Michele Francesconi - Riflessioni Sui Pianisti

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RIFLESSIONI SUI PIANISTI ESTROVERSIONE (ESPLICITO) 1 MICHEL PETRUCCIANI (1962 – 1999) Colore: forte Rapporto con l’handicap, voglia di reagire, energia vitale Incredibile capacità di coinvolgimento del pubblico nei piano solo, molto diversa da quella di Jarrett, perché più gioiosa, non c’è la ricerca dell’assoluto, ma una volontà di comunicare. La mano destra è voce emergente, la sinistra accompagna. Non è sicuramente un innovatore, ma in generale è sottovalutato. E’ il pianista bop moderno, l’erede di Oscar Peterson, ma più elegante nei fraseggi. Peterson è fuoco d’artificio, un carnevale musicale. Petrucciani invece ha ripulito il linguaggio mainstream, e in lui troviamo sia la dimensione lirica che quella ludica. HERBIE HANCOCK (1940) Figlio musicale di Miles Davis, come lui è capace di creare suggestioni. Anche Jarrett crea suggestioni, ma Hancock è molto più leggero nell’improvvisazione libera. Corea è più contenutistico. Colore: variabile Genio giocherellone. Emblema del relax totale. Il suo pianismo non è “autocrate” come quello di Jarrett. Hancock è un vero e proprio “performer”. Sorpresa ritmica e armonica continua. Il suo fraseggio è più spezzato, meno cantato. Hancock cerca il poetico nell’ambiguità armonica. McCOY TYNER (1938) Figlio musicale di John Coltrane Colore: forte Pianista mancino. Ha avuto un suono che ha fatto epoca. Energia, sembra una scimmia. Tutto il quartetto è votato all’energia, alla fatica, al sudore, alla pulsazione incalzante. Negli assoli di Tyner è quasi assente una melodia riconoscibile, la sua potenza è espressa attraverso un dispiegarsi di arpeggi sgranati (a volte il suono sembra uscire da una mano col polso bloccato). INTROVERSIONE (IMPLICITO) LENNIE TRISTANO (1919 – 1978) Colore: forte, lineare, omogeneo. A proposito della definizione di “cool jazz” “Il jazz che noi si suonava non era affatto freddo. Era rilassato, era privo di spettacolarità, era serio e impegnato, questo sì, ma non era certo freddo.” 1 La distinzione tra un tipo di pianismo “estroverso” e uno “introverso” è una piccola idea che deriva da una guida all’ascolto sui pianisti jazz fatta ormai diversi anni fa presso la Biblioteca di Faenza…questi brevi appunti nascono in quell’ambito e sono, come tutti i miei scritti sul sito, più un work in progress di pensiero che un’opera organica.

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RIFLESSIONI SUI PIANISTI

ESTROVERSIONE (ESPLICITO)1

MICHEL PETRUCCIANI (1962 – 1999)Colore: forteRapporto con l’handicap, voglia di reagire, energia vitaleIncredibile capacità di coinvolgimento del pubblico nei piano solo, molto diversa da quella di Jarrett, perché più gioiosa, non c’è la ricerca dell’assoluto, ma una volontà di comunicare.La mano destra è voce emergente, la sinistra accompagna. Non è sicuramente un innovatore, ma in generale è sottovalutato. E’ il pianista bop moderno, l’erede di Oscar Peterson, ma più elegante nei fraseggi. Peterson è fuoco d’artificio, un carnevale musicale.Petrucciani invece ha ripulito il linguaggio mainstream, e in lui troviamo sia la dimensione lirica che quella ludica.

HERBIE HANCOCK (1940)Figlio musicale di Miles Davis, come lui è capace di creare suggestioni. Anche Jarrett crea suggestioni, ma Hancock è molto più leggero nell’improvvisazione libera. Corea è più contenutistico.Colore: variabileGenio giocherellone. Emblema del relax totale. Il suo pianismo non è “autocrate” come quello di Jarrett. Hancock è un vero e proprio “performer”.Sorpresa ritmica e armonica continua. Il suo fraseggio è più spezzato, meno cantato.Hancock cerca il poetico nell’ambiguità armonica.

McCOY TYNER (1938)Figlio musicale di John ColtraneColore: fortePianista mancino. Ha avuto un suono che ha fatto epoca.Energia, sembra una scimmia. Tutto il quartetto è votato all’energia, alla fatica, al sudore, alla pulsazione incalzante.Negli assoli di Tyner è quasi assente una melodia riconoscibile, la sua potenza è espressa attraverso un dispiegarsi di arpeggi sgranati (a volte il suono sembra uscire da una mano col polso bloccato).

INTROVERSIONE (IMPLICITO)

LENNIE TRISTANO (1919 – 1978)Colore: forte, lineare, omogeneo.A proposito della definizione di “cool jazz” “Il jazz che noi si suonava non era affatto freddo. Era rilassato, era privo di spettacolarità, era serio e impegnato, questo sì, ma non era certo freddo.”

1 La distinzione tra un tipo di pianismo “estroverso” e uno “introverso” è una piccola idea che deriva da una guida all’ascolto sui pianisti jazz fatta ormai diversi anni fa presso la Biblioteca di Faenza…questi brevi appunti nascono in quell’ambito e sono, come tutti i miei scritti sul sito, più un work in progress di pensiero che un’opera organica.

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Privo di compiacimento, musica pura e difficile.Non sembra interessato al tocco. Il suo suono è oggettivo.Armonizzazioni modernissime, spiazzanti, scure, indefinite. Swing non rotondo, ma verticale.Contrappunto (turkish mambo), senso fortissimo dello swing.Lennie Tristano 1955The New Tristano 1962Si dedica all’insegnamento, come un santone, parlando di svariati argomenti.Radicale, non si concesse mai al business delle case discografiche e anche le sue apparizioni in pubblico furono sempre più rare.

BILL EVANS (1929 – 1980)Colore: mezzo forteSensibilità, malinconia di un grande maestro dal carattere riservato. Soggezione. L’appoggio e il canto (asse dell’orizzontalità). “Rannicchiato sul piano, come a cercare di percepire l’interno dello strumento e di se stesso” (Pieranunzi)Il senso del respiro nei dischi con Motian e LaFaro.Il romanticismo e il rifiuto dell’avanguardia e della sperimentazione sulle forme troppo aperte.La musica di Evans è infatti la più ricca da studiare perché non c’è una nota fuori posto, il che richiede un rigore eccezionale: Evans pensa da arrangiatore.L’eroina (comincia con il periodo di 4 anni sotto la naia), la depressione (il suicidio della ex moglie e del fratello).

CHICK COREA (1941)Pianista di sostanza, non di suggestione. Influenze varie: Bud Powell e spanish - flamenco in primo luogo.

LA GRAMMATICA DEL BE-BOP

Detto anche bop, e’ il jazz moderno anni quaranta, destinato a imprimere una svolta quasi rivoluzionaria all’evoluzione di questa musica. il termine, di natura onomatopeica (la divisione ritmica tra due sillabe, o note, accentua la seconda), introduce le novità melodiche, armoniche e formali del jazz di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell, Max Roach…in senso formale, si impiega il repertorio del song coevo e precedente, ma lo si modifica nelle armonie (estendendo e complicando accordi con seste, none, undicesime, tredicesime) e nelle conseguenti linee melodiche improvvisate.

BUD POWELL

MELODIA FLUVIALE

“Il rinnovamento di Monk si è manifestato in modo verticale, cioè partendo dall’armonia, con i suoi gruppi di note dissonanti, mentre quello di Powell si è manifestato in modo orizzontale, cioè partendo dalla melodia, con un fraseggio veloce che, in un certo senso, traduceva attraverso la tastiera la musica di Parker”

(Gian Mario Maletto)

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“Bud Powell visse in un’epoca musicale e in una cerchia artistica, il bebop, che imponeva ai suoi accoliti di pensare velocemente, al limite delle capacità umane. L’assolo bop contempla per sua natura la massima scelta di soluzioni (coraggiose, acrobatiche e imprevedibili) nel minor tempo possibile. Questo indirizzo estetico fu immensamente gravoso per chi si incaricò di metterlo al mondo.”

(Paolo di Sabatino)

THELONIOUS MONK

FUNZIONE ARMONICA ESSENZIALE

CLUSTER (LITTLE ROOTIE TOOTIE)BENDING TRILLIMULINELLI ESATONALIPOLIRITMIA (EVIDENCE)STRIDE PIANO (IL PASSATO)

OSCAR PETERSON

Esempio chiaro di predominanza del gesto sul contenuto. Spesso è il pianoforte a suonare Peterson, più che il contrario. Per tanti aspetti preferisco un pianista più sobrio come Ray Bryant, oppure la classe e l’eleganza di Dave McKenna.

LUCA FLORES (introverso)

Tra i pianisti italiani attivi nell’ambito jazzistico c’è un caso speciale, quello di Luca Flores, musicista tormentato e geniale, la cui breve produzione e storia ha suscitato l’interesse di un noto politico appassionato di jazz. Dopo la pubblicazione del libro “Il Disco del Mondo” da parte di Walter Veltroni questo musicista ha conosciuto maggiore fama, pur rimanendo all’interno di un settore di nicchia come quello del jazz italiano.Io ho ascoltato l’ultimo disco di Luca Flores “For Those I Never Knew” prima che Veltroni scrivesse il libro e devo dire che, pur avendomi colpito per l’intensità della musica e delle intenzioni non avevo capito appieno la grandezza di questo musicista. Flores, pur provenendo da un background tipico di pianista italiano da Conservatorio (mi vengono in mente gli studi di Czerny, le sonate di Clementi...), ha raggiunto la capacità di suonare il pianoforte dei grandi, dando un peso specifico a ogni nota. In Flores non esiste affettazione, non esiste una predilezione per il gesto, ma al contrario un livello neutro di musica, che travalica il concetto di jazz. Questo avviene sia nel fraseggio che a livello compositivo. Possiamo ascoltare a proposito la bellissima versione di uno standard come But Not For Me e poi le sue composizioni originali, come “Musengu (Where Extremes Meet)” “Coincidenze” o “Kaleidoscopic Stars (Tyner’s Mirror)”. Parlando con musicisti che hanno suonato con lui ho capito che egli aveva lo stesso rigore nello studio del jazz che di solito ha un interprete classico nell’approcciare il repertorio definito colto.

Danilo Rea: suono immediatamente riconoscibile, sia in studio che nei live, efficacissimo sul parametro timbrico e con un alto contenuto poetico. Ogni tanto ha un approccio al pianoforte che sembra quasi istintivo, con predilezione per una vena lirica. Mi piacciono le diatonie cantabili, anche in ambito di collaborazioni con artisti pop2. Da lui imparo anche il

2 Ho iniziato ad ascoltare il jazz con gli assoli di Danilo Rea nei dischi di Mina degli anni ‘90.

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discorso di non chiudere il jazz su se stesso ma di poter arrivare a un pubblico più ampio, sempre con autenticità. Disco segnalato: “Lirico”.

Brad Mehldau: Col trio è molto sciolto sui tempi dispari, ma in generale io trovo il suo stile un po' “estetizzante”. E' il pianista degli anni '90. Apprezzo l'operazione di trasposizione e riattualizzazione di ballate rock per il trio jazz.

Lettera su MySpace a Pieranunzi:

Maestro, ho ascoltato ieri per la prima volta (2 volte di seguito) il suo disco su Scarlatti. Mi permetto di scriverle perchè per me è stato davvero emozionante. Ho percepito uno stato di "con-fusione musicale" tra due periodi storici distanti secoli, e questo contrasto mi dava allo stesso tempo piacere e inquietudine. Ho poi rivissuto alcuni echi di "Parisian Portraits", un disco che per me continua a essere un capolavoro. Credo fermamente che solo una personalità pianistica nella sua estrema maturità potesse portare a quel risultato in cui chiunque altro avrebbe fallito.Grazie ancora della sua musica, auguri per tutto.

Puglisi3

L'originalità di Fabrizio sta nel suo essere, se mi si permette il termine provocatorio, un “Radical Chic”. Egli entra nella musica con la stessa naturalezza di uno che entri in costume da bagno in un cocktail party in cui tutti sono costretti dalle convenzioni a stare in giacca e cravatta. La componente ludica in lui è fortissima, ma non scade mai nel clownesco o nel leggero: è bilanciata da una maturità critica e culturale che ha pochi eguali nei pianisti di oggi. La sua sintesi elimina totalmente il superfluo e il gestuale. Due cose mi colpiscono sempre: non spreca mai materiale ed è convinto al cento per cento di quello che fa, anche quando è impreciso, anzi, l'imprecisione diventa un valore estetico aggiunto. E’ quindi uno dei pochissimi musicisti che sappia realmente riattualizzare Monk.

Stilisticamente lo considero un pianista di sintesi. Sento influenze, oltre naturalmente alla tradizione (Monk, Ellington, Mingus), anche del mondo latin, di Gismonti, dei pianisti che si sono dedicati alla libera improvvisazione (Paul Bley e Cecil Taylor, che lui ama molto), ma anche dell'avanguardia europea, che ha vissuto in prima persona durante un periodo in Olanda, e di musicisti contemporanei dell'area colta come Ligeti: nelle sue composizioni ci sono anche accenni minimalisti. Oltre a tutte queste cose sospetto anche che abbia una certa cultura in fatto di rock.Tra i suoi talenti strettamente jazzistici una padronanza solidissima del time e l'estrema ricerca delle tensioni melodiche e armoniche che si sposano benissimo col suo tocco ruvido. Proprio la mancanza di una certa tecnica digitale orizzontale e di velocità gli fa ricercare una ricchezza armonica “verticale”.Non ha paura dell’ignoto, del diverso, anzi lo cerca e ce lo svela, pur mantenendo un lato concreto e rigoroso. Questa è la quintessenza del jazz. Al contrario oggi abbiamo chi affronta il jazz in maniera schematica e seguendo delle presunte regole, che in realtà ingabbiano solo la musica. Penso alle correnti neobop, alla sacralizzazione di un linguaggio che in origine era, pur nel rigore grammaticale, rivoluzionario.

Puglisi riesce a trovare il poetico nella ricerca del contenuto: ad esempio nelle

3 (estroverso)

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armonizzazioni in piano solo che ho sentito è come se ascoltassimo una sorta di “succo” armonico. Un certo tipo di sensualità nelle sfumature dinamiche che trovo nell'eredità del fraseggio orizzontale alla Bud Powell (penso ad esempio ad un altro grandissimo pianista di sintesi come Pieranunzi) Fabrizio non la cerca mai, come probabilmente non gli interessa il lirismo alla Evans. Una cosa che forse gli si può imputare è una certa mancanza di interplay dinamico nei gruppi: ad esempio ogni tanto le sue idee poliritmiche dominano incondizionatamente (data anche la forza della sua personalità) e in questo caso può rischiare di diventare un po’ autoreferenziale, ma ad esempio in quei momenti cattura molto il pubblico sul lato performativo. Io, ad esempio, amo molto le sue performance in solo proprio perché è lui a decidere tutto, e in questo senso le trovo molto equilibrate.

Sentendolo parlare ai vari seminari che tiene (a Fabrizio piace insegnare e lo fa da molto tempo) riconosco che ama mettere in discussione le gerarchie e le regole del mondo musicale accademico, pur essendo una persona colta e fortemente calata nel presente (è anche docente in Conservatorio). Giustamente ritiene che il jazz sia una musica nata e sviluppatasi collettivamente, e in questo senso di ricerca collettiva lavora con i ragazzi, a prescindere dal loro grado di preparazione, dando sempre più importanza alla dimensione performativa che a quella della scrittura (anche perché è proprio la sua formazione a non essere accademica), e non concentrandosi tanto sul singolo errore di ognuno quanto sul risultato musicale dell’insieme. Un'altra cosa che imparo dal suo modus operandi è come decide razionalmente le priorità del lavoro e le affronta con i tempi dovuti, senza frenesia: ogni tanto trovo addirittura un carattere ipnotico nella sua musica.Una ulteriore qualità: ha le idee talmente chiare che i ragazzi dei collettivi che dirige lo seguono subito; mi stupisce sempre la velocità con la quale percepiscono il suo messaggio (così come sono chiare e decise le sue scelte estetiche, su cosa studiare, cosa ascoltare, cosa scartare…). E poi ha un modo di fare molto deciso (a volte tagliente) ma sempre ironico e leggero che denota, ancora una volta, la sua intelligenza.

Maria Joao – Mario Laginha

(Su Maria) La sua potenza vitale (ballo-gestualità) la fa essere un' interprete intensa anche nelle cover, ma secondo me ha retto solo in parte il passo con una crescita interpretativa negli ultimi anni. Credo che il vero esaltatore delle capacità vocali della Joao sia invece Mario Laginha, che vedo come un artigiano colto del pianoforte. E’ fortissimo come pianista ma forse ancora più grande come compositore e arrangiatore. Nel suo stile risulta chiara l'eredità di Jarrett. Potentissimo, come da previsione, il duo live.

Ascoltato il disco di Laginha su Chopin. Incredibile coraggio e capacità di far proprio e non banalizzare un mostro sacro come Chopin. Commovente la versione in tempo binario del Valzer Op.64 N.2.http://www.youtube.com/watch?v=hjtbp0I6SNI

Bellissimo anche il disco in solo Cancoes & Fugas.