Microscopio_novembre_2010

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1 M croScopio Mensile Medico Scientifico - Novembre 2010 M croScopio 2proPSA LOMBOSCIATALGIE prospettive della medicina manuale DIETOTERAPIA visitaci su www.microscopionline.it RADICOLOPATIE cura e diagnosi delle MIOCARDIO nuovo centro per le malattie STAMINALI un esercito di per curare il fegato malato Pubblicazione Mensile in abbonamento • Anno I - Num. VIII - Novembre 2010

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Microscopio mensile medico scientifico - Novembre 2010. www.microscopionline.it

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M croScopioMensile Medico Scientifico - Novembre 2010

M croScopio2proPSA

LOMBOSCIATALGIEprospettive della medicina manuale

DIETOTERAPIA

visitaci su www.microscopionline.it

RADICOLOPATIEcura e diagnosi delle

MIOCARDIOnuovo centro per le malattie

STAMINALIun esercito di

per curare il fegato malato

Pubblicazione Mensile in abbonamento • Anno I - Num. VIII - Novembre 2010

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FLASHConvegno

“Il valore salute e la crisi economica”

Il convegno si struttura intorno a due tavole rotonde intitolate

“Per un welfare giusto: bisogni e impegno sociale” e “Salute e

giustizia: quale idea di uomo nella politica italiana?”. In parti-

colare si focalizzarà l’attenzione su: “Stato di salute e qualità

dell’assistenza sanitaria in Italia”; “La spesa socio-sanitaria tra

governante nazionale e federalismo”; “Politiche sociosanita-

rie tra diritti e doveri: l’impegno dell’Italia con la Convenzione

ONU sui diritti delle persone con disabilità e la crisi economica”;

“Questioni di giustizia e immagini dell’uomo”; “Età anziana: il

conflitto tra costi e cure”; “Età evolutiva: il conflitto tra costi e

investimento sul futuro”; “Salute e malattia. Aspetti antropolo-

gici”. Il convegno sarà introdotto da: Lorenzo Ornaghi, Rettore

dell’Università Cattolica, Carlo Borsani, Presidente Fondazione

IRCCS Istituto Neurologico “Carlo Besta”. Tra i relatori i docenti

della Cattolica Antonio G. Spagnolo, Direttore dell’Istituto di

Bioetica, Walter Ricciardi, Ordinario di Igiene, Eugenio Anessi

Pessina, Ordinario di Economia aziendale Maria Luisa Di Pietro,

Associato di Bioetica, Roberto Bernabei, Direttore del Diparti-

mento di Scienze Gerontologiche, Geriatriche e Fisiatriche del

Policlinico Gemelli, Giuseppe Profiti, Presidente dell’Ospedale

Pediatrico Bambino Gesù, Matilde Leonardi, Direzione Scienti-

fica Fondazione IRCSS Istituto Neurologico “C. Besta”. Le con-

clusioni sono affidate ad Adriano Pessina, Direttore del Centro

di Ateneo di Bioetica.

Giovedì 25 novembre, ore 9.00 -18.30,

Centro Congressi Europa, Università Cattolica

Promosso dal Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica

Dr. Nicola Cerbinoresponsabile Ufficio stampaUniversità Cattolica sede di Romae Policlinico universitario “Agostino Gemelli”

notizia

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SOMMARIO

Direttore EditorialeAntonio Guerrieri

Direttore ResponsabileCaterina Guerrieri

Capo redattore e coordinatriceCinzia Mortolini

RedazioneStefania Legumi, Caterina Guerrieri, Francesco Fiumarella

CollaboratoriPaolo Nicoletti, Marco Nicoletti

Le opinioni espresse impegnano solo la responsabilità dei singoli autori. Tutto il materiale inviato, anche se non pubblicato, non sarà restituito e resterà di proprietà dell’editore.

NeurochirurgiaLe Radicolopatiepag. 6

PneumologiaMalattie sociali dell’apparato respiratoriopag. 8

Scienza dell’alimentazioneDietoterapia pag. 10

DermatologiaCarragenanipag. 28

Si ringraziaProfessor Nicola Gasbarro, Dottor Ennio Flores, Dottor Ernesto Farina, Dottor Generoso Riccardi, Ufficio stampa Istituto Scientifico Universitario San Raffaele, Ufficio stampa Istituto Mario Negri di Milano, Dottor Nicola Cerbino responsabile Ufficio Stampa Università Cattolica sede di Roma e Policlinico Universitario “Agostino Gemelli”

Progetto GraficoMarco Brugnoni - [email protected]

StampaProperzio s.r.l - Perugia

EditoreE.G.I s.r.l.Reg. Tribunale di PerugiaN. 12/2010 del 10/02/2010Direzione e AmministrazioneE.G.I. s.r.l. Via Hanoi, 2 • 06023 Bastia Umbra (PG) Tel. 075.800.66.05 - Fax 075.800.42.70 [email protected]

Marketing & PubblicitàGuerrieri Antonio, Altea NatalinoTel. 075.800.53.89

Osteoporosi:le pazienti entrano nel progetto VPHOPpag. 14

Distrofia: il Rizzoli di Bologna partner dello studio Telethon pag. 15

2proPSAil nuovo nome della diagnosi precoce del carcinoma prostaticopag. 15

Parkinsonidentificati per la prima volta i marcatori per una diagnosi precocepag. 18

Ricerca

Pubblicazione Mensile in abbonamento • Anno I - Num. VIII - Novembre 2010M croScopio

Lombosciatalgiepag. 14

Il burro di Karitè nelle sue sfumaturepag. 26

Miocardioal San Raffaele nuovo centro per le malattie del miocardiopag. 19

Chirurgia Plasticainnovazione italiana nella tecnica della mastoplastica additivapag. 21

Staminaliun esercito in marcia per salvare il fegato malatopag. 22

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inSalute

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euro

chir

urg

iaINTERVISTE

DOTTOR CARLO ANTONIO TODARO

Dottor Todaro che cosa sono le radicolopatie post opera-torie? Quali sono le diagno-

si, le cause e le cure?Le radicolopatie in genere sono pato-logie che coinvolgono le radici nervose periferiche. Tali affezioni, nel periodo post-operatorio riconoscono una du-plice causa: infiammatoria e degene-rativa. Sono importanti nella cosiddetta sindrome compressiva del midollo spi-nale, a livello cervicale e a livello lom-bare come esito di ernia del disco lom-bare, di stenosi degenerativa. In genere l’approccio terapeutico è sempre medi-co e farmacologico. Da Neurochirurgo, ho visione delle radicolopatie sia nel

RADICOLOPATIE Intervista al

le

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DOTTOR CARLO ANTONIO TODARO

pre-operatorio che nel post operato-rio. Nel pre-operatorio sono uno dei segni cardini che ti spinge alla terapia chirurgica, mentre nel post operatorio le trovo come esito di compressione. Non tutti i pazienti risolvono comple-tamente dopo l’intervento chirurgico la loro sintomatologia sia dolorosa che deficitaria. Sono proprio le radicolopa-tie le sequele piu diffuse.

RADICOLOPATIE Ci sono degli

i n t e r v e n t i che possono causare le radicolopa-tie?

Se l’intervento chirurgico pro-

voca per cosi dire una “vigorosa” mani-

polazione delle radici periferi-che persiste una sofferenza del nervo, oppure il meccanismo compressivo dell’ernia o della stenosi stessa provoca un brusco risveglio del dolore durante l’intervento chirurgico.

Quali sono le radicolopatie che pos-sono essere diagnosticate e curate senza l’intervento chirurgico?Sono le radicolopatie degenerative in corso di malattie sistemiche, per esempio del diabete, di ipertensione arteriosa cronica, poi le radicolopatie in corso di malattie neurologiche più complesse. Il neurochirurgo si occupa più frequentemente delle radicolopatie compressive, laddove cioè una radice nervosa è compressa, in genere da un disco erniato o da un canale spinale e/o foraminale osseo stretto congenita-

mente o dall’artrosi. Quindi le radicolopatie compressive ri-guardano il neurochirgo, le degenerati-ve o infiammatorie croniche riguardano piu il neurologo o il reumatologo.

Dottor Todaro l’Acido Alfa Lipoico o Gamma Linolenico possono inte-grarsi come sostanze nell’attenua-zione del dolore avendo una funzio-nalità nervosa?

Intervista al

È uno dei cardini della terapia medica post operatoria. I pazienti che dopo l’in-tervento hanno ancora delle radicolo-patie urenti agli arti inferiori, formicolio, bruciori, riduzione della sensibilità sia tattile sia termo-dolorifica beneficiano dell’Acido Alfa Lipoico e Gamma Linole-nico, che sono ricordiamo dei compo-nenti della membrana assonale stessa. Ricordiamo che tutto il danno delle radici nervose degli assoni sono provo-cate da un’alterazione della membrana.

Secondo la sua casistica le radicolo-patie sono in aumento?Sì, senza dubbio. Tra le cause maggio-ri ci sono gli stili di vita sedentaria e le posture lavorative prolungate (anche 10 ore di seguito!) davanti a video termi-nali. Io ho iniziato questa professione 25 anni fa e negli ultimi 10 anni ho ri-levato un aumento di incidenza (nuovi casi) di circa il 60% !

Dottore si parla molto di mini inva-sività anche in neurochirurgia, di tecniche mini invasive di un decorso post operatorio più rapido…Il decorso operatorio è molto più ve-loce, come anche meno traumatico è l’intervento stesso. Si parla di chirurgia

percutanea cioè piccole ferite e non più tagli cutanei estesi come nel passa-to. Inoltre il recupero e la restituzione all’ambiente lavorativo, alla vita sporti-va, ed alle funzioni sociali è molto più rapido.

Quali sono le tecniche mini invasive usate in neurochirurgia Dottor To-daro?Nel campo della chirurgia della colonna cervicale le tecniche mini invasive più usate negli ultimi anni sono gli approcci cosìddetti percutanei, senza più il ta-glio, con dei semplicissimi fori, un po’ come le artroscopie dei nostri colleghi ortopedici, sia nel tratto cervicale che nel tratto lombare.

Esami di screening?Riguardano la neuroradiologia, quindi la Risonanza magnetica ma anche la neurofisiologia quindi l’elettromiogra-fia e i potenziali evocati.

Dottore che cos’è il Doppler Tran-scranico?È un esame diagnostico non invasivo, un esame semplice ad ultrasuoni che misura la velocità di flusso delle arterie del cervello. In maniera non invasiva permette quindi una grande ed accura-ta diagnosi di tante malattie del sistema nervoso centrale che hanno una riper-cussione sulla circolazione cerebrale.

Dirigente Neurochirurgo della di-visione di Neurochirurgia dell’Isti-tuto Clinico Città Studi di Milano, il Dottor Carlo Antonio Todaro, membro dell’Associazione Profes-sionale World Spine Column So-ciety è un insigne Neurochirurgo, artefice di circa 90 pubblicazioni e di numerose collaborazioni inter-nazionali. Dal 2010 è Professorship in Neurological Sciences - Duke University - Durham N.C. Usa.

Intervista a cura di Cinzia Mortolini

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Dott. Marco REALINISpecialista in Tisiologia e Malattie dell’ Apparato Respiratorio23854 Olginate (LC)

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ia

Dottore che cosa si inten-de per malattie sociali dell'apparato respiratorio?

Le malattie dell’apparato respirato-rio, principalmente la BPCO e l’ASMA bronchiale, rappresentano una delle principali fonti di spesa per i sistemi sanitari dei vari paesi, a causa delle giornate di lavoro perse e per i costi elevati delle cure. I costi diretti per la BPCO ammonterebbero a circa il 6% della spesa sanitaria totale

Dottore parliamo di Broncopatia, in Italia c'è un'altissima incidenza di morte, parliamo di prevenzione e di soluzioni terapeutiche... Quali esami effettuare? con quale fre-quenza?La BPCO, in Italia, presenta una mor-talità elevata, con una tendenza ad un aumento progressivo dei decessi, in particolare nei soggetti di sesso femminile.Per una corretta diagnosi della bron-chite cronica e dell’asma bronchiale, l’esame funzionale, eseguito median-

MALATTIE SOCIALI

DELL'APPARATO RESPIRATORIO

Eziologia, diagnosi, cure, incidenza sociale e costi sanitari delle malattie sociali dell’apparato respiratorio grazie al Dottor Marco Realini, Specialista in Tisiologia e Malattie dell’Apparato Respiratorio

te spirometria è fondamentale; l’e-same è di semplice esecuzione ed è un esame non invasivo. Con l’esame spirometrico siamo in grado di distin-guere l’Asma bronchiale (ostruzione reversibile) dalla BPCO (ostruzione poco o non reversibile); inoltre siamo in grado di stabilire la gravità della malattia.Con l’impostazione di una corretta terapia, l’esecuzione dell’esame spi-rometrico, ci permette di monitorare il decorso della malattia.

Secondo la sua casistica l'asma bronchiale è in aumento per l'ec-cesso di fattori inquinanti?L’ASMA bronchiale ha una compo-nente genetica importante, inoltre la presenza di malattie respiratorie in età pediatrica, predispone al suc-cessivo sviluppo di ASMA bronchiale. La presenza di agenti inquinanti am-bientali, il fumo di sigaretta, anche passivo, sono fattori che condiziona-no negativamente lo sviluppo dell’A-SMA bronchiale.

Sostanze come l'acetilcisteina, la bromexina, le stesse vitamine del gruppo B possono aiutarci nei di-sordini respiratori?La terapia con cortisonici inalatori e broncodilatatori a breve e/o lun-ga durata di azione sono la terapia cardine dell’asma bronchiale. Nella BPCO i broncodilatatori sono il primo step della terapia, mentre i cortisonici inalatori sono previsti negli stadi più avanzati della malattia.L’uso dei mucolitici e mucoregolato-ri hanno un posto nella terapia del-la bronchite cronica in aggiunta alle terapie broncodilatatrici sopra citate. Inoltre l’ uso di sostanze antiossidan-ti sono in grado di determinare una riduzione delle riacutizzazioni della BPCO.

Intervista a cura di C. M.

INTERVISTE

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M croScopio Interviste

Dottor Missaglia lei è spe-cialista in Endocrinologia che cosa succede quando

c’è un’alterazione endocrino-me-tabolica?A partire dalle analisi cliniche di co-stituzionalisti della prima metà del novecento,alle intuizioni di Vague, per giungere fino agli studi contem-poranei con la TAC, si è affermata l’evidenza che il tessuto adiposo vi-scerale sia il principale responsabile delle complicanze metaboliche e car-diovascolare dell’obesità. La distribu-zione viscerale del grasso è associata ad un quadro endocrino caratteriz-zato da una aumentata attività degli ormoni steroidei con una aumentata attività del cortisolo (incremento del-la produzione e del turnover). Que-sto fenomeno sembra essere tra le principali cause dell’obesità viscera-le come di alcune complicanze quali l’insulinoresistenza. Peraltro gli effet-ti metabolici del cortisolo possono essere amplificati dall’aumento del grasso viscerale, in cui è documen-tata un’alta densità di recettori spe-cifici per i glucocorticoidi. Per quanto riguarda l’insulinoresistenza, essa è nella maggior parte dei casi verosi-milmente secondaria all’adiposità ad-dominale, essendo comune osserva-re un miglioramento della sensibilità all’insulina con la perdita ponderale.

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Il Dottor Marco Missaglia, Medico Chirurgo Specialista in Scienza dell’Alimentazione e Dietologia Specialista in Endocrinologia Sperimentale Tavolo tecnico per l’Obesità ASL LeccoMandello del Lario (LC)

E’ proprio attraverso l’insulinoresi-stenza che il rischio di sviluppare dia-bete e malattie cardiovascolari viene concentrato nella obesità. L’obesità è un fattore di rischio indipendente e di morbilità e mortalità cardiovascola-re. I risultati epidemiologici indicano che l’iperinsulinemia, indice proprio dell’insulino-resistenza, è un fattore predittivo indipendente del rischio cardiovascolare. Ecco perché è giu-sto affermare chel’insulino-resistenza è il primum movens dell’aumentato rischio cardiovascolare nell’obeso. L’i-potiroidismo può favorire l’aumento di peso attraverso vari meccanismi: ridotto catabolismo del tessuto adi-poso, accumulo di liquidi, mixedema. L’incremento ponderale, anche se frequente, è generalmente mode-sto, per cui l’ipotiroidismo non è da considerare tra le cause dell’obesità. Spesso nel paziente obeso si ritro-va una funzione tiroidea normale: le modeste alterazioni occasionalmente segnalate sono secondarie all’altera-to introito alimentare e non hanno valore etiopatogenetico.

Dottore il trattamento dietetico in caso di obesità è sempre diretta-mente proporzionale a una riabili-tazione metabolica?Esiste evidenza certa che la riduzione del peso corporeo, anche modesta

(10% del peso iniziale) evochi, grazie alla ridistribuzione del grasso corpo-reo, effetti benefici sul rischio me-tabolico ed emodinamico associato all’obesità. E’ nota infatti l’importanza dell’obesità addominale come fattore di rischio principale per le patologie cardiovascolari e metaboliche; prio-ritario diventa dunque valutare l’ef-fetto della perdita di peso sul tessuto adiposo viscerale. Questo significa che con una dietoterapia ipocalorica specifica e con l’attività fisica, meglio aerobica isotonica condotta almeno per trenta minuti al giorno, si inne-scano quei meccanismi biochimici che portano a una riabilitazione me-tabolica che passa proprio dalla ridu-zione del grasso viscerale. Si riduce significativamente infatti il livello dei trigliceridi, aumentando quello del colesterolo nelle lipoproteine ad alta densità (HDL), armonizzando inoltre i livelli glicemici. Studi recenti dimo-strano che l’ossidabilità dei lipidi e delle lipoproteine è fondamentale nel condizionare il rischio cardiovascola-re. La riduzione del peso sembra inol-tre in grado di ridurre i livelli ematici di alcuni fattori della coagulazione (fattore VII e PAI), provocando invece l’aumento dei livelli dell’attivatore tis-sutale del plasminogeno (T-PA). Le modifiche dello stile di vita di tipo multidimensionale, accompagnate ad

DIETOTERAPIA

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una riduzione del peso corporeo di al-meno il 10% di quello iniziale, sareb-bero capaci di favorire la regressione dell’arteriosclerosi coronaria iniziale dopo un periodo di trattamento di almeno un anno, anche senza l’uso di farmaci ipolipemizzanti. La riduzio-ne dei fattori di rischio (es. il fattore VII) può comportare un’importante diminuzione del rischio per ischemia coronaria dopo un periodo di cinque anni.

Si parla di Omega 3, lecitina, que-ste sostanze, questi principi pos-sono aiutare la salute in malattie cardiovascolari, metaboliche…Dagli studi epidemiologici pionieri-stici di Dyeberg e Bang sugli Inuit,la popolazione eschimese della Groen-landia, risalenti a circa 25 anni orsono in cui si ipotizzava per la prima volta la correlazione tra bassa mortalità per malattie cardiovascolari e abitudini nutrizionali di questa popolazione, è andato crescendo l’interesse attorno agli Omega 3 fino alle conclusioni proposte dal GISSI-Prevenzione in cui si è dimostrata l’efficaci del trat-

tamento con n-e PUFA in pazienti con infarto moicardico recente,anche come prevenzione secondaria. Nei pesci grassi abbondano due acidi grassi polinsaturi l’acido eicosapen-taenoico (EPA) e l’acido docosaesae-noico (DHA)Riequilibrare nella nostra alimenta-zione il rapporto tra Omega 6 (derivati dall’acido linoleico) e Omega 3 risulta un obiettivo importante,essendo gli Omega 3 e gli Omega 6 in compe-tizione per le stesse vie metaboliche.Fondamentale risulta comunque la correlazione inversa tra consumo di abbondanti quantità di pesce o inte-grazione della dieta con acidi Omega 3 e mortalità e morbilità per malat-tie cardiocircolatorie. Oltre all’effetto antinfiammatorio e antiaggregante (ottenuto dalla modulazione degli Omega 3 sulla sintesi di prostanoidi e leucotrieni) sono da segnalare la riduzione della pressione arteriosa, l’azione sui fattori di proliferazione cellulare e l’effetto ipotrigliceride-mizzante indotti proprio dagli acidi grassi poliinsaturi, come anche l’im-portante effetto antiaritmico eserci-

tato sui canali ionici del sodio e del calcio delle membrane cellulari con un aumento della negatività del po-tenziale elettrico di membrana e un aumentato periodo refrattario relati-vo dei cardiomiociti. Le risultanze del Gissi-Prevenzione che ha dimostra-to come una terapia cronica (per3,5 anni) con 1 grammo al giorno di n-3 PUFA migliora la prognosi dei pazien-ti con IMA recente (<3 mesi) con una riduzione del 21% della mortalità to-tale, del 30% di quella cardiovascola-re e del 44% della morte improvvisa, sottolineano l’importanza di adottare abitudini alimentari corrette che ve-dano aumentare il consumo di frut-ta, verdura, olio di oliva e pesce. In particolare alcuni composti fenolici presenti nei vegetali come l’acido caffeico, vanillico o come i flavonoli (quercetina e kaempferolo) e ancora caroteneoidi come licopene e luteina presenti in pomodoro, peperone, car-ciofo e in altre verdure e frutti - specie in quelli molto colorati - come anche in erbe aromatiche come il rosma-rino, l’origano, la salvia, la curcuma risultano possedere una importante e documentata azione antiossidante in grado di proteggere il nostro or-ganismo dalla lipoperossidazione di membrana. Una integrazione alimen-tare con estratti derivati dalla soia o dal riso rosso fermentato (grazie alla monacolina, una statina naturale) ha dimostrato possedere una efficacia nella riduzione della colesterolemia totale come anche nell’incremento del HDL colesterolo che raggiunge la significatività statistica. A tutto questo si aggiunga l’impor-tanza della fibra e dei carboidrati complessi, propri della dieta mediter-ranea, nell’azione di armonizzazione dell’assorbimento dei nutrienti e di modulazione della glicemia, conte-nendo i picchi glicemici e contrastan-do l’iperinsulinismo.

Intervista a cura di Cinzia Mortolini

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Sal

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L a lombosciatalgia è un ‘affezio-ne che si riscontra sempre più di frequente sia nei giovani che

negli anziani. È, di sovente, più che un vero e proprio processo degene-rativo, il risultato di un difetto postu-rale. Sarà preferibile apprestare una definizione stringata della postura. Essa è costituita dall’atteggiamento, sia nella statica che nella dinamica, che il nostro corpo assume per vin-cere la forza di gravità. Tale atteggia-mento deve essere il meno faticoso possibile, e dev’essere armonioso. Infatti, se da un lato del corpo si crea una tensione, essa deve essere bilan-ciata da un rilasciamento nella zona del corpo controlaterale. Non si de-vono creare, ciòè, degli squilibri do-lorosi. La postura può essere anche un pochino faticosa, ma soltanto se è a scopo terapeutico, nel caso in cui vi fossero degli squilibri preesistenti, a livello muscolare oppure articola-re. In tal caso, la Medicina Manuale sceglierà delle posture che il paziente deve mantenere per diversi minuti, ed anche con una certa fatica. Un ter-mine che oggi (autunno 2010) è as-sai frequente è la sigla LBP (Low Back Pain). Le lombalgie si distinguono dalle lombosciatalgie a seconda che venga interessato o meno il nervo sciatico. L’emergenza di questo ner-vo è più o meno all’altezza. Dell’osso sacro, e poi decorre lungo l’arto in-feriore come una lunga corda. Ecco come mai un dolore di origine radi-colare, in cui cioè sia infiammata la zona del nervo che si trova in corri-spondenza della sua uscita dal midol-lo spinale, nel caso dello sciatico crea un’irradiazione dolorosa che va avan-ti lungo l’arto inferiore per un tratto

LOMBOSCIATALGIE PROSPETTIVE DELLA MEDICINA MANUALE

più o meno lungo, corrispondente al decorso di questo nervo. Una delle posture comunemente usate per la cura della LBP sembra corrisponde-re alle teorie scientifiche di Francoise Mezieres, che da studiosa di anato-mia e fisiologia muscolare elaborò dei concetti i quali, nella prima metà dell’appena passato ventesimo seco-lo, sembrarono piuttosto rivoluzio-nari. In seguito, le sue teorie vennero relegate piuttosto ai margini della Comunistà Scientifica, che diede po-chissimo peso al suo sistema teorico. Ci sentiamo di ricordare che, per si-tuazioni come quella affrontata dalla Mezieres, e di cui infra accenneremo, il professionista è sempre il medico ortopedico, eventualmente assisti-to dal nutrizionista, dall‘osteopata e dal fisioterapista. Tutto ciò premesso, sarà quindi meglio presentare il me-todo Mezieres, senza tuttavia ignora-re i punti deboli, quali sembrano es-sersi palesati alla luce delle attuali co-gnizioni mediche, che hanno rilevato una maggior complessità nel sistema

muscolare, rispetto a quanto ritenu-to dalla studiosa franco-vietnamita. Il metodo Mezieres deriva dall’os-servazione fondamentale di Francoi-se Mezieres del 1947. In una mattina di quell’anno, arrivò nello studio di questa brillante fisioterapista una donna che presentava una spiccata cifosi dorsale. Come è noto, la cifosi è una curva della colonna vertebrale la cui convessità si è orientata poste-riormente e la cui concavità è rivolta anteriormente rispetto al nostro cor-po. Inoltre, questa paziente aveva le spalle fortemente curvate in avanti, cosicché la testa sembrava letteral-mente incassata tra le spalle. I medici che in precedenza avevano avuto in cura questa donna, avevano cercato di limitare questo spostamento delle spalle in direzione anteriore, che mo-dificava in modo grave anche la curva normale della cervicale della pazien-te. Essi avevano, insomma, cercato di provvedere con un corsetto di metal-lo e di cuoio. Purtroppo questo cor-setto, troppo strettamente aderente

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alla cute della paziente, aveva anche creato alcune escoriazioni e piaghe. Francoise Mezieres provò prima a far mettere seduta su un tappetino la sua paziente, con le gambe distese in avanti e gli alluci che quasi si toccava-no. In questa posizione, mettendosi dietro alla paziente, la Mezieres ese-guì alcune manovre manuali per cer-care di rivolgere le spalle della pazien-te in direzione posteriore anziché an-teriore. Ma non ottenne alcun risulta-to. Allora fece distendere la paziente sopra il tappetino in modo completo, del tutto supina. In tal modo, cercò di esercitare le stesse manovre di fi-sioterapia per cercare di abbassare le spalle verso il basso, o quantomeno di ridurre la loro eccessiva curvatura verso l’alto. Sorprendentemente, si poté constatare che si era creata una lordosi (curva a concavità posterio-re, e convessità anteriore) lombare accentuatissima. La Mezieres non si perse d’animo e, per correggere sul nascere questa eccessiva lordosi lom-bare, divaricò le gambe della pazien-te e, mettendosi al di sotto delle gi-nocchia con l’apertura delle sue brac-cia, portò le gambe della paziente alquanto verso l’alto ma in direzione dell’addome della paziente medesi-ma. E qui si verificò la seconda sor-presa, poiché pur essendosi corretta la lordosi lombare, si ingenerò nella paziente una lordosi cervicale, anche se di grado tollerabile. A questo pun-

to la Mezieres dimise la paziente, e la fece tornare altre volte per corregge-re gradatamente la lordosi cervicale, operazione che venne felicemente compiuta in diverse sedute distanzia-te nel tempo. Questi due fenomeni, riscontrati in quella memorabile mat-tina del 1947, costituirono l’osserva-zione fondamentale della Mezieres. La studiosa ne dedusse che la mu-scolatura del corpo umano avrebbe potuto classificarsi in quattro catene fondamentali: la catena muscolare posteriore, la catena antero-inferiore, la catena muscolare inspiratoria e la catena muscolare anteriore dell’arto superiore. Secondo tale orientamen-to, se la catena posteriore diventa troppo dura e rigida, in quanto non sufficientemente esercitata, perde la sua elasticità. Diventando una sorta di elastico troppo duro, essa riesce ad avere la meglio sulle tre catene ante-riori, e quindi tira in modo eccessi-vo le normali curve fisiologiche della colonna vertebrale, che sono quattro curve. Infatti abbiamo la lordosi cer-vicale, la cifosi dorsale, la lordosi lom-bare e la cifosi sacrale. Come risulta-to di questo tiraggio eccessivo, nella paziente della Mezieres si era creata un eccessiva cifosi dorsale. Da questa osservazione la Mezieres ne dedusse che il danno poteva essere rimediato rinforzando le tre catene muscola-ri anteriori, quelle cioè costituite dai muscoli che partono dalla zona del

piede e risalgono fino al ginocchio ed alla coscia, proseguendo verso l’alto ed includendo il muscolo lunghissi-mo del capo e del collo, i muscoli col-legati al diaframma, nonché i muscoli della catena lunga del braccio, come il coraco-brachiale, il brachiale ed il brachio-radiale. Tutti questi musco-li delle tre catene anteriori, secondo le ipotesi della Mezieres, si muove-rebbero, all’occorrenza, a guisa di un unico lungo elastico con numerose interconnessioni che formerebbe-ro però quando necessario un tutto unico. Una sorta di unità muscolare globale. Così, nei mesi successivi, la Mezieres cercò di ridare potenza alle tre catene muscolari anteriori della paziente, ed elasticità alla catena mu-scolare posteriore troppo rigida. La “postura a ballerina“, di cui offriamo uno schizzo alquanto rudimentale ma preciso e conciso, attualmente vie-ne assai frequentemente usata dalla Medicina Manuale, e sembrerebbe imitare quelle che erano le posizio-ni a squadra così tipiche del metodo Mezieres. Tale postura serve a curare le lombosciatalgie, e deve essere se-guita da un Medico Manuale a cagio-ne della sua complessità. La paziente, affetta da lombosciatalgia, viene po-sta con i piedi sopra un rialzo lieve-mente inclinato, in genere di legno. Questo rialzo tiene le dita dei piedi ad un’altezza lievemente superiore di quella del calcagno, e le gambe della paziente si toccano, e la stessa cosa vale per le ginocchia. L’addome del-la paziente viene fatto gradualmente piegare in avanti dal medico manua-le, che controlla con le sue braccia che non sorgano eccessive tensioni o sensazioni dolorose nella paziente, né a livello lombare né a livello del-la cervicale bassa. La posizione della paziente deve essere il più possibile a squadra e deve essere mantenuta per un paio di minuti.

Dottor Marco Nicoletti Dermatologo Tor Vergata

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Sessanta signore di età compresa tra i 60 e gli 85 anni selezionate per l’applicazione clinica del cosiddetto “iper-modello”, un

modello del corpo umano personalizzato per ogni paziente e in grado di simulare le interazioni tra gli “eventi fisiologici” a partire dalla macrostrut-tura del corpo umano fino al livello molecolare. Questo passaggio segna l’avvio del terzo anno di attività del progetto europeo dell’Uomo Fisio-logico Virtuale Ostoporotico (VPHOP), coordi-nato dall’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna. “L’approccio che con i nostri 19 partner europei utilizziamo verso l’osteoporosi – spiega il Re-sponsabile Tecnico Scientifico del Laboratorio di Tecnologia Medica del Rizzoli e coordinatore di VPHOP Marco Viceconti – apre la strada alla medicina ‘personalizzata’. Tutte le informazioni sul paziente vengono inserite in un unico mo-dello computerizzato, in grado di predire il ri-schio di frattura con accuratezza elevatissima. Ma non solo: il modello deve riuscire a predire anche gli effetti che le diverse opzioni di tratta-mento avranno sul paziente, consentendo così al medico di scegliere la cura che ha un miglio-

Osteoporosile pazienti “entrano” nel progetto europeo VPHOP coordinato dall’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna

re effetto nel caso specifico. VPHOP sviluppa le tecnologie che stanno alla base di questo iper-modello e ora cerca di stabilire, attraverso il coinvolgimento dei pazienti, le migliori moda-lità per la sua applicazione nel contesto clinico.” Alle pazienti selezionate – in base ad alcuni criteri clinici tra le 6.000 che ogni anno si sot-topongono a una visita all’Ambulatorio di Den-sitometria Ossea del Rizzoli – vengono fatti al-cuni esami e test, tra cui un test neuromotorio che consiste nell’indossare per una settimana Actibelt, una speciale cintura sviluppata nei due anni di ricerca del progetto VPHOP che registra tutti i movimenti della paziente nel corso della sua normale attività quotidiana. Poi per un anno continua l’osservazione: controllo della storia clinica successiva e presenza di ulteriori fratture, con l’ausilio di un “diario delle cadute” che viene tenuto da ogni paziente. L’intero protocollo è stato approvato dal Comitato Etico del Rizzoli. Le “predizioni” sul rischio di frattura ver-ranno eseguite anche grazie a un super-computer, tra i più potenti attualmente esi-stenti in Italia, equivalente a 2.500 personal computer, messo a disposizione di VPHOP dal centro di supercalcolo italiano CINECA. I risultati della sperimentazione andranno poi a unirsi a quelli ottenuti dagli altri centri clinici impegnati nel progetto, l’Università di Ginevra, l’Università Medica di Berlino e l’Istituto Nazio-nale della Sanità e Ricerca Medicale in Francia.

Sara NanniComunicazione e Relazioni con i Media

Istituto Ortopedico Rizzoli di [email protected]

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Distrofia il Rizzoli di Bologna partner dello studio Telethon pubblicato su Nature Medicine

V edere fisicamente che i mitocondri “si sal-vano” è un passaggio fondamentale dello studio che la rivista scientifica Nature Me-

dicine pubblica a firma del gruppo di ricercatori Telethon di cui fa parte il prof. Nadir M. Maraldi, direttore del Laboratorio di Microbiologia Cellu-lare del Rizzoli di Bologna. Coinvolto nello stu-dio dall’avvio, cinque anni fa, il Laboratorio ha in quest’ultima fase messo in campo i metodi “ultra-strutturali” che consentono di vedere ciò che ac-cade dentro le cellule muscolari malate: “Non era sufficiente basarsi sugli ‘indizi’ raccolti con i colle-ghi di Padova sull’autofagia, il processo fisiologico che rimuove dalle cellule le porzioni danneggia-te, individuato dallo studio per intervenire sulla distrofia muscolare di Ullrich e sulla miopatia di Bethlem – spiega Maraldi. – Grazie ai microscopi elettronici del nostro Laboratorio e alla specializ-zazione nel campo ultramicroscopico dei nostri ri-cercatori, abbiamo potuto vedere come i mitocon-dri, le ‘centrali energetiche’ delle cellule che risul-tano compromesse in presenza di queste malattie, vengano rimossi tramite questo meccanismo, con un conseguente miglioramento significativo del-la salute dei muscoli. Questo avviene grazie al trattamento farmacologico messo a punto nello

studio oppure, abbiamo osservato anche questo nell’ambito del lavoro in pubblicazione su Nature, a una dieta povera di proteine. Abbiamo visto che entrambi gli interventi sono in grado di attivare nelle cellule l’autofagia, eliminando così i mitocon-dri che altrimenti determinano la morte cellulare.”Lo studio è stato condotto anche su cellule prele-vate dai pazienti, individuati dal Rizzoli, che ha pe-raltro identificato il danno ai mitocondri alla base del lavoro finanziato da Telethon: “L’alterazione dei mitocondri che determina queste malattie genetiche muscolari – conclude Maraldi – è stata scoperta nel 2003 da Patrizia Sabatelli, ricercatrice CNR del nostro Laboratorio.” L’articolo su Nature Medicine è realizzato da un gruppo di ricercatori Telethon coordinati da Paolo Bonaldo dell’Univer-sità di Padova, Marco Sandri dell’Istituto veneto di medicina molecolare, Nadir M. Maraldi dell’Istitu-to Ortopedico Rizzoli di Bologna, Luciano Merlini dell’Università di Ferrara.

Sara NanniComunicazione e Relazioni con i Media

Istituto Ortopedico Rizzoli di [email protected]

2proPSAIl nuovo nome della diagnosi precoce del carcinoma prostatico

Presentato all’83° congresso della Società italiana di urologia un nuovo marcatore del cancro alla pro-stata

I l Dipartimento di Urologia dell’Istituto Scien-tifico Universitario San Raffaele e Laboraf Diagnostica e Ricerca San Raffaele sono i pro-

tagonisti di uno studio, coordinato dal Professor Giorgio Guazzoni, che ha dimostrato l’efficacia

significativamente maggiore, rispetto ai marcatori per il carcinoma prostatico sino ad oggi disponibi-li, del nuovo -2proPSA (Beckman Coulter p2PSA) e dei suoi derivati %p2PSA e phi (Prostate Health In-dex: indice di salute prostatica). Questo studio, che definisce un cambiamento radicale nell’approccio diagnostico e terapeutico a questa patologia è stato presentato nell’ambito del 83° Congresso della Società Italiana di Urologia: ha coinvolto cir-

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ca 700 pazienti con sospetto tumore alla prostata o diagnosi accertata e ha confermato che la mole-cola -2proPSA, insieme ai suoi due valori derivati, rappresenta un marcatore più accurato rispetto a PSA totale e PSA libero nell’identificazione del cancro alla prostata. Su circa 300 pazienti sottopo-sti a biopsia prostatica con un valore di PSA totale compreso tra 2,5 e 10 ng/ml e valutati per -2proP-SA, %p2PSA e phi è preliminarmente emerso che:- i valori di p2PSA, %p2PSA e phi sono significati-vamente più elevati nel sangue di pazienti affetti da carcinoma prostatico;- nei pazienti con PSA totale sospetto, esplorazio-ne rettale non sospetta ed età superiore a 50 anni, la %p2PSA ed il phi sono significativamente più precisi del PSA totale e del PSA libero nell’identifi-cazione dei pazienti realmente affetti da neoplasia prostatica o a rischio di svilupparla;- p2PSA, %p2PSA e phi sembrano correlare con l’aggressività della neoplasia.Il -2proPSA è dunque in grado di garantire non solo una più accurata identificazione del tumo-re prostatico, ma anche una migliore definizione dell’indice di aggressività dello stesso. La possibi-lità di identificare con maggiore precisione quelleforme neoplastiche che diventeranno clinicamen-

te significative potrebbe quindi consentire, oltre alla diagnosi precoce, una maggiore personaliz-zazione del percorso clinico a seconda delle ca-ratteristiche del singolo paziente, evitando i pro-blemi di “sovra-diagnosi” di tumori clinicamente non significativi e spesso candidati ad un “sovra-trattamento”. La disponibilità di un marcatore più accurato consentirà altresì di limitare il numero di biopsie inutili in quanto negative – circa il 60-70 % di tutte le biopsie oggi eseguite. Il carcinoma pro-statico è il tumore maligno non cutaneo più diffu-so tra la popolazione maschile: 1 soggetto su 11 nella fascia di età compresa fra 40 e 70 anni (circa 14 milioni di soggetti nel nostro Paese) potrebbe ricevere questa diagnosi, che purtroppo ancora oggi è responsabile in Italia di circa 7.500 decessi all’ anno. Ogni anno, in Italia, vengono diagnosti-cati 43.000 nuovi casi di cancro alla prostata, che rappresentano il 35% circa dei pazienti sottoposti a biopsia (per un sospetto alla visita o all’ecografia della prostata o più frequentemente per un valorealterato del PSA). Il 65% dei pazienti che subisce il peso psicologico, economico e delle complican-ze legate alla manovra invasiva della biopsia (circa 80.000) ha però un risultato negativo: i ricercatori del San Raffaele hanno stimato di poter ridurre di

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circa il 30% il numero di pazienti sottoposti inutil-mente a biopsia grazie all’ impiego estensivo del p2PSA, %p2PSA e phi. Il trasferimento di queste conoscenze nella pratica clinica quotidiana po-trà consentire di ridurre considerevolmente oltre al numero delle biopsie prostatiche inutili, anche quello dei trattamenti non necessari e la frequen-za dei controlli, con chiari vantaggi sia per la quali-tà della vita del paziente sia per la spesa pubblica.

La valutazione del p2PSA, %p2PSA e del phi è già disponibile presso Laboraf Diagnostica e Ricerca San Raffaele – lo storico servizio di medicina dilaboratorio dell’Ospedale San Raffaele – con la sigla «phiproPSA» e si esegue tramite un singolo prelievo di sangue.

Istituto Scientifico Universitario San RaffaeleUfficio stampa - [email protected]

S ono stati identificati per la prima volta alcu-ni marcatori in cellule del sangue che per-metteranno di riconoscere i soggetti che

potrebbero avere un esordio precoce della malat-tia di Parkinson. Insomma diagnosticare in antici-po la patologia. Questa scoperta è stata pubblica-ta sulla rivista scientifica Proteomics ed è frutto di una ricerca traslazionale condotta da un gruppo di neurologi e biochimici, coordinati dal professor Leonardo Lopiano (Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino dell’ospedale Molinette) in collaborazione con il professor Mauro Fasano (Centro di Neuroscienze dell’Università dell’Insu-bria a Varese – Busto Arsizio). La particolarità è che la ricerca è stata finanziata dall’AAPP (Associazio-ne Amici Parkinson Piemonte onlus). Attraverso un approccio di proteomica, la scienza che studia le modificazioni dell’espressione delle proteine, è stato possibile identificare un insieme di marcatori che potranno permettere di distinguere pazienti affetti da malattia di Parkinson da individui non af-fetti, o affetti da altre malattie neurodegenerative. I risultati sono molto promettenti ed hanno porta-to negli ultimi mesi ad intraprendere un progetto mirato a riconoscere soggetti che potrebbero ave-re un esordio precoce della malattia. Il carattere innovativo di questo approccio sta nel cercare i marker nei linfociti, le cellule del sistema immuni-tario nel sangue. Queste cellule condividono alcu-

ParkinsonIdentificati per la prima volta i marcatori che permetteranno con un semplice prelievo di sangue di diagnosticare precocemente la malattia di Parkinson

ne caratteristiche peculiari con i neuroni che sono soggetti a degenerazione nella malattia di Parkin-son e potrebbero riflettere a livello periferico al-cune delle alterazioni biochimiche caratteristiche della malattia. A cosa servono i marker precoci? Al momento la malattia si manifesta quando la de-generazione non permette più terapie in grado di rallentare la progressione, ma solo di contrastare i sintomi. Se si potesse arrivare prima alla diagno-si, quando ancora i sintomi classici non si sono ancora manifestati, si potrebbero provare diversi farmaci che si ritiene possano avere una azione protettiva in grado di modificare il decorso croni-co – progressivo della malattia, ma che non hanno più efficacia se la diagnosi è tardiva. La Malattia di Parkinson è una patologia neuro-logica cronico – progressiva dei disturbi del mo-vimento (movimenti involontari eccessivi, blocchi motori improvvisi, tremore, rigidità) e in alcuni casi dei disturbi della parola (difficoltà di esprimersi in modo chiaro) e psichici (depressione, allucina-zioni). Nei casi più complessi può portare a gravi forme di disabilità e disautonomia dei malati, in-cidendo sulla qualità della loro vita e di quella dei familiari che li assistono. In Italia i malati di Par-kinson sono stimati in oltre 220.000. Si valuta che in Piemonte siano 12/14000 e nella provincia di Torino 6000, ma in realtà non si conoscono il loro numero e la loro localizzazione precisi. Si sa solo

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che i parkinsoniani tendono ad aumentare con il progressivo invecchiamento della popolazione. Questa scoperta presentata in anteprima sabato 30 ottobre 2010 dalle ore 9 alle ore 13, presso il Centro Incontri della Regione Piemonte (corso Stati Uniti, 23 - Torino), durante il Convegno an-nuale sulla malattia di Parkinson “La parola ai pa-zienti”, organizzato dalla Associazione Amici Par-kinsoniani Piemonte onlus e dall’Associazione Ita-liana Parkinsoniani in collaborazione con il Dipar-timento di Neuroscienze dell’Università di Torino

dell’ospedale Molinette. Nel corso della mattinata è stato inoltre presentato un progetto anch’esso sostenuto dall’Associazione AAPP: un censimen-to dei pazienti affetti da malattia di Parkinson del Piemonte in collaborazione con i Medici di Medi-cina Generale.

L’Addetto Stampa

Pierpaolo Berra

MiocardioAl San Raffaele nuovo centro per le malattie del miocardioIl professor Paolo Camici* dalla ricerca alla cura dei pazienti

R ientra in Italia, dopo una lunga carriera nel Regno Unito, il Professor Paolo Camìci, portando al San Raffaele la sua duplice

competenza di specialista in malattie cardiovasco-lari, i suoi studi sulla fisiopatologia del circolo co-ronarico e la sua attività di pioniere nello sviluppo e nell’utilizzo in cardiologia delle tecniche di ima-ging non invasivo con la tomografia ad emissione di positroni (PET). L’integrazione di queste diverse componenti, che hanno caratterizzato il suo la-voro di ricerca, trova ora, presso il Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare dell’IRCCS San Raffaele, il luogo in cui svilupparsi al servizio dei pazienti. Il nuovo Centro per le Malattie Primitive del Mio-cardio è uno spazio strutturato in cui il paziente con cardiomiopatie trova a sua disposizione pro-fessionalità diverse e coordinate tra loro in un mo-dello procedurale unico in Lombardia e in Italia. Genetisti, intensivisti, elettrofisiologi, cardiochi-rurghi, emodinamisti, neurologi, radiologi, pe-diatri lavorano insieme a strettissimo contatto, colmando una significativa mancanza di strutture di riferimento e modalità di trattamento specifi-che e adeguate per le cardiomiopatie, malattie erroneamente considerate rare, dato che per la sola forma ipertrofica si stimano in Italia almeno 100.000 pazienti, in gran parte non diagnosticati o

con diagnosi errate. Accedendo alla nuova strut-tura, il paziente trova, sia in regime di solvenza, sia tramite il Servizio Sanitario Nazionale, perso-nale infermieristico specificamente formato e una presa in carico multidisciplinare che nell’arco di

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una giornata definisce la sua anamnesi personale e familiare, lo sottopone a tutti gli esami diagno-stici del caso e ha con il paziente stesso e i suoi familiari un colloquio riassuntivo ed esplicativo. All’altissima preparazione scientifica dell’equipe del nuovo centro si aggiunge inoltre una dotazio-ne tecnologica straordinaria: una nuova PET-TAC, di cui esistono solo due esemplari in Europa, in grado di fornire prestazioni elevatissime specifi-camente per le applicazioni cardiache, e l’acces-so a un centro di risonanza magnetica nucleare, nel Dipartimento di Radiologia, con un gran-de expertise nella diagnostica cardiovascolare. Il Professor Paolo Camìci e i suoi collaborato-ri hanno già dimostrato, in un importante lavoro pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine (NEJM, 2003; 349), come in

* Paolo Camìci è Professore Ordinario di Cardiologia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Ma-lattie Cardiovascolari presso l’Università Vita-Salute San Raffaele. Rientra in Italia dopo un’esperienza trentennale nel Regno Unito presso l’Imperial College di Londra. La sua attività compendia la sua dupli-ce formazione di specialista delle malattie cardiovascolari e di specialista in medicina nucleare: è noto a livello internazionale per il suo lavoro pionieristico nello sviluppo e nell’applicazione delle tecniche di imaging tridimensionale in cardiologia. Al suo attivo oltre 300 pubblicazioni sulle più importanti riviste scientifiche internazionali e italiane. È membro della European Society of Cardiology, della American Heart Association e del Royal College of Physicians, è nell’editorial board di numerose riviste tra cui European Journal of Cardiology, European Heart Journal, Basic Research in Cardiology, Heart, Journal of Nuclear Medicine.

presenza di cardiomiopatia ipertrofica – patolo-gia di cui inizialmente si occuperà il nuovo cen-tro – la presenza e la gravità della disfunzione del microcircolo coronarico (valutabile con la PET) sia un fattore indipendente che permette di identi-ficare i pazienti a più alto rischio di eventi gravi. Riconoscere le alterazioni iniziali del microcircolo coronarico prima dell’insorgenza di sintomi severi, potrebbe permettere di sperimentare nuovi trat-tamenti specifici al fine di prevenire la progressio-ne della malattia.

Centro per le malattie primitive del [email protected]

Istituto Scientifico Universitario San RaffaeleUfficio stampa: [email protected]

Chirurgia Plasticainnovazione italiana nella tecnica della mastoplastica additiva

S u Advances in Medicine and Biology pub-blicati i vantaggi delle protesi anatomiche di ultima generazione, impiantate in Italia

da Egidio Riggio, specialista dell’Istituto Nazionale Tumori, protesi anatomiche di ultima generazione realizzate in un gel polimerico di silicone a memo-ria di forma e capaci, se applicate correttamente, di garantire a ogni donna un seno naturale e in perfetta armonia con il proprio corpo.A questa ultima innovazione nella mastoplastica

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additiva, pubblicata a livello internazionale e uti-lizzata con successo in Italia da Egidio Riggio, spe-cialista in chirurgia plastica, ricostruttiva ed este-tica, e microchirurgia presso l’Istituto Nazionale Tumori di Milano, sarà dedicato un intero capito-lo della prestigiosa pubblicazione internazionale Advances in Medicine and Biology, dal titolo “Ex-tra-Project Dual Cohesive Silicone Gel Anatomical Implants: Innovation for Breast Augmentation”.Negli ultimi anni le protesi in silicone hanno subito una grande evoluzione, e le tecniche di impianto sono diventate sempre più sicure ed efficaci. “Le più recenti protesi anatomiche – commenta Rig-gio - sono realizzate in un gel polimerico di sili-cone a memoria di forma, che riduce le pieghe e le ondulazioni antiestetiche della contrattura cap-sulare inferiore”. Le protesi anatomiche di ultima generazione “Natrelle 510”, studiate in America e introdotte in Italia da Riggio – fra i primi chirurghi a utilizzarle -, a differenza delle protesi classiche consentono di ottenere un risultato più naturale e una più corretta distribuzione del volume, soprat-tutto per mammelle di grandi dimensioni. “Grazie al doppio gel in silicone e il “soft cohesive” gel po-steriore – illustra Riggio – il seno appare meno finto, riducendo l’effetto del seno ‘alto e sotto il collo’ delle precedenti protesi.” L’high-coesive gel, anteriore ed inferiore, rende inoltre soffice la consistenza delle protesi sui bordi, in modo che si notino meno mentre danno turgore alla parte in-

feriore del seno proiettando il più possibile la zona dell’areola e del capezzolo. La superficie posterio-re concava sul piano longitudinale permette infine alla protesi di adattarsi naturalmente alla curva-tura del torace della donna. Determinanti, natu-ralmente, la preparazione e l’abilità del chirurgo: “per un buon risultato – avverte Riggio, autore di 55 interventi con le nuove protesi americane, do-cumentati nella pubblicazione – è necessaria una selezione corretta delle pazienti e una valutazione pre-operatoria millimetrica, la più accurata possi-bile, eseguita sul torace e il seno della donna, per ottenere un effetto finale naturale e in armonia con la corporatura”. Le stime più recenti della So-cietà Italiana di Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica (Sicpre) riportano più di 80mila interventi chirurgici l’anno per l’impianto di protesi al seno. Più della metà degli interventi, per la precisione il 70%, presenta motivazioni estetiche, il rimanente 30% è effettuato per motivi ricostruttivi a segui-to di tumori mammari. Questi ultimi riguardano soprattutto donne in età più avanzata, mentre gli interventi di tipo estetico si concentrano su donne di fascia d’età compresa tra 18-25 e tra quelle tra i 35 e 45 anni.

Klaus Davi & Co.Paolo Steila - [email protected]

Alessandro Bono – [email protected]

S coperto un esercito di cellule staminali che dal midollo osseo si mette in marcia nel sangue per andare riparare il fegato, quan-

do l’organo è compromesso seriamente da malat-tie e/o quando una parte di tessuto epatico viene asportata chirurgicamente per rimuovere tumori o altre lesioni. Queste cellule staminali aiutano l’or-gano a rigenerarsi quando da solo non ce la fa più a sostenere, usando le proprie cellule staminali interne, il processo autorigenerativo.

StaminaliUn esercito in marcia per salvare il fegato malato

La scoperta di queste staminali che si mettono in viaggio per andare a porre rimedio in caso di “guai seri” si deve a un recente studio dell’équipe del professor Antonio Gasbarrini, docente di Medicina Interna all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Dirigente Medico presso l’Unità Operativa di Me-dicina Interna e Gastroenterologia del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma, pubbli-cato sulla rivista “Digestive and Liver Disease”, ed effettuato in collaborazione con i docenti Genna-

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ro Nuzzo e Felice Giuliante dell’Unità operativa di Chirurgia generale ed Epato-Biliare del Gemelli.“La scoperta è importante”, ha affermato il profes-sor Gasbarrini, “perché indica la via verso nuove terapie per stimolare il processo naturale di ripa-razione del fegato assistito dalle cellule staminali del midollo osseo: attraverso fattori di crescita, per esempio, si potrebbe intensificare il lavoro delle staminali del midollo e quindi ottenere la ri-parazione di un fegato molto compromesso che da solo non ce la fa a ricrescere”. “In questo modo si potrà trattare con resezione chirurgica del fegato un maggior numero di pa-zienti, anche molti di quelli oggi ritenuti inopera-bili perché hanno un tessuto epatico troppo com-promesso”, hanno spiegato le ricercatrici Maria Assunta Zocco e Annachiara Piscaglia dell’Istituto di Patologia Medica dell’Università Cattolica che hanno condotto la ricerca.Il fegato ha una sua riserva interna di cellule sta-minali capaci di rigenerarlo, ha spiegato il profes-sor Gasbarrini, “ma questo processo rigenerativo è possibile solo quando il tessuto epatico è sano o quantomeno non eccessivamente compromesso da malattie come cirrosi o cancro. Quindi, prima di compiere una resezione epatica su un paziente

per rimuovere la parte di fegato lesionata, bisogna valutare costi e benefici dell’intervento, in quan-to se la porzione di tessuto da rimuovere è molto estesa, il rischio è che, dopo l’intervento, il fegato del paziente non riuscirà ad autoripararsi. In que-sti casi il paziente è considerato inoperabile ed è inserito nella lista d’attesa trapianti”.Ma adesso i ricercatori dell’Università Cattolica di Roma hanno scoperto un “meccanismo di sal-vataggio” basato su un canale di comunicazione esistente tra il fegato e il midollo osseo, che è la fucina delle cellule staminali del sangue. In pratica il fegato riceve una riserva di cellule staminali dal midollo osseo che lo aiutano a ripararsi quando non può più attingere alle proprie staminali.Per arrivare a questa scoperta “abbiamo arruola-to 29 pazienti che avevano subito una rimozione di parte del fegato per diversi motivi (tumori del fegato o delle vie biliari, metastasi, angiomi), in-terventi effettuati dalle equipe dei professori Nuz-zo e Giuliante – ha spiegato la dottoressa Zocco -. Abbiamo inizialmente suddiviso i pazienti in due gruppi sulla base del volume di fegato residuo dopo l’intervento (volume intorno al 40%; di so-lito il volume residuo minimo per garantire l’au-toriparazione del fegato attraverso la sua riserva endogena di cellule è il 60% dell’organo), poi ul-teriormente suddivisi sulla base della presenza o meno di una malattia cronica di fegato (epatite o cirrosi). Abbiamo coinvolto inoltre come gruppo di controllo dei pazienti operati per asportare la colecisti”. I ricercatori hanno eseguito su tutti i pazienti ripe-tuti prelievi di sangue, il giorno prima dell’inter-vento e poi dopo uno, tre, cinque, sette e 14 gior-ni dall’intervento. Gli esperti hanno misurato in questi campioni la percentuale di cellule staminali presenti nel sangue dei diversi gruppi di pazienti e hanno isolato le cellule staminali per valutare in quante di queste cellule fossero accesi i geni tipici delle cellule del fegato.“Abbiamo visto che nel sangue dei pazienti che si sottopongono a rimozione di parte del fega-to la percentuale di cellule staminali cresce nei giorni successivi all’intervento – ha spiegato la dottoressa Zocco - e che questo incremento è maggiore nei pazienti cui viene tolto più del 40% del fegato rispetto a quelli che ne tolgono

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meno. Inoltre la presenza di una malattia cro-nica del fegato determina un ulteriore aumento della percentuale di cellule staminali circolanti”. È emerso inoltre, cosa ancora più importante, che le cellule staminali isolate dal sangue di questi pa-zienti hanno la carta d’identità genetica distintiva delle cellule del fegato (ovvero hanno attivi i geni espressi solo in queste cellule), dimostrando così un loro possibile ruolo nel processo di rigenera-zione epatica. Quindi, quando il fegato non ce la fa più a ripararsi con le sue sole forze, entrano in gioco le cellule staminali del midollo osseo, ma solo in caso di danno molto esteso. Soprattutto quando la capacità rigenerativa locale è ridotta dalla presenza di una malattia cronica del fegato; per cui “questa migrazione di cellule dal midol-lo al fegato ha un peso soprattutto nei pazienti con epatite cronica o cirrosi”, ha spiegato Zocco. Nei pazienti con malattia cronica, le cellule stami-nali residenti nel fegato sono continuamente solle-citate a moltiplicarsi per ristabilire la massa epatica funzionante e il loro potenziale rigenerativo è no-tevolmente ridotto da questo superlavoro. “In caso

di ulteriore danno epatico non riescono quindi a far fronte alla nuova situazione di emer-genza”, ha sottolineato Zocco. Alla luce di ciò, grazie alla sco-perta dei ricercatori dell’U-niversità Cattolica, le cellule staminali circolanti nel san-gue, opportunamente solle-citate, potrebbero avere un ruolo importante a livello cli-nico per questi pazienti. “Nel nostro studio – ha aggiunto la dottoressa Zocco - abbia-mo anche dimostrato che la mobilizzazione delle cellule staminali è associata a un au-mento dei fattori di crescita circolanti nel sangue, cioè di quelle molecole che stimo-lano le cellule staminali a moltiplicarsi. Sicuramente la possibilità di modulare il pro-cesso di mobilizzazione delle cellule staminali del midollo e la loro migrazione nel fe-

gato attraverso la somministrazione di fattori di crescita potrebbe aprire interessanti prospettive terapeutiche. Innanzitutto potrebbe consenti-re un aumento del numero di pazienti candida-bili alla resezione epatica con approcci chirurgici potenzialmente più curativi e poi ridurre il nu-mero dei pazienti con insufficienza epatica ter-minale che necessitano di trapianto di fegato”. “In futuro – ha concluso il professor Gasbarrini – potenziando la capacità endogena del midollo di spedire ‘cellule riparative’ al fegato, per esempio attraverso l’iniezione di fattori di crescita, si po-trebbero guarire chirurgicamente pazienti oggi considerati inoperabili e quindi un minore numero di malati avrà bisogno del trapianto”.

Ufficio Stampa Roma- [email protected]. Nicola Cerbinoresponsabile Ufficio stampaUniversità Cattolica sede di Romae Policlinico universitario “Agostino Gemelli”www.rm.unicatt.it - www.policlinicogemelli.it

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Sal

ute

O gni cosa che presenta de-gli aspetti positivi, fornisce purtroppo degli inconve-

nienti e degli svantaggi. È giusto che ogni cittadino sia informato su quello che mangia, su quello che applica sul suo volto, se quel cosmetico o quel prodotto di bellezza presenta anche degli effetti collaterali. Conoscere bene anche il burro di karité vuol dire, farne un uso moderato e consapevo-le. È doveroso precisare che il burro di karité è un valido anti-aging. Prima però vediamo l’altra faccia di questa medaglia. Questo burro aumenta il livello di incoagulabilità del sangue. Un tale fatto è da non trascurare. Precisiamo questo concetto. Se con-sultiamo un attimo le analisi comuni di un “paziente medio”, vediamo su-bito l’ INR. Questa sigla indicherebbe il livello di incoagulabilità del nostro sangue. Perché questo livello deve es-sere sorvegliato? Perchè se una don-na è portatrice di una valvola cardia-ca artificiale, oppure addirittura di un arco aortico artificiale, allora è giusto che tale livello raggiunga i valori tra 2 e 3. Sia infatti nell’ eventualità della valvola, che dell’ arco aortico, il grado di incoagulabilità del nostro sangue deve essere maggiore, per evitare

IL BURRO DI

KARITÈnelle sue sfumature

I benefici del burro di karité sono indubbiamente tanti. Tuttavia, sembra non esistere nulla in natura che faccia solamente bene

che il paziente (o la paziente) incorra nella dannosa eventualità di un em-bolo che improvvisamente vada ad ostruire la valvola mitrale (possibile doloroso esempio) oppure l’inizio di un arco aortico artificiale, nella sua classica forma a manico di ombrello che l’aorta assume all’ uscita dal cuo-re. Ma anche in queste eventualità, se il grado di incoagulabilità del nostro sangue sale sopra il valore di 3, ed arriva a 4 oppure 4,5, ebbene in tale caso il paziente diventa a rischio. Cor-re infatti il pericolo di sanguinamenti a livello interno. Siamo sconfinati nel pericolo opposto a quello preceden-te: cioè al rischio di emorragie interne. Se quindi la nostra ipotetica pazien-te, portatrice di una valvola cardiaca di natura industriale (impiantata in precedenza), il cui I.N.R. era tenuto accuratamente tra il valore di due e quello di tre, si spalmasse abbondan-temente del burro di karité sul corpo, potrebbe anche superare il valore di 4,5. Ricordiamo poi che il burro di karité può anche essere mangiato. E’ bene dunque che la donna (general-mente nel paese di origine del karité) che abbia eventualmente arricchito il suo pasto con tale alimento sappia cosa potrebbe verificarsi. Ovvero, sia

nel caso dell’assunzione diretta che nell’ipotesi dell’ applicazione topica (con il conseguente assorbimento percutaneo) si potrebbe verificare il rischio di emorragie interne. Non solo. Infatti il burro di karité può au-mentare il rischio, potenziandone gli effetti, di tutti i farmaci che potreb-bero causare un aumentato livello di sanguinamento a livello interno : tra questi mettiamo l’acido acetilsalici-lico, gli anticoagulanti come la war-farina oppure l’eparina, oppure i vari antiaggreganti piastrinici, come i de-rivati della ticlopidina. Ma è doveroso anche precisare che ci sono anche al-tri farmaci che aumentano il rischio di sanguinamenti, e quindi di eventuali emorragie interne. Tra questi ultimi non molte persone sanno che com-piono tale effetto anche alcuni antin-fiammatori non steroidei. Ma il nostro veloce volo di uccello sulle sostanze che aumentano il rischio di emorragie interne (ed il cui uso preclude o limita alquanto l’atto di spalmarsi del burro di karité) non è finito : ci sono anche i supplementi di alcune erbe o pian-te, come il Ginkgo biloba, oppure l’a-glio. Il Ginkgo biloba è comunemente usato per i disturbi di invecchiamen-to cerebrale e di calo della memo-

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ria. Sapendolo, la donna che abbia disturbi della memoria, applicherà sulla sua pelle il burro di karité, come prodotto di bellezza, con maggior prudenza e consapevolezza. E man-gerà anche minori quantità di que-sto burro, se in precedenza lo aveva posto nel novero dei suoi integratori, o se trovandosi in vacanza all’estero ha deciso di provare la gastronomia locale. Chi assume uno spicchio o (al massimo) due di aglio, per avere de-gli effetti benefici sull’assetto dei suoi trigliceridi, è bene che faccia un uso moderato e consapevole di burro di karité, perché sia l’ aglio che il bur-ro di karité aumentano il rischio di eventuali emorragie interne. Il burro di karité può dunque potenziare que-sto effetto dell’aglio. Vediamo ora, doverosamente, i lati positivi. Il burro di karité contiene un alto contenuto di sostanze insaponificabili (dal 12 al 18%). Sono proprio queste sostanze insaponificabili che intervengono nel processo fisiologico di produzione dei fibroblasti, cellule deputate alla formazione delle fibre collagene e dell’ elastina, le quali sono molto

importanti per mantenere la pelle giovane ed elastica. Siccome l’odore del burro di karité puro è un pochino sgradevole, emulsionatelo nel palmo della vostra mano, rendendolo mor-bido e cremoso (naturalmente tenen-do presente la carica batterica delle nostre mani). Poi miscelatevi degli oli essenziali di arancio dolce, oppure di limone. La dose non deve maggiore del 2%. In questa maniera sarà un prodotto più gradevole, e di semplice uso. Tra le caratteristiche positive del burro di karité, va segnalato che esso ha delle capacità decongestionanti sulle narici nasali, con intuitiva utilità nelle sindromi influenzali e nelle riniti allergiche e nei raffreddori da fieno. Tale potere decongestionante può essere paragonato a quello proprio della nafazolina, sostanza contenuta in famosi decongestionanti nasali. Il burro di karité ha quindi caratteri-stiche nei riguardi della cute umana riassumibili in:-aspetto maggiormente soffice e vel-lutato -migliore respirazione cellulare ri-scontrabile a livello dei mitocondri

delle cellule cutanee. Ma ciò che rende il burro di karité veramente unico, rispetto ad altri ri-trovati applicabili sull ‘epidermide umana, è l’effetto anti-aging. Moder-ni studi effettuati a livello di biologia molecolare hanno dimostrato che è proprio quel 18-20% di frazione in-saponificabile, che concorre alla sua composizione, ad essere responsa-bile degli stimoli benefici esercitati sul fibroblasto. Questo tipo di cellula risiede in genere nel derma e nell’i-poderma, e sotto gli stimoli della frazione insaponificabile del burro di karité viene incitato nella produ-zione in quantità maggiore di fibre-collagene e di fibre elastiche. Queste ultime sono caratteristiche di una cute giovane e quindi caratterizzata da una maggiore tonicità ed elasti-cità. Prolungare tali caratteristiche significa allungare la giovinezza del-la cute umana. Sotto l‘ effetto anti-aging troviamo quindi un uso del karité costante ma molto moderato, sia nei soggetti che hanno patologie a livello del sistema della coagulazio-ne, sia anche da parte di quei sog-getti che ne siano esenti. Al tempo stesso, e questo è un avvertimento che è giusto fornire a chi faccia uso di questo ritrovato cosmetico, chi faccia comunque uso di farmaci che noto-riamente modificano il valore della lipemia terrà presente che il burro di karité può modificare la lipemia post-prandiale. Quindi l’uso continuato ed eccessivo del burro di karité potreb-be potenziare in maniera indesidera-ta l’uso di farmaci prescritti per ab-bassare il colesterolo, in quanto il ka-ritè potrebbe modificare seriamente il livello di lipemia post-prandiale fino a livelli indesiderati. L’assorbimento a livello percutaneo può infatti anche portare ai predetti inconvenienti.

di Paolo Nicoletti

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Alcuni polisaccaridi sono estre-mamente promettenti per determinati usi industriali.

In natura questi biopolimeri possono contribuire alle proprietà meccaniche dei tessuti vegetali ed alla loro inte-grità strutturale, formando un reticolo tridimensionale. Tale reticolato è reso stabile da legami covalenti, e contiene una grossa quantità di acqua, esatta-mente come avviene per le pectine nelle piante terrestri e per i carragenani nelle piante acquatiche. I carragenani sono dunque di origine marina e ven-gono prodotti dalle alghe rosse (Rodo-ficee). Carragenani e pectine non sono gli unici polisaccaridi a presentare un impiego futuro nell’ industria cosme-tica. Infatti sono largamente impiegati per la formulazione di creme e lozio-ni anche gli scleroglicani e la gomma arabica. Queste creme e lozioni, in cui già attualmente vengono inclusi que-sti due polisaccaridi, sono sfruttati per apportare benefici cosmetici alla cute umana nella sua totalità, ma anche e soprattutto per mani e viso. Ma non dobbiamo trascurare anche alcune applicazioni farmaceutiche di questi utili polisaccaridi. Una caratte-ristica fondamentale per l’applicazione dei polisaccaridi nel settore farma-ceutico consiste nella possibilità che questi polimeri hanno di formare, se a contatto con ambienti acquosi, strut-ture tridimensionali stabili (Grassi M. “Diffusioni in matrici di idrogel poli-merici per sistemi farmaceutici a rila-scio controllato “-Tesi di dottorato, VIII Ciclo, Università di Padova, 1996). Tali strutture, con la loro stabilità, sono in grado di assorbire una notevole quan-tità di acqua. Infatti, a tal proposito

CARRAGENANIPOLISACCARIDI PROMETTENTI IN DERMATOLOGIA ED IN COSMESI

rammentiamo gli interessanti studi di Coviello T., di Grassi M., e di Lapasin R., pubblicati nella rivista “Biomaterials”, 24, 2789 – 2798, 2003. Questi autori hanno formulato interessanti osserva-zioni, tra l’altro, anche sui gel, perché queste strutture tridimensionali stabili costituiscono anche dei gel, con par-ticolare attenzione al gel di sclerogli-cano. Gli autori appena citati hanno osservato nei loro studi l’aumento di volume palesato da vari tipi di gel contenenti scleroglicani, reticolati con borace allo stato secco, e poi ri-

gonfiati con acqua. Si rammenta che le proprietà di questi zuccheri dipen-dono dalla forma del tutto particolare del loro reticolo a tre dimensioni, e che esso costituisce un sistema ideale per il lento rilascio di numerose sostanze far-macologiche e cosmetiche. Dopo aver fatto rigonfiare con acqua questi gel di scleroglicani, Coviello e Lapasin hanno osservato il considerevole incremento di volume realizzatosi nei gel mede-simi. Questi due autori hanno impie-gato nei loro esperimenti una tecnica del tutto particolare, denominata laser

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I carragenani, esattamente come la pectina, sono dei polisaccaridi che formano un complesso reticolo tridimensionale dotato di forti legami covalenti. Tale reticolo costituisce l’ideale per creare un sistema a lento rilascio di principi attivi

scanning confocal microscopy. Que-sta modernissima tecnica scannerizza i campioni microscopici da osserva-re con un fascio di luce laser. Tramite l’eccitazione creata dalla luce del laser, impiegando particolari markers, ossia i fluorocromi, si crea un particolare tipo di fluorescenza a livello microscopico la quale si rivela essenziale non solo nelle scienze biomediche, ma anche in biologia. Infatti, grazie alla laser scan-ning confocal microscopy è possibile identificare cellule e componenti cellu-lari submicroscopici con un alto grado di specifità, proprio grazie all’intensità di questo tipo di fluorescenza. Il ter-mine “confocal” è dovuto al fatto che il campione da osservare viene irrag-giato dalla sorgente di luce laser, e al di sopra del campione vengono posti almeno tre “piani focali” composti da particolare ottiche che si trovano però al di sotto del piano dell’obiettivo. Per spiegare come funziona questa mo-derna tecnica, è doveroso dire che la luce emessa dal laser attraversa pri-ma un minuscolo foro che è simile all’otturatore di una macchina fotografica, e la cui apertura può quindi variare. Questo fascio di luce si espande poi, dopo aver attraversato il foro co-stituito dal “light source pinhole” (stru-mento ottico con apertura variabile) e colpisce a questo punto uno specchio con opportuna inclinazione, il dicroma-tic mirror, che è uno specchio con due frequenze cromatiche. La frequenza di luce laser viene riflessa dallo specchio verso il basso, mentre la frequenza di emissione, che è caratteristica della fluorescenza del campione da osservare, è in grado di attraversare questo tipo di specchio, e quindi risale verso l’alto. In sintesi, la luce laser vie-ne riflessa verso il basso dallo specchio dicromatico, colpisce ed attraversa un potente obiettivo e raggiunge il cam-pione da osservare dopo aver attraver-sato le lenti dei piani focali, che sono

almeno tre. La tecnica di microscopia impiegata ha permesso ai tre autori citati di dimostrare che sia la pectina che i carragenani formano un reticolo tridimensionale assai complesso do-tato di forti legami covalenti. Questi polisaccaridi determinano il loro re-ticolo quando sono inclusi in creme e pomate. Il reticolo tridimensionale dei carragenani, in particolare, costi-tuisce l’ideale per creare un sistema a rilascio lento di principi attivi. Infatti esso cede i suoi principi attivi soltanto quando viene a contatto con un sol-vente esterno (acqua, soluzioni fisiolo-giche…). Ne consegue che una crema base in cui vengano inclusi dei carra-genani deve essere posta sulla cute dell’utente con l’accortezza che essa sia in precedenza lievemente inumidi-ta. Altrimenti i principi attivi, in questo caso i carragenani, potrebbero non essere rilasciati. Lo schema tridimen-sionale accluso evidenzia il fatto che nel reticolo a tre dimensioni formato dai carragenani rimane un nucleo in-

terno che non si espande. Ovviamente, si ottiene la formazione sia del reticolo che del nucleo interno quando i car-ragenani vengono inclusi in un topi-co, crema o pomata che sia. Il nucleo interno non solo non si espande, ma anzi si restringe una volta applicata la crema e tende a scomparire. Se infat-ti si mostrasse idealmente (sfruttando gli effetti di rendering di un computer) con delle frecce di colore scuro la di-rezione assunta dal nucleo, le frecce punterebbero verso l’interno di esso fino alla sua graduale scomparsa. E il dettaglio interessante è che solo dopo la scomparsa del nucleo avviene l’ulti-mo rilascio dei principi attivi. Concludendo, i carragenani sono dei

polisaccaridi ideali, una volta incor-porati in creme, per poter creare un sistema di principi attivi il cui rilascio sia lento e modulato, purché vi sia un contatto con un solvente esterno. Per questo motivo, l’utente deve aver la-vato, e non del tutto asciugato, il suo viso e le sue mani. Si ricorda che anche la gomma arabica fa parte di questa famiglia di polisaccaridi, ed infatti essa è impiegata in cosmesi proprio per ral-lentare il rilascio dei principi attivi. Inol-tre i carragenani possiedono anche fa-coltà antimicrobiche, che attualmente vengono dirette con discreto successo contro l’herpes, e con efficacia assai minore ma indiscutibile contro l’HIV e l’HPV. Per giunta i carragenani sono ideali per la pulizia del viso, perché la loro viscosità può essere modulata. Il modo giusto di impiego di tali creme è di applicare il topico (crema o soluzio-ne di carragenani) sul viso o sul corpo aspettando un tempo variabile suffi-ciente. Si consiglia mezz’ora. Dopo di che si toglie la crema di carragenani,

facendo uso di un sapone liquido di acidità debole (ph 5, 5). Si osserverà allora che una vol-ta rimossa la crema di carragenani, essa si sarà portata via tutte le impurità del

viso e delle mani. Come risultato fina-le, sia il viso che le mani respireranno meglio, e potranno acquistare luce e splendore. La migliore respirazione è dovuta al più efficiente metabolismo dei citocromi, i quali produrranno una maggiore quantità di energia sotto forma di ATP, in connessione con la precedente rimozione di tutte le im-purità testé operata sulle regioni cu-tanee interessate. Similmente avviene in campo alimentare per le soluzioni di carragenani impiegate sulle crostate di frutta.

Dottor Marco Nicoletti Dermatologo Tor Vergata

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