anche attraverso la creazione di reti e la collaborazione con le autorità locali.

Introduzione: nessi e collegamenti Nonostante le connessioni esistenti fra il pensiero sullo sviluppo ed il pensiero sulle migrazioni, il nesso tra questi due termini entra nel discorso politico e operativo della cooperazione soltanto negli ultimi venti anni, e in tempi ancora più recenti per quanto riguarda l'ambito italiano. Prima di analizzare la storia di quello che spesso viene presentato come un paradigma, un modo di intendere in generale la cooperazione, vale quindi la pena soffermarsi su questi nessi che ne precedono il riconoscimento. Il collegamento più immediato fra migrazioni e sviluppo, almeno per il senso comune, è quello istituito dalla teoria classica delle migrazioni, che riconduce le motivazioni degli spostamenti umani a fattori di spinta e attrazione – push e pull factors – essenzialmente di tipo economico. La differenza di "sviluppo" economico fra due luoghi sarebbe quindi il fattore motivazionale principale per le migrazioni. Una declinazione di tale modello può quindi leggere le migrazioni come conseguenza dei differenziali geografici nella domanda e offerta di lavoro, in base alla scelta razionale del migrante di massimizzare i propri benefici economici attraverso la ricerca di lavoro in un contesto diverso dal proprio. Benchè attualmente tale modello di analisi sia riconosciuto come eccessivamente riduttivo sotto diversi aspetti1, esso coglie sicuramente una dimensione centrale nella motivazione allo

1 Si considerano limitazioni del modello push-pull la focalizzazione eccessiva sulle dinamiche economiche, che tende

ad ignorare altri fattori motivazionali di carattere socio-culturale, e soprattutto l'idea del migrante come agente razionale isolato. La migrazione è considerata invece da altre teorie l'esito di processi decisionali collettivi, che

spostamento di un numero rilevante di migranti – la ricerca di lavoro – e rappresenta comunque, se così possiamo dire, il modello di riferimento del "senso comune", così come del discorso politico prevalente. Un secondo nesso, di tipo operativo, è ravvisabile direttamente fra il lavoro della cooperazione e i migranti coinvolti come beneficiari in numerosi progetti di emergenza o sviluppo. Il contesto di lavoro dell'emergenza ha da sempre riguardato rifugiati e sfollati, che rappresentano delle categorie specifiche del fenomeno migratorio, costretti ad abbandonare i propri territori da guerre o calamità naturali. Ma anche la cooperazione allo sviluppo si è spesso trovata ad affrontare il fenomeno migratorio, sia nel contesto internazionale che in quello interno agli stati in cui si svolgono i propri progetti, ad esempio nella forma di spostamento dalle aree rurali a quelle urbane2. Progetti di assistenza nelle baraccopoli sorte ai margini delle città in crescita costante, piuttosto che iniziative di creazione di opportunità di lavoro nelle località rurali, sono tutte realtà collegate al tema delle migrazioni e che assumono come modello di riferimento implicito la teoria funzionalista sopra menzionata. Un nesso ulteriore, quello attraverso cui il discorso sulle migrazioni e lo sviluppo si è imposto all'attenzione dei policy-makers, è dato dalle rimesse inviate dai migranti nei paesi di origine. Il volume in costante aumento di tale dato economico ha portato all'attenzione di economisti e agenti della cooperazione il fenomeno migratorio come possibile attore di sviluppo, inteso come crescita economica dei paesi di origine. Particolare enfasi ha ricevuto, a riprova di tale idea, il fatto che il volume delle rimesse inviate verso i Paesi in via di svilupppo abbia recentemente superato quello dell'aiuto pubblico destinato agli stessi paesi. Tale intervento di aiuto internazionale risulta comunque tuttora un capitolo rilevante nel bilancio di numerosi stati, e questo ci conduce ad un altro nesso con il tema delle migrazioni. Il controllo dei flussi migratori è infatti divenuto un tema prioritario dell'agenda politica di molti stati del "nord del mondo", che possono quindi vincolare ad accordi di collaborazione in tale settore, essenzialmente rispetto al contenimento dei flussi, l'erogazione di aiuti ai paesi da cui partono o transitano i migranti. Quegli stessi paesi che, per altro, sfruttano il fatto di essere luoghi di transito di tali flussi per avere un maggiore peso contrattuale nella richiesta di sovvenzioni e aiuti3. La dimensione dei rapporti fra Stati sembra relegare l'idea dei migranti come "risorsa" all'accezione più bassa di merce di scambio nello scacchiere internazionale (destino per altro spesso condiviso con profughi e rifugiati). Un nesso significativamente poco considerato è dato dal fatto che la cooperazione stessa rappresenta una forma di migrazione, con le proprie regole e caratteristiche, ma anche con molti aspetti in comune con le altre forme di migrazione per lavoro. Si possono facilmente ravvisare esempi di migrazione temporanea, ciclica, "stagionale" e permanente, così come casi di irregolarità o aggiramento degli ostacoli nell'ottenimento dei visti. E soprattutto si ritrovano molti dei vissuti

spesso coinvolgono network familiari transnazionali. La focalizzazione sui concetti di rete e transnazionalismo caratterizza le attuali teorie sociologiche sulle migrazioni. In particolare l'idea di transnazionalismo, almeno come concetto limite, tende a superare l'idea di appartenenza nazionale come dato statico in base al quale leggere le migrazioni, per istituire uno spazio sociale trans-locale che eccede le appartenenze statuali.

2 Si noti che le migrazioni "interne", circa le quali si dispongono meno dati rispetto a quelle internazionali, rappresentano ancora la maggioranza degli spostamenti di persone a livello globale. Così come, per quanto riguarda quelle internazionali, notiamo che le migrazioni cosiddette "sud-sud", ossia fra Paesi in via di sviluppo (che si consideri questa categoria secondo i parametri della World Bank piuttosto che dell'ONU), sopravanzano numericamente quelle "sud-nord". Questo per dire che la prossimità geografica è ancora un fattore rilevante, nonostante i crescenti collegamenti globali, ed una lettura delle migrazioni come "viaggio verso l'Occidente" risulta eccessivamente riduttiva.

3 Vi sono paesi che risultano mete delle migrazioni regionali e allo stesso tempo luoghi di origine e transito per rotte verso Europa e Stati Uniti. Spesso tale ruolo, dovuto a fattori geografici o storici, piuttosto che a collegamenti e rotte di trasporto consolidate, viene sfruttato dagli stessi Stati per giocare un ruolo geopolitico superiore a quello determinato dalle proprie risorse o dai propri rapporti internazionali.

delle persone che fanno esperienza di diversi contesti, con le fatiche di integrazione, comprensione, spaesamento al ritorno, ma anche le nuove prospettive aperte dal contatto col diverso. Tutto questo senza ovviamente ignorare l'asimmetria che caratterizza i migranti nord-sud, nella cooperazione come in altri settori, rispetto a quelli che viaggiano nella direzione inversa. Un ultimo collegamento può essere ravvisato sul piano dei discorsi e delle pratiche di cambiamento: sia i migranti che gli "sviluppati" (i destinatari dei progetti di sviluppo, De Sardan 2008) sono oggetti di pratiche di definizione dell'altro attuate spesso a sua insaputa e senza il suo consenso. Definizioni e pratiche di costruzione del diverso che danno poi origine a strategie di cambiamento, politiche di intervento, progetti, iniziative. Si tratta di categorizzazioni che, riguardando gruppi umani (spesso della stessa provenienza), incorrono frequentemente nelle medesime criticità: il rischio di ignorare la storicità delle popolazioni, quello di sostituire la loro complessità interna a modelli culturali omogenei, quello di tentare una equazione riduttiva fra culture, nazioni e popoli, ecc. Elementi problematici che non si limitano al piano epistemologico, ma che si riflettono poi nelle pratiche e nelle azioni poste in essere da chi lavora con i migranti o nella cooperazione. Il riconoscimento del nesso esistente fra migrazioni e sviluppo anche su questo livello concettuale renderebbe auspicabile il passaggio dalla riproposizione inconsapevole dei medesimi errori all'apprendimento dalle esperienze pregresse, da parte di entrambi i settori. Migrazioni e sviluppo: storia del concetto e nodi problematici Esplicitati i nessi che collegano gli ambiti delle migrazioni e dello sviluppo, la domanda centrale per il mondo della cooperazione è se effettivamente le migrazioni possano essere, come da sempre più parti si sostiene, un fattore di sviluppo. La domanda chiama in causa almeno una sommaria precisazione di cosa si intenda per sviluppo, considerato che il termine è sottoposto ad una critica sempre più serrata dagli stessi agenti della cooperazione. Se si considera lo sviluppo, in modo neutro, come "cambiamento sociale", così come lo intende lo studio etnografico, è evidente come i flussi migratori siano un vettore rilevante di tale cambiamento. Attraverso l'invio di risorse e la possibilità fornita dai mezzi di trasporto contemporanei di frequenti visite nei paesi di origine i migranti si fanno portatori di trasformazioni e cambiamenti nei propri contesti. Pensiamo ad esempio agli investimenti nel costruire o ampliare la propria casa nel paesi di origine, tipologia di investimento che caratterizza numerose esperienze migratorie: le case degli emigrati (gli "italiani" o i "francesi", a seconda del paesi di destinazione, come sono chiamati nello stesso contesto4 ) sono spesso riconoscibili a vista nel territorio, e ne modificano la fisionomia. Le risorse economiche giunte dall'emigrante possono creare nuove differenze sociali e mutare lo status di intere famiglie, e allo stesso tempo possono lasciare dei vuoti di relazione (fra genitori e figli, tra coniugi, ecc.) che spingono il contesto ad affrontare nuovi problemi e organizzarsi in maniera inedita. Sono inoltre spesso portatori di atteggiamenti, stili di vita, abitudini apprese nel contesto di emigrazione, laddove vi sia stata una qualche esperienza di inclusione in esso. Fattori che possono incrementare lo scollamento generazionale e creare tensioni e incomprensione, piuttosto che alimentare il desiderio di novità ed esperienze all'estero. Si tratta di ambiguità molteplici, che riprenderemo trattando delle criticità della connessione fra migrazioni e sviluppo, che testimoniano comunque come queste siano indubbiamente un fattore di cambiamento. Quando però la cooperazione si interroga sulle migrazioni chiede ad esse qualcosa "di più". Pur rifiutando l'idea di sviluppo come gerarchizzazione omogenea delle culture rispetto alla pietra di paragone del modello occidentale, o come crescita quantitativa (principalmente di tipo economico), si vuole mantenere nel termine una valenza di miglioramento qualitativo. Un tentativo in questo senso, a cui qui faremo riferimento, è l'idea di Amartya Sen dello sviluppo come ampliamento delle 4 Se non con espressioni più caratteristiche come "buongiornisti" o "mangiapasta", appellativi affibbiati ad esempio ai

migranti romeni in Italia dai compaesani (Cingolani, 2009).

libertà individuali e collettive. Lo sviluppo si lega all'idea di possibilità e libertà, che non implicano una direzione univoca di espressione, e mantiene l'importanza dei fattori economici, culturali, sociali, come vincoli e condizioni per cui si possa dare un reale esercizio della libertà. Possiamo quindi chiederci se su questo piano qualitativo e valutativo le migrazioni siano un fattore di sviluppo, dove l'interesse della cooperazione è principalmente rivolto alla dimensione collettiva della comunità di origine. Une breve storia di questo concetto fornirà un primo inquadramento del problema, facendo emergere i principali nodi implicati dalla domanda che ci si pone. Come abbiamo già detto, la storia del "paradigma" migrazioni e sviluppo è relativamente recente. Si inizia a parlare di questo nesso negli anni '90, parallelamente ad una svolta deella sociologia delle migrazioni nella lettura di questo fenomeno: da una concentrazione sulle migrazioni come fenomeno duale, di cui analizzare le cause nel contesto di partenza e le modalità di integrazione in quello di arrivo, si passa ad una lettura transnazionale delle stesse, dove attraverso un'analisi multisitutata si cerca di analizzare il legame permanente che si istituisce fra i due contesti collegati dall'esperienza migratoria (Riccio 2007). Il Consiglio Europeo di Tampere del 1999, centrato sul tentativo di istituire una politica comunitaria in materia di asilo e immigrazione, rappresenta una tappa fondamentale nell'istituzione del nesso fra migrazioni e sviluppo. In tale ambito vengono riconosciuti come obiettivi della politica migratoria europea la promozione della partecipazione dei migranti nello sviluppo dei paesi di origine, la promozione dei legami transnazionali dei migranti con tali paesi, l'approfondimento della riflessione sul legame tra cooperazione e politiche migratorie. Tale riconoscimento è stimolato da esperienze e dibattiti presenti soprattutto in ambito francese sul tema del co-sviluppo5. È da segnalare che le proposizioni di Tampere si iscrivono ancora esplicitamente nell'obiettivo di sostenere lo sviluppo dei paesi di emigrazione per ridurre la pressione dei flussi migratori verso l'Unione Europea. Tale obiettivo resta come ambiguità latente in tutto il discorso su migrazioni e sviluppo, prestandosi a strumentalizzazioni e retoriche che giocano su un doppio registro di significato (ad es. rispetto ai rientri volontari e forzati, alle politiche di contenimento dei flussi). Questa ambiguità non deve essere necessariamente vista in senso negativo dato che costituisce, come argomenteremo in seguito trattando dell'idea di co-sviluppo, un fattore di affermazione della stessa, ma se ne deve costantemente tener conto nell'utilizzare tale registro discorsivo. In una comunicazione della Commissione Europea del 2005 (A strategy on the dimension of the area of freedom, security and justice) si ribadisce il legame tra politiche migratorie e politiche di sostegno allo sviluppo, svincolandolo dall'obiettivo del contenimento dei flussi. Si punta ora piuttosto direttamente a migliorare ed accrescere l'impatto positivo delle migrazioni nei contesti di origine e di destinazione. I passaggi fondamentali sono quindi due: la rimozione della questione del contenimento dei flussi, che entra nel registro della latenza, e il riconoscimento della possibilità di un impatto positivo delle migrazioni anche nei paesi di arrivo, posti sullo stesso piano di quelli di origine6. Con questi elementi l'istituzione del collegamento fra migrazioni e sviluppo è sostanzialmente compiuta. Contemporaneamente il dibattito su migrazioni e sviluppo si afferma anche al livello delle Nazioni Unite, la cui Commissione Globale sulla Migrazione Internazionale7 evidenzia nel proprio rapporto del 2005 il ruolo attivo dei migranti nello sviluppo e la necessità di sostenerlo attraverso politiche nazionali ed internazionali adeguate. Il nesso Migrazioni e Sviluppo diviene oggetto di dibattiti 5 "Co-sviluppo" e "migrazioni e sviluppo" sono espressioni che si riferiscono a sfere di significato in parte

sovrapponibili, tanto da essere spesso usate come sinonimi. Tuttavia, come chiariremo in seguito, la prima si riferisce maggiormente ad un coinvolgimento attivo dei migranti (come singoli o associazioni) nella cooperazione internazionale allo sviluppo, mentre la seconda si riferisce agli effetti di sviluppo indotti dalle migrazioni come fenomeno collettivo.

6 Il che consente indirettamente di ribadire, per altro, la necessità di una regolazione dei flussi come condizione per un impatto positivo della migrazione nel paese di destinazione.

7 Istituita nel 2003 dal Segretario Generale dell'ONU e da diversi governi nazionali.

internazionali e di Forum Globali organizzati dal 2007 a cadenza annuale. In queste tappe del dibattito internazionale e negli studi sociologici del medesimo periodo si registra un riconoscimento del ruolo attivo dei migranti nel sostegno alle politiche di sviluppo focalizzato inizialmente sulle rimesse inviate nei paesi di origine, la cui entità crescente veniva appunto notata dal mondo economico e politico. Gradualmente si sono sottolineate altre dimensioni di protagonismo dei migranti, eccedenti la dimensione strettaemente economica: il capitale professionale, frutto dell'esperienza lavorativa sviluppata all'estero; quello sociale, caratterizzato appunto da peculiari legami di tipo transnazionale, che rendono il migrante un possibile "ponte" fra culture e società; un capitale umano caratterizzato da competenze linguistiche e culturali che gli permettono di leggere due contesti differenti; finanche una sorta di capitale "etico" risultante dai valori e codici di comportamento con cui si è entrati a contatto nell'esperienza migratoria8. Se però queste forme di "capitalizzazione" dell'esperienza migratoria rappresentino una reale possibilità di sviluppo per i paesi di origine è una questione che risulta più controversa, e su cui si sono alternate nel tempo visioni più inclini all'ottimismo o al pessimismo. Rispetto all'impatto delle rimesse inviate dai migranti è ormai riconosciuto il loro significativo contributo nella riduzione della povertà. Il denaro inviato ai familiari è utilizzato in primo luogo per i generi di sussistenza, e in questo senso rappresenta una fonte essenziale di reddito per le famiglie rimaste a casa. Lo stesso denaro stimola quindi i consumi nel paese di origine e in questo senso rappresenta una fonte di sviluppo indiretto per l'economia locale. Si pensi in questo caso agli effetti sul mercato immobiliare della decisione dei migranti di investire sulla costruzione di una nuova abitazione nel proprio paese. A livello nazionale, le rimesse rappresentano una quota significativa del reddito nazionale di molti paesi, arrivando a percentuali del 30 o 40% sul Prodotto Interno Lordo. Contribuiscono inoltre all'equilibrio della bilancia dei pagamenti attraverso l'invio di valuta pregiata proveniente dai paesi di destinazione dei migranti. Questi ultimi aspetti sono ormai riconosciuti dai governi dei paesi caratterizzati da forte immigrazione, e al centro di iniziative politiche – non sempre tradotte dalla carta ai fatti – di attrazione di capitali ed investimento dai migranti all'estero. Una quota delle rimesse viene infine investita in attività produttive o, in alcuni casi, in beni collettivi per la comunità di origine. Sebbene questi ambiti rappresentino una quota minoritaria rispetto al capitale inviato, possono avere un impatto significativo nelle economie locali. Le criticità, evidenziate storicamente ancor prima degli effetti positivi, sono legate agli squilibri che possono produrre tali flussi di denaro nelle economie dei paesi di origine: si possono osservare un aumento delle disuguaglianze sociali e un utilizzo delle rimesse legato principalmente alla sfera del consumo e spesso dei beni di ostentazione, beni che per altro possono aumentare nella popolazione il desiderio a intraprendere l'esperienza migratoria. Possono inoltre incrementare la richiesta di beni di importazione, senza favorirel'economia locale ma anzi accrescendone la dipendenza dall'estero. La disponibilità di capitali può inoltre determinare una crescita dell'inflazione e un aumento della dipendenza da apporti esterni, che a sua volta può scoraggiare il lavoro in settori agricoli di sussistenza o comunque in ambiti che forniscono entrate minori. Altrettanto controversa è la questione relativa all'apporto o alla perdita di capitale umano e professionale nei paesi di origine. Una quota maggioritaria dei migranti è rappresentata dalle 8 Per quanto si tenti di riferirsi a tale ambito in forma neutra, è difficile non ravvisare nelle descrizioni di tale capitale

"etico" una implicita gerarchizzazione di valori, in cui l'esperienza del migrante verso l'Occidente viene letta come un possibile progresso, soprattutto nella sfera del rapporto di genere e dei diritti. In realtà, quanto meno la discriminazione cui sono sottoposti di frequente gli stessi migranti, rende questa idea di progresso inconsistente, e riporta la valutazione di questo capitale etico alle stesse ambiguità che vedremo rispetto al caso economico e sociale. Ci sembra che esperienze quali i matrimoni misti, segno della crescente realtà di immigrazione e integrazione nel nostro paese, siano un esempio più significativo di questa commistione di valori e abitudini, evidenziando in maniera più immediata tanto le fatiche quanto le ricchezze di diversità culturali che abitano una "casa comune".

persone in età da lavoro, e spesso fra questi vi sono persone istruite e preparate, decise alla partenza nella speranza di condizioni più favorevoli di vita. Si assiste così ad un dublice fenomeno di brain drain e brain waste, ossia di sottrazione dai paesi con minori possibilità di lavoro delle persone più qualificate, e contemporaneamente di un loro utilizzo non corrispondente alle competenze nel paese di destinazione. È infatti evidente, soprattutto nei paesi di più recente immigrazione, come l'Italia, come l'inclusione subalterna dei migranti implichi il loro impiego in mansioni spesso non corrispondenti ai titoli di studio conseguiti o alle esperienze professionali pregresse. Di converso le rimesse inviate dai familiari all'estero consentono un maggiore livello di istruzione da parte dei giovani rimasti a casa (le spese per l'educazione e la sanità sono in genere quelle immediatamente successive ai consumi per la sussistenza, nell'impiego delle rimesse). Inoltre le competenze acquisite dai migranti all'estero possono essere utilizzate per avviare attività nel paese di origine, nel caso di rientri. Sempre più attenzione, in parallelo alla "femminilizzazione delle migrazioni" cui si sta assistendo in molti paesi, assume inoltre la questione del welfare dei paesi di origine. Strutture di welfare familista come quello italiano hanno generato in anni recenti una crescente domanda di lavoro nei settori della cura, che ha portato un numero consistente di donne a migrare verso tali paesi, lasciando spesso a casa i propri familiari. Le ripercussioni di tale assenza nei contesti di origine, e le problematiche emergenti rispetto all'educazione dei figli o l'assistenza agli anziani, sono all'origine di studi ed iniziative di welfare transnazionale. Esse sottolineano in ogni caso da una differente prospettiva l'ambigua valutazione dell'impatto delle migrazioni sullo sviluppo, in questo caso sociale, dei paesi considerati. Queste sommarie considerazioni suggeriscono una valutazione cauta dell'impatto delle migrazioni sullo sviluppo dei paesi da cui queste hanno origine. Considerando le potenzialità positive e negative presenti, gli studi e le sperimentazioni si sono mossi in due direzioni: verso il tentativo di comprendere quali fattori possano accrescere gli effetti positivi delle migrazioni o ridurre quelli negativi, e come questi possano essere incoraggiati e stimolati sul piano legale o economico; e verso l'indagine di queste condizioni nei singoli contesti, data l'estrema variabilità locale delle caratteristiche migratorie sul piano economico, sociale e culturale, che rendono impossibile la definizione di politiche e pratiche con i medesimi effetti in situazioni differenti. Il concetto di co-sviluppo: problemi e prospettive Il concetto di co-sviluppo si inserisce nell'idea generale sopra menzionata delle migrazioni come fattore di sviluppo, spesso sovrapponendosi ad essa o venendo utilizzato come sinonimo di questa. Tale concetto assume però prevalentemente una sfumatura più specifica che indica una forma di attivazione diretta dei migranti nella cooperazione allo sviluppo come protagonisti di trasformazìoni positive tanto nei paesi di origine che in quelli di approdo. Ancora più specificamente l'idea di co-sviluppo è in genere collegata a forme di cooperazione decentrata, che agiscono quindi sul livello delle comunità locali nei due paesi (connettendo città e villaggi, o piccole regioni, e una molteplicità di partner pubblici e privati delle due aree geografiche), e all'attivazione di forme collettive di organizzazione dei migranti. Il co-sviluppo diviene quindi in una certa accezione una forma tout court di cooperazione allo sviluppo, che recentemente ha ricevuto notevole risonanza sia negli studi che nelle politiche di settore. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare dalla prospettiva italiana, dove tale concetto ha conosciuto una rapida propagazione attraverso le indicazioni dei policy-makers e le iniziative di alcuni enti locali, pratiche ed esperienze di co-sviluppo si sono costituite nelle zone di maggiore immigrazione in maniera spontanea e, per così dire, "dal basso", attraverso il concorso di molteplici fattori (Riccio 2007). Possiamo citare nel contesto europeo il caso dei migranti di Mali e Senegal (l'area geografica della

Valle del fiume Senegal) in Francia, uno dei più noti e studiati. Presenti in Francia già dagli anni '60, questi hanno assunto un protagonismo crescente nell'invio di fondi alle comunità di origine e nella gestione stessa di questi fondi, attraverso la creazione di istituti di credito e la realizzazione di progetti relativi ad opere comunitarie (scuole, ospedali, piccoli progetti di irrigazione). Questa particolare evoluzione del protagonismo di alcuni gruppi di migranti rispetto al proprio paese di origine si collega a diversi fattori: la resistenza alla politica di assimilazione francese delle diversità culturali dei migranti; la marginalità sociale vissuta nelle periferie urbane francesi; le situazioni di carestia e siccità in Africa Occidentale degli anni '70 che hanno comportato una quasi totale dipendenza di molte aree dalle rimesse per la semplice sussistenza; la legge sull'associazionismo straniero in Francia del 1981 che ha portato all'emersione e al rafforzamento di numerose organizzazioni collettive spontanee; la concomitante crescita della cooperazione decentratata e del coinvolgimento degli enti locali nella cooperazione. Altrettanto complessi i fattori legati all'attivismo delle Home Town Associations dei migranti messicani negli Stati Uniti o di altre forme di protagonismo spontaneo nel sostegno delle aree di origine. Senza entrare nei particolari, quello che ci preme notare è che tali azioni restano esempi di livello locale, sul cui sviluppo incidono una molteplicità di fattori9, e che in genere si tratta di iniziative spontanee su cui solo successivamente si innesta la collaborazione dapprima di organizzazioni ed enti locali, e successivamente anche di istituzioni internazionali (OIM, ONU, UE) o governative. Anche in Italia, insieme alla crescita delle iniziative di cooperazione decentrata a partire dagli anni '90, si sono sviluppate diverse pratiche ed esperienze locali di co-sviluppo. A queste esperienze numericamente limitate si è accompagnata negli ultimi anni una diffusione notevole del co-sviluppo come concetto o "slogan" di iniziative locali nel settore della cooperazione allo sviluppo. Le ragioni di questo entusiasmo sono legate al fascino, insito nel concetto di co-sviluppo, di un miglioramento delle condizioni di vita secondo parametri stabiliti dalle comunità stesse, piuttosto che imposti dall'Occidente (dove anche il contatto dei migranti con i paesi di adozione permetterebbe loro di "filtrare" gli elementi utili da innestare nei paesi di origine, senza una imposizione esterna). A questa idea si associa quella del protagonismo attivo dei migranti, che esercita un'attrazione diretta su quella forma di "populismo" inerente l'approccio della cooperazione, tesa ad affermare la dignità e le potenzialità di riscatto di chi è escluso dai sistemi di potere, come i migranti. Infine la crisi delle politiche di sviluppo e della cooperazione tradizionale lasciano spazio per l'affermazione di nuove idee e ipotesi di lavoro. Oltre a questi fattori possiamo citarne due di carattere "politico". Da una parte la già menzionata ambiguità del nesso migrazioni e sviluppo, che consente di coprire con politiche di sostegno allo sviluppo un inasprimento dei vincoli allo spostamento delle persone o iniziative di rimpatrio forzoso. Dall'altra la funzione di costruzione di alleanze che il concetto di co-sviluppo può svolgere nell'arena politica. Seguendo la lettura di Mosse (2004), etnografo e operatore dello sviluppo, possiamo considerare le policies non tanto come concetti guida nell'implementazione dei progetti, quanto come catalizzatori di alleanze e collaborazioni nell'arena politica determinata dall'allocazione delle risorse dello sviluppo, il cui successo o la cui caduta viene determinata dal persistere della capacità di fungere in tale ruolo. Sono infatti i vari attori implicati nei progetti a spendere energie culturali e materiali per corroborare l'assunto che connette policies e progetti,

9 Con questo si vorrebbe anche criticare l'atteggiamento diffuso ad associare una maggiore propensione

all'organizzazione collettiva di alcune comunità a ipotetiche motivazioni culturali, che rappresentano soltanto una forma di semplificazione ed "essenzializzazione" della diversità culturale. Di contro occorre considerare le ragioni storiche e sociali che portano certe comunità ad agire in modo più sintonico al nostro modo di intendere la cooperazione e l'organizzazione collettiva, ragioni in cui si inseriscono spesso determinate esperienze di colonizzazione; occorre inoltre considerare i concomitanti fattori di contesto che favoriscono o meno una determinata forma di organizzazione; ed infine occorre ricordare che tali forme di organizzazione restano generalmente ad un livello di omogeneità locale (il villaggio, la piccola regione, la comunità) che rende in parte insensato il riferimento ad una pronesione associativa dei "senegalesi" piuttosto che dei "marocchini", o di altre nazionalità.

piuttosto che queste a guidare l'implementazione dei secondi. Funzione della policy non è quella di guidare l'azione, ma quella di legittimarla, costruendo consenso attorno ad essa. In questa accezione il concetto di co-sviluppo ha mostrato una notevole efficacia, permettendo di ricreare consenso attorno alla cooperazione anche inserendo in essa nuovi attori, i migranti, in una modalità che però ribadisce e rafforza gli attori tradizionali (ONG, enti di ricerca, istituzioni) nel ruolo di mediatori e attori di capacity building. Il concetto è inoltre funzionale alla costruzione di alleanze con i paesi di origine in una forma forse più accettabile rispetto al tradizionale aiuto allo sviluppo, come attesta il successo del Comune di Milano per l'Expo del 201510. È quindi utile, nel valutare l'idea di co-sviluppo, tenere a mente anche questa prospettiva di lettura e il fatto che, rispetto ad essa, il concetto ha già assolto al proprio scopo, senza necessità di ottenere ulteriori validazioni. Considerando però la prospettiva di lavoro degli attori della cooperazione internazionale, e le aspettative suscitate dalle policies relative al co-sviluppo, è opportuno approfondire quelli che appaiono come i principali nodi problematici di tale approccio. Come vedremo, essi sono in un certo modo collegati alle aree di ambiguità precedentemente descritte rispetto al collegamento fra migrazioni e sviluppo, con una declinazione di queste rispetto alla specificità dell'agire collettivo. I nodi principali che ci sembrano emergere sono infatti quello della possibilità di rimesse collettive, quello della rappresentanza delle associazioni di migranti e quello della effettiva praticabilità della circolarità migratoria. Le rimesse collettive: mito o realtà? Molti suggerimenti dei policy-makers e numerose iniziative progettuali insistono sulla possibilità di canalizzare le rimesse dei migranti verso attività produttive e promotrici di sviluppo per i contesti di origine. Tale possibilità è fra l'altro tra i fattori alla base della rivalutazione dell'impatto positivo delle rimesse nell'ambito economico. Quando però si osservano gli esempi concreti di tale pratica, ci si trova di fronte ad un numero limitato di esperienze, con caratteristiche abbastanza peculiari. Abbiamo citato sopra il forte dinamismo delle comunità maliana e senegalese in Francia, entro cui si possono citare vari esempi di raccolta ed uso collettivo delle rimesse. Anche in Italia alcune associazioni senegalesi sono fra le protagoniste di questo tipo di esperienze11. Si tratta di associazioni di villaggio, caratterizzate cioè dalla medesima provenienza geografica dei membri, generalmente legata ad aree rurali e ristretta ad zone ben delimitate. Di contro, la diaspora di tali villaggi può essere sparsa anche fra diverse nazioni, e non è quindi inconsueto che tali associazioni abbiano carattere transnazionale o quanto meno siano inserite in reti di tale estensione. Le associazioni di villaggio, per tali caratteristiche, sono fra le più dinamiche nell'ambito dello sviluppo nei paesi di origine, investendo invece in maniera minore nell'area dell'integrazione nei paesi di adozione, area in cui si spendono le energie di altre tipologie associative. È infatti utile tenere presente che le associazioni di villaggio rappresentano un segmento specifico e numericamente limitato delle tipologie associative che aggregano i migranti12. Tali associazioni, che fanno riferimento ad una area geografica specifica e limitata, sembrano essere quelle che effettivamente riescono a mobilitare risorse economiche per la realizzazione di progetti comuni. In genere si tratta di iniziative di carattere sociale, come la costruzione di scuole e dispensari o il reperimento di materiali per tali strutture, ma si danno anche casi di iniziative legati a settori produttivi agricoli, manifatturieri, turistici, o di altro tipo. 10 La vittoria di Milano si è basata notevolmente sull'idea di centrare l'Expo sulla cooperazione nei settori legati a

determinati Obiettivi del Millennio, con un forte investimento sul co-sviluppo, scelta che ha catalizzato i voti dei paesi africani e in generale dei paesi sensibili a queste tematiche.

11 Fra quelle da noi incontrate citiamo l'associazione Sunugal di Milano e l'Association des Resortissants de Touba Toul en Italie.

12 Possiamo menzionare associazioni religiose e laiche, associazioni etniche, associazioni miste che aggregano anche membri del paese di adozione, associazioni di donne, studenti, giovani, seconde generazioni, associazioni transnazionali, ecc.

Un esempio differente di collettivizzazione delle rimesse, su scala molto più ampia, è quello fornito da iniziative moltiplicatrici di risorse, in cui il settore pubblico o privato accresce il capitale raccolto dalle associazioni di migranti per iniziative comuni. In Italia una sperimentazione in questo senso è stata quella del Fondo Italo-andino di solidarietà 4+1 legato alla rete di associazioni andine Juntos por los Andes, in cui diversi partner pubblici e privati si sono impegnati a incrementare (in rapporto, appunto, 4 a 1) le donazioni raccolte da 20 associazioni della diaspora andina in Italia. I fondi raccolti hanno sovvenzionato quattro progetti di solidarietà sociale, ciascuno in una diversa nazione di provenienza dei migranti. L'idea riprendeva una precedente iniziativa della diaspora messicana negli Stati Uniti, in cui vari livelli governativi hanno svolto un effetto leva sulle donazioni delle associazioni della diaspora. In questi casi si nota la possibilità, attraverso il coinvolgimento di attori istituzionali, di attivare iniziative di canalizzazione delle rimesse che superino una dimensione geografica limitata. Le esperienze in questo senso sono però ancora poche, e mostrano limiti di segno differente: difficoltà nell'attrarre le donazioni dei migranti, ricerca di equilibri nella destinazione dei fondi, continuità. In generale le esperienze citate ribadiscono il dato fondamentale della natura individuale delle rimesse, per cui i casi di riuscita concertazione collettiva sull'utilizzo delle stesse necessitano di una serie di condizioni e si danno in casi particolari. In base a questa natura individuale del bene trasferito, si possono ipotizzare dei meccanismi di valorizzazione che tengano però conto della prospettiva di utilità del migrante. Più ci si muove nella direzione di un distanziamento e di una spersonalizzazione dell'uso collettivo della rimessa (o dei proventi del suo trasferimento attraverso determinati canali), e più questo andrebbe bilanciato da una prospettiva di ritorno individuale, in termini economici o di altra natura. La rimozione di questo dato può portare ad aspettative incongrue da parte di ONG e istituzioni rispetto al coinvolgimento della diaspora in progetti di sviluppo, o viceversa nella sensazione, da parte delle associazioni di migranti, di essere utilizzate da altri soggetti per scopi percepiti come estranei. Le associazioni di migranti: quale rappresentanza? L'associazionismo delle comunità di migranti presenta, come abbiamo già accennato, una notevole vivacità, accresciuta e stimolata dalle iniziative istituzionali ad esse rivolte. È infatti evidente come l'organizzazione di associazioni o, quanto meno, la registrazione formale delle stesse, sia stimolata da necessità di interlocuzione istituzionale o di accesso a possibilità di finanziamento. Ciò che qui ci interessa è l'attenzione privilegiata accordata dalla prospettiva del co-sviluppo alle associazioni di migranti come interlocutori di iniziative progettuali e proposte di attività. In gioco vi sono diversi assunti, magari impliciti, ed interessi: ad esempio l'idea che l'azione collettiva possa essere più efficace ed avere maggiore continuità di quella individuale, la possibilità di coinvolgere la comunità rappresentata dall'associazione in una prospettiva di integrazione nel territorio di adozione, la possibilità di coinvolgere maggiori risorse umane ed economiche. I bandi che supportano iniziative di co-sviluppo, quali quello del Comune di Milano, vanno quindi nella direzione di restringere l'accesso al finanziamento ai migranti organizzati in forma associativa, oltre che di valorizzarne il protagonismo rispetto ad altri partner, quali le ONG. Ci si chiede però quale sia la rappresentanza di tali associazioni, spesso registrate strumentalmente per opportunità specifiche. L'esperienza delle consulte di stranieri, spesso analogamente create su iniziativa istituzionale, offre alcuni spunti a riguardo. Al di là dell'ambiguità di lavorare sulla partecipazione di chi non gode di diritti politici formali, si registra infatti il rischio di puntare artificiosamente su una sottolineatura della dimensione di appartenenza nazionale: i membri della consulta devono rappresentare le nazionalità più presenti, spesso devono essere eletti dai propri connazionali, ecc. Tale pratica rischia di ribadire una solidità e immobilità dell'appartenenza nazionale come dato prioritario per la partecipazione sociale, e diviene inoltre uno strumento per il

posizionamento sociale di chi si presenta come leader di una determinata comunità. D'altro canto si registra la tendenza, magari successivamente a partnership fallite e delusioni, ad attribuire impropriamente a motivazioni culturali disfuzioni e problematiche relative invece al contesto organizzativo. Lentezze decisionali, leadership poco capaci o uso strumentale delle stesse per avanzamento personale, carenze comunicative, ecc., sono tutti problemi che si registrano in contesti associativi o organizzativi di ogni provenienza e non imputabili a determinate comunità nazionali. Gli attori della cooperazione dovrebbero anzi avere maggiormente presente, per la propria esperienza sul campo, alcune questioni implicate in questo discorso. La ricerca o la creazione di un interlocutore collettivo, nella forma di associazione, cooperativa, o altro, è stata ed è tuttora una caratteristica di molte iniziative di cooperazione allo sviluppo. Questa tendenza ha sempre determinato un conseguente potere di quelle figure in grado di porsi, per diverse ragioni, nella posizione di mediatori e rappresentanti di comunità e gruppi. La pratica progettuale, ancor prima della teoria, si confronta quotidianamente con la complessità degli interessi in gioco in questa rappresentatività. Interessi delle stesse ONG (come delle istituzioni nel caso delle consulte), nel poter dire, attraverso determinati rappresentanti, di aver aggregato o coinvolto comunità di una certa estensione alle proprie iniziative. In tutto questo teniamo anche presente un ulteriore elemento di "artificiosità": le ricerche e l'esperienza attestano che le iniziative di co-sviluppo non sono una attività prioritaria delle associazioni di migranti. È altrettanto evidente, però, che la prospettiva di creare legami con altri attori o l'opportunità di ottenere finanziamenti può muovere tali gruppi verso queste tematiche. Anche qui non si tratta di una stortura propria delle associazioni migranti, ma di un effetto di attrazione osservabile in tutti i contesti organizzativi. Proprio per la rete di contatti attivata dalle iniziative di co-sviluppo, diversi ricercatori sottolineano come la capacità delle comunità o associazioni di migranti di sviluppare attività in questo senso sia proporzionale alla loro integrazione nel contesto locale nel paesi di arrivo. Le iniziative di co-sviluppo rappresenterebbero quindi anche un fattore di integrazione ed effettivi tentativi di cittadinanza simultanea e transnazionale. Effettivamente le associazioni che si affermano progressivamente come interlucotori credibili nel settore presentano una comune capacità di dialogo con le istituzioni locali, legata ad elementi quali: l'apertura all'adesione di membri della nazione di adozione, che portano anche nuove competenze ed interessi; il consolidamento di partnership; la presenza di soci con una prolungata presenza nel paese e spesso professionalità legate alla mediazione culturale. A questo punto, però, si registra spesso il rischio di uno scollamento con il paese di origine, e una conseguente debolezza diffusa nella scelta di partners affidabili per le iniziative progettuali. La circolarità migratoria: quale pratica effettiva di transnazionalità per il co-sviluppo? Come abbiamo visto, pratiche e tentativi di cittadinanza transnazionale non implicano necessariamente uno spostamento fisico fra i diversi contesti. Diverse pratiche, quali l'invio di rimesse, possono influire sul contesto di origine senza che vi sia un rientro diretto del migrante. Così come le tecnologie attuali consentono maggiori possibilità di interazione a distanza con i propri familiari o conoscenti. Tutte queste azioni hanno in qualche modo degli effetti trasformativi nei contesti implicati, e rispondono spesso al bisogno e al tentativo di mantenere legami con il contesto in cui non si è fisicamente presenti, compresa l'intenzione di impegnarsi per il suo cambiamento. Tuttavia, pensando a effettive pratiche di co-sviluppo, si ricerca una transnazionalità che si basi anche su una effettiva mobilità dei migranti, su una pratica circolare di viaggio che consenta al migrante di essere personalmente tramite di risorse ed esperienze fra i diversi contesti. Il concetto di "circolarità migratoria" assume in questo discorso una centralità crescente, senza per

questo aver raggiunto un grado di definizione preciso (Mai 2010). Esso richiama ad una forma di migrazione, quella ad esempio stagionale, storicamente antica e anzi per certi versi preponderante nell'esperienza migratoria. Tale forma di esperienza temporanea di allontanamento da casa richiama anche il forte valore simbolico della migrazioni, tutt'oggi presente, come forma di viaggio di iniziazione al divenire adulto (anche perchè spesso associato al guadagnare la disponibilità economica per pagare la dote per sposarsi e avviare una famiglia). Si tratta di significati importanti, ancora attivi, che aiutano a non ridurre tale fenomeno alla prospettiva economica. Quando ci si riferisce alla circolarità migratoria nell'ambito del co-sviluppo, non si pensa comunque alla tipologia del lavoro stagionale, che proprio per le sue caratteristiche di precarietà si espone spesso ai rischi dello sfruttamento e non consente un inserimento nei paesi di adozione tale da acquisire significative competenze e contatti. Si valutano piuttosto esperienze di permanenza più lunghe, per motivi di lavoro o di studio, che consentano appunto tale incremento delle competenze individuali, a cui segua un rientro nel paese di origine. Rientro che però può risultare forzoso, in seguito alla perdita dello status legale o delle condizioni economiche che consentivano una permanenza all'estero. O addirittura coatto, nella forma di espulsioni e rimpatri. La motivazione legata al rientro influisce chiaramente sulla sua valenza rispetto agli obiettivi di una prospettiva di sviluppo. Ancora più specificamente si può intendere la circolarità non tanto come un percorso di andata e ritorno (che può eventualmente preparare ulteriori partenze), ma come una mobilità effettiva e periodica fra i due paesi, senza che questa sia legata alla precarietà del lavoro stagionale. Si tratta in questo caso di un numero sempre più limitato di casi ed esperienze, in cui il migrante diviene un effettivo attore economico e culturale di mediazione fra i due paesi, strutturando in alcuni casi la propria professionalità su questa pratica. Chiaramente la prossimità geografica resta un fattore influente rispetto alla possibilità di una circolarità migratoria, così come ha sempre caratterizzato la stagionalità del fenomeno. Vi sono però altri fattori condizionanti, quali gli accordi bilaterali fra gli stati implicati e le reciproche legislazioni migratorie, piuttosto che il riconoscimento reciproco di qualifiche professionali e titoli di studio. Le ambiguità del concetto rispetto al tema del co-sviluppo riguardano ancora una volta problematiche già sollevate rispetto al discorso più generale sulle migrazioni e lo sviluppo. Da una parte vi è la solita ambiguità che vorrebbe ridurre la circolarità migratoria ad una migrazione temporanea, che quindi ricalchi le caratteristiche della tipologia stagionale. In questo modo essa rappresentarebbe, piuttosto che una occasione di attivare forme di legislazione transnazionali, una spinta al ribasso delle tutele accordate ai migrante dalle politiche nazionali. Dall'altra parte occorre tenere presente come, ancora una volta, le esperienze di circolarità migratoria che si possano intendere come pratiche di co-sviluppo rappresentino un campione molto limitato. Vi è quindi il rischio, nella generalizzazione di questi casi a paradigma, di proporre modelli di scarsa utilità, o generatori di false aspettative, nella pratica della cooperazione. Quali prospettive di lavoro per una cooperazione che dialoghi con i fenomeni migratori Osservando i punti critici attraversati rispetto alla connessione fra migrazioni e sviluppo, sono state evidenziate una serie di questioni che portano a valutare tale rapporto nella direzione di un potenziale da sfruttare. Piuttosto che toni ottimistici o pessimistici, prevale un approccio cauto che sempre più cerca di analizzare caso per caso quali siano gli effetti economici e sociali dei differenti flussi migratori (con la complicazione che spesso la scomposizione di tali flussi è problematica e artificiosa). L'idea del co-sviluppo, a sua volta, presenta prospettive affascinanti per la cooperazione, ma allo stesso tempo pone maggiori rischi di idealizzazione del fenomeno migratorio, attraverso una "elevazione al collettivo" dei benefici che questo potrebbe apportare allo sviluppo dei paesi coinvolti nei flussi. Qui le diverse esperienze innovative che si stanno sperimentando rischiano di

portare ad una generalizzazione del modello che non tenga conto dei molteplici fattori in gioco nella concretizzazione di ogni singola esperienza, e che la rendono replicabile soltanto a determinate condizioni. Sintetizzando, si potrebbe dire che le migrazioni apportano di per sè una serie di elementi di trasformazione economica e sociale nei paesi di origine e in quelli di destinazione. Tali elementi possono avere risvolti positivi e negativi, e occorre quindi individuare quali strategie pubbliche possano accrescere i primi e minimizzare i secondi. L'azione collettiva di comunità di migranti, volta ad azioni di co-sviluppo, è qualcosa che può accrescere l'efficacia dei benefici del processo migratorio, e può essere a sua volta supportata da iniziative pubbliche e private. Tali azioni collettive restano per ora fenomeni numericamente limitati, che si sono prodotti in condizioni particolari. Diverse esperienze di autorità locali e statali mirano comunque al rafforzamento e alla replicabilità di tali esperienze. Tenendo conto di queste premesse, possono essere valutate nella giusta luce le proposte di azione che la ricerca su tali fenomeni suggerisce per migliorarne l'efficacia. Rispetto alla sfera dei possibili benefici del fenomeno migratorio per lo sviluppo, predomina un atteggiamento "liberale" teso alla rimozione degli ostacoli che, a giudizio degli analisti, limitano o inibiscono tali ricadute positive. Si ipotizza in questo senso un'agevolazione dei trasferimenti di fondi da parte dei migranti, attraverso forme di detassazione e concorrenza delle agenzie di trasferimento. L'invio delle rimesse dovrebbe divenire più rapido e sicuro, e meno costoso, in modo da essere maggiormente attratto dai canali formali. Questi dovrebbero anche creare prodotti finanziari che massimizzino le occasioni di risparmio e investimento nei paesi di origine, in modo da incrementare le ricadute produttive delle rimesse. Perchè vi sia questa propensione all'investimento, occorrerebbe anche eliminare quelle condizioni che lo scoraggiano nei paesi di origine, quali l'instabilità finanziaria, l'assenza di strutture, la corruzione. È chiaro che in questo modo viene chiamata in causa anche la cooperazione internazionale come fattore concomitante di una possibile attivazione dei migranti nello sviluppo dei paesi di origine. Rispetto alle competenze professionali e al capitale umano, andrebbero rimossi quegli ostacoli burocratici ed istituzionali che limitano la possibilità di un effettivo protagonismo transnazionale dei migranti. Si ipotizzano metodi per la circolazione dei talenti, quali gli albi transnazionali delle professioni, la possibilità di mantenere una doppia cittadinanza, la riconoscibilità dei titoli nei diversi paesi, una politica dei visti più liberale, il trasferimento dei diritti pensionistici. Si tratta in generale di ipotesi di lavoro, come mostrano con più evidenza le proposte relative agli spostamenti di persone, che vanno incontro ad un paradosso: esse vanno nella direzione di un indebolimento del legame tra cittadinanza e nazionalità, per dare protagonismo e diritti a forme di cittadinanza transnazionale, ma si basano per la propria attuazione sulla volontà giuridica degli stati nazionali (volontà per altro attualmente diretta verso forme di maggiore controllo dei flussi e irrigidimento delle frontiere). Rispetto alle pratiche di co-sviluppo messe in atto dalle comunità di migranti, invece, le proposte per incrementarne l'incisività vanno nella direzione di un rafforzamento delle competenze e di un loro coinvolgimento nelle iniziative istituzionali. Si vuole cioè da una parte creare un ambiente che offra opportunità e stimoli ai migranti per attivarsi nel settore della cooperazione, e che questi nel medesimo tempo siano coinvolti nelle iniziative degli attori del settore (ONG e istituzioni), e dall'altra si vogliono offrire occasioni di formazione e crescita alle esperienze già attive, in modo da incrementarne l'efficacia. Se il primo piano di lavoro, quello della rimozione degli ostacoli alle ricadute del fenomeno migratorio sullo sviluppo, si colloca sul piano delle policies nazionali e transnazionali, quello del rafforzamento del co-sviluppo si pone piuttosto su quello delle pratiche, e principalmente delle pratiche locali. Per quanto si è detto sopra appare sensato che ogni esperienza di co-sviluppo nasca

sulla base di legami e pratiche transnazionali di comunità specifiche, sviluppandone eventualmente la portata attraverso azioni di rete successive. In questo senso si colloca pienamente nella sfera della cooperazione decentrata attuata dagli enti locali, il cui interesse può essere determinante per costituire un ambiente più o meno favorevole al consolidamento di tali pratiche. La complessità e la rapida evoluzione dei fenomeni migratori richiedono, anche nella loro declinazione in materia di cooperazione allo sviluppo, una continua attività di ricerca e aggiornamento, perchè si possa valutare di volta in volta il senso di una proposta che coinvolga i migranti di una determinata area geografica. Anche la cooperazione rischia infatti, per il fascino esercitato dall'idea di co-sviluppo o per un utilizzo strumentale di tale concetto, di incorrere in generalizzazioni e conseguenti impasse operative. Come il lavoro all'estero mostra agli operatori le specificità e la complessità di ogni contesto locale, così il lavoro con i migranti non può fermarsi alla genericità di un dato di appartenenza nazionale (si coinvolgono i migranti di una determinata provenienza nazionale perchè si ha un progetto in quella nazione), ma dovrebbe andare a reperire i flussi specifici nelle diverse aree geografiche, portando la conoscenza ad una dimensione più micro. Allo stesso livello di approfondimento dovrebbe portare, caso per caso, la conoscenza delle caratteristiche del flusso migratorio su cui si vuole lavorare, reperendone le peculiarità da porre in dialogo con i progetti di cooperazione o le iniziative già avviate dalle comunità stesse. In questo lavoro di ricerca e coinvolgimento risulta opportuno mantenere la consapevolezza di come l'elemento di maggior forza e fascino del co-sviluppo, ossia l'attivazione e canalizzazione di energie e risorse comunitarie, non sia un dato comune o scontato. Si tratta quindi di partire dal punto di vista dell'individualità di risorse ed interessi in gioco (intendendo con ciò le rimesse, le competenze, le aspettative), per valutare se e come queste possano essere coinvolte nei processi di sviluppo. Cenni bibliografici AA.VV. 2008, L'immigrazione che nessuno racconta. L'esperienza di Ghanacoop e l'immigrazione che crea sviluppo. Baldini Castoldi Dalai. Aceto A. 2010, Migrazioni, rimesse, sviluppo. Il caso albanese. IPSIA Working Papers, Collana Footprints n.3. Bakewell O. 2009, South-south migration and human development: reflections on African experience. UNDP Research Paper 2009/07. Bellagamba A. (a cura di). 2009, Inclusi/esclusi. Prospettive africane sulla cittadinanza. UTET. Cingolani P. 2009, Romeni d'Italia : migrazioni, vita quotidiana e legami transnazionali. Il mulino. Coslovi L., Zarro A. 2008, Stati africani e migrazioni. La sfida dell'institution building. CeSPI Working papers n. 39/08. De Haas H. 2007, The myth of invasion. Irregular migration from West Africa to the Maghreb and European Union. IMI Research Report October 2007. De Sardan O. 2008, Antropologia e sviluppo. Saggi sul cambiamento sociale. Cortina. Fondazione Ethnoland. 2009, Immigrati imprenditori in Italia. Dinamiche del fenomeno: analisi, storie e prospettive. Idos. Ghiringhelli B., Marelli S. (a cura di). 2009, Accogliere gli immigrati. Testimonianze di inclusione socio-economica. Carocci. IPSIA. Migrazioni e diritti nell'Europa delle Regioni. Il caso kosovaro come limite della cittadinanza nazionale. In AA.VV. 2009, Formazione in scambio Italia/Kosovo per uno sviluppo in partnership. Collana Città e cittadinanze n. 16. Pro.Do.C.S. Mai N. 2010, Albanian migrations to Italy: towards differential circularisations?. Metoikos Project. European University Institute. Melchionda U. (a cura di). 2003, Gli albanesi in Italia. Inserimento lavorativo e sociale. Franco Angeli.

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