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CELLULA La cellula è l’unità fondamentale di tutti gli organismi viventi ed è, inoltre, la più piccola struttura a essere classificabile come vivente. Alcuni organismi, come i protozoi, sono formati da un’unica cellula e sono definiti organismi unicellulari. Gli organismi, come l’uomo, costituiti da molte cellule sono invece definiti pluricellulari. Le cellule degli organismi pluricellulari appartengono tipicamente ai regni: animale, vegetale e dei funghi. Le cellule degli organismi unicellulari, solitamente, presentano caratteri morfologici uniformi. Mentre con l’aumentare del numero di cellule che compongono l’organismo, le stesse si differenziano per: forma, grandezza, rapporti e funzioni specializzate fino a formare tessuti e organi. Ogni cellula può essere definita come un’entità chiusa e autosufficiente. Essa è, infatti, in grado di assumere nutrienti e convertirli in energia, svolgere funzioni specializzate e, se necessario, riprodursi. A tale scopo, ogni cellula contiene al suo interno tutte le informazioni necessarie. DIMENSIONI DELLA CELLULA: le dimensioni delle cellule variano da pochi micrometri ad alcune decine rendendole invisibili a occhio nudo.

CELLULA BATTERICA I batteri o procarioti sono organismi di piccole dimensioni, privi di membrana nucleare, con un unico cromosoma batterico circolare a doppia elica non racchiuso in un nucleo, detto nucleoide. Una prima classificazione dei batteri può essere fatta in base alla forma, pertanto avremo:

• cocchi: sono batteri di forma sferica che si possono associare tra di loro in forme più o meno complesse: diplococchi (se riuniti in coppie), stafilococchi (se riuniti in ammassi irregolari) e streptococchi (se disposti a catenelle).

• bacilli: sono batteri di forma cilindrica che non si associano. Se però presentano le estremità con una o più curvature sono detti vibrioni e spirilli.

I batteri sono caratterizzati da un’architettura essenziale, con assenza di compartimenti intracellulari separati da membrane e con strutture peculiari come la parete cellulare con i suoi principali componenti: il peptidoglicano, il li polisaccaride e strutture accessorie come la capsula, i pili, i flagelli e le endospore. MEMBRANA CITOPLASMATICA: è un doppio strato lipidico, presente sia nei gram+ che nei gram-, che racchiude il citoplasma batterico e differisce dalla membrana cellulare degli eucarioti per la mancanza di steroli. Le principali funzioni della membrana citoplasmatica sono: 1) permeabilità selettiva e trasporto di soluti, 2) trasporto di elettroni e fosforilazione ossidativa, 3) escrezione degli

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enzimi idrolitici, 4) supporto per gli enzimi e per le molecole trasportatrici che agiscono in processi biosintetici (sintesi DNA, polimeri parete cellulare) e 5) supporto per specifici recettori del sistema chemiotattico e altri sensori di traduzione. Inoltre la membrana citoplasmatica controlla il rilascio di varie proteine che svolgono un ruolo importante nella patogenesi: tossine, batteriocine ed enzimi citolitici. CITOPLASMA: è privo di reticolo endoplasmatico e mitocondri. Sono spesso presenti granulazioni citoplasmatiche di diversa composizione (polisaccaridi) che rappresentano accumuli di sostanze nutritive di riserva. PARETE CELLULARE: è una complessa struttura rigida, presente solo nei procarioti, che racchiude e circonda come un involucro la cellula batterica, conferisce la forma al batterio e ne garantisce la protezione dall’ambiente esterno. Le differenze strutturali della parete distinguono i batteri gram+ e gram-. La parete dei gram+ è costituita principalmente da uno spesso e stratificato strato rigido di peptidoglicano, contenente acido tecoico e lipotecoico. I batteri gram- hanno uno strato più sottile di peptidoglicano e presentano una membrana esterna che contiene lipopolisaccaridi, proteine e fosfolipidi.

PRINCIPALI COMPONENTI DELLA PARETE DEI GRAM+ PEPTIDOGLICANO: è un complesso polimero costituito da catene polisaccaridiche lineari formate da NAM (acido N-acetilmuramico) e NAG (N-acetilglucosamina) unite con legami crociati (β 1-4 glucosidico). Questi legami sono catalizzati da transpeptidasi, transglicosidasi, endopeptidasi e carbossipeptidasi legate alla membrana. Tali enzimi sono chiamati anche: proteine leganti le penicilline (PBP) poiché sono bersagli per le penicilline e gli altri antibiotici β-lattamici. L’integrità del peptidoglicano è essenziale per la struttura, la forma, la replicazione e la sopravvivenza dei batteri. L’acido N-acetilmuramico è il cuore della parete batterica e ad esso sono legati gli amminoacidi importanti per la formazione della parete batterica. Infatti, mediante un ponte pentaglicinico gli amminoacidi D-alanina in posizione 4 e L-lisina in posizione 3 di due NAM sono legati fra loro. Gli amminoacidi coinvolti nella formazione della parete batterica sono quindi: L-lisina, D-glutammato, L-alanina, D-alanina, D-alanina. ACIDO TECOICO E ACIDO LIPOTECOICO: sono polimeri di ribosio legati covalentemente al peptidoglicano. Gli acidi tecoici sono altamente antigenici e hanno una diversa composizione fra le diverse specie batteriche. L’acido tecoico è, inoltre, un fattore di virulenza e promuove l’adesione con altri batteri o con i recettori delle cellule animali. Mentre l’acido lipotecoico ha anche attività endotossica.

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PRINCIPALI COMPONENTI DELLA PARETE DEI GRAM- SPAZIO PERIPLASMATICO: è un’area compresa tra la membrana citoplasmatica e la membrana esterna, contenente un sottile strato di peptidoglicano e una soluzione proteica ricca di enzimi idrolitici (proteasi, lipasi, fosfatasi) per la digestione enzimatica, di fattori litici di virulenza (collagenasi, β-lattamasi, ialuronidasi), di enzimi inattivanti gli antibiotici che conferiscono al batterio proprietà di farmaco-resistenza e di proteine per il trasporto di sostanze nutritive. PORINE: sono canali proteici che attraversano la membrana esterna dei soli batteri Gram-, consentendo la diffusione passiva di piccole molecole idrofile. MEMBRANA ESTERNA: ha una struttura bilaminare lipidica che circonda il batterio e costituisce una barriera impermeabile a grandi molecole e molecole idrofobiche. Lo strato più esterno della membrana è composto principalmente da molecole di lipopolisaccaride (LPS). LIPOPOLISACCARIDE: è l’endotossina, fattore di virulenza che caratterizza l’azione patogena dei gram-. Quando i batteri gram- muoiono, liberano il lipopolisaccaride all’interno dell’organismo portando alla comparsa di febbre o addirittura alla morte dell’individuo. Il lipopolisaccaride è formato da tre sezioni strutturali:

• antigene O: polisaccaride lineare che fornisce una notevole compattezza al batterio e permette di distinguere i ceppi di una stessa specie batterica;

• lipide A: formato da un disaccaride di glucosammina fosforilata e acidi grassi, è responsabile dell’attività tossica dell’LPS;

• core: polisaccaride ramificato essenziale per la struttura del batterio.

SINTESI DELLA PARETE BATTERICA La sintesi della parete batterica inizia dal NAG, che in parte viene convertito in NAM. Affinché avvenga questa trasformazione è necessario che il NAG sia legato a una sostanza energetica detta UDP (undecaprenoldifosfato). Il NAM legato all’UDP attraversa il citosol fino alla membrana. Durante questa fase di attraversamento l’UDP fa due fermate intermedie per legare gli amminoacidi coinvolti nei legami crociati al NAM. Nella prima fermata vengono legati 3 amminoacidi, mentre nella seconda sarà legato il dimero D-alanil-D-alanina. Perciò, quando il NAM è trasportato sulla membrana plasmatica dall’UDP ha con se una sorta di coda formata da 5 amminoacidi. A livello della membrana citoplasmatica l’UDP, che cammina bene in una fase acquosa, non riesce ad attraversare la fase lipidica e quindi non può portare il NAM e il NAG all’esterno della cellula. Per quest’ultimo processo entra in gioco un trasportatore lipidico detto bactoprenolo. Il bactoprenolo non è fosforilato, ma per poter agire ha bisogno di energia che gli viene fornita dalle molecole di fosforo. Infatti, quando l’UDP cede il complesso NAM-pentapeptide/NAG al

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bactoprenolo, gli cede anche una molecola di fosforo. In questo modo l’UDP diventa UMP e ricomincia l’intero ciclo. Quando il bactoprenolo fosfato raggiunge l’esterno della cellula, interviene una fosfatasi che stacca il fosforo dal bactoprenolo, il quale reso inattivo rilascia il complesso NAM-pentapeptide/NAG. A questo punto anche il bactoprenolo è disponibile per un nuovo ciclo. All’esterno della membrana inizia la fase di assemblaggio dei costituenti, attraverso la formazione dei legami crociati tra le molecole di NAM che stabilizzano la struttura. Nella formazione dei legami crociati è coinvolto un enzima fondamentale responsabile della transpeptidazione, la transpeptidasi.

PEPTIDOGLICANO

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Questo legame crociato viene catalizzati da alcuni enzimi quali le transpeptidasi,

transglicosidasi,endopeptidasi e carbossipeptidasi legate alla membrana, questi enzimi

sono chiamati proteine leganti la penicillina (PBP) poiché sono bersagli per la

penicillina e gli altri antibiotici beta-lattamici.

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ARCHITETTURA DEI GRAM+ Vengono chiamati archibatteri perché nel corso del tempo non si sono mai modificati, si trovano ovunque e sono molto resistenti. I batteri gram+ assumono colorazione blu e sono costituiti da citoplasma circondato da una membrana citoplasmatica e una grande parete batterica costituita principalmente da peptidoglicano (150-500 aa). Il peptidoglicano, in caso d’infezione, può interferire con la fagocitosi portando come conseguenza un’attività pirogena (febbre). Il peptidoglicano può essere degradato dal lisozima, enzima presente nelle lacrime e nel muco. La distruzione della parete batterica dei batteri, ha come conseguenza la morte del microrganismo a causa della differenza di pressione osmotica esercitata sulla membrana citoplasmatica.

ARCHITETTURA DEI GRAM- Assumono colorazione rossa, sono batteri che nel corso del tempo hanno subito delle mutazioni morfologiche. A differenza dei gram+, oltre ad avere la membrana citoplasmatica, sono dotati di una membrana esterna importante per difendersi dal sistema immunitario dell’organismo umano. Mentre non richiedono uno strato di peptidoglicano molto spesso perché, vivendo nell’organismo, non subiscono variazioni estreme di: temperatura, pH e salinità.

STRUTTURE ACCESSORIE FLAGELLI: sono appendici filiformi formate da migliaia di subunità di una proteina che prende il nome di flagellina. I flagelli rappresentano gli organi di locomozione in soluzioni acquose per i batteri che li possiedono. A seconda della disposizione dei flagelli sulla cellula, i batteri vengono distinti in monotrichi (con un unico flagello ad un polo) lofotrichi (con un ciuffo di flagelli ad un polo), amfotrichi (con un ciuffo di flagelli ai due poli) e peritrichi (con flagelli distribuiti su tutta la superficie del batterio). Il flagello è ancorato alla membrana citoplasmatica, al peptidoglicano e alla parete esterna dei batteri da una serie di anelli. All’interno degli anelli, il corpo basale dei flagelli può ruotare su se stesso fornendo un moto rotatorio a tutta la struttura flagellare che genera la spinta per il movimento. Per permettere al batterio di muoversi i flagelli hanno bisogno di energia, che ricavano dalla membrana citoplasmatica e da quella esterna ancorandosi a esse. FIMBRIE: le fimbrie o pili sono appendici superficiali costituite da unità proteiche dette piline le quali simili a ciglia sono presenti, spesso a centinaia, sulla superficie esterna dei batteri. I pili possono essere distinti in due classi:

• pili ordinari: rappresentano fattori di adesività. Le punte delle fimbrie contengono delle proteine (lectine) che legano specifici zuccheri presenti sulla cellula dell’ospite;

• pilo sessuale: responsabile dell’interazione tra la cellula donatrice e la cellula

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ricevente nel fenomeno della coniugazione batterica con il quale avviene il trasferimento di materiale genetico tra le cellule batteriche.

ADESINE: sono proteine della parete cellulare esterna dei batteri, che riconoscono specifici recettori sulla cellula ospite permettendo al batterio di aderire saldamente e colonizzare gli organi dell’ospite. Anche i pili, come le adesine, favoriscono l’adesività del batterio ad altri batteri, per formare colonie, o agli organi dell’ospite per colonizzare i tessuti e iniziare il processo infettivo. CAPSULA: è uno strato di natura polisaccaridica (acido ialuronico) o proteica che circonda ulteriormente i batteri nocivi, sia gram+ che gram-. Se è poco aderente e poco uniforme per densità e spessore, la capsula è definita glicocalice. Questa struttura accessoria conferisce peculiari proprietà ai batteri che sono in grado di sintetizzarla:

• previene l’essiccamento; • favorisce l’adesività, offre al batterio la possibilità di aderire ad altri batteri o

alle superfici dei tessuti dell’ospite; • riserva nutrizionale, in rari casi i polisaccaridi che costituiscono la capsula

possono essere scissi in monomeri ed essere utilizzati come fonte di energia; • virulenza, la capsula batterica rappresenta un importante fattore di

virulenza; • proprietà antifagocitarie, la capsula impedisce alla cellula fagocitaria di

riconoscere il batterio. Mutanti di batteri normalmente capsulati, che hanno perso la capacità di formare la capsula, perdono anche la loro virulenza.

COLORAZIONE DI GRAM La colorazione di Gram è un esame di laboratorio, messa a punto dal medico danese Hans Gram, che dà ragione della classificazione dei batteri in gram+ e gram-. La procedura che porta alla colorazione dei batteri è costituita da una serie di punti:

1° punto: i microrganismi da esaminare sono posti su un supporto sterile (vetrino); 2° punto: viene aggiunto un colorante basico chiamato cristalvioletto, colorante viola che riesce a penetrare in tutti i batteri sia gram+ che gram-; 3° punto: si lava e si fissa il colorante con una soluzione di iodio e ioduro di potassio in acqua (liquido di Lugol); 4° punto: in questo stadio il materiale organico è trattato con un decolorante (acetone o alcol etilico). Gram utilizzò come decolorante l’alcol e osservò che riusciva a penetrare i gram- ma non i gram+. Il risultato era che i gram- perdevano la colorazione blu, mentre i gram+ mantenevano il colore.

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5° punto: per dare un colore anche ai gram-, Gram utilizzò un colorante rosso che prende il nome di safranina. Anche questo colorante riesce a penetrare tutti i batteri, con il risultato che i gram+ assumono un colore blu più intenso, mentre i gram- diventano rossi.

SINTESI PROTEICA Nei batteri, come nelle cellule eucariotiche, i ribosomi responsabili della sintesi proteica sono costituiti da 2 subunità: una piccola 30S e una grande 50S. La subunità piccola si trova libera nel citoplasma delle cellule batteriche ed ha il compito di tradurre gli mRNA in proteine. Per farlo è necessario cha subunità 30S sia attivata dall’energia proveniente dal fosforo del GTP (l’ATP è usata per degradare alcuni componenti, mentre il GTP per la sintesi proteica). Il GTP, che entra nel ribosoma, porta con sé dei fattori d’iniziazione coinvolti nell’attivazione della subunità 30S. Quando l’mRNA è legato alla componente 30S riceve un primo tRNA (tripletta), che codifica per la metionina. Il tutto prende il nome di complesso d’iniziazione. A questo punto il complesso è pronto a ricevere la subunità 50S, necessaria per consentire all’mRNA di arrivare sui ribosomi e che, in seguito, i nucleotidi siano tradotti in proteine.

METABOLISMO BATTERICO

Per crescere, i batteri, hanno bisogno di una sorgente di carbonio e azoto, una sorgente di energia, acqua e diversi ioni. In base alla dipendenza dall’ossigeno i batteri si dividono in:

• aerobi obbligati; • anaerobi facoltativi; • anaerobi obbligati.

SORGENTI DI ENERGIA: l’energia si ottiene con reazioni di ossido-riduzione, mediante la degradazione del substrato energetico ATP.

ATP ADP Degradazione del substrato Processo di fosforilazione che rende disponibile energia

• ossidazione di ioni metallici (batteri chemiotrofi); • energia radiante (batteri fotosintetici); • metabolismo di zuccheri, grassi e proteine (batteri patogeni); • fonti di carbonio inorganico (batteri autotrofi); • fonti di carbonio organico (batteri eterotrofi).

ATP: è la forma di energia usata dalle cellule per la sintesi delle macromolecole e i processi di conversione biochimica.

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IDROLISI DI MACROMOLECOLE (EXTRACELLULARE) Trasporto di membrana attivo o passivo

Conversione energetica utilizzando diverse vie metaboliche che convergono nel comune intermedio universale

acido piruvico (accettore di idrogeno).

I batteri possono produrre energia dal glucosio mediante: fermentazione (bassa efficienza), respirazione anaerobia (efficienza media), respirazione aerobia (alta efficienza). L’ultimo processo costituisce il cosiddetto ciclo di Krebs, che porta alla formazione di CO2.

VIA GLICOLITICA DI EMBDEN-MEYERHOF-PARNAS (AEROBIA E ANAEROBIA)

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FERMENTAZIONE: FERMENTAZIONE LATTICA: acido lattico; FERMENTAZIONE ALCOLICA: etanolo; FERMENTAZIONE PROPIONICA: acido propionico; FERMENTAZIONE ACIDO-MISTA: molti acidi.

CICLO DI KREBS: l’acido piruvico viene completamente ossidato: H2O + CO2. L’acetil Co-A viene completamente demolito e si sviluppa energia con la formazione di ATP.

CATENA DI TRASPORTO DEGLI ELETTRONI

Per un totale di 38 ATP per i respiranti. Negli anaerobi manca il citocromo C, che è la citocromo ossidasi. Infatti, i batteri con respirazione anaerobica impiegano accettori inorganici. TRASPORTO DI ELETTRONI E SINTESI DI ATP NELLA RESPIRAZIONE: gli elettroni passano da un riducente (NAD) a un ossidante (O2) e l’energia liberata

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viene utilizzata per formare una forza promotrice. Il ritorno degli idrogeni attraverso la membrana fornisce, mediante ATPasi, l’energia per la generazione di ATP da ADP e fosfato inorganico (Pi).

GENETICA BATTERICA

La struttura del DNA batterico è caratterizzata da 2 filamenti appaiati a formare una doppia elica, è quindi simile a quella degli eucarioti. Il DNA è costituito da molecole di desossiribosio, uno zucchero, legate tra loro da gruppi fosfato mediante il cosiddetto legame fosfodiesterico. A ogni zucchero sono poi legate, mediante legame N-glicosidico, le basi azotate, ovvero delle strutture ad anello che possono essere di due tipi: purine (adenina e guanina) e pirimidine (citosina e timina). Nel DNA una purina si appaia con una pirimidina: l’adenina con la timina mediante 2 legami a idrogeno e la guanina con la citosina mediante 3 legami a idrogeno. Tra di loro le basi azotate formano perciò legami deboli che tuttavia riescono, data l’enorme quantità, a stabilizzare la struttura del DNA.

REPLICAZIONE La replicazione del DNA è detta semiconservativa. Ciò vuol dire che in ogni nuova molecola di DNA sono presenti un filamento preesistente e uno neoformato. I due filamenti, infatti, sono separati e da ognuno viene creato un filamento complementare, ad opera di un enzima chiamato DNA polimerasi. Nei batteri la molecola di DNA ha una struttura circolare bicatenaria la cui peculiarità risiede nel fatto che la replicazione ha origine in un punto ben definito detto punto di origine (oriC).

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CAP. X

GENETICA BATTERICA

La struttura del DNA dei batteri è simile a quella degli eucarioti, il DNA è formato da

due filamenti appaiati tra di loro a formare una doppia elica.

Il DNA è costituito da molecole di desossiribosio che è uno zucchero uniti insieme da

gruppi fosfati, il legame che si viene a formare è un legame fosfodiesterico, ad ogni

zucchero ci sono legate delle basi azotate che sono delle strutture ad anello e si

trovano in due forme: le Pirimidine e le Purine.

Nel Dna le basi azotate sono 4 e sono l’Adenina che si lega con al Timina (2 legami

ad H), la Guanina che si lega con la Citosina (3 legami ad H), queste basi azotate tra

di loro formano dei legami non covalenti ma deboli e stabilizzano in qualche modo la

struttura del DNA.

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L’oriC è costituito da una sequenza di basi azotate (245), presente su tutti i batteri, che favoriscono l’apertura della doppia elica. A questa sequenza si legano delle proteine che hanno la capacità di riconoscerla, dette fattori di iniziazione della replicazione del DNA. In particolare, le proteine, si legano a una zona costituita da 9 nucleotidi che si ripetono 4 volte e da 3 sequenze ripetute di 13 paia di basi. La particolarità delle 13 paia di basi è che sono ricche di adenina e timina che, essendo legate da 2 legami a idrogeno, rappresentano la zona in cui il DNA può separarsi più facilmente. Mentre i fattori d’iniziazione favoriscono l’apertura della doppia elica, arrivano gli altri fattori necessari alla replicazione, il primo dei quali è la DNA-B, trasportato dalla proteina DNA-C. La DNA-B si pone tra i 2 filamenti a livello della forca replicativa e inizia a srotolare il DNA da entrambi i lati. A mano a mano che il DNA si srotola, si formano 3 filamenti singoli tra i quali si posizionano le proteine SSB che legano il DNA e impediscono alla doppia elica di riformarsi. Quando i filamenti della doppia elica sono completamente separati, i fattori d’iniziazione si dissociano. In seguito arriva un gruppo di enzimi chiamati primasi, che sintetizzano piccoli filamenti di RNA importanti per la polimerasi. Questi frammenti di RNA prendono il nome di primer e servono da aggancio alla DNA polimerasi 3. Durante il processo di replicazione (che avviene sempre in direzione 5I-3I) e srotolamento, intervengono altri enzimi che tagliano il DNA e inducono dei superavvolgimenti negativi. Tali enzimi sono la DNA girasi e la topoisomerasi IV, che mediante una reazione ATP-dipendente tagliano e risaldano entrambe le catene di DNA in modo da favorire l’apertura della doppia elica. Quando i nuovi filamenti di DNA sono completi, intervengono altri enzimi: la DNA-polimerasi I e la DNA-ligasi. La DNA-polimerasi I distrugge i frammenti di RNA e li sostituisce con frammenti di DNA, mentre la DNA-ligasi salda i frammenti di DNA inseriti, in modo da avere un unico filamento di DNA.

TRASCRIZIONE La trascrizione inizia dal gene +1, fino alla formazione della sequenza d’inizio della trascrizione data da un promotore che si trova a -10 e -35 a monte del gene.

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REPLICAZIONE

La replicazione del Dna si dice semiconservativa, ciò vuol dire che il DNA si apre

avendo 2 filamenti separati e permettono ad una serie di enzimi di replicare una copia

perfetta del filamento vecchio in maniera tale di ottenere di nuovo una molecola di

DNA a doppio filamento.

Nei batteri il DNA è un cromosoma che ha una forma circolare bi catenaria, cioè un

doppio filamento che è circolare, la particolarità sta anche nella replicazione che ha

origine in un punto ben definito denominato oriC, cioè punto di origine.

Come avviene la replicazione del DNA batterico?

Il tutto ha inizio in un punto detto oriC che ha la particolarità di essere costituita da

una sequenza di basi azotate (245), presente su tutti i batteri, che favoriscono

l’apertura della doppia elica.

A questa sequenza si vanno a legare delle proteine definite fattori di iniziazione della

replicazione del DNA, cioè sono delle proteine che riconoscono questa sequenza e si

legano a monte, zona costituita da 9 nucleotidi che si ripetono per 4 volte e si trovano

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Ogni gene ha un suo promotore, importante perché mediante il legame con il fattore σ fornisce l’input necessario all’RNA polimerasi per avviare la trascrizione e formare l’mRNA che verrà poi tradotto in proteina. Per risparmiare energia i geni batterici sono organizzati in operoni, ovvero una sequenza di geni che si susseguono e sono regolati, cioè possono essere o non essere trascritti. Tra gli operoni e i promotori si trova l’operatore, anch’esso formato da una sequenza di geni. A regolare la trascrizione dei geni batterici intervengono delle proteine, dette repressori, in quanto sono in grado di reprimere la trascrizione. I repressori sono sintetizzati da un gene, che solitamente si trova a monte del repressore stesso. Essi possono creare una regolazione genica che può essere: positiva, in cui l’operone è il triptofano o negativa, in cui l’operone è il lattosio.

REGOLAZIONE GENICA POSITIVA: è mediata da un amminoacido, il triptofano. Alcuni batteri non sono in grado di sintetizzarlo, pertanto devono acquisirlo dall’ambiente. Per quelli che invece riescono a sintetizzarlo, se il triptofano non è fornito dall’ambiente, il repressore è inattivo e di conseguenza l’RNA polimerasi sintetizza i geni che codificano per il triptofano. Se, invece, è già l’ambiente a fornire il triptofano, questo si lega al repressore attivandolo. Il repressore attivo si lega quindi al DNA sul sito operatore e in questo modo quando interviene l’RNA polimerasi, trova il blocco e non sintetizza i geni per il triptofano. REGOLAZIONE GENICA NEGATIVA: è mediata dal lattosio (Lac), costituito da 3 geni adiacenti chiamati LacZ, LacY e LacA. Questi 3 geni codificano per 3 enzimi, necessari per metabolizzare il lattosio e ottenere energia: la β-galattosidasi, la β-galattoside permeasi e la β-galattoside transacetilasi. A monte dei 3 geni c’è il sito operatore, che viene riconosciuto dal repressore. Se nell’ambiente circostante non è presente lattosio, il batterio deve economizzare le riserve di energia evitando di produrre i 3 geni. In questa situazione, infatti, l’operone Lac si mette sul sito operatore e l’RNA polimerasi che inizia a sintetizzare i geni viene bloccata. Se, invece, l’ambiente dispone di lattosio (conduttore), viene assorbito dal batterio e si lega al repressore, di cui cambia la morfologia, per farlo dissociare dall’operatore. A questo punto l’RNA polimerasi può iniziare a sintetizzare i 3 geni che codificheranno per gli enzimi che degradano il lattosio.

PLASMIDI I plasmidi sono molecole di DNA circolare a doppio filamento, molto più piccole delle molecole di DNA batterico. I plasmidi possono anche essere chiamati fattori, classificati in: fattori F e fattori R.

FATTORI F: sono i plasmidi che contengono i geni per la coniugazione, possiedono pertanto nella sequenza di DNA geni necessari per svolgere

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funzioni di scambio di materiale genico. FATTORI R: sono i plasmidi che contengono i geni per la resistenza a più antibiotici, quindi il plasmide può portare con sé un gene che codifica per la produzione di enzimi che inattivano i farmaci; o un gene che codifica per la sintesi di proteine che alterano la membrana cellulare, bloccando l’ingresso del farmaco all’interno della cellula; o un gene con le informazioni necessarie per modificare il sito bersaglio dell’antibiotico; oppure un gene in grado di codificare per una proteina con struttura simile al bersaglio farmacologico, che occuperà il suo posto legando l’antibiotico.

Esistono poi altri gruppi di plasmidi detti fattori di virulenza, contenenti geni che codificano per alcune strutture che garantiscono al batterio la capacità di causare una determinata patologia.

ACQUISIZIONE DI NUOVI GENI

I meccanismi attraverso i quali i batteri possono acquisire nuovi geni è caratterizzata dal cosiddetto trasferimento orizzontale (meccanismo extra-cromosomico), mediante: trasformazione, trasduzione o coniugazione.

TRASFORMAZIONE: consiste nella captazione e nell’incorporazione nel genoma dell’ospite di DNA libero rilasciato da altri batteri. Questo meccanismo è stato scoperto facendo degli esperimenti sullo Streptococco, di cui esistono 2 ceppi: uno liscio, che possiede sulla superficie una capsula ed è definito ceppo S nocivo; e l’altro rugoso, senza capsula, definito ceppo R non nocivo. Con gli esperimenti si è scoperto che i 2 ceppi messi in contatto ricombinavano le informazioni geniche.

TRASDUZIONE: consiste nell’acquisizione di DNA batterico da un batteriofago (virus che si propaga nei batteri), che ha incorporato all’interno del suo rivestimento proteico DNA da un precedente batterio ospite.

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I meccanismo che permettono al batterio di acquisire nuovi geni sono:

- TRASFORMAZIONE;

- CONIUGAZIONE;

- TRASDUZIONE.

TRASFORMAZIONE: avviene quando una cellula batterica acquisisce una

molecola di DNA che sono libere nell’ambiente che circonda il batterio.

È stata scoperta facendo degli esperimenti utilizzando un batterio quale lo

Streptococco costituito da 2 ceppi: uno è il ceppo liscio, che possiede sulla superficie

una capsula ed è definito ceppo S nocivo; l’altro ceppo è quello rugoso nudo ed è

definito ceppo R non nocivo.

Si è visto che questi 2 ceppi messi a contatto fra di loro si ricombinavano le

informazione geniche.

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Esistono 2 meccanismi di trasduzione: generalizzata e specializzata.

TRASDUZIONE GENERALIZZATA: supponiamo che un batteriofago sia dotato di una testa, una coda e un apparato che gli consente di attaccare un batterio. Quando questo batteriofago infetta il batterio, inietta il proprio DNA nel citoplasma della cellula batterica. A questo punto il batteriofago utilizza tutte le proteine che replicano il DNA batterico per replicare il proprio DNA e, allo stesso tempo, produce gli enzimi che frammentano e distruggono il DNA batterico. Questo tipo d’infezione viene definita litica, perché il DNA degradato viene incorporato per errore nella testa del batteriofago. TRASDUZIONE SPECIALIZZATA: anche in questo caso il genoma del fago è introdotto nel batterio dove ciclizza come se fosse un plasmide. Si tratta di un meccanismo di trasduzione operato dal fago λ.

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Trasduzione Specializzata: riguarda sempre la possibilità che per esempio il genoma

del fago viene introdotta in una zona batterica ben definita e circolarizza come se fosse

un plasmide. Questo tipo di trasduzione viene fatto dal fago !

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CONIUGAZIONE: consiste nel trasferimento di materiale genetico per contatto diretto cellula-cellula, attraverso un pilo sessuale o un ponte, o mediato da plasmidi F. Esistono diversi tipi di coniugazione tra i quali la più semplice è la coniugazione F+/F-, dove la cellula F+ è la donatrice, mentre quella F- è la ricevente il plasmide F. La cellula F+ è una cellula batterica che oltre al cromosoma possiede il plasmide F e il pilo sessuale, una struttura che gli consente di interagire con la cellula F- e trasferirgli il plasmide F.

Il trasferimento del plasmide F avviene grazie a un varco che si crea tra le due cellule. Dopo che si è creato il varco, uno dei 2 filamenti del plasmide F, che ha un DNA circolare bicatenario, subisce un taglio e migra verso la cellula F-. L’altro filamento, invece, viene duplicato con un meccanismo che prende il nome di duplicazione del cerchio rotante, rolling circle.

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CONIUGAZIONE:

La coniugazione è quando si ha il trasferimento diretto del codice genetico attraverso

il contatto fisico tra batteri o mediato da plasmidi F.

Abbiamo diversi tipi di coniugazione quella semplice che è la coniugazione F+ F-,

dove la cellula F+ viene definita donatrice mentre quella F- viene definita ricevente

del plasmide F.

Cosa succede? Una cellula F+ sarà una cellula batterica che al suo interno avrà oltre

al cromosoma anche il plasmide F e possiede il cossi detto Pilo Sessuale che è una

struttura che gli permette alla cellula F+ di attaccarsi alla cellula F- e trasferirgli il

plasmide F.

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Come avviene il trasferimento del plasmide F? attraverso un varco che si viene a

creare tra le due cellule.

Dopo che si è creato questo varco tra le due cellule uno dei due filamenti del plasmide

F che ha un DNA circolare bi catenario ci fa un taglio ed uno dei due filamenti pian

piano inizia a migrare verso la cellula F-, man mano che migra l'altro filamento che

rimane nella cellula F+ viene duplicato e questa duplicazione viene chiamata

duplicazione del cerchio rotante “Rolling Circle”.

Una volta che è avvenuto il trasferimento del singolo filamento di DNA nella cellula

F- nella stessa cellula inizia a formarsi la copia del filamento appena trasferito e si

avrà la formazione del DNA circolare bi catenario e quando tutto sarà fatto non

avremo più una cellula F- ma una cellula F+ in quanto la cellula donatrice di prima gli

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Quando il trasferimento del singolo filamento di DNA è terminato, nella cellula F- inizia la sintesi della copia del filamento appena trasferito con conseguente formazione di una molecola di DNA circolare bicatenario. Al termine del processo non avremo più una cellula F-, ma una cellula F+. Un altro meccanismo, più complesso, con cui può avvenire la coniugazione è detto coniugazione Hfr/F-, dove Hfr sta per alta frequenza di ricombinazione. In questo caso nella cellula F+, il plasmide interagisce e si ricombina con il cromosoma batterico formando la cellula Hfr.

Il trasferimento dell’informazione genica avviene sempre attraverso il pilo sessuale, ma questa volta verrà trasferito il plasmide ricombinato con il DNA batterico e il trasferimento inizierà da un particolare punto del plasmide detto oriT (origine di trasferimento). Dopo aver tagliato il plasmide in questo punto, uno dei 2 filamenti inizierà a trasferirsi nella cellula F-. I primi a trasferirsi sono i geni D del plasmide e in seguito i geni del cromosoma batterico. Affinché tutto il plasmide sia trasferito nella cellula F- è necessario che sia trasferito anche tutto il DNA batterico, perché il rolling circle deve essere completato e l’ultima porzione del plasmide si trova nella parte finale del cerchio.

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TRASDUZIONE: è generata dal trasporto di DNA batterico attraverso i batteriofagi

che sono dei virus che infettano il batterio stesso.

Questi batteriofagi possono nel loro interno trasportare oltre al loro materiale genico

anche il DNA batterico e trasferirlo alle nuove cellule da infattare.

Esistono due tipi di trasduzione:

1. Trasduzione Generalizzata;

2. Trasduzione Specializzata.

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MUTAZIONI Sia il cromosoma batterico sia i plasmidi nel corso della loro vita all’interno della cellula batterica possono subire delle mutazioni. In altre parole possono verificarsi delle combinazioni all’interno della sequenza di DNA, che spesso provocano alterazioni fenotipiche che garantiscono l’evoluzione del batterio, ma che nella maggior parte dei casi sono dannose per il batterio stesso. Tali mutazioni possono essere:

MUTAZIONI MORFOLOGICHE: cambia l’intero aspetto della cellula o della colonia batterica. MUTAZIONI LETALI: provocano la morte del microrganismo. MUTAZIONI BIOCHIMICHE: si verifica l’inattivazione di una via biosintetica che rende il microrganismo incapace di crescere. MUTAZIONI SPONTANEE: insorgono casualmente a causa di errori nella replicazione del DNA. MUTAZIONI INDOTTE: sono dovute all’esposizione del microrganismo a un agente chimico o fisico detto agente mutageno, in grado di alterare il DNA e di interagire con i meccanismi di riparazione del DNA. I mutageni possono essere di natura diversa: un esempio è il 5-bromuracile, che ha una struttura simile alle basi azotate, ma una volta incorporato nel DNA determina l’appaiamento di basi che non dovrebbero legarsi tra loro. MUTAZIONI NON SENSO: la mutazione determina la formazione di un codone di stop (TAG) all’interno della sequenza che provoca il conseguente distacco dell’mRNA. Se il codone di stop è all’inizio della sequenza si forma una proteina talmente piccola da non essere funzionale, stessa cosa vale se il codone di stop è al centro della sequenza. Se, invece, il codone di stop è verso la fine della sequenza, la proteina mantiene la propria funzione. MUTAZIONI PER SPOSTAMENTO DELL’ORDINE DI LETTURA: si verifica l’inserzione o la delezione di una o più paia di basi (mutazione frameshift). MUTAZIONI IN AVANTI: si manifesta con il cambiamento della forma che da rotonda diventa allungata. MUTAZIONI REVERSIBILI: la forma mutata ripristina la propria forma iniziale.

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MUTAZIONE SOPPRESSIVA: si manifesta una seconda mutazione sullo stesso gene o su un gene diverso, che sopprime l’effetto della prima mutazione. MUTAZIONE SILENTE: viene sostituita una sola base, che porta alla formazione di un nuovo codone che però codifica per lo stesso amminoacido. Prende il nome di vacillamento della terza base. MUTAZIONE MISSENSO: anche in questo caso viene sostituita una sola base, che oltre a formare un nuovo codone codifica per un nuovo amminoacido e quindi una proteina diversa.

Il codice genetico può mutare anche per processi di ricombinazione, si ha cioè lo scambio di frammenti di genoma con altri batteri che produce una nuova molecola di DNA. La ricombinazione può essere di diversi tipi:

RICOMBINAZIONE CROSSING OVER: è caratterizzata dall’incrocio di due cromosomi. Un particolare enzima presente nei batteri detto RecA, che taglia un filamento su un cromosoma e un altro filamento su un altro cromosoma. I due filamenti tagliati si scambiano e portano alla formazione di due nuove molecole di DNA diverse da quelle iniziali.

CURVA DI CRESCITA BATTERICA Il processo di crescita batterica può essere espresso graficamente da una curva nella quale si identificano 4 fasi:

1. Crescita logaritmica dei batteri per scissione binaria. In altre parole: la cellula si allunga, il DNA si duplica e infine si sposta al centro del batterio per dividersi in 2 cellule figlie;

2. Motilità del batterio alla ricerca di cibo; 3. Fase stazionaria; 4. Fase di morte. Alcuni batteri riescono a formare le spore, mentre gli altri

muoiono.

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Le ultime 2 fasi fanno parte del cosiddetto quorum sensing, che dà il via alla sporulazione.

SPORE La spora è una struttura disidratata, pluristratificata e protettiva che permette al batterio di sopravvivere in uno stato di vitalità sospesa, prodotta maggiormente dai batteri gram+. In altre parole la spora si forma quando mancano nutrienti, quando viene somministrato un antibiotico o quando i batteri avvertono che all’esterno succede qualcosa di anormale che sta uccidendo gli altri batteri. La spora contiene una copia completa del cromosoma, concentrazioni minime di proteine essenziali e ribosomi, alta concentrazione di calcio e diverse membrane e rivestimenti esterni, costituiti di proteine simil cheratiniche, che permettono al batterio quiescente di sopravvivere in condizioni sfavorevoli per un lungo periodo di tempo. Le spore possono, infatti, sopravvivere a: calore, sostanze chimiche, attacchi enzimatici e condizioni di disidratazione estreme. SPOLLATURA: la spollatura (o sporulazione) avviene quando la vita del batterio è in pericolo, che per riuscire a sopravvivere ha bisogno di trasformarsi in spora. Si tratta quindi del meccanismo che determina il passaggio da batterio a spora. In condizioni normali il batterio si accresce grazie a specifici segnali. La spollatura inizia grazie a un fattore trascrizionale detto SPO 0A, seguita da una cascata di eventi regolati da fosfatasi e fosforilasi. Il processo inizia per opera di una chinasi che rimuove un fosforo da SPO 0A e lo cede a SPO 0F, che dopo essere stato fosforilato da inizio a una catena di fattori trascrizionali grazie alla fosfatasi RapA, che in condizioni normali è sempre attiva. Quando il batterio avverte che qualcosa non va “quorum sensing”, la RapA viene inattivata, si blocca l’accrescimento del batterio e si forma la spora. L’inibizione della RapA è mediata da un pentapeptide indicato con la sigla PhrA5 che la lega in modo da impedirgli di interagire con il substrato, inibendola. In condizioni anormali il batterio secerne PhrA5 per capire cosa avviene nell’ambiente extracellulare. Se il pentapeptide torna all’interno della cellula in concentrazioni elevate, il batterio capisce che qualche evento perturbante ne minaccia la sopravvivenza e si trasforma in spora. In questo caso, quindi, la PhrA5 si lega alla RapA e il fosforo passa da SPO 0F a SPO 0B e infine a SPO 0A. Gli stadi che portano alla formazione della spora sono sette:

STADIO 0: durante il quale inizia a formarsi il setto di invaginazione del corpo batterico; STADIO I: si verifica la condensazione del DNA. In altre parole una pompa spinge un frammento di DNA nella porzione piccola; STADIO II: durante il quale si assiste alla divisione asimmetrica della cellula figlia dalla cellula madre;

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STADIO III: la cellula madre invagina la cellula figlia; STADIO IV: si forma la parte batterica attorno a quello che è ormai un fagosoma, cioè un corpuscolo che ha fagocitato la spora; STADI V e VI: si formano altre strutture attorno alla parete batterica di origine proteica; STADIO VII: lisi della cellula madre e rilascio della spora.

La formazione di una spora completa dura circa 7 ore ed è un processo molto complesso:

ESTERNAMENTE: una cellula batterica che forma la spora si divide con un setto asimmetrico formando una porzione grande e una piccola. Quella piccola si stacca e viene inglobata da quella più grande. In questa sorta di vescicola che racchiude la spora, si forma uno spazio nel quale il batterio sintetizza una parete batterica enorme, rispetto a quella normale, che contiene l’intero genoma batterico. In seguito questa spora determinerà la lisi della cellula madre che rilascia il corpuscolo. INTERNAMENTE: dal punto di vista trascrizionale SPO 0A è il vero fattore trascrizionale, in quanto arriva sul promotore genico e lo libera dal repressore. Perciò SPO 0A fosforilato attiva la polimerasi e la spollatura. Con l’attivazione della polimerasi, vengono trascritti i geni che contribuiscono alla formazione del setto asimmetrico. Il tempo e la sequenza degli eventi sono fattori molto importanti in questi meccanismi, ma anche per garantire la funzione biologica.

La spollatura avviene grazie a una serie di fattori trascrizionali definiti fattori σ , correlati tra loro in maniera ordinata. Sono fattori trascrizionali come SPO 0A, che arriva su un promotore mediante fosforilazione e scinde il blocco trascrizionale presente su tutti i geni del nostro organismo. I fattori σ sono attivi sia nella cellula madre che nella cellula figlia (spora), si può quindi dire che interagiscono. Infatti, quando la spora è matura il fattore σk della cellula figlia interagisce con quello della cellula madre, dandogli l’impulso per andare incontro a lisi e liberare la spora. La spora matura contiene un grande cromosoma supercondensato, disidratato e racchiuso in uno spazio ridottissimo (corpo della spora). Il cromosoma, inoltre, è circondato da alcune proteine acide e solubili che lo proteggono. Hanno quindi il compito di tenere il DNA in buone condizioni nonostante lo stato di disidratazione. Quando la spora è dormiente, non ha nessuna attività biologica e non può essere influenzata in alcun modo da condizioni estreme, perché possiede una parete batterica talmente spessa che la rende inattaccabile.

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Quando le condizioni sono adatte, la spora inizia a vegetare. A fornire quest’informazione (quorum sensing) alla spora sono delle sostanze provenienti dall’esterno. Di solito queste sostanze sono degli aminoacidi (arginina), tuttavia esistono spore completamente disidratate per le quali non funziona nulla. Per apportare acqua esistono delle polimerasi, funzionanti anche in ambiente secco, che iniziano una serie di trascrizioni che porteranno a una sequenza ordinata di geni. Questi geni consentono alla spora di liberarsi della parete batterica dall’interno in modo da permettere l’attraversamento dell’acqua, che provoca il rigonfiamento, da inizio ai processi essenziali per la trascrizione e porta alla fase vegetativa.

σH: è il primo fattore trascrizionale. Questo va su un promotore che controlla una determinata sequenza di geni che produce le proteine necessarie per il completamento della spora;

σE: è un fattore trascrizionale che andrà su un promotore dal quale toglie un repressore determinando la codifica dei geni responsabili della sintesi della parete batterica;

σF: è il fattore trascrizionale che con la sua funzione codifica i geni che formeranno un mantello proteico, per proteggere ulteriormente la spora.

Pertanto ogni fattore σ possiede caratteristiche particolari e svolge funzioni particolari. I fattori sono, tra loro, in sequenza ordinata e sono responsabili della funzione biologica.

ANTIBIOTICI Gli antibiotici sono sostanze antibatteriche prodotte da varie specie di microrganismi (batteri, funghi), in grado di sopprimere la crescita di altri microrganismi. Spesso però con il termine “antibiotico” s’identificano anche i farmaci antibatterici di sintesi quali sulfamidici e chinoloni. Il principale bersaglio degli antibiotici è la parete batterica, infatti, i primi antibiotici utilizzati nella pratica clinica, si rivolgevano alla sintesi della parete batterica, inibendola e alterandola. Gli antibiotici che inibiscono la sintesi della parete batterica possono esplicare l’effetto farmacologico mediante meccanismi diversi:

Inibizione della formazione dei precursori della parete batterica, tra i farmaci con questo meccanismo d’azione rientra la cicloserina, un analogo della D-alanina. Quando è presente in concentrazioni elevate essa inibisce in modo competitivo due enzimi coinvolti nella formazione del dipeptide D-alanil-D-alanina. Questi enzimi sono la racemasi che converte la L-alanina nel suo stereoisomero D-alanina e la sintetasi che catalizza la formazione peptidico

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tra le due molecole di D-alanina. Anche la fosfomicina ha il medesimo meccanismo d’azione. La fosfomicina è un analogo strutturale del fosfoenolpiruvato e impedisce la sintesi dell’acido N-acetilmuramico, legandosi covalentemente al sito attivo dell’enzima piruvato UDP-NAG transferasi; Inibizione del trasportatore delle sostanze sulla membrana citoplasmatica, un farmaco che agisce con questo meccanismo è la bacitracina, che inibisce la defosforilazione del bactoprenolo. In particolare inibisce la fosfatasi, bloccando la rigenerazione del bactoprenolo-monofosfato. Ciò causa un accumulo di NAM e NAG all’interno del citosol impedendo la formazione della parete che protegge il batterio, provocando di conseguenza la morte del microrganismo; Inibizione della formazione del legame crociato, presentano un meccanismo d’azione di questo genere le penicilline, le cefalosporine e la vancomicina. Penicilline e cefalosporine inibiscono l’enzima responsabile del cross-linking, la transpeptidasi. La vancomicina, invece, circonda il dimero D-alanil-D-alanina impedendo la scissione di una D-alanina, evento necessario per permettere la formazione del legame crociato.

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Meccanismo d’azione di alcuni antibiotici.

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CLASSIFICAZIONE DEGLI ANTIBIOTICI Gli antibiotici vengono distinti in base al bersaglio farmacologico, in altre parole vengono suddivisi in base al meccanismo d’azione in:

• antibiotici che inibiscono la sintesi della parete batterica; • antibiotici che inibiscono la sintesi proteica; • antibiotici che inibiscono la sintesi degli acidi nucleici; • inibitori della sintesi dell’acido folico; • inibitori dei fattori di elongazione.

INIBITORI DELLA SINTESI DELLA PARETE BATTERICA β-LATTAMICI: fanno parte di questa classe di antibiotici le penicilline, le cefalosporine e i carbapenemi. Tutte queste famiglie di antibiotici possiedono nella struttura un anello β-lattamico, importantissimo per l’inibizione della sintesi della parete batterica, in quanto lega e inibisce l’enzima transpeptidasi (PBP). Le PBP o proteine che legano le penicilline sono enzimi che all’interno della cellula batterica esplicano funzioni diverse e la loro mancanza o inibizione ha un effetto battericida. Le PBP possono essere suddivise in:

PBP-1: sono transpeptidasi necessarie all’integrità strutturale, la cui inibizione porta all’estensione della parete e alla lisi cellulare; PBP-2: sono endopeptidasi preposte al mantenimento della forma bacillare di alcuni batteri, la cui inibizione genera forme ovali; PBP-3: sono transpeptidasi, la cui inibizione può determinare l’anomalo allungamento della cellula batterica; PBP-4, 5, 6: hanno ruoli la cui inibizione non induce la morte dei batteri.

Gli antibiotici β-lattamici sono analoghi strutturali del dipeptide D-alanil-D-alanina, quindi esplicano la loro azione antibatterica grazie alla capacità di legarsi alle PBP al posto del dimero. Infatti, uno dei meccanismi di resistenza dei batteri a questa classe di antibiotici è dovuto alla produzione da parte dei microrganismi di enzimi che somigliano alla transpeptidasi, le β-lattamasi. L’anello β-lattamico, infatti, è il punto debole di questi antibiotici e l’apertura dell’anello determina la perdita dell’attività biologica del farmaco. Le β-lattamasi hanno un’elevata affinità per l’anello, si posizionano su di esso e ne determinano il taglio, provocando l’inattivazione del farmaco. Per evitare che ciò avvenga, gli antibiotici sono stati modificati a livello strutturale (meticillina) per impedire agli enzimi di raggiungere l’anello β-lattamico. Inoltre, sono stati creati i cosiddetti inibitori delle β-lattamasi, cioè delle molecole che non hanno alcuna efficacia antibiotica, poiché non legano le transpeptidasi, ma che legano le β-lattamasi in modo da inibirle. Il più importante inibitore delle β-lattamasi è il clavulanato, la cosa interessante è

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che quando questa molecola è somministrata insieme a un antibiotico, potenzia l’azione del farmaco. Esempi di questo tipo sono: l’augmentin (amoxicillina+clavulanato) e il timetin (ticarcillina+clavulanato). Le β-lattamasi nei gram+ agiscono all’esterno del batterio, mentre nei gram- agiscono nello spazio periplasmatico. Questo comporta che le β-lattamasi dei gram+ proteggono più batteri dall’azione dell’antibiotico, mentre le β-lattamasi dei gram- proteggono il singolo batterio dotato di questi enzimi. Un’altra forma di resistenza che i batteri hanno escogitato, consiste nel sintetizzare PBP mutate che non sono più riconosciute dalla β-lattamina. Per quanto riguarda i gram- un terzo meccanismo di resistenza è dovuto alla formazione di efflusso all’interno delle porine. Infatti, l’antibiotico riusciva a penetrare i gram- perché i batteri lo riconoscevano come sostanza nutritiva. Nel corso degli anni, però, i batteri si sono evoluti, hanno imparato a riconoscere l’antibiotico come una sostanza nociva e a espellerlo dalla cellula mediante una serie di composti che legano l’antibiotico (ioni, macromolecole). VANCOMICINA: la vancomicina è un antibiotico appartenente alla classe dei glicopeptidi ed è uno degli antibiotici più efficaci. Tuttavia anche per questa molecola negli ultimi anni stanno aumentando i casi di resistenza. Anche la vancomicina inibisce la transpeptidasi, ma con un meccanismo d’azione differente rispetto alle β-lattamine. In altre parole la vancomicina lega il dimero D-alanil-D-alanina, bersaglio naturale della transpeptidasi, impedendo all’enzima di tagliare l’ultimo amminoacido e di formare il ponte pentaglicinico. Questo provoca una destabilizzazione della struttura e di conseguenza la morte del batterio. La vancomicina ha una struttura molto stabile e interagisce con il dimero attraverso un legame sterico. Il batterio è in grado di sviluppare resistenza a questo farmaco modificando il dimero D-alanil-D-alanina in D-alanil-D-lattato. In questo modo l’antibiotico non riesce più ad abbracciare stericamente il dimero e di conseguenza non riesce a determinare la morte del patogeno.

INIBITORI DELLA SINTESI PROTEICA È una categoria di antibiotici molto importante, perché laddove i β-lattamici e i glicopeptidi falliscono, possiamo utilizzare farmaci con questo meccanismo d’azione per avere ragione di un’infezione. Questi antibiotici possono agire sulla subunità 30S o sulla subunità 50S, determinando il blocco della sintesi delle proteine o portando alla formazione di proteine aberranti. A seconda del tipo di inibizione che determinano, sono distinti in:

• batteriostatici: inibiscono la sintesi proteica temporaneamente; • batteriolitici: inibiscono la sintesi proteica in modo irreversibile.

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ANTIBIOTICI CHE LEGANO LA SUBUNITÀ 30S AMINOGLICOSIDI: sono antibiotici batteriolitici, quindi legano in modo irreversibile la subunità 30S. In questo modo il batterio non riesce più a crescere e moltiplicarsi. Gli aminoglicosidi più utilizzati sono la gentamicina e la tobramicina, entrambi ad ampio spettro d’azione. Questi farmaci agiscono prevalentemente sui batteri gram- perché sono in grado di penetrare nella cellula attraverso le porine, ma non riescono ad attraversare la parete batterica dei gram+. Per questo motivo vengono somministrati in associazione ad un antibiotico β-lattamico, che rompe la parete batterica. Una limitazione degli aminoglicosidi è legata al fatto che per legare i ribosomi necessitano di ossigeno, quindi non alcun effetto antibatterico sui batteri anaerobi. Il meccanismo di resistenza più importante a questi farmaci è dato dalla produzione da parte dei batteri di enzimi inattivanti (adenilanti, fosforilanti e acetilanti). Tuttavia esistono altri meccanismi di resistenza, come: la mutazione del sito di legame e la ridotta penetrazione del farmaco attraverso le porine. TETRACICLINE: sono antibiotici batteriostatici ad ampio spettro, il che significa che inibiscono la subunità 30S in modo reversibile. Ne consegue che a elevate concentrazioni l’antibiotico lega il ribosoma e blocca la sintesi proteica, mentre a basse concentrazioni l’antibiotico si stacca e la sintesi proteica riprende. Gli effetti collaterali possono essere anche gravi, infatti, nelle terapie di lunga durata possono causare l’alterazione della flora intestinale che porta alla comparsa di forme di enterocoliti pseudomembranose da Clostridium difficile. Il principale fenomeno di resistenza per le tetracicline è legato all’allontanamento del farmaco dal sito d’azione, mediante le pompe di efflusso. La resistenza può però manifestarsi anche con la produzione di proteine simili a quelle dei ribosomi, che legano il farmaco al posto del ribosoma stesso.

ANTIBIOTICI CHE LEGANO LA SUBUNITÀ 50S

CLORAMFENICOLO: è efficace contro un’estesa varietà di microrganismi, ma per via dei gravi effetti collaterali che comporta, come la soppressione della produzione dei globuli bianchi, il suo impiego negli esseri umani è limitato al trattamento d’infezioni gravi e potenzialmente fatali (infezioni del SNC, comprese le meningiti). Il meccanismo d’azione, di tipo batteriostatico, è caratterizzato dall’interazione reversibile con la subunità 50S che inibisce la peptidil-transferasi, impedendo l’allungamento del peptide. Lo spettro d’azione è simile a quello delle tetracicline, che sono sempre associate al cloramfenicolo in modo da inibire entrambe le subunità ribosomiali. MACROLIDI: sono antibiotici batteriostatici ad ampio spettro d’azione, utilizzati soprattutto per il trattamento d’infezioni polmonari. Tuttavia i macrolidi agiscono prevalentemente sui gram+, perché i gram- grazie alle porine riescono in qualche modo a bloccarli. Esercitano il loro effetto antibatterico legandosi reversibilmente alla subunità 50S. In questo modo impediscono l’avanzamento della lettura del

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messaggio, bloccando lo stadio di traslocazione durante il quale una molecola di peptidil tRNA neosintetizzata si muove sul ribosoma dal sito accettore al sito donatore. L’eritromicina è il macrolide per eccellenza e agisce sui batteri gram+ e su alcuni batteri gram-. Per quanto riguarda la resistenza ai macrolidi, essa si basa per lo più sulla metilazione dell’rRNA 23S, impedendo il legame dell’antibiotico con la subunità 50S dei ribosomi.

INIBITORI DELLA SINTESI DEGLI ACIDI NUCLEICI CHINOLONI: sono farmaci di sintesi (chemioterapici) il cui meccanismo d’azione si esplica sulla DNA girasi e sulla topoisomerasi IV dei batteri. Per molti batteri Gram+ la topoisomerasi IV rappresenta il bersaglio principale dell'azione. Mentre per molto batteri Gram- il bersaglio principale è la DNA girasi. Affinché si verifichi la duplicazione e la trascrizione del DNA le due catene di DNA devono essere separate. Tutti i fattori che causano la separazione delle due catene, però, determinano un superavvolgimento positivo del DNA nel punto di separazione. Per superare quest’ostacolo meccanico la DNA girasi batterica introduce in modo continuo superavvolgimenti negativi. Ciò accade mediante una reazione ATP-dipendente che richiede il taglio, che sarà poi risaldato, di entrambe le catene di DNA. La DNA girasi (E. Coli) è costituita da due subunità A e da due subunità B. Le subunità A che svolgono la funzione della girasi di tagliare le catene, costituiscono il sito d'azione dei chinoloni. Anche la topoisomerasi IV (E. Coli) è costituita da quattro subunità ed hanno la funzione di separare le due molecole figlie concatenate di DNA, che rappresentano il prodotto della replicazione del DNA. Le cellule eucariotiche non contengono DNA girasi, tuttavia contengono la DNA topoisomerasi di tipo II che è concettualmente e meccanicamente simile alla girasi, in quanto rimuove i superavvolgimenti positivi per evitare che il DNA si aggrovigli durante la replicazione. Questo enzima, bersaglio di alcuni antitumorali, è inibito dai chinoloni solo a concentrazioni molto elevate (100-1000 µg/ml). I chinoloni di I generazione sono detti anche disinfettanti urinari e sono utilizzati esclusivamente per il trattamento d’infezioni urinarie provocate da batteri gram-. Questi farmaci però sono caratterizzati da uno spettro ristretto, da un’emivita molto breve e dalla ristrettezza degli usi terapeutici. Con il tempo però e in particolare con la sintesi dei chinoloni di III generazione (fluorochinoloni), tutte queste caratteristiche sono state modificate. Infatti, i fluorochinoloni sono farmaci ad azione sistemica, spettro ampio e long acting. L’uso dei fluorochinoloni è però sconsigliato nei bambini in fase di accrescimento, perché un’elevata concentrazione di fluoro potrebbe bloccare la crescita di denti e ossa. I batteri sviluppano resistenza ai chinoloni mediante mutazioni della DNA girasi o della struttura delle porine, che impediscono l’ingresso del farmaco. RIFAMPICINA E RIFABUTINA: sono antibiotici ad ampio spettro che legano l’RNA polimerasi, prevenendo la trascrizione dell’RNA e la conseguente traduzione in proteine. Questi farmaci hanno rivoluzionato la terapia della tubercolosi,

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rendendola una patologia guaribile. La rifampicina è difficile da usare in quanto i batteri sviluppano rapidamente resistenza, rendendola tossica. Per evitare l’insorgenza di resistenza e quindi di tossicità, è associata a uno o più antibiotici. Più precisamente la resistenza dei gram+ è dovuta a mutazioni del gene della RNA polimerasi, mentre quella dei gram- è dovuta a una ridotta quantità di antibiotico che penetra nella cellula.

INIBITORI DELL’ACIDO FOLICO Gli inibitori dell’acido folico sono i cosiddetti sulfamidici, che come farmaci hanno un’importanza prevalentemente storica, poiché furono i primi chemioterapici a dimostrarsi efficaci. Il meccanismo d’azione è un antagonismo competitivo, che prevede lo spiazzamento dell’acido paraminobenzoico (PABA). Questo composto è importante per la sopravvivenza del batterio, in quanto rientra nel metabolismo dell’acido folico, che a sua volta è essenziale per la sintesi degli acidi nucleici e quindi del DNA. A differenza dei batteri, gli uomini non sono in grado di sintetizzare l’acido folico e lo introducono nell’organismo mediante l’alimentazione.

INIBITORI DEI FATTORI DI ELONGAZIONE Sono degli antibiotici che non legano il ribosoma, ma vanno a legare i fattori energetici che prendono il nome di fattori di elongazione, come il GTP. Questo meccanismo rende il batterio privo di energia che non riesce a svolgere le funzioni biochimiche vitali e va incontro a morte.

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INIBIZIONE DEI FATTORI DI ELONGAZIONE

Sono antibiotici che non si legano sul ribosoma va vanno a legarsi ai fattori energetici

detti fattori di elongazione, ad esempio il GTP, quindi il batterio senza energia non

riesce a svolgere le funzioni biochimiche vitali e successivamente va in contro alla

morte.

CAP. III

SPORE

Le spore sono un qualcosa che il batterio produce quando è in difficoltà, cioè quando

mancano nutrienti, presenza di un antibiotico o antimicrobico oppure quando

recepiscono che all’esterno sta succedendo qualcosa si anormale e gli altri batteri

stanno morendo.

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VIRUS I virus sono microrganismi molto più piccoli dei batteri ed hanno un corredo genetico limitato. Per questo motivo sono definiti parassiti intracellulari obbligati, infatti, non hanno enzimi, apparati e non riescono a produrre energia. A causa di queste limitazioni sono agenti casuali che per le funzioni vitali (sintesi proteica, sintesi degli acidi nucleici e replicazione) sfruttano gli apparati biochimici della cellula ospite. Per i virus non si ha una classificazione specifica, infatti, vengono classificati in base:

• alla struttura: dimensione, morfologia, tipo di acido nucleico (Picornavirus, includono virus a RNA; Togavirus);

• alle caratteristiche biochimiche: struttura e tipo di replicazione, strettamente correlata al tipo di acido nucleico;

• alla malattia che causano: epatite (A, B, C) o encefalite; • al tipo di trasmissione: Harbovirus, trasmesso dagli insetti; • alla cellula ospite: cioè il tipo di cellula che infettano (animale, vegetale o batterica); • al tessuto o organo infettato (Adenovirus, Enterovirus).

I virus possiedono un genoma che può essere a DNA o RNA (carica + o carica -, retrovirus), a sua volta circondato e protetto da una struttura che prende il nome di capside. Se questo è costituito da acidi nucleici e proteine prende, invece, il nome di nucleocapside. L’intera struttura è ulteriormente avvolta dal cosiddetto pericapside che ha il compito di offrire maggiore resistenza ai virus dagli attacchi esterni. I virus a DNA si assemblano nel 95% dei casi all’interno del nucleo e in qualche caso nel citoplasma, mentre i virus a RNA si assemblano nel citoplasma.

CLASSIFICAZIONE DI BALTIMORE Questa classificazione è basata sul contenuto degli acidi nucleici nella particella virale e sulle caratteristiche della replicazione. Si possono pertanto distinguere 7 categorie:

I CATEGORIA: virus con DNA a doppia elica (sono virus molto grandi, come gli erpetici). II CATEGORIA: virus con DNA a singola elica (sono molto piccoli, con genoma piccolo e solitamente sono nudi. Non hanno una propria polimerasi, quindi devono usare quella cellulare o di altri virus presenti nella cellula. Vengono, infatti, definiti DEPENDO-VIRUS). III CATEGORIA: virus con RNA a doppia elica (hanno una propria polimerasi e sono capaci di trascrivere l’RNA virale in mRNA. Senza di essa non potrebbero replicare, perché in natura non esistono RNA polimerasi RNA-dipendenti).

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IV CATEGORIA: virus con RNA a singola elica (RNA a polarità positiva). V CATEGORIA: virus con RNA a singola elica (RNA a polarità negativa). VI CATEGORIA: sono detti retrovirus (sono virus con RNA a polarità positiva, dotati di una trascrittasi inversa. La trascrittasi inversa, DNA polimerasi RNA-dipendente, è responsabile della trascrizione di un RNA in DNA e impedisce al virus di andare sul ribosoma). VII CATEGORIA: virus dell’epatite B a DNA (è caratterizzato da un ciclo di replicazione peculiare, poiché la polimerasi ha la funzione di trascrittasi inversa. In altre parole è un virus a DNA che produce un intermedio a RNA, il quale viene retrotrascritto in DNA dal quale si ottiene un altro DNA).

VIRUS NUDO: è costituito da un genoma avvolto da capside costituito da acidi nucleici, un esempio di virus nudo è quello della poliomelite (epatite A). I virus nudi sono molto aggressivi, ma facilmente riconoscibili dal sistema immunitario e diffondono facilmente tramite l’accumulo e la successiva lisi della cellula ospite. Inoltre, sono molto resistenti alle alte temperature, ai detergenti, agli acidi e alla mancanza d’acqua, quindi sono in grado di sopravvivere in qualsiasi condizione. VIRUS CON PERICAPSIDE: sono virus che oltre a possedere il genoma e il capside, sono ulteriormente avvolti da un secondo involucro, che acquistano quando vanno incontro a gemmazione dalle membrane cellulari della cellula ospite. Poiché è costituito da elementi naturalmente presenti nelle cellule eucariotiche, è molto pericoloso per l’essere umano, perché il sistema immunitario riconoscendolo come self non lo distrugge. A differenza dei virus nudi sono poco resistenti agli acidi, alle alte temperature, ai detergenti e devono essere costantemente idratati. VIRUS A DNA: utilizzano gli stessi enzimi che sfruttano le nostre cellule, cioè DNA polimerasi dipendente per produrre DNA e RNA polimerasi dipendente per produrre RNA. VIRUS A RNA: sono virus capaci di essere supportati dalla cellula ospite per tutte le loro esigenze, poiché hanno bisogno di una polimerasi virus-specifica. Questo enzima non è presente nelle cellule ospiti, perciò il virus deve sintetizzarlo. I virus possono essere dotati di RNA a carica +, in questo caso il virus possiede già un mRNA che funge da stampo, non ha bisogno di enzimi virali e una volta entrato nella cellula lega direttamente i ribosomi per iniziare la sintesi proteica. Oppure possono essere dotati di RNA a carica -, questi virus non possiedono l’mRNA e di conseguenza devono essere provvisti di tutti gli enzimi indispensabili per far avvenire la sintesi proteica. Mediante la polimerasi di cui sono dotati,

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creano il filamento che in seguito sarà tradotto in proteina. I retrovirus, invece, sono virus a RNA + complessi, dotati dell’enzima trascrittasi inversa. Una volta entrato nella cellula, la trascrittasi inversa trasforma l’RNA in DNA, il quale si inserisce nel genoma dell’ospite.

MECCANISMO D’INGRESSO DEL VIRUS NELLA CELLULA Per entrare nella cellula ospite il virus si avvale di proteine di superficie che hanno la funzione di recettori e permettono il legame con la superficie della cellula da infettare. Quando il virus si lega alla cellula ospite può entrare in modi diversi:

1° caso: richiede un solo recettore e in seguito è internalizzato tramite endocitosi attraverso delle vescicole (modalità più semplice e diffusa); 2° caso: c’è bisogno di più recettori. Un recettore serve per l’avvicinamento del virus alla cellula e un altro serve per farlo interagire con la cellula da infettare. Quando le membrane della cellula e del virus sono adese, una proteina di fusione crea un poro e mette in collegamento il nucleocapside e il citoplasma.

Dopo essere stato liberato nel citosol, il codice genetico del virus deve penetrare nel nucleo per integrarsi con il codice genetico della cellula e infettarla. Il passaggio nel nucleo avviene grazie all’importina α  e  β. L’importina α andrà a legarsi agli acidi nucleici presenti sul virus che a loro volta legheranno l’importina β. Per potersi verificare l’attraversamento c’è bisogno sia di energia, che viene fornita dal GDP, sia di un trasportatore proteico chiamato RAN che si lega alle importine e al virus e trasporta tutto all’interno del nucleo. Arrivato nel nucleo il codice genetico del virus deve essere rilasciato per potersi integrare con il codice genetico dell’ospite. Il rilascio avviene grazie ad una fosforilazione del complesso GDP-RAN-importine-codice genetico del virus. La fosforilazione determina il passaggio del GDP a GTP e il distacco della proteina RAN dalle importine, che a loro volta rilasciano il codice genetico del virus, il quale sarà libero di essere trascritto dalle polimerasi per formare mRNA. Una volta che gli mRNA sono stati sintetizzati, devono uscire dal nucleo e ritornare nel citosol per andare sui ribosomi e avviare la sintesi proteica. L’attraversamento della membrana nucleare avviene grazie alla presenza delle esportine α  e  β che legano gli mRNA, per legare in seguito il complesso GTP-RAN che porta tutto nel citosol. Nel citosol il complesso deve liberare gli mRNA. Anche in questo caso il processo è mediato da una fosfatasi che toglie un fosforo dal GTP, permette il distacco della proteina RAN dalle esportine che a loro volta rilasciano gli mRNA, i quali andranno sui ribosomi per dare inizio alla sintesi proteica di proteine contenenti l’informazione genetica del virus.

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ADENOVIRUS Sono virus nudi con DNA a doppio filamento, con il genoma circondato da un capside a struttura icosadeltaedrica, formato da esoni e pentoni. Da ogni spigolo del capside originano delle ramificazioni, ovvero delle fibre che permettono al virus di agganciarsi alla cellula ospite e infettarla. Le fibre sono tra loro diverse per permettere al virus di agganciarsi a qualsiasi tipo di cellula. Il virus si replica nel nucleo e causa infezioni litiche e poiché non deve gemmare sulla superficie della cellula, si accumula all’interno del nucleo fino a provocarne la lisi. Le particelle virali così liberate sono così pronte a infettare nuove cellule. I meccanismi che possono causare la trasmissione di un’infezione virale possono essere i più disparati:

• trasmissione mediante aerosol; • trasmissione oro-fecale; • trasmissione attraverso trapianti d’organo; • trasmissione negli anziani immunodeferati; • trasmissione in caso di stress (soprattutto bambini, militari e sportivi).

La terapia per la cura delle infezioni sostenute da questi virus si avvale dell’uso di anticorpi diretti contro il virus. Essi si collocano sulle fibre impedendo al virus di interagire con la cellula ospite. I virus hanno diffusione mondiale e non c’è stagionalità nell’epidemiologia. Tuttavia, contro gli adenovirus di tipo IV e VII (più pericolosi) esiste un vaccino che si ottiene dai virus morti, ma che è somministrato solo ai militari per evitargli di contrarre: bronchiti, polmoniti e altre malattie respiratorie. L’adenovirus è dotato di geni regolatori (precoci):

E1A: aumenta e modula la replicazione, portando anche alla formazione di cellule tumorali; E1B: inibisce l’apoptosi; E2: migliora il meccanismo della replicazione creando una propria polimerasi; E3: permette al virus di sfuggire al controllo del sistema immunitario dell’ospite; E4: inibisce la produzione d’interferoni e aumenta la crescita virale.

e di geni tardivi. Questi sono i geni strutturali del virus, cioè quelli che permettono la produzione del capside e del core (proteine che tengono adeso il DNA al capside).

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INGRESSO E REPLICAZIONE DEL VIRUS NELL’OSPITE: le fibre di cui è dotato, permettono al virus di interagire con la proteina CAR, presente sulla superficie della cellula ospite, che forma un’invaginazione e quindi un fagocita. A questo punto al fagocita si associa il lisosoma, per formare un fagolisosoma. Il fagolisosoma ha la funzione di revisore, in cui gli enzimi litici insieme ai composti tossici dell'ossigeno degradano il materiale estraneo. Tuttavia il virus è dotato di un rivestimento proteico che gli enzimi non riescono a demolire, per cui il fagolisosoma esplode e libera il virus. Dopo che il virus è stato liberato, grazie alle proteine del core, si lega alle importine che lo trasportano nel nucleo dove si replica e si assembla. Il virus nel nucleo ha una replicazione particolare ed essendo un virus di piccole dimensioni ha un genoma con pochi geni. Questi geni sono disposti a doppio filamento, dove su un filamento ci sono i geni strutturali e sull’altro i geni regolatori. Nonostante il genoma ridotto, l’adenovirus, per garantirsi comunque una serie notevole di proteine fa si che entrambe le catene siano copiate dalle polimerasi e trasformate in mRNA. La cosa è resa possibile perché tutti i geni dell’adenovirus sono funzionali. Questo tipo di replicazione è chiamato spiazzamento, in altre parole il doppio filamento di DNA si apre e la polimerasi copia prima una catena e poi l’altra. Alla fine del processo entrambe le catene sono state lette, copiate e conservate nei nuovi virioni. Quando le nuove particelle virali sono del tutto formate, il nucleo va incontro a lisi e le libera nel citosol. Le proteine ottenute dai geni che costituiscono le due catene di DNA, non sono sufficienti per l’adenovirus. Esso ha bisogno di altre proteine, nuovi geni e nuovi messaggeri, che ottiene mediante un meccanismo di splicing. Questo meccanismo prevede la formazione di nuovi messaggeri e proteine in seguito a rottura e riassemblaggio dei geni. L’adenovirus che si forma nella cellula non è maturo e di conseguenza non ha la capacità di infettare. Una volta formato il capside, al suo interno vengono inseriti il genoma e le proteine del core. In questo stadio il virus è ancora immaturo e prende il nome di young virion, nel quale le proteine del core non sono ancora ben definite. A questo punto entra in gioco una proteina che si trova all’interno della cellula, la

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Sezione di Microbiologia – Dipartimento Interdisciplinare di Scienze Chirurgiche, di Microbiologia e dei Trapianti d’Organo (DISCMIT)ww

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Facoltà di Medicina e Chirurgia

ADENOVIRUSOliviero E. Varnier

Microbiologia Università di Genova

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ADENOVIRUS

Gli adenovirus furono inizialmente isolati nel 1953 in una coltura di cellule adenoidee umane. Da allora sono stati riconosciuti circa 100 sierotipi, dei quali almeno 47 infettano l'uomo.

Tutti i sierotipi patogeni per l'uomo sono compresi in un singolo genereall'interno della famiglia Adenoviridae. Sulla base degli studi di omologia del DNA e dei pattern di emoagglutinazione, i 47 sierotipi sono stati organizzati in 6 sottogruppi (indicati con le lettere da A a F)

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ADENOVIRUS

I primi adenovirus umani identificati, numerati da 1 a 7, sono i più diffusi.

Tra le malattie comuni causate dagli adenovirus rientrano le infezioni del tratto respiratorio, la congiuntivite, le cistiti emorragiche e la gastroenterite.

Numerosi adenovirus sono potenzialmente oncogeni per gli animali e per questa ragione sono stati ampiamente studiati dai biologi molecolari

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EPIDEMIOLOGIA

I virioni degli adenovirus sono resistenti all'essiccamento, ai detergenti, alle secrezioni del tratto gastrointestinale (acido, proteasi e bile) e anche a leggeri trattamenti con cloro.

Questo permette loro di diffondere tramite il circuito oro-fecalemediante mani, oggetti (inclusi asciugamani e strumenti medici) e in piscine poco clorate.

Gli adenovirus diffondono esclusivamente da uomo a uomo, principalmente per contatto respiratono oppure oro-fecale, apparentemente senza serbatoi animali. La diffusione del virus èfacilitata dallo stretto contatto interumano come si verifica nelle classi scolastiche o nelle caserme militari.

Gli adenovirus possono essere eliminati in modo intermittente e per lunghi periodi dal faringe e specialmente con le feci.

Le infezioni sono per la maggior parte asintomatiche e ciò ne facilita la diffusione nella comunità.

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proteasi. La proteasi taglia le proteine del core, che si riassemblano in modo ordinato e determinano la maturazione del genoma, che sarà pronto per infettare.

PARVOVIRUS I parvovirus sono virus con DNA a singolo filamento (+ o -), più piccoli rispetto agli altri virus. Il genoma è circondato da un capside a struttura icosaedrica, privo però delle fibre che possiedono gli adenovirus. L’interazione con la cellula ospite, infatti, è mediata da alcuni recettori presenti sulla cellula ospite stessa. Questi recettori legano le proteine dell’involucro, permettendo sia l’aggancio che la fusione del virus all’interno della cellula. La trasmissione del virus avviene per contatto diretto, quindi mediante: saliva, liquidi e secrezioni. Se per replicarsi hanno bisogno degli adenovirus, si parlerà di adenoassociati. Mentre se per l’accrescimento sfruttano delle cellule B19, si parlerà di parvovirus B19. Il parvovirus B19 provoca la 5° malattia, la cosiddetta cute schiaffeggiata, caratterizzata da papule rosse che si trasformano in lividi scuri. Questa malattia è molto pericolosa durante la gravidanza se la madre è al primo contagio. Il virus, infatti, è in grado di attraversare la placenta, infettare il feto e provocarne la morte. In questa situazione gli anticorpi che la madre produce 7-8 giorni dopo il contagio non saranno più utili per difendere il feto. Inoltre, se il feto morto non viene rimosso, può diventare letale per la madre. Quando il feto va in putrefazione, infatti, produce un fluido molto tossico che se arriva in circolo porta alla morte della madre. La ricerca degli anticorpi è una risoluzione per la malattia e per salvaguardare il feto, infatti, si cercano anticorpi quali le IGM antirosolia che indicano la presenza dell’infezione e le IGG che indicano che non c’è più infezione. La 5° malattia può essere classificata come stagionale: si contrae in inverno inoltrato e a oggi non è stato elaborato un vaccino. Questo virus può colpire anche i precursori dei globuli rossi, determinando una riduzione di sangue in vari organi, che andranno incontro a lisi determinando la morte del paziente. Il genoma del parvovirus è a singolo filamento e costituito da due zone ben definite contenenti:

• 1 gene, nella parte sinistra, che codifica per una grande proteina non strutturale: la NS, codificata in quella che si chiama NSP;

• 1 gene, nella parte destra, che codifica per le proteine strutturali VP1 e VP2 (mediante splicing) che formano il capside e il core del virus.

Il DNA ha una forma a uncino è detto hairpin loop ed è proprio per questo motivo che la polimerasi non lo può replicare. Il promotore di questo gene si trova alla fine del circoletto. La polimerasi cellulare preferisce i propri promotori, piuttosto che quelli del virus, perciò è necessaria la presenza dell’adenovirus, che riconosce la forma uncino e inizia la replicazione. Il parvovirus B19 ha escogitato, come altri virus, una modificazione della forma a uncino, in modo che la polimerasi cellulare riesca ad avviare la replicazione. È però necessario che l’enzima sia in attiva

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replicazione, in quanto c’è un elevato numero di mRNA da legare e l’enzima lega tutti gli mRNA che trova a disposizione.

INGRESSO E REPLICAZIONE DEL VIRUS NELL’OSPITE: come l’adenovirus, anche il parvovirus entra nella cellula ospite grazie a un fagosoma. All’interno della cellula il capside viene distrutto e il DNA, grazie alle proteine del core, arriva nel nucleo dove viene trascritto. La polimerasi dell’adenovirus replica i filamenti + e -, mentre la polimerasi delle cellule B19 replica solo il filamento -. Quando entra nel nucleo il DNA è a singolo filamento (+ o -), ma la peculiarità del virus consiste nel riuscire a incapsulare nel proprio capside sia il filamento + che quello complementare (cDNA).

CORONAVIRUS Si tratta di virus a RNA a singola elica a polarità +. Un esempio è rappresentato dal SARS, un coronavirus incurabile perché prima del suo sviluppo tali virus non erano considerati come dei reali patogeni per l’uomo. I coronavirus sono una grande famiglia di virus, a genoma non segmentato, divisi in 3 gruppi sierologici. Appartenere allo stesso siero gruppo significa che sono talmente simili da essere riconosciuti da un anticorpo. Sono caratterizzati da una morfologia comune, generalmente rotondeggiante e dimensioni medio-grandi. Inoltre, la corona esterna ne permette una facile identificazione al microscopio elettronico. L’involucro del virus contiene 2 glicoproteine e 1 proteina di membrana:

S: spike protein; E: envelope protein; M: proteina transmembranale.

Le proteine strutturali di questo virus sono 4, infatti, oltre a queste 3 è presente la nucleoproteina:

Genere Parvovirus

!DNA monocatenario!Simmetria icosaedrica, 32 capsomeri (12?)!Dimensioni 20 nm!Sprovvisti di envelope

!Virus con caratteristico effetto teratogeno– comparsa di anomalie fetali e neonatali

• danno sulle cellule in attiva moltiplicazione

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N: è la proteina del nucleocapside, associata all’RNA virale. Tale interazione porta alla formazione di un nucleocapside a simmetria elicoidale.

La proteina più rappresentativa del SARS è la S, espressa sulla superficie dell’involucro, che rappresenta il recettore virale. Questa proteina ha una tipica morfologia a clava e l’insieme delle spike protein a clava costituisce la corona del virus.

INGRESSO E REPLICAZIONE DEL VIRUS NELL’OSPITE: il virus entra grazie a un processo di endocitosi, per interazione con un recettore, che è specifico per ogni coronavirus e può essere espresso su diversi tipi di cellule. Per quanto riguarda il coronavirus della SARS questo recettore è stato identificato. Si tratta di un enzima espresso su tutte le cellule epiteliali: l’angiotensina convertasi II. Il virus aggancia il recettore, entra per fusione sulla superficie e all’interno della cellula rilascia il nucleocapside contenente il genoma, uno di quelli più grandi tra i virus a RNA a singola elica a polarità positiva. Il genoma del coronavirus della SARS ha delle zone codificanti, assenti sugli altri coronavirus, che sembrano responsabili della sua maggiore aggressività. Questo genoma è costituito da tanti ORF (geni) contigui. In particolare, circa 2/3 del genoma è formato da questo complesso iniziale seguito da tutti gli altri geni che codificano per le proteine (S, E, M, N) e da tanti piccoli ORF (oper reading fream) non strutturali. Il virus della SARS ne possiede 7 che codificano per piccole proteine non strutturali, ma essenziali per l’interazione con la cellula ospite e che ne definiscono il potere patogenetico.

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La trascrizione del virus della SARS segue un modello abbastanza comune a diversi virus a RNA a polarità positiva. All’interno del genoma ci sono 7 ORF contigui, identificati grazie alla presenza tra un gene e l’altro di una specifica sequenza. Questa sequenza ha il compito di bloccare la trasmissione del messaggio al fine di ottenere una specifica proteina. Quando il virus infetta la cellula, il gene ORF 1, codifica per una poliproteina che prende il nome di complesso polimerasico. In altri termini codifica per tutti gli enzimi necessari alla replicazione, cioè:

• una RNA polimerasi; • un’elicasi; • una proteasi.

In questo modo il genoma può funzionare già da messaggio. Caratteristica, questa, condivisa da tutti i virus a polarità +. Il complesso polimerasico codifica anche per una RNA polimerasi RNA-dipendente, che forma i nuovi genomi. Praticamente l’enzima copia un’elica complementare a polarità-, che a sua volta viene copiata nei nuovi genomi. Questi RNA genomici a polarità -, hanno al loro interno dei punti detti splicing che tagliano ORF 1. Per cui si avrà un frammento subgenomico che possiede la zona K 5I-3I (che serve per trascrivere un messaggio) agganciata al gene 2. Questi saranno copiati nell’elica complementare a polarità + e il complementare subgenomico potrà essere di nuovo un messaggio per il gene 2. Il processo è identico anche per gli altri geni. Tale replicazione è definita replicazione discontinua ed è l’unica che porta alla codifica di proteine separate. I coronavirus si adattano molto bene, quindi tollerano facilmente le mutazioni. Tuttavia il coronavirus della SARS è completamente diverso dagli altri, per cui non deriva da una mutazione genetica o da una ricombinazione genetica. È stata però evidenziata la presenza di virus molto simili a quello della SARS in animali selvaggi, come i furetti.

HERPESVIRUS UMANI Gli herpes virus sono microrganismi di grandi dimensioni, dotati quindi di un grande genoma con DNA a doppia elica avvolto da un capside a struttura icosaedrica. Il capside è a sua volta circondato da un envelope che lo protegge dal sistema immunitario mascherandolo, inoltre, su questa struttura sono presenti le glicoproteine indispensabili per l’interazione con la cellula ospite. Tra l’envelope e il nucleocapside è presente uno strato proteico, la matrice, che riempie lo spazio tra le due membrane. Gli herpesvirus si trasmettono per contatto diretto, prevalentemente attraverso la saliva, ma anche mediante rapporti sessuali. Il genoma dell’herpesvirus può essere:

RIPETUTO (2 GENI): può essere lungo o corto e presenta tutti i geni regolatori della funzione cellulare, poiché uno dei geni può subire delle mutazioni che sono corrette dall’altro.

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UNICO (1 GENE): sono proteine strutturali lunghe o corte, le cui mutazioni non sono importanti. CONSERVATIVO.

Gli herpesvirus umani sono classificati in:

α VIRUS ONCOGENO: comprendono herpes simplex di tipo I e II e virus della varicella-zoster;

β: comprendono citomegalovirus e herpesvirus di tipo VI e VII;

γ: comprendono herpesvirus di tipo VIII ed epstein-barr.

INGRESSO E REPLICAZIONE DEL VIRUS NELL’OSPITE: l’herpesvirus entra nella cellula tramite l’interazione delle glicoproteine presenti nell’envelope con i recettori posti sulla membrana citoplasmatica, che portano alla formazione di un fagosoma. All’interno della cellula il fagosoma si lega a un lisosoma per formare il fagolisosoma e grazie agli enzimi lisosomiali si ha la liberazione del DNA. Le proteine del core permettono al DNA di legarsi alle importine α e β che con il complesso ad alta energia GDP-RAN è portato all’interno del nucleo. Dopo che, nel nucleo, si sono completate le fasi di replicazione e assemblaggio, il virus perde la membrana per fenomeno di gemmazione. Il meccanismo con cui avviene la replicazione prende il nome di rolling circle, perché l’herpesvirus ha un DNA bicatenario lineare. Quello che succede è che, all’interno della cellula, l’attività enzimatica fa si che si stacchino alcuni frammenti all’estremità del DNA che scoprono delle zone adesive, permettendo al DNA di ciclizzare. Questo fenomeno rappresenta una forma di protezione, che il virus adotta per preservare la propria integrità dagli attacchi enzimatici della cellula. All’interno del nucleo, una particolare endonucleasi cellulare, taglia la doppia elica di DNA e a mano a mano che si srotola, la polimerasi virale inizia a copiarlo per formare un DNA complementare (cDNA). Il DNA circolare neoformato a questo punto sarà inserito nel nucleocapside, grazie

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alle endonucleasi virali che lo tagliano nuovamente per formare DNA bicatenario lineare. Inoltre, alcuni frammenti presenti all’estremità gli permetteranno di interagire con le proteine del core, le quali si legano alle esportine α e β e al complesso GTP-RAN che riverserà tutto nel citosol.

HERPES SIMPLEX DI TIPO I (LABIALE) La malattia si trasmette per contatto diretto mediante la saliva e si manifesta con delle vescicole, che successivamente diventeranno delle croste. Nei bambini provoca la stomatite, vescicole di cattivo odore che si formano all’interno del cavo orale. Se non sono curate bene la patologia può evolvere in otite e encefalite, perché il virus va in latenza nei neuroni dei gangli sensitivi del trigemino. Proprio a causa del fatto che il virus è latente questo tipo d’infezione può manifestarsi in condizioni di stress o negli anziani immunodepressi.

HERPES SIMPLEX DI TIPO II (GENITALE) La malattia si trasmette in seguito a rapporti sessuali o a livello delle labbra dopo rapporti sessuali orali. La manifestazione dell’infezione è simile a quella di tipo I, con la differenza che le vescicole si manifestano a livello dell’apparato genitale: nell’uomo sul pene e nella donna sulle grandi labbra e a livello anale e intra-anale. Questa forma è molto più dolorosa dell’infezione di tipo I e il dolore non può essere alleviato con nessun tipo di farmaco. Anche in questo caso il virus rimane latente, ma a livello dell’inguine.

VIRUS DELLA VARICELLA-ZOSTER Si manifesta con delle vescicole pruriginose, che in seguito si trasformano in croste, che se rimosse potrebbero causare infezioni. Il virus rimane in forma latente a livello dei neuroni del trigemino e a livello intercostale. Può verificarsi quindi un’ulteriore manifestazione dell’infezione in caso di stress o per abbassamento delle difese immunitarie. La ricomparsa della patologia, il cosiddetto fuoco di Sant’Antonio, è molto più dolorosa e pericolosa della prima manifestazione e può manifestarsi a livello del volto o intercostale.

EPSTEIN-BARR (MONONUCLEOSI)

La malattia si trasmette per contatto diretto attraverso la saliva o l’utilizzo di oggetti comuni quali: spazzolino, bicchieri o posate. Si manifesta, nei bambini, con una sintomatologia simil-influenzale; mentre negli adulti si manifesta sotto forma di mononucleosi, in quanto attacca i linfociti B e T. Anche in questo caso si tratta di un virus che rimane nell’organismo in forma latente. Inoltre, nei paesi sottosviluppati, dove colpisce prevalentemente i bambini, si manifesta come virus oncogeno provocando tumori. In particolare, in Cina si manifesta sotto forma di linfoma di Burkitt, un tumore naso-faringeo inguaribile.

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HERPESVIRUS DI TIPO VI-VII L’herpesvirus di tipo VI causa la 6° malattia, un esantema giovanile, quando l’organismo è indebolito. Quello di tipo VII provoca una sintomatologia del tutto sovrapponibile al tipo VI, ma non se ne conoscono ancora i dettagli.

HERPESVIRUS DI TIPO VIII È responsabile del sarcoma di Kaposi, tumore che attacca i linfonodi E, D, C, tipico dei pazienti affetti da sindrome da immunodeficienza acquisita. Il tumore si genera nelle cellule endoteliali dei vasi sanguigni.

CITOMEGALOVIRUS Il virus si replica a livello di: midollo, cuore, fegato e cervello. La malattia, che si manifesta con una sintomatologia simil-influenzale, è molto pericolosa in gravidanza poiché il virus attraversa la placenta e raggiunge il feto. Le complicazioni che può determinare sono di tipo diverso: nei primi 3-4 mesi può provocare un aborto, mentre nel 7-8 mese si possono verificare malformazioni a livello cerebrale con perdita di vista e udito.

FARMACI ANTIVIRALI Il farmaco antivirale per eccellenza è quello contenente il principio attivo aciclovir. Esso agisce sull’enzima virale timidina chinasi erpetica, che è in grado di fosforilare qualsiasi desossinucleotide, compresi i farmaci. Perciò si tratta di un farmaco analogo ai nucleotidi, che da origine a un acido nucleico inadatto alla replicazione, che spiazza quelli virali bloccando la replicazione. Il farmaco raggiunge la cellula in forma inattiva, per cui sarà innocuo per una cellula priva del virus, mentre sarà funzionante nella cellula infettata, perché possiede l’enzima fosforilante.

VIRUS INFLUENZALE Esistono tre tipi di virus influenzali: il tipo A, è il più frequente e diffonde nel nostro organismo causando epidemie e pandemie; il tipo B, ne esiste una sola variante e circola prevalentemente insieme con quello di tipo A, è poco importante e non va incontro a fenomeni di mutazione e il tipo C, che si manifesta nell’animale. La malattia si manifesta con febbre piuttosto elevata, dolori alle ossa e alle articolazioni, stanchezza e problemi intestinali. Il genoma dei virus di tipo A e B è a RNA a polarità +, il virus è dotato di una RNA polimerasi per la replicazione e l’assemblaggio avviene nel nucleo. L’RNA è diviso in 8 segmenti, ognuno dei quali è circondato da un capside e possiede una propria polimerasi. Il tutto è ricoperto da un envelope che all’esterno presenta 2 glicoproteine. Il genoma diviso in segmenti, implica che ogni volta che un segmento non è copiato in mRNA, dalla polimerasi, si verificano delle mutazioni. Le mutazioni, che sono frequenti, portano alla formazione di nuovi virus all’interno dell’organismo, il che

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spiega a cosa sia dovuto, in alcuni casi, il fallimento dei vaccini contro i virus influenzali. Le glicoproteine dell’envelope sono:

HA (Emoagglutinina): permette al virus di interagire con qualsiasi tipo di cellula, legandosi alle proteine e ai lipidi superficiali contenenti acido sialico, inoltre, media l'ingresso della particella virale prima nell'endosoma e poi nel citosol. Si tratta di una proteina molto grande che per stare in uno spazio ridotto è tagliata in due da una proteasi cellulare nelle porzioni N-terminale e C-terminale, legate da ponti di-solfuro. In questo modo assume una forma a cono con 3 palline e la zona N-terminale si aggroviglia in superficie. NA (Neuraminidasi): permette la fusione del virus mediante il taglio dei residui di acido sialico, in modo da impedire l’attacco da parte di altri virus, ed è responsabile della fuoriuscita del virus dalla cellula infettata. La neuraminidasi è formata da 4 subunità identiche disposte a quadrato con una porzione N-terminale (peduncolo) e una C-terminale che sporge a formare una piattaforma. Il peduncolo ha la funzione di agganciare l’acido sialico e distruggerlo.

Gli 8 segmenti che costituiscono l’RNA hanno funzioni diverse:

SEGMENTI 1, 2, 3: hanno la funzione di sintetizzare l’RNA polimerasi dipendente virale; SEGMENTO 4: codifica per la glicoproteina HA; SEGMENTO 5: codifica per una proteina che si associa all’RNA permettendone il trasporto all’interno del nucleo; SEGMENTO 6: codifica per la glicoproteina NA. È una sialidasi, ovvero rompe gli ultimi residui di acido sialico; SEGMENTO 7: codifica per 2 proteine strutturali, M1 e M2. La M1, riempie gli spazi vuoti tra la matrice e la superficie; la M2, è una proteina coinvolta nella fusione della membrana virale con quella della cellula ospite. Questo processo funziona solo a pH 5.5, raggiunto mediante gli enzimi lisosomiali liberati dopo l’endocitosi del virus; SEGMENTO 8: codifica per 2 proteine non strutturali, NS1 e NS2 che creano nella cellula un microambiente favorevole alla replicazione.

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INGRESSO E REPLICAZIONE DEL VIRUS NELL’OSPITE: rispetto a tutti gli altri virus dotati d’involucro, non fonde la propria membrana con quella della cellula ospite in superficie, perché la proteina di fusione M2 del virus non funziona a pH 7. Pertanto il virus deve prima essere endocitato dalla cellula. Il fagosoma, si associa all’endosoma e riversa al suo interno gli enzimi lisosomiali che abbassano il pH al valore 5.5. In questa condizione la proteina di fusione si attiva consentendo la liberazione degli 8 segmenti dell’RNA nel citoplasma. Questi 8 nucleocapsidi saranno poi trasportati dal sistema delle importine nel nucleo dove avverranno la replicazione e l’assemblaggio. Una volta terminati questi processi, i nucleocapsidi escono dal nucleo e si dispongono in modo ordinato sulla superficie interna della cellula, dove sono state inserite le glicoproteine HA e NA. Queste funzionano come delle calamite per gli 8 segmenti e grazie all’interazione avviano la gemmazione del virus, portando alla formazione di vescicole. Grazie alla presenza di una neuraminidasi attiva, che taglia l’acido sialico attorno alle particelle virali, le vescicole si staccano e il virus si allontana dalla cellula.

MUTAZIONI DEL VIRUS INFLUENZALE MUTAZIONI ANTIGENIC DRIFT: con questa mutazione il virus resta quasi del tutto uguale alla forma iniziale. In questo caso, infatti, si ha solo la sostituzione di qualche amminoacido nella glicoproteina NA o in quella HA. Praticamente il virus che circola nell’organismo è lo stesso, ma con una forma leggermente diversa. MUTAZIONI ANTIGENIC SHIFT: è caratterizzata dal riassortimento tra virus diversi (umani e animali) con il cambiamento totale delle glicoproteine NA e HA. Questo tipo di mutazione si ottiene quando nella stessa cellula sono presenti almeno due virus influenzali che si ricombinano tra loro, portando alla formazione di un nuovo virus completamente diverso.

VIRUS DELL’HIV È un particolare tipo di virus: un retrovirus, la cui caratteristica principale è legata al fatto che possiede l’enzima trascrittasi inversa. Questo enzima ha la capacità di retrotrascrivere e, invece, di avere come stampo una molecola di DNA, è dotato di

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un RNA dal quale ricava il DNA. Il virus dotato di trascrittasi inversa fu scoperto nel 1982 da Robert Gallo, che lo denominò HTLV. Tale virus provoca una rara forma di leucemia, detta leucemia a cellule capellute. In seguito fu scoperto il virus dell’HIV, responsabile della cosiddetta sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). L’AIDS è causata principalmente dal virus HIV-1, che contiene nel proprio genoma a RNA almeno 6 geni:

VIF: determina la virulenza del virione libero; VPU: indispensabile per la gemmazione del virione; VPR: debole attivatore della trascrizione; NEF: funzione sconosciuta; TAT e REV.

Probabilmente è proprio dalla collaborazione di questi 6 geni che deriva l’estrema patogenicità dell’HIV-1. Il virus dell’HIV ha dimensioni molto ridotte e un genoma a RNA a polarità +, rivestito da un capside, circondato a sua volta da un envelope che il virus ottiene, dalla membrana citoplasmatica della cellula ospite, durante la fase di gemmazione. Questo significa che il sistema immunitario riconosce il virus come self, cioè qualcosa non nociva che appartiene all’organismo. Sulla superficie esterna dell’envelope sono presenti 2 glicoproteine: la gp120 e la gp41.

GP120: ha funzione d’aggancio. La glicoproteina è costituita da due bracci, con uno si aggancia al recettore e con l’altro al corecettore; GP41: ha la funzione di fondere la membrana virale con quella cellulare. In pratica costituisce la base per i due bracci della gp 120.

Il virus attacca prima i macrofagi, legandosi dapprima a un recettore localizzato sulla membrana citoplasmatica, come il CD4, per poi legare il corecettore CCR5, che gli permette di fondersi con la cellula. Dopo aver attaccato tutti i macrofagi, il virus infetta i linfociti T, sempre legando per primo il CD4 e poi il suo corecettore CXCR4. Il virus che infetta l’animale possiede 3 geni semplici: GAG, POL e ENV. Mentre il virus che infetta l’uomo è dotato di geni più complessi: GAG, POL, ENV, TAT e REV. Gli ultimi due si formano per splicing di ENV e regolano la replicazione del virus.

GAG: è un gene che codifica per la produzione del capside, del core e della matrice. Inoltre, codifica per 2 proteine: la p17, una citochina che ha lo scopo

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di predisporre le cellule nella migliore condizione per essere infettate e la p24, che porta alla formazione del capside; POL: è un gene che codifica per la produzione di enzimi quali integrasi, proteasi e polimerasi; ENV: è un gene che codifica per la produzione delle glicoproteine gp120 e gp41; TAT: è un transattivatore della trascrittasi, cioè lega i recettori TAR presenti sull’RNA e ne promuove la trascrizione in modo veloce. In altre parole toglie l’inibitore LTR (costituito da GAG, POL e ENV), localizzato sul promotore e avvia la trascrizione. Tutto questo meccanismo richiede energia, fornita dalla ciclina che il gene TAT porta con sé; REV: è prodotto nei ribosomi e quando si sposta nel nucleo, permette all’mRNA neosintetizzato di uscire nel citoplasma. Per fare ciò si avvale dell’ausilio di due bracci, con un braccio lega il complesso CMR-1 (costituito da GTP-RAN-ESPORTINE) e con l’altro l’mRNA (di GAG, POL e ENV) in un’area detta RRE (recettori per REV), stabilizzando tutto. Una volta rilasciato nel citosol l’mRNA lega i ribosomi per dare inizio alla sintesi proteica.

INGRESSO E REPLICAZIONE DEL VIRUS NELL’OSPITE: infettato l’ospite, la glicoproteina gp120 dell’envelope con un braccio si lega al recettore CD4 di membrana presente su linfociti T, macrofagi e monociti e con l’altro braccio lega i corecettori CCR5 (macrofagi) e CXCR4 (linfociti T). Terminata la fase di aggancio della cellula ospite, il virus si fonde con essa e, grazie alla glicoproteina gp41, attraversa la cellula. Dopo la fusione, il virus libera le proteine del core e i 2 filamenti di RNA direttamente nel citosol e durante il processo di trascrizione, le

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proteine del core restano legate all’RNA virale. La trascrizione dell’RNA a polarità + in DNA a singolo filamento è opera della DNA polimerasi RNA-dipendente (trascrittasi inversa). Dopo che il nuovo filamento di DNA è stato sintetizzato, l’RNA dalla ribonucleasi, mentre un altro componente della trascrittasi inversa porta alla formazione del DNA complementare a doppio filamento. Il cDNA a questo punto deve essere trasportato all’interno del nucleo, grazie al complesso GDP-RAN-IMPORTINE α e β. Nel nucleo il cDNA, per poter funzionare, viene dissociato dal complesso mediante una fosforilazione. A questo punto entra in gioco l’integrasi, che integra il cDNA con il DNA della cellula ospite, che da questo momento sarà trascritto in mRNA. L’mRNA neosintetizzato deve uscire dal nucleo e ancora una volta a mediare questo processo sarà il complesso GTP-RAN-ESPORTINE con l’ausilio del gene REV. Nel citosol l’mRNA viene liberato dal complesso da una fosfatasi, che toglie un fosforo dal GTP, e si lega con i ribosomi per dare inizio alla sintesi proteica. Le proteine che si formano sono però alterate, perché derivano dall’informazione genetica del virus che ha causato l’infezione.

VACCINI Il vaccino è un preparato opportunamente trattato, che conferisce immunità attiva, a lungo termine, al soggetto cui è somministrato. In pratica consiste nel fornire all’uomo parte di un microrganismo ucciso, in modo da generare una risposta immunitaria verso quello stesso microrganismo. La vaccinazione è uno strumento molto importante, per la prevenzione di gravi patologie infettive e per la riduzione della comparsa dei fenomeni di resistenza. Il primo vaccino fu scoperto dagli antichi egizi nel 3000 a.C., i quali inattivavano il virus essiccando le croste prodotte dall’infezione, con cui ottenevano una polvere che era poi somministrata per via nasale. In seguito nel 1500 a.C. i turchi scoprirono il vaccino contro il vaiolo. Infatti, strofinando il liquido contenuto nelle vescicole degli infetti sulle persone sane, queste ultime si ammalavano e sviluppavano gli anticorpi contro il virus. Anche se nel corso degli anni non ha subito mutazioni, era noto che il virus responsabile del vaiolo nell’uomo provocava la morte, mentre quello responsabile dell’infezione negli animali si manifestava solo con rush cutanei locali. Questo spinse, nel 1796, il medico inglese Edward Jenner a inoculare nel braccio di un bambino di 8 anni una piccola quantità di materiale purulento prelevato dalle ferite di una donna malata della forma di vaiolo che colpiva i bovini. Il bambino non ebbe nessun disturbo e in seguito Jenner dimostrò che il piccolo era diventato immune alla forma umana del vaiolo. Una tappa successiva di grande importanza per lo sviluppo dei vaccini si ebbe grazie al chimico francese Louis Pasteur, universalmente considerato il fondatore della moderna microbiologia. Egli capì che i batteri liberavano tossine, che trattò con il calore in modo da inattivarle e produrre una sostanza detta tossoide. Tale

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sostanza, somministrata nell’uomo, è in grado di generare anticorpi che legano l’eventuale tossina prodotta dal batterio. Molto importante fu anche il contributo di Jonas Salk, un ricercatore che scoprì il vaccino contro la poliomelite. Il problema maggiore che incontrò Salk fu quello di produrre i ceppi di poliovirus in quantità sufficienti per le ricerche. La soluzione al problema fu offerta da 3 ricercatori, i quali dimostrarono che i poliovirus potevano crescere anche su frammenti di tessuti, senza richiedere organismi viventi. Grazie a questa scoperta Salk pensò di servirsi del virus ucciso con il calore per evocare la reazione immunitaria da parte dell’organismo. Contemporaneamente a Salk, il medico statunitense Albert Sabin stava lavorando allo sviluppo di un vaccino contro la poliomielite. Sabin, eseguendo ricerche su scimmie e scimpanzé, isolò una rara forma di poliovirus in grado di riprodursi nel tratto intestinale e non nel sistema nervoso centrale. Il vaccino di Sabin si basava su questo poliovirus a riproduzione intestinale, attenuato nella sua virulenza, ma non ucciso. VACCINO TRIVALENTE: è un vaccino usato contro difterite, poliomelite e tetano consigliato al neonato dopo i primi 6 mesi di vita. L’immunità acquisita può essere: attiva (naturale o artificiale) o passiva (naturale o artificiale). Un esempio di immunità passiva è il siero antivipera, che prevede la somministrazione di anticorpi prodotti da animali che hanno sviluppato resistenza al veleno.

IMMUNITÀ ATTIVA NATURALE: è quella che crea l’organismo dopo aver manifestato una patologia (es. morbillo); IMMUNITÀ ATTIVA ARTIFICIALE: è indotta con l’ausilio di un vaccino. In altre parole vengono introdotti anticorpi in grado di bloccare la malattia; IMMUNITÀ PASSIVA NATURALE: gli anticorpi sono trasmessi dalla madre al bambino durante la gravidanza attraverso la placenta o durante l’allattamento; IMMUNITÀ PASSIVA ARTIFICIALE: vengono somministrati microrganismi uccisi, cioè un vero e proprio vaccino come quello di Salk.

VACCINI FUTURI Esistono diverse opportunità per lo sviluppo di nuovi vaccini in futuro che possono essere: vaccini a DNA, vaccini ottenuti con peptidi e vaccini jenneriani.

VACCINI A DNA: rappresentano la vera rivoluzione, perché non si ha più a che fare con virus e peptidi, ma solo con i plasmidi. In questo modo all’individuo viene somministrato direttamente il plasmide modificato, che induce la formazione spontanea dell’antigene S nelle cellule. A livello pratico

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s’inserisce il gene d’interesse nel plasmide, che a sua volta sarà inoculato nell’organismo. All’interno della cellula il plasmide porta alla produzione delle proteine S, riconosciute come non-self dall’organismo che inizia a produrre gli anticorpi. L’unico handicap di questi vaccini è che devono essere prodotti poco prima della somministrazione. Però, a differenza di quelli ottenuti con peptidi, non devono essere purificati. VACCINI OTTENUTI CON PEPTIDI: i peptidi sono piccole porzioni di proteine, verso le quali si vuole generare una risposta anticorpale. Per farlo si sceglie la porzione di proteina costituita dagli amminoacidi verso i quali è più probabile la formazione di anticorpi che neutralizzeranno l’attività della proteina. In genere la proteina coinvolta è quella responsabile dell’interazione del virus con la cellula ospite o della formazione della tossina. Per ottenere queste proteine, ci si avvale di processi biotecnologici che consentono di produrne in grandi quantità sfruttando batteri e lieviti. Un vaccino ottenuto con peptidi è quello contro il virus responsabile dell’epatite B. Il virus dell’epatite B è un virus a DNA ricoperto da un envelope, dove si trova l’antigene S di superficie, indispensabile al virus per legarsi alle cellule epatiche e provocare l’infezione. Per sviluppare il vaccino si prende il gene che codifica per l’antigene S e si inserisce in un plasmide che verrà inoculato in un batterio o in un lievito per produrre grandi quantità dell’antigene stesso. In seguito, l’antigene S prodotto sarà purificato per sviluppare il vaccino contro l’epatite B. Questo, all’interno dell’organismo, genera una risposta anticorpale senza provocare danni agli epatociti. È molto importante però utilizzare solo la sequenza amminoacidica dell’antigene S responsabile dell’interazione tra la proteina S e la cellula. A tal proposito viene sintetizzata questa particolare sequenza che, nell’organismo, porta alla formazione di anticorpi che bloccano l’attività dell’antigene S e quindi l’adesione del virus alla cellula bersaglio. VACCINI JENNERIANI: sono vaccini che prevedono l’uso di virus animali da inserire nell’uomo per provocare una risposta anticorpale che in seguito protegge l’organismo dal contagio dei virus umani. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che i virus animali sono meno patogeni rispetto a quelli umani, ma strutturalmente uguali. Questi vaccini però non sono molto efficaci, perché i virus subiscono mutazioni strutturali che non consentiranno più all’organismo di riconoscerli, con conseguente manifestazione della malattia.

IMMUNOGLOBULINE Le immunoglobuline sono suddivise in classi in base alla struttura e alle proprietà antigeniche delle catene pesanti. Pertanto distinguiamo:

IgG, IgM e IgA: sono le principali immunoglobuline;

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IgD e IgE: rappresentano solo l’1% delle immunoglobuline.

Le immunoglobuline sono costituite da 2 catene pesanti e 2 catene leggere, legate tra loro da ponti disolfuro, caratterizzate da una tipica forma a Y. Le catene leggere sono di 2 tipi: catene leggere κ e catene leggere λ presenti in tutte le immunoglobuline. A queste si aggiungono 5 tipi di catene pesanti: catene pesanti µ, catene pesanti γ, catene pesanti δ, catene pesanti α e catene pesanti ε ciascuna delle quali è presente su ogni immunoglobulina. La porzione FC (stelo della Y), è deputata all’interazione con i sistemi e le cellule dell’organismo per promuovere lo smaltimento dell’antigene e l’attivazione delle risposte immunitarie. Nelle IgG e IgA, inoltre, è coinvolta nell’interazione con altre proteine al fine di promuovere il trasferimento attraverso la placenta e le mucose. Queste presentano anche una regione detta cerniera, ricca di residui di prolina, suscettibile al taglio da parte degli enzimi proteolitici.

IgG: sono immunoglobuline a lunga emivita (23 giorni), in grado di attraversare la placenta e affini all’antigene di cui facilitano la fagocitosi; IgM: sono le prime a comparire durante la risposta immunitaria, di grandi dimensioni e non diffondono nel circolo sistemico; IgA: si lega al recettore poli-Ig, presente sulle cellule epiteliali. Il recettore legato all’IgA, arriva a livello del versante luminale della cellula dove fonde con la membrana plasmatica e viene clivato e secreto, prendendo il nome di componente secretoria (sIgA); IgD: sono immunoglobuline di membrana. Fungono cioè da recettore per l’antigene sulla membrana delle cellule B immature; IgE: la maggior parte si trovano legate ai recettori per l’FC ed hanno la funzione di recettori per allergeni e antigeni di origine parassitaria.