Michele Mari - Estratto Da Tu, Sanguinosa Infanzia

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I giornalini Quando seppe che sarebbe diventato padre, il pro- fessor *** si chiuse a lungo nel suo studio per riordi- nare le idee. Nell’incertezza del futuro uscì da quella stanza con una certezza: i giornalini, i cari giornalini della sua infanzia dovevano essere messi in salvo. Da trent’anni l’amato malloppino occupava uno dei palchetti più alti della sua vasta biblioteca, in una po- sizione che se relegava quegli album fra le impervie al- titudini degli Urania e delle storie di mostri, anche li ingloriava di un’eminenza cui tutti gli altri libri – i li- bri «veri», i libri «seri» – dovevano inchinarsi. Il pro- fessore lo sapeva, che la nobiltà della sua biblioteca era costituita dalle cinquecentine e dagli in-folio barocchi, dai Parnasi zattiani e dalla beltà dei Bodoni, e che le sue cuspidi scientifiche avevano nome e sostanza di edizioni critiche e di edizioni nazionali; lo sapeva da tanto tempo, che quell’immensa famiglia era cresciu- ta attorno ai Silvestri e ai Sonzogno, alle Meduse e agli Struzzi, e che poi si era raffinata negli azzurrini oxo- niensi e nel giallo-mattone delle Belles Lettres, nell’hu- mana dovizia della Pléiade e dei Ricciardi o nel defun- to rigore di Lerici. Però sapeva anche che senza quel fondamento originale la sua biblioteca – quindi la sua vita – sarebbe stata come un grande frutto senza pic- 3

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I giornalini

Quando seppe che sarebbe diventato padre, il pro-fessor *** si chiuse a lungo nel suo studio per riordi-nare le idee. Nell’incertezza del futuro uscì da quellastanza con una certezza: i giornalini, i cari giornalinidella sua infanzia dovevano essere messi in salvo.

Da trent’anni l’amato malloppino occupava uno deipalchetti più alti della sua vasta biblioteca, in una po-sizione che se relegava quegli album fra le impervie al-titudini degli Urania e delle storie di mostri, anche liingloriava di un’eminenza cui tutti gli altri libri – i li-bri «veri», i libri «seri» – dovevano inchinarsi. Il pro-fessore lo sapeva, che la nobiltà della sua biblioteca eracostituita dalle cinquecentine e dagli in-folio barocchi,dai Parnasi zattiani e dalla beltà dei Bodoni, e che lesue cuspidi scientifiche avevano nome e sostanza diedizioni critiche e di edizioni nazionali; lo sapeva datanto tempo, che quell’immensa famiglia era cresciu-ta attorno ai Silvestri e ai Sonzogno, alle Meduse e agliStruzzi, e che poi si era raffinata negli azzurrini oxo-niensi e nel giallo-mattone delle Belles Lettres, nell’hu-mana dovizia della Pléiade e dei Ricciardi o nel defun-to rigore di Lerici. Però sapeva anche che senza quelfondamento originale la sua biblioteca – quindi la suavita – sarebbe stata come un grande frutto senza pic-

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ciuolo, quasi che staccate da quella tenera linfa auro-rale le dotte scritture fossero destinate ad avvizzire, arinsecchirsi. I fanciulli pascoliani non c’entravano,chiosava irritato fra sé: era piuttosto questione di se-quenze corrette, di materiale giustificazione: non sa-rai titolare di un letto se non avrai dormito in un let-tino, se non ti avrà contenuto una culla; non leggeraie non possederai Columella o Malebranche se nonavrai letto e posseduto Collodi o Salgari. Lui nella ca-sa di campagna ce li aveva ancora tutti i suoi lettini,allineati in una medesima stanza come un’allegoria del-le età dell’uomo: e non avrebbe dovuto conservarselesacre le sue prime letture? Non erano forse un docu-mento – una prova! – della sua infanzia e insieme delsuo angosciato dibattersi per non uscirne mai, da quel-la infanzia, mentre invece tutto aveva congiurato astrappargliela via a sangue a colpi di paure, di orren-de prurigini, di ambigue conquiste intellettuali («Il ri-sveglio epico»! «Il cammino dell’uomo»!), di botte daorbi? Sentiva in profondo che se la vita è corruzioneed abiura, dovrebbe essere altissimamente morale con-trapporre alla sua ruina il movimento contrario del ri-scatto, del disseppellimento affettuoso.

E così era stato per quei suoi giornalini, gelosamen-te tutelati come uno dei suoi beni più cari. Quante vol-te, sentendo un coetaneo esprimere una perplessa igno-ranza sul destino dei propri antichi fumetti, aveva pro-vato un impagabile senso di trionfo e di premio pernon avere dilapidato, per non avere, come l’altro, ce-duto all’umiliante ricatto della crescita in cambio deltradimento!

Ora però sarebbe arrivato un bambino. Alti com’e-

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rano i suoi giornalini erano fuori della portata ed anzidel guardo del futuro esserino, tuttavia era bastata unafrase muliebre ad allarmarlo: «Pensa a quando i tuoivecchi fumetti verranno buoni per Filippuccio». Ver-ranno buoni? Sono stati, furono buoni – avrebbe vo-luto protestare – e serbano la loro bontà come una lu-minescenza perpetua. Ma non parlò, perché subito do-vette obbedire al più forte impulso di montare lassù aprendersele, quelle cose benedette sì inopinatamenteinsidiate. Ridisceso con tutto il blocco ci soffiò sopraper mandare via il grosso della polvere; poi sciolse lospago che lo rilegava, e ancora una volta i cimeli sisparsero davanti ai suoi occhi commossi.

Li considerò attentamente. Tutti i Tintin; tutti glialbum originali di Cocco Bill; tanti L’Uomo Maschera-to, pochi Mandrake, un po’ di Nembo Kid, un po’ diJeff Hawke, le prime tre annate di Linus, quel primoPaperepopea, quel primo Topolineide, due Zio Tibia,ancora qualcosa, ancora qualche sciolta reliquia. Co-me gli era sempre successo in simili occasioni, fu suf-ficiente un impercettibile supplemento di indugio suuna copertina per cedere all’impulso di sollevarla: esollevatala, per incominciare a rileggere quella storia;e incominciatala, per giungere fino in fondo. Rilessecosì I sigari del faraone, poi Il cosacco Cocco Bill, poiLe sette sfere di cristallo: dopodiché – erano passate piùdi due ore – si riscosse con un brivido penoso, sospiròprofondamente, e disse a se stesso quanto segue: «Èquesto un cristallo di sogni, è questo l’unico lampo nontriste della vita mia; son documenti, sono fossili diun’età che mi chiede la pietà di un omaggio; sono ca-daverini che si rifiutano di morire; sono ciò che solo io

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so cosa sono. E questo dovrebbe venire “usato”? Do-vrebbe tornare “attuale”, domani? Attuale! Questicoaguli mostruosi, questi sovrumani concentrati dellamia malinconia, questi monumenti della mia solitudi-ne, queste cose sacre dovrebbero finire in mano di unacreatura (amata, certo, consanguinea, anche) di una crea-tura sbavante che me li pasticcerà con osceni pastelli,con più oscene penne biro? Sono pregne delle mie con-tinuazioni e rielaborazioni, siffatte entità, incasellanoirripetibili giorni, codeste vignette (amati quadrati,adorati rettangoli, emblémata della mia camera, inse-gne del letto mio), sì, sì, sono storia, museata chiosatalaudatissima historia, sono una docta collectio (signa-ta, schedata) che merita scienza, distanza, l’amor chesi debbe ai classici (Tacito Proust Guicciardini, Soldi-no Geppetto Eta Beta), e sono, e son tradizione, e sonreligione. E son commozione. Basta. Li maneggio concautela io che li ho posseduti, li palpo con guanti idea-li, li sfoglio con pinze mentali come fossero inestima-ti papiri io che ne fui il signore, e altri dovrebbe sta-bilire con loro un rapporto pratico d’immediata fruizio-ne, reificarli così? È tardi, ormai. Non ci si può più di-vertire, con ciò ch’è fasciato dall’aura; non ci si puòconfondere carnalmente con l’oggetto del nostro cul-to, non si può più interrogare quando solo si può con-templare. Perdonami Filippuccio venturo, ma se fra igiornaletti venturi (tu omologo ad essi, essi organi-ci a te) io insinuassi questi antichissimi miei, tu nonne riconosceresti la categoriale diversità, la trascen-denza immanente, l’assiologica superiorità; accostan-doti ad uno di loro – questo meraviglioso Cocco Bill inCanada per esempio – tu non ti sussurreresti dentro:

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“Eccolo, ecco quel giornalino che torna” (e torna co-sì, immutato e perfetto), non predisporresti tutto il tuoessere a una deglutizione golosa ed insieme dolente,no: diresti brutale: “Toh un giornalino, vediamo di co-sa trattarsi vediamo se alletta”. Ma le sacre scritture,Filippo, non tollerano la critica dei moderni, e non lotollero io che ne son sacerdote. L’oltraggio, Filippo,non sono soltanto i ghirigori o gli strappi: lo sono an-che l’indifferenza, lo sguardo che unisce e non sa ge-rarchia, l’adiafora passività del profano. Chiudo gli oc-chi e ti vedo, fantasmino veloce che cerchi, che fru-ghi, che trovi, che sfogli, ti vedo buttare lontano que-sto liso Uomo Mascherato dopo poche pagine, tu, sce-so dai lombi miei, non impazzire d’amore per l’UomoMascherato! Ti ho visto: hai sbuffato, sei insofferen-te! Cerchi conforto – e lo trovi – in altre letture chenon mi dicono nulla, roba che è tua e solo tua e alloraio qui te la assegno ufficialmente, siano quelli i tuoisogni, se da quel groviglio sarai capace di estrarre l’o-ro che io ho estratto dai miei giornalini mi complimen-to con te, la vita si azzera, vorrai mica ereditare l’e-mozione del babbo la memoria del babbo la coscienzadel babbo per innestarle come una protesi nel cervel-lino tuo, vero? Dunque incomincia, che io qui conclu-do e sigillo, io adesso prendo il necessario e imballotutto, seppellisco in cantina, sottraggo alla contamina-zione del tuo spiritello (non amare i radiatori dellemacchine nere di Tintin! non amare la kryptonite!non conoscere la dialettica che scintilla fra Dick Tracye Fearless Fosdick!), nemmeno lo saprai, che in que-sta cassa ci sono i miei giornalini, non potrai nemme-no cercarli, mai sentirò domandarmi di mostrarteli al-

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meno un momento… “un momento”! Come liquida-re un’intera civiltà con un solo sguardo! Io sono Coc-co Bill, capisci? E se tu a Cocco Bill non dedicassi l’in-fanzia com’è certo che non la dedicheresti, è come serinnegassi tuo padre, come se a tavola, una sera, tu tirivolgessi alla mamma e indicandomi con il cucchiaioimbrattato di semolino le chiedessi: “Mamma, chi èquesto signore che mangia con noi?” Cocco Bill sono!Il capitano Haddock, sono! Poldo! Gancio! Brainiac!Non ti basta? Quel deficiente di Jimmy Olsen, sì, an-che lui! Questo è tuo padre! Rispondi: la camomilla,chi la beveva? Le montagne di panini? Vorrai mica tichieda: la naftalina? Ma tu non sai nulla, nulla di nul-la, che ne sai tu dell’“Album de Il Giorno n. 7”, usci-to nei primi giorni del luglio del 1962? Si intitolava Ka-mumilla Kokobì, e ho detto tutto. Kamumilla Kokobì…Più o meno qualcosa come l’Iliade… Ah basta, basta,si sta troppo male a parlare di queste cose, giornalini,quali giornalini? Tu non sei ancora nato e tuo padrechiude, finis, argomento esaurito, si può mica palpita-re così, fine della discorsa, si cresce soli, si vive soli, simuore soli, cercheremo di incontrarci su altri piani,giocheremo a scacchi, andremo al cinema insieme, tiinsegnerò a usare il Vinavil, un giorno ti regalerò unlibro di Stevenson. Ma questi giornalini, Filippo, so-no impartecipabili, sono il fiore della mia infanzia, ca-pisci, dunque sono la mia essenza, se me li togli mi uc-cidi, toglimi la Divina Commedia, toglimi Moby Dickoppure prendi Aulo Gellio, tutta la Loeb, vuoi il Bat-taglia? Vuoi i Rerum Italicarum Scriptores, il Ramusio?Ma non chiedermi Kamumilla Kokobì, non chiederlomai, non sorridere mai ai santi nomi, io quel sorriso

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te lo spengo nascondendo il tesoro, tu ammetterai, senon lo facessi sarei costretto all’umiliazione del sotter-fugio, valutala bene questa umiliazione, un professo-re universitario che si chiude a chiave in bagno per ri-leggersi un Tintin senza che suo figlio se ne accorga!E anche nel mio studio mi nasconderei, “Papà, cosastai facendo?”, “Sto allestendo l’edizione critica del-le egloghe latine del Castiglione, suvvia, vedi di nondisturbare”, e invece no, il cervello di papà si sta fa-cendo seghe con i coleotteri metallici di Jeff Hawke,se allunghi il collo lo vedi, l’album di Jeff Hawke chespunta dalle egloghe, non costringermi a tanto, ungiorno se vuoi ti terrò una lezione di sette ore sulle se-ghe ma adesso basta, lasciami chiudere, se dagli ante-mundia ove sei adesso mi stai vedendo ecco, sto chiu-dendo, vedi, ho chiuso».

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